I nipotini del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo di Maurizio Crosetti

I nipotini del Quarto Stato

di Maurizio Crosetti (repubblica.it)

VOLPEDO (Alessandria)- Ci sono tutti, e sono scesi dal quadro. Quello con la giacca sulla spalla, quello con le dita nel panciotto, quella col bambino in braccio, quello con le mani aperte. E quelli dietro, in seconda e terza fila, con la schiena su uno sfondo d'ombra. Sembravano solo figure, allegorie dell'operaio e del contadino che marciano verso il sole di un avvenire che ci dovrà pur essere, da qualche parte, invece erano anche persone. Avevano nomi, cognomi, felicità, dolori, figli, fratelli. Hanno avuto una storia, hanno avuto una discendenza. 

Ora che è passato un secolo dall'ultima pennellata di Giuseppe Pellizza Da Volpedo, i corpi del Quarto Stato ritrovano il loro percorso perduto, un'avventura che attraversa libroni d'anagrafe e piroscafi, zolle bollenti di terra nera e viaggi dietro un mestiere, una donna, un sogno. Due anni di lavoro d'archivio e memoria raccontata dai vecchi, per ricostruire la vita dentro le vite del Quarto Stato. 

Domenica a Volpedo, il paese delle fragole e delle pesche più buone del mondo, ogni pezzo di quel quadro si animerà, ma non si pensi al solito presepe vivente. 

Ci saranno pannelli a raffigurare i diciannove personaggi recuperati all'oblio, isolandoli dal contesto e per ogni pannello un cortile, un'aia, un crocevia di sentieri dove fermarsi ad ascoltare. Lì, un narratore dirà chi era la persona in quel frammento di capolavoro, cosa faceva per vivere, come finì la storia, anche se poi nessuna finisce del tutto: alcuni dei narratori, infatti, sono nipoti e pronipoti dei volti dipinti. Un modo per sentirsi ancora in marcia. 

«Pellizza usò modelli in carne e ossa che conosceva bene, erano i suoi concittadini che pagava tre lire a giornata e che vestiva lui» spiega Alfonso Cipolla, drammaturgo, curatore dello spettacolo "Il sole della fiumana" insieme al regista Luca Valentino, all'attore Giovanni Moretti, all'Associazione Pellizza da Volpedo e agli abitanti del paese, tutti attori e spettatori. «Perché Pellizza non dipingeva fiori ma la vita della gente, la fame, la povertà, gli ideali del socialismo». 

Il primo uomo da sinistra (1) nel quadro, quello con la giacca sulla spalla, si chiamava Giacomo Bidone e faceva il falegname. Nel 1891 si trasferì a Viguzzolo e la sua strada finisce come un tuffo nell'Oceano: Giacomo andò in America e poi chissà. Invece per la figura al centro, forse la più famosa, Pellizza usò due modelli diversi. Il primo si chiamava Giovanni Zarri detto Gioanon, muratore e padre di otto figli. 

Il secondo, Giovani Gatti, era il farmacista di Volpedo e con lui l'artista parlava di socialismo e utopia. La terza figura femminile è la più dolce e drammatica: Teresa Bidone, moglie di Pellizza, morta di parto nel 1907 col bimbo che aveva in grembo, terzo figlio di Pellizza da Volpedo che un mese più tardi si sarebbe impiccato nel suo studio. Ed è questa una caratteristica decisiva del Quarto Stato, essere cioè una somma di vicende e tragedie vere. 

Il bimbo in braccio alla donna in primo piano si chiamava Luigi Albasini: un suo pronipote, Dario Albasini, oggi ha cinque anni e parteciperà allo spettacolo. «Gli abbiamo raccontato che quel bambino nel dipinto è un suo lontano parente» dice la mamma di Dario, Marcella Semino. «Lui vive la cosa sentendosi importante». 

Poi c'è quello con le braccia larghe e le mani aperte. Si chiamava Luigi Dolcini e faceva il contadino. Suo nipote, Enrico Dolcini, commercialista («Già mio padre lasciò la terra per guidare un camion, noi siamo la terza generazione, ci hanno fatto studiare»), ricorda così il nonno: «Non si mise in posa per gli ideali del proletariato ma perché aveva bisogno delle tre lire al giorno. Lui e Pellizza decisero quella posizione per far vedere bene le mani callose, mani che alla fine della fatica restano sempre vuote. A volte gli chiedevo perché non si fosse fatto regalare qualcosa dal pittore, che so, un carboncino, e il nonno mi rispondeva che lui non aveva neanche i muri per appenderlo e che i quadri mica si mangiano». 

Invece la prima figura femminile da sinistra si chiamava Maria Albina Bidone, sorella più piccola della moglie di Pellizza. Anche lei morì nel 1907, come Teresa, però di tisi, e pure suo marito (Giovanni Ferrari, che le sta accanto nel dipinto ed era fabbro) si sarebbe ucciso per il dolore. 

Nella parte destra dell'enorme tela (543 centimetri per 285) si vede un ragazzo con la testa girata. Bella storia, la sua: Giuseppe "Pepù" Tedesi, straccivendolo e artigiano. Realizzava ciotole di terracotta che barattava nelle cascine con pelli di coniglio da rivendere alla Borsalino di Alessandria, e chissà quanti gentiluomini dell'epoca andavano in giro con i conigli di Pepù in testa. 

Alla sua sinistra, l'uomo che dà la mano al bimbo biondo si chiamava Lorenzo Roveretti ed era un contadino ingegnoso: si costruì una specie di autobotte con un bidone e una grondaia, e si era conquistato l'appalto per la pulizia delle strade. Ma quando passava, la gente usava la sua acqua per lavarsi i piedi e a lui stava benissimo anche così. 

Alle loro spalle un'altra donna, Emilia Bruno detta la bionda di Montemarzino, la più bella del paese. Posò anche per "La passeggiata amorosa". «Pellizza è ancora qui, in tutti gli angoli di Volpedo. Qui vive la sua aria, e la gente ha partecipato con questo spirito, come una cosa nostra che non finisce». Lo dice Alessandra Franco, dell'associazione che ha eseguito le ricerche insieme agli storici Roberto Cappelletti e Neri Bruni. 

Lo spettacolo comincerà domenica alle 16,30 e sarà replicato a settembre. Fa impressione la coralità spontanea degli abitanti, quasi come quella del quadro: chi recita, chi canta (un complessino di chitarristi ottantenni), chi racconta una vecchia storia, chi scova un oggetto dimenticato, chi sposta un pannello. 

Consapevoli, bisnonni e bisnipoti, che non dimenticare è il primo comandamento. «Pellizza diceva ai suoi amici contadini di non vergognarsi dei loro calli perché lui non si vergognava delle macchie di colore sul grembiule, tutti segni del mestiere» racconta Alfonso Cipolla. E fa notare che nessuno, nel quadro, dice una parola. Tutti ascoltano e camminano verso qualcosa. Sanno di esserci. Un messaggio che arriva in un momento un po' così, per il Quarto Stato attuale. «Ma anche quelli del quadro hanno passato l'ombra, dopo». 

Pellizza da Volpedo perse parecchi amici a causa delle idee del dipinto in controluce, che lo impegnò per un decennio. Preferì vivere solo, ma nelle sue strade. Gli piaceva una frase di Engels, pure questa non proprio attualissima: «Non con lo schiamazzo, ma con la forza della ragione». Aveva girato l'Europa, sperimentando tecniche pittoriche diverse, ma poi tornò al paese dove realizzò le opere più importanti, la sua storia nelle storie degli altri, il farmacista, il fabbro, quello che vendeva la pelle del coniglio. Tutti orgogliosi come Elena Leoncini, 94 anni, nipote della figura di cui si vede solo una testa in terza fila (Carlo Maria Leoncini, calzolaio e portalettere, fondatore del locale circolo socialista). La signora ha sempre sul tavolo l'ultimo numero di "Liberazione" e se le chiedete qualcosa, un pensiero, un commento sui tempi difficili di cent'anni fa e su quelli non proprio facili che ci tocca sopportare, lei vi stupirà con una citazione che le gira in testa da tre quarti di secolo. Bella frase. Dice: «Io vi amo proprio perché siete incapaci di vivere. Infatti è questo, oggi, il miglior modo di vivere».

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