ECONOMIA E SOCIETA'
idee per il socialismo democratico


LE ALTERNATIVE ECONOMICHE AL CAPITALISMO

Il problema dell'economia di mercato libera è che richiede tante guardie per farla funzionare.
Neal Ascherson

La rivoluzione tecnico-scientifica iniziata negli anni Settanta

A tutt'oggi l'economia mondiale dei paesi capitalistici avanzati si regge sulle basi poste nel corso della crisi che, partita con lo choc petrolifero del 1973, s'è andata periodicamente e drammaticamente rinnovando, rendendo per così dire poco efficaci se non addirittura inutili gli sforzi di rinnovamento del capitale fisso.

Di regola infatti si fa partire la nuova tappa della rivoluzione tecnico-scientifica dalla seconda metà degli anni Settanta, che ha comportato l'introduzione di tecniche informatiche e di forme automatiche di produzione (ma anche di nuovi materiali da costruzione), grazie alle quali si pensava di poter assicurare crescenti livelli di sviluppo, fingendo di non sapere che le "crisi di sistema" non sono una patologia ma una dimensione fisiologica del capitalismo.

L'esigenza di automatizzare la produzione per poter risparmiare sui costi del lavoro e delle materie prime, non è nata dagli operai ma dagli imprenditori, i quali cominciarono a servirsi dell'informatica per ottenere un livello quantitativo e qualitativo migliore di produttività delle imprese, che facesse soprattutto aumentare i profitti. Scienza e tecnica nel capitalismo servono anzitutto a questo.

D'altra parte il rinnovo del capitale fisso (macchinari, tecnologie...) diventa una necessità ogniqualvolta il costo delle materie prime o della manodopera o i fatturati realizzati arrivano a livelli tali da determinare la caduta del saggio medio di profitto. Ultimamente è causa molto forte di preoccupazione per i nostri imprenditori non tanto la concorrenza di quei loro colleghi internazionali che per primi hanno introdotto delle innovazioni di rilievo, quanto piuttosto quella di chi (come p.es. i cinesi), pur non avendole ancora introdotte, può comunque avvalersi di un basso costo del lavoro.

Nei paesi avanzati infatti si è soliti dire che per vincere la concorrenza della Cina bisogna puntare sull'alta qualità delle merci, ma una qualità troppo alta delle merci rischia d'essere appannaggio solo di classi sociali che possono permettersi prezzi altrettanto elevati. Questo fa sì che merci analoghe di qualità minore diventano comunque appetibili in un mercato dove il potere d'acquisto del denaro va progressivamente scemando. Peraltro la Cina è diventata un grande concorrente dei monopoli occidentali, perché, a differenza della Russia, non ha puntato sull'export di fonti energetiche (di cui essa stessa è acquirente), ma su merci di largo consumo, ampiamente diversificate.

La crisi mondiale del biennio 1974-75 sembrava inoltre aver dato il via ai cosiddetti "cicli stagflazionistici" (aumento dei prezzi accompagnato da una crescita della disoccupazione e da un ristagno della produzione), mostrando chiaramente che l'espansione economica basata sull'uso estensivo delle risorse naturali (in primis quelle energetiche) andava profondamente rivista. Dopo 25 anni di sviluppo estensivo del capitalismo monopolistico di stato (in cui si pensava che le risorse naturali fossero illimitate) s'era improvvisamente capito ch'era meglio risparmiare puntando sull'informatica.

Le crisi a partire dagli anni Ottanta

Tuttavia a partire dalla crisi successiva, quella degli anni 1980-82, le crisi cicliche del capitale si erano unite a quelle strutturali di sovrapproduzione, in quanto l'automazione (la robotica), che continuerà a svilupparsi in maniera ininterrotta sino ai nostri giorni, aumentando la produttività del lavoro e quindi l'abbondanza delle merci da vendere sul mercato, pur facendo nascere nuove mansioni, tendeva a espellere dal mercato le attività meno remunerative, sicché non si riuscivano a trovare gli acquirenti indispensabili per lo smercio dei prodotti e, paradossalmente, proprio l'uso dell'informatica accentuava l'obsolescenza del capitale fisso e quindi l'ulteriore caduta del saggio di profitto.

Il ritardo del consumo individuale rispetto alla crescita della produzione è cronico sotto il capitalismo e gli operai e impiegati non vedono affatto nei computer o nei robot un aiuto per le mansioni più faticose, ripetitive, nocive alla salute, ma piuttosto un temibile concorrente, una causa di ulteriore stress, una sicura fonte di immiserimento, proprio perché gli imprenditori e persino lo Stato tendono a licenziare gli elementi non indispensabili o ad assumere meno personale o a far lavorare molto di più quello già esistente. L'assurdo è che le ristrutturazioni avvengono con le tasse degli stessi lavoratori, una parte dei quali in seguito verrà licenziata.

Nell'ambito dell'industria automatizzata la disoccupazione riguarda gli operai meno qualificati o con minori capacità di apprendimento o possibilità di riqualificarsi (p.es. perché "anziani"), non in grado di trasformare in tempi brevi la loro competenza in un qualcosa di più "intellettuale" che "manuale". Successivamente ad essere licenziati si trovano anche gli operai più qualificati e persino i tecnici, i manager, i cosiddetti "colletti bianchi", proprio perché se gli investimenti nel capitale fisso non sono stati sufficienti a garantire determinati profitti, il licenziamento o la chiusura dell'impresa o la sua delocalizzazione verso aree con minori costi del lavoro, diventano inevitabili. Oggi il fenomeno della disoccupazione non è ancora esploso in tutta la sua gravità semplicemente perché esiste lo Stato sociale, che però i governi di destra tendono progressivamente a smantellare, in quanto troppo oneroso.

Gli inizi dello smantellamento di questa istituzione nata nel secondo dopoguerra si possono far risalire ai primi anni Ottanta, con l'entrata in scena della deregulation che negli Usa venne inaugurata dal presidente Reagan e nel Regno Unito dalla Tatcher.

Le prime grandi crisi economiche degli anni Ottanta e Novanta (la crescita incontrollata del prezzo del greggio e di talune materie prime alimentari, i titoli gonfiati dei sistemi di finanziamento ad alto rischio dei mercati emergenti ecc., sino alla più recente implosione del mercato immobiliare americano) hanno fatto capire che quanto più i processi produttivi vengo automatizzati e finanziarizzati, tanto più bisogna aspettarsi gravi crisi borsistiche. Questo perché la società nutre grandi aspettative dalle ristrutturazioni industriali che si avvalgono dell'automazione e investe molto in borsa, ma la finanza viaggia secondo proprie regole, che non sempre hanno riscontri nella vita economica: la speculazione ha tempi molto più ristretti di realizzo e non può aspettare che sui mercati vi sia sufficiente liquidità con cui acquistare prontamente le merci ottenute grazie agli investimenti strutturali. E poi la speculazione finanziaria, a differenza dell'economia reale, può anche avvalersi dell'instabilità politica e persino delle tensioni bellicistiche regionali.

Le industrie cercano di recuperare il costo degli investimenti in varie maniere, ma i risultati sperati non sono più quelli di una volta. Nel migliore dei casi si pensa di poter andare avanti con vendite rateali dei beni di consumo durevoli, ma sempre più spesso si preferisce un impiego più finanziario che produttivo dei capitali (grande è il timore di fare investimenti a lungo termine, proprio perché la speculazione finanziaria, per quanto maggiormente rischiosa, permette notevoli introiti nel breve periodo e soprattutto la possibilità di scaricare sul risparmiatore gli eventuali dissesti in borsa). Altre alternative sono quelle a carico dei paesi emergenti, strozzati dai debiti internazionali: le merci che costoro esportano spesso rischiano, in virtù di trucchi operati nei paesi avanzati, di scendere al minimo. E' sufficiente p.es. dire che il fumo è vietato, che il cioccolato può essere surrogato, che lo zucchero fa male, che invece del rame si preferiscono le fibre ottiche, che invece del petrolio si preferisce il gas ecc., per mandare all'aria interi paesi che fino agli inizi del secondo dopoguerra erano "colonie" a tutti gli effetti.

La terza alternativa (per gli imprenditori) è delocalizzare l'impresa ove il costo del lavoro è minimo e la sindacalizzazione quasi assente. Si preferisce delocalizzare piuttosto che aprire le porte ai flussi migratori dei lavoratori terzomondiali, proprio perché per gli imprenditori il lavoro, in occidente, è ancora tenuto troppo sotto controllo da parte dei sindacati.

Aspetti di forza dell'attuale capitalismo

  • Globalismo. La globalizzazione è un fenomeno iniziato a cavallo degli anni Settanta e Ottanta ed è ancora in evoluzione. Essa si basa sulla formazione di un unico mercato mondiale, sull’esistenza di uno spazio omogeneo, sulla rapidità delle comunicazioni (grazie soprattutto ai collegamenti telematici, tra cui Internet, alla telefonia cellulare e ai network dei media), sull’eliminazione di barriere economiche e finanziarie e sul superamento dei confini politici tra gli Stati, fattori che portano ad individuare nuove e più ampie aree di scambio tra merci, capitali e persone (anche se resta ridotta la possibilità di emigrare con la stessa facilità con cui si scambiano le merci o si esportano i capitali). Caratteristica fondamentale della globalizzazione è il fatto che i mercati dei cambi e dei capitali sono collegati a livello internazionale e operano 24 ore al giorno, intrattenendo relazioni a distanza in tempo reale. Rimangono però esclusi da questo collegamento capillare i paesi più poveri, che non possiedono mezzi adeguati per parteciparvi. Il sistema produttivo travalica i confini degli Stati, al punto che i beni prodotti in uno Stato contengono componenti che vengono prodotti in altri Stati.
  • Sviluppo ineguale. Oggi il 20% della popolazione mondiale detiene l’86% del reddito e un altro 20% ne detiene solo l’1%; al restante 60% ne spetta il 13%. Mentre nei paesi industrializzati i consumi sono cresciuti mediamente al ritmo del 2% annuale, i consumi nei paesi africani sono diminuiti del 20%; oltre un miliardo di persone non possono soddisfare i bisogni fondamentali per la vita; degli oltre 4 miliardi di persone che vivono nei paesi in via di sviluppo, 1/5 non dispone di una dieta sufficiente in termini di calorie e proteine, 1/4 non ha un’abitazione adeguata, 3/5 mancano di assistenza sanitaria; 1/5 dei bambini non ha istruzione di livello elementare.
  • Unione Europea e Nafta. Vantaggiosi contro la concorrenza di colossi economici ma svantaggiosi a quei paesi aderenti che risultano più deboli.

I vantaggi e gli svantaggi apportati dalle imprese multinazionali

Quali vantaggi ottengono le industrie attraverso la costituzione di imprese multinazionali?

Un primo vantaggio è anzitutto riconoscibile nei minori costi del lavoro, che si ottengono localizzando le filiali in paesi in via di sviluppo: la manodopera percepisce salari notevolmente più bassi rispetto a quelli vigenti nel paese della casa madre ed è sottoposta a orari di lavoro molto più pesanti.

Un altro vantaggio consiste nella possibilità di sottoporsi a condizioni fiscali più vantaggiose, o perché nei paesi in cui la multinazionale decide di operare il sistema tributario è di per sé più leggero, o perché la multinazionale, grazie al suo elevato potere economico, riesce a fare pressione sugli Stati ospitanti al fine di ottenere condizioni favorevoli.

Inoltre le multinazionali possono ottenere prestiti a condizioni agevolate o sovvenzioni internazionali, giustificate dal fatto che esse, con il loro apporto economico, offrono condizioni di lavoro ai cittadini dei paesi in via di sviluppo.

Spesso le imprese multinazionali si insediano nei paesi dove esistono, in grandi quantità, materie prime appetibili sul mercato, che per essere sfruttate richiedono macchinari molto costosi e tecnologicamente sofisticati.

Esiste anche una causa “tecnologica” che spinge all’espansione transnazionale: quando le innovazioni introdotte da una grande impresa cessano di essere tali, questa può avere convenienza a esportarle là dove sono ancora sconosciute e avviare qui nuovi processi produttivi.

L’installazione di filiali di multinazionali favorisce lo sviluppo di un’attività produttiva che altrimenti, nei paesi poveri, sarebbe impossibile. Tuttavia si tratta più di una “imposizione” imprenditoriale che non di un passaggio di tecnologie e di competenze: le forze di lavoro locali restano ai livelli più bassi della gerarchia lavorativa e della manovalanza e non raggiungono mai posizione di vertice. E la dipendenza economica del paese più debole rispetto a quello più evoluto non fa uscire dal neocolonialismo.

Negli ultimi sessant'anni lo sviluppo delle multinazionali è cresciuto in maniera esponenziale, favorendo la mondializzazione del capitale e la divisione internazionale del lavoro (al punto che i luoghi geografici dell'industrializzazione si stanno spostando dal centro alla periferia del sistema capitalistico), nonché la dipendenza delle economie nazionali dai mercati esteri e l'acuirsi della lotta interimperialistica con l'entrata in scena di nuovi competitori mondiali (Cina, India, Sud-est asiatico, Brasile...).

I rischi legati alla globalizzazione

La nuova dimensione dell’economia che si sta realizzando, con l’accrescimento dei commerci, delle tecnologie e degli investimenti, invece che ridurre o eliminare le differenze tra paesi ricchi e paesi poveri, le potenzia. Basti pensare che il reddito delle 225 persone più ricche del mondo equivale a quello del 47% della popolazione più povera e che vi sono persone i cui redditi superano il pil di alcuni Stati poveri. La globalizzazione, dominata da enti privati (soprattutto banche ed imprese multinazionali), provoca l’aumento della differenza tra chi ha e chi non ha, per cui stiamo assistendo in modo sempre più forte alla polarizzazione tra ricchezza e povertà.

Di fatto, dunque, il processo di globalizzazione, che dovrebbe aprire numerose opportunità per milioni di persone a livello mondiale, si sta rivelando una pericolosa forma di sviluppo ineguale; non solo, ma anche un pericoloso segnale della tendenza a concentrarsi su obiettivi di arricchimento senza limiti.

Un ulteriore effetto negativo della globalizzazione riguarda i cambiamenti climatici e, in particolare, l’effetto serra: l’abbattimento delle barriere doganali rende sempre più libero il trasporto delle merci su scala mondiale, determinando l’aumento dell’emanazione di gas. Con la liberalizzazione degli investimenti e del commercio tecnologie distruttive per l’ambiente, come la produzione di automobili, vengono diffuse in società e culture che non ne erano ancora dipendenti.

La globalizzazione comporta anche l’estensione su scala planetaria dell’agricoltura industriale, che comporta alti consumi energetici. I paesi che praticano sistemi di coltivazione a basso consumo di energia, di fronte ad una vera e propria invasione di prodotti a basso costo, si sono visti costretti ad abbandonare i metodi tradizionali e a ricorrere alle moderne pratiche agricole, con abbondante impiego di fertilizzanti e pesticidi.

Alternative

  1. Mondializzazione della vita economica non può voler dire che tutto dipende da poche multinazionali, ma vuol dire abolire qualunque forma di barriera nel rispetto dell'autonomia locale. I mercati devono servire per il surplus non per acquistare qualunque prodotto. Prima va assicurata l'indipendenza economica.
  2. Le aziende dovrebbero produrre anzitutto "valori d'uso", non "valori di scambio", la cui utilità e necessità viene decisa dalla comunità locale. Ogni realtà locale-regionale dovrebbe avere le stesse imprese, proprio per togliere a tutte l'ansia della competizione. I mercati dovrebbero essere locali-regionali e gli imprenditori dovrebbero conoscere anticipatamente le richieste della popolazione locale. Si deve produrre per soddisfare bisogni non per incamerare profitti. Solo così la produzione può essere programmata.
  3. L'economico deve rientrare nei parametri del sociale, il quale, a sua volta, include anche l'ecologico, che di regola viene trascurato dall'economico perché considerato un costo.
  4. Non si tratta più di affrontare le singole contraddizioni di un sistema la cui principale contraddizione, l'antagonismo sociale, è irrisolvibile. Bisogna creare un nuovo sistema, in cui un prodotto è di qualità quando risponde a esigenze vitali, su cui la comunità locale può esprimersi democraticamente.
  5. La prima esigenza vitale è quella alimentare, e questa può essere soddisfatta solo a condizione che si utilizzi con criterio la terra disponibile. La prima cosa da fare è censire tutte le risorse naturali della comunità locale, per poterle redistribuire secondo le capacità lavorative. La proprietà privata usata per sfruttare il lavoro altrui, va abolita. In luogo della produzione agricola per il mercato occorre sviluppare la cooperazione dei produttori per l'autoconsumo delle comunità locali.
  6. Uscire dal capitalismo vuol dire anzitutto uscire dal meccanismo di dipendenza che lega il centro alla periferia di questo sistema. Non ha alcun senso che i lavoratori sfruttati del centro pretendano il rispetto dei loro diritti quando tali diritti vengono pagati dai lavoratori della periferia. Non ha alcun senso che l'operaio occidentale lotti contro il proprio imprenditore quando poi insieme sfruttano i lavoratori del Terzo mondo.
  7. Qualunque parola o espressione linguistica usata dai politici e dagli economisti di questo sistema antagonistico, va messa in discussione, poiché si tendono a dare per scontate delle cose che non possono più esserlo. Si pensi solo alla parola "sviluppo".

Fonti


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia -  - Stampa pagina
Aggiornamento: 10/02/2019