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Ex minatori della miniera di Formignano.
Da sinistra: Gino Gattamorta-Plota, Urbano Cucchi-Bitti, 
Aldo Cucchi-Mundizin, Secondo Dell'Amore-Sironi
Gino Fantini-De'Gaspar, Armando Fantini-Lustren.
In basso: Severi-Piron e Leopoldo Fantini autore del testo.

 

 

 

 

 

 

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Miniera di Formignano, anni 1925-1935: panoramica.

 

 

 

 

 

 

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Miniera di Frmignano, anni 1925-1930: 
accatastamento 
dei pani di zolfo per la spedizione.

 

 

 

 

 

 

 

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Miniera di Formignano, anno 1910: 
foto di gruppo di impiegati e dirigenti della miniera 
con i propri familiari.
La terza bambina da sinistra è Desolina Bugli, 
che diventerà impiegata della Soc. Montecatini
nella miniera di Formignano.

 

 

 

 

 

 

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Minatori di Formignano e loro familiari in gita 
a Cesenatico il 15 luglio 1951.

 

 

 

 

 

 

 

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Miniera di Formignano: motoraduno organizzato 
dal C.R.A.L. aziendale nel 1954.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Impiegati e minatori in gita aziendale alle 
cascate delle Marmore il 21 ottobre 1956.

 

 

 

 

 

 

"AMARCORD" DI FORMIGNANO"

 

di Leopoldo Fantini

 

Questo breve scritto è frutto di ricordi indelebili di chi, come me, ha lavorato nella miniera di Formignano.

Ricordi che cercheranno di tracciare i passaggi più salienti che hanno caratterizzato molte esistenze in miniera, presentando un quadro, di com'era strutturato il complesso minerario in oggetto.

Un grazie ad Armando Fantini "Lustren", Gino Gattamorta "Plota", Aldo Cucchi "Mundizin", Urbano Cucchi "Bitti", Carlo Fratti "Vighén", Gino Fantini "De'Gaspar", Otello Severi "Piron", Secondo Dell'Amore "Sironi".

Negli anni '50, periodo a cui faremo riferimento, la miniera era diretta dall'ing. Ordan, persona molto seria e raramente portata al sorriso, con il quale collaboravano alcuni capiservizio, a loro volta, agevolati dall'opera di sorveglianti "capurel".

Le mansioni amministrative erano espletate da alcuni impiegati con a capo il rag. Murgia.

Delle circa 400 maestranze in attività, la maggioranza lavorava nel sottosuolo "la buga" le restanti, operanti all'esterno, erano in gran parte preposte alla conduzione dei forni mentre altre, quali: falegnami, fabbri, meccanici, elettricisti ecc. curavano tutto quello che il mestiere imponeva loro sia all'esterno che nel sottosuolo.

L'attività lavorativa all'esterno si svolgeva in un unico turno, dalle ore sette alle ore sedici, con un'ora di intervallo per il pranzo.

Facevano eccezione coloro che operavano in connessione con il lavoro del sottosuolo e gli addetti alla fusione dello zolfo, costoro operavano in tre turni.

Come tutti i complessi industriali anche la miniera di Formignano necessitava di energia elettrica, a tale fine si utilizzava una linea aerea a 6000 volt che partiva dalla cabina del "Fabbricone".

Con un cavo, posato lungo la discenderia, l'energia raggiungeva poi la cabina del sottosuolo e, tramite un'ulteriore linea aerea, arrivava ai tiri "Tontini", "Caminon" e "Confino".

Successivamente quest'ultima veniva fatta proseguire fino a Monte Mauro dove iniziava la perforazione del pozzo che, con i suoi 270 metri, avrebbe raggiunto l'11° livello.

Questo permise, in seguito, di essere utilizzato anche dagli operai provenienti dai paesi limitrofi quali Tesello, Polenta e Collinello che, videro così, alleviati i disagi che dovevano affrontare percorrendo ogni giorno diversi Km. di sentieri sconnessi lungo i ripidi pendii della Busca per raggiungere la miniera.

Per le emergenze era disponibile un gruppo elettrogeno da 150 KW a 6000 volt. Questa tensione veniva trasformata, in tutte le cabine, a 500 volt e serviva ad alimentare gli apparati della miniera stessa.

Telefoni stagni "B.L." installati alle estremità dei liscioni, della discenderia e nei tiri Confino e Busca, garantivano i collegamenti telefonici.

La discenderia era l'entrata principale della miniera: lunga 520 m. con una pendenza variabile dal 45 al 35 %, terminava all'11° livello da dove iniziava la galleria principale che, attraverso i suoi 3 Km di lunghezza, raggiungeva il pozzo di M. Mauro.

Una seconda galleria, utilizzata come uscita di emergenza "le scale", partiva dall'esterno e, fiancheggiando a breve distanza la discenderia con un percorso stretto e tortuoso, terminava anch'essa all'11° livello.

Nella miniera l'aria entrava attraverso la discenderia, le scale, ed il pozzo favorita dal riflusso esercitato dai tiri.

Riflusso che, guidato tramite porte installate nelle gallerie durante i turni, per diverse ore di lavoro, veniva forzato da potenti aspiratori posti all'esterno.

Piccoli aspiratori, a loro volta, operavano nelle perforazioni di nuove gallerie.

Tutti i carrelli, sia all'esterno sia nel sottosuolo, si spostavano su rotaie così come quello speciale denominato "corriera".

Sulla "corriera", che conduceva i lavoratori lungo la discenderia fino all'11° livello, si saliva in nove; quest'ultima, era provvista di un sistema di sicurezza che, in caso di rottura della fune, l'agganciava alle rotaie.

L'11° livello doveva essere percorso a piedi per raggiungere la propria postazione di lavoro.

Qui gli operai si spogliavano per indossare gli indumenti di lavoro che, considerando il loro grado di usura e degrado sembrava non fossero mai emersi dalla "buga". Nessuno però visto il loro utilizzo vi prestava attenzione.

Solo se qualcuno, da uno degli strappi del suo "vestiario" faceva mostra dei suoi "attributi" poteva scattare la battuta scherzosa a cui seguiva una risata generale.

L'inconveniente si risolveva con una cucitura provvisoria che già si sapeva essere definitiva.

Dalla galleria principale, distanziati fra loro qualche centinaio di metri, partivano tre liscioni ( gallerie con una pendenza del 30/35% ) che terminavano al medesimo livello in cui, in quel periodo, erano in attività i cantieri di estrazione.

Alla chiusura della miniera il 1° lisc. terminava al 17° liv, il 2° al 18° liv., il 3° al 19° liv..

Da questi livelli, per ricerche e sondaggi, partivano altri liscioni, più piccoli, che raggiungevano il 21° e 22° livello.

Prima che anche al 3° liscione, dove si concentravano la maggioranza dei lavoratori, si adottassero gli stessi carrelli o "corriere" della discenderia, molti operai escogitarono un sistema ( proibitissimo ma non per questo meno utilizzato... ) che consisteva nello scivolare lungo il liscione rannicchiati su di una tavoletta posta su una rotaia.

I piedi, uno avanti all'altro appoggiati sulla rotaia stessa fungevano da freno e, mentre una mano sosteneva la lampada ed in grembo era appoggio "e sacapen", la maschera e quant'altro, l'altra mano, agile ed esperta, scivolava sulla rotaia parallela mantenendo così il corpo in equilibrio.

Nel sottosuolo la giornata era divisa in tre turni, i primi due erano destinati alla produzione mentre il terzo, notturno, era riservato alla manutenzione.

Non vi era intervallo per il pasto quindi quello che ognuno si portava nello "sacapen" veniva consumato nei brevi momenti di pausa.

Stranamente nella "buga" quello stesso cibo assumeva un gusto che se riportato all'esterno diventava immangiabile.

Gli anni '50, furono teatro di diverse lotte per il rinnovo dei contratti di lavoro e di altre rivendicazione da parte dei lavoratori.

Una rilevante contestazione si sviluppò quando l'azienda, per motivi di sicurezza, impose l'uso dell'elmetto nel sottosuolo.

I minatori si rifiutarono di indossarlo adducendo il motivo, in parte vero, che la larga tesa di questo picchiava da tutte le parti "facendo risuonare la testa come una campana".

Dopo lunghe peripezie si giunse ad un compromesso con l'adozione di elmetti senza tesa.

Le gallerie, dove ciò si rendeva necessario, erano armate con puntelli e tavole di legno che ne sostenevano la volta per evitare crolli.

Crolli che poi venivano favoriti, disarmandole, quando non erano più utilizzate.

L'acqua, presente in miniera, si raccoglieva nei livelli bassi da dove veniva pompata fino all'11° livello.

Di qui, tramite una cunetta che lo percorreva, si riversava in un deposito ai piedi della discenderia.

Vecchie pompe a pistone poi, attraverso una conduttura posata lungo le scale di emergenza, riversavano l'acqua all'esterno.

I livelli, misurati su un piano inclinato, distavano fra loro circa 50 mt. ed erano percorsi da gallerie.

Fra le ultime due gallerie, del livello inferiore "carreggio" e del livello superiore "riflusso", vi erano i cantieri di estrazione detti " e lugh" così predisposti: Dalla galleria inferiore, ogni 50 mt., partiva una dorsale ( piccolo liscione ) che, risalendo lungo lo strato dello zolfo, arrivava alla galleria superiore.

Queste dorsali erano collegate tra loro da due gallerie orizzontali dette "costole" distanti, l'una dall'altra. circa 20 mt.

Era da queste ultime che, risalendo verso l'alto con un fronte di 2 mt., partiva l'estrazione.

L'estrazione avveniva, nella quasi totalità, attraverso l'esplosione delle mine inserite in una serie di fori, che il minatore, con perizia e maestria, praticava sullo strato di minerale servendosi di un martello pneumatico ad aria compressa.

Quest'aria, a 5 At., era fornita da compressori installati all'11° livello.

Le mine venivano fatte brillare, all'inizio di ogni turno di lavoro nei cantieri ed al termine negli avanzamenti di nuove gallerie, con una cadenza tale da permettere, al minatore, di contare gli scoppi delle esplosioni per potere verificare, così, eventuali mine inesplose.

Se ciò avveniva era indispensabile avvertire il collega del pericolo incombente.

Il minerale estratto veniva trasportato, su di un piccolo carrello "carriulen", lungo la costola sino alla dorsale, dove veniva scaricato e fatto scivolare in una tramoggia.

Da questa i carreggiatori "carzadur" riempivano i carrelli che spingevano fino al liscione in cui un argano, posto alla sua sommità, li trainava sino all'11° livello.

Un locomotore ad accumulatori ( esisteva al medesimo livello una sala attrezzata per la loro ricarica ) li trainava in seguito, lungo l'11° livello, alla discenderia da dove sarebbero risaliti in superficie.

I carrelli, trainati dall'argano, uscivano velocemente dalla discenderia, qui venivano ricevuti dall'addetto "tacador" che, correndogli appresso, afferrava la fune con una mano mentre con l'altra svitava velocemente il dado del chiavistello sganciandolo. Successivamente, per non essere investito, il "tacador" si spostava rapido e, tenendo la fune ben tesa, permetteva ai carrelli di passare sotto a quest'ultima ed arrivare, per inerzia, al sito loro assegnato.

Il duo "Pacon" e "Noci" sono stati gli ultimi "tacador" anche per questo, oltre per la loro indubbia bravura e simpatia, rimangano i più ricordati.

Straordinaria la grinta che metteva ognuno di loro quando gli si presentava l'occasione di potere scrivere sulla lavagnetta, posta all'ingresso della discenderia, il nuovo record del numero dei carrelli "tirati" nel proprio turno.

I carrelli poi, spinti a mano dai carreggiatori "carzadur" o trainati da muli, erano portati nel piazzale dei forni dove venivano vuotati facendo perno con la schiena.

Il minerale, destinato ai forni, veniva ripulito dalle impurità e setacciato.

Con i residui di questa operazione, impastati con acqua, si ricavavano dei pani "pagnoti" che, messi ad asciugare, venivano successivamente utilizzati quali riempitivi finale dei forni.

I forni Gill erano celle cilindriche in mattoni chiuse a cupola con un'apertura all'estremità superiore per il loro riempimento.

Le celle erano costruite su di un piano che declinava verso un'altra apertura per poterle vuotare.

Venivano utilizzate abbinate in batterie da quattro in tal modo, mentre una cella fondeva, una veniva accesa, una veniva riempita ed una veniva vuotata.

Le celle della stessa batteria erano collegate tra loro da condotti muniti di valvole le quali, oltre che controllare l'uscita dei fumi caldi della combustione dalla cella accesa per ottenere la migliore resa, indirizzavano questi fumi verso quella pronta per la fusione accendendola.

Questi fumi venivano poi espulsi dal camino di cui ogni batteria era dotata.

Le batterie erano otto più una a sei forni per un totale di trentotto celle divise in due settori, ventidue nel primo e sedici nel secondo "e mont".

Dopo qualche giorno dall'accensione, da un foro praticato nella parete che chiudeva l'apertura inferiore, fuoriusciva lo zolfo fuso che raccolto in stampi solidificava in pani "furmet".

Terminata la fusione la parete veniva abbattuta e, tramite la marra ed il badile, il rosticcio "brusadeza" , veniva caricato su carrelli che, spinti a mano, erano condotti in discarica.

Quando tutti i forni erano esauriti il minerale in eccedenza veniva versato, senza essere ripulito, nei calcaroni costruiti nel dopoguerra per far fronte all'aumentata produzione.

Questi erano invasi rotondi, scavati nel terreno, rivestiti di mattoni la cui base declinava verso un'apertura sulla parete.

Prima di iniziare il loro riempimento, per favorire lo scorrimento dello zolfo fuso, la base veniva coperta da grossi pezzi di minerale con i quali si costruivano anche tre chiaviche di cui una raggiungeva l'apertura mentre le altre confluivano su questa.

Chiusa l'apertura con un muro a secco dello stesso minerale seguito a poca distanza da uno in mattoni, si riempiva l'invaso.

Si completava l'operazione versandovi sopra, con l'ausilio di un argano e carrelli, altro minerale fino a formare una cupola che, per limitare l'uscita dei fumi della combustione e migliorare il rendimento, veniva ricoperta con un leggero strato di ginesie "cazofra"

Dalla cima, lasciata libera per l'uscita dei fumi, si procedeva all'accensione servendosi di fascine di legno.

Si dava così inizio al processo di fusione.

A suo tempo poi si praticava un foro nella parete e tutto procedeva come per i forni Gill.

Quando, circa dopo un mese, il calcarone si era esaurito si abbatteva la parete di chiusura ed aveva inizio lo svuotamento.

Questo lavoro era svolto da un arganista che, tramite un argano a frizione "Skraper", azionava una benna trainata da funi, che, entrando nell'invaso, trascinava il rosticcio dentro un carrello, che veniva scaricato in discarica.

Negli anni '50, per potere sfruttare tutto il minerale, fu installato un frantoio per polverizzare quello che, avendo un basso contenuto di zolfo, non era conveniente fondere.

Questo minerale veniva poi spedito per non so quale utilizzo.

Nel 1962 tutto questo finì.

Delle maestranze: chi fu trasferito in stabilimenti della Montecatini, la stessa società proprietaria della miniera, chi, avendo maturato i requisiti, poté andare in pensione, chi si licenziò.

Gli ingressi che conducevano nel sottosuolo, così come quelli dei tunnel dei forni, furono chiusi con gettate di cemento o riempiti da tonnellate di terra.

Tutte le costruzioni del complesso minerario furono abbandonate ed ebbe così inizio il loro degrado.

Con la chiusura della miniera cessavano anche quelle attività promosse dal C.R.A.L.(circolo ricreativo aziendale lavoratori) quali gite, feste, raduni motociclistici, balli ecc. che tanta partecipazione avevano riscosso.

Segui poi la chiusura del circolo Dopolavoro, locale riservato quasi esclusivamente ai giovani mentre gli adulti si dividevano nei due circoli del paese, "Kremlino e "Rimbomba".

Al Dopolavoro erano abbinati la pista " piattaforma" utilizzata sia per il ballo che per il pattinaggio ed il campo da tennis, uno dei pochi del cesenate realizzato, a quei tempi, in terra rossa.

Il circolo disponeva: di una biblioteca, dell'abbonamento a giornali sportivi e riviste, di vari giochi, di una discoteca ben fornita, del televisore (il primo del paese) ma soprattutto era frequentato dalle ragazze (questo non era ben visto dal Parroco dell'epoca!), l'insieme di questi elementi lo rendevano il "locale dei giovani" e tale rimase anche quando, con l'arrivo delle prime "Vespe" e "Lambrette", si avevano più possibilità di evasione.