ARTE ANTICA MODERNA CONTEMPORANEA


Il Laocoonte

Laocoonte e i suoi due figli lottano coi serpenti, scultura greca della scuola di Rodi (I secolo), Museo Pio-Clementino, Musei Vaticani

Dario Lodi

Il Gruppo del Laocoonte è considerato da molti l’ emblema per eccellenza dell’arte scultorea greca e di quell’arte tout court. Considerando che Alessandro conquistò l’intero mondo antico, viene facile attribuire all’opera in questione una sorta di carattere ecumenico e di espressione riassuntiva. Ma certo l’arte greca è quella classica di cui restano poche opere, nessuna però di questa potenza spettacolare esteriore e con una storia tanto travagliata.

Nulla è rimasto della pittura greca, ma solo per una questione di conservazione dei dipinti: rimangono nelle memorie scritte, ma sono scomparsi del tutto (così sarà anche per la maggior parte di quelli romani). E questo, in breve, perché presso i popoli antichi la pittura aveva funzione decorativa e quindi veniva eseguita senza preoccupazioni conservative.

Anche la statuaria aveva funzione decorativa, ma certo i materiali, di per sé, avevano maggiori possibilità di resistere nel tempo. Vera preoccupazione artistica era riservata alle costruzioni relative alla fede, soprattutto i TEMPLI (da cui la chiesa cristiana trasse molto).

Laocoonte era, secondo la mitologia, un veggente troiano che, per aver diffidato del dono dei greci (il famoso cavallo di Troia), fu punito con l’invio divino di due serpenti marini che avvinghiarono lui e i suoi due figli, stritolandoli.

Plinio (Naturalis historia) attribuisce la scultura a tre artisti, Agesandro, Atanadoro e Polidoro. Avrebbero realizzato la copia in marmo di un originale bronzeo di due secoli prima. Fu ritrovata, questa copia, il 14 gennaio 1506 sul colle Oppio, a Roma, vicino la residenza di Nerone, alla presenza di Michelangelo e di Giuliano da Sangallo che l’avrebbe riconosciuta basandosi, appunto, su Plinio. Papa Giulio II la fece collocare nel cortile ottagonale del Bramante all’interno del Giardino del Belvedere. L’opera, con l’Apollo del Belvedere, fornì l’ossatura dei Musei Vaticani.

Il Gruppo fu più volte restaurato, persino a cura di Napoleone che lo tenne a Parigi, al Louvre, per una quindicina d’ anni, avendolo requisito durante la Campagna d’Italia del 1799. Il Canova riuscì a riportarlo a Roma nel 1815. Subì altri restauri. Ispirò molti artisti, fu al centro del movimento neoclassico e romantico insieme agli scavi di Pompei Ercolano e Stabia.

Qui, con il Laocoonte, non abbiamo una potenza in atto, ma una potenza esplicitata con tutta l’esteriorità possibile. E’ come se l’arte greca, uscita da Atene, avesse trovato terreno fertile per potersi “lasciar andare” completamente: questo terreno fertile è rappresentato dall’impresa alessandrina, compiuta paradossalmente da un barbaro greco (un macedone) a digiuno di cultura greca vera e propria.

Alessandro il Grande aveva imparato poco dal suo precettore Aristotele. Quest’ultimo non riteneva adatto il suo alunno allo studio della filosofia. Alessandro, come suo padre Filippo II che sottomise la Grecia, era un uomo d’azione, un genio militare. Cesare, il più grande stratega di tutti i tempi, prenderà molto da lui.

La spettacolarità della scultura è tale da uscire da tutti i canoni, da esasperare la tecnica scultorea, piegarla al volere e al capriccio. L’espressione è palese, persino imbarazzante: la sofferenza è rappresentata con violenta fisicità, la commozione viene richiesta esplicitamente, viene imposta.

La teoria dei tre artisti uniti dalla stessa voglia di fare spiegherebbe la diversa resa espressiva dei tre personaggi. Il risultato migliore è assicurato dal padre Laocoonte. I due figli sembrano imposti dalla vicenda, per dare maggiore drammaticità alla stessa. L’operazione non riesce completamente per la pochezza artistica degli esecutori. L’interesse finisce con il concentrarsi esclusivamente sulla figura paterna, dove veramente si riconosce la finezza esecutiva della grande scuola greca.

I due figli sono frutto di mestiere e di scarsa sensibilità. Si tratta di esecuzioni fredde, scolastiche, di figure prigioniere di un pathos di riporto. Gesticolano, urlano, si offrono al supplizio: sembra una messinscena per una recita improvvisata. La mediocrità ha la meglio e il risultato raggiunge maggiore consistenza per via della fisicità che va a dominare il tutto.

Alla fine, vincono l’ingenuità e la coerenza relativa. Non si può negare la buona fede nel presentare tanta teatralità. Siamo ad una sincera dichiarazione d’intenti racchiusa entro una comprensibile preoccupazione esecutiva con decisione verso il virtuosismo artistico. Lo richiedeva l’atmosfera culturale del momento, quella ellenistica e trionfalistica. E virtuosismo, tecnicamente alto, fu.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Arte
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Aggiornamento: 09/02/2019