ECONOMIA E SOCIETA'
idee per il socialismo democratico


AUTOCONSUMO E BARATTO
lettera a un tenace assertore del valore di scambio

Supponi che noi due si voglia fare un baratto tra cose usate: tu mi dai il tuo cellulare di ultima generazione, io ti do il mio orologio automatico, che si carica a polso.

Qual è la prima cosa che pensi di fronte a questa proposta? La prima cosa è ovviamente la valutazione di mercato, cioè il valore di scambio di entrambi i prodotti. Metti in rapporto i due oggetti al valore monetario deciso dal mercato degli oggetti usati.

Viene istintivo fare una cosa del genere proprio perché siamo abituati a far coincidere il valore di un qualunque bene col suo prezzo. Noi non conosciamo il valore effettivo, intrinseco, oggettivo, di una merce finché il mercato non ci indica il suo prezzo, cioè il suo valore nominale, venale, monetario.

Peraltro noi sappiamo bene, per esperienza diretta, che i prezzi di mercato sono la cosa più irrazionale del mercato, in quanto alla loro formazione contribuiscono fattori che per noi consumatori sono imponderabili, indipendenti dal comportamento che possiamo avere facendo degli acquisti.

P.es. non è sempre vero che quanto più è alta la domanda di un bene, tanto più è alto il suo prezzo se l'offerta non è in grado di soddisfarla. Come non è sempre vero che, a fronte di una considerevole offerta, i prezzi possono calare se la domanda è scarsa. Questo perché vi sono sempre altri fattori che incidono sulla volontà dei produttori di merci e quindi sulla formazione dei prezzi, che restano spesso ignoti ai comuni consumatori. A volte quando una merce, materiale o immateriale, è quotata in borsa, basta fare delle semplici dichiarazioni che la riguardano, per avere immediatamente delle impennate o dei crolli rovinosi della sua quotazione.

Consideriamo inoltre che al giorno d'oggi i consumatori agiscono su mercati ove dominano prevalentemente i prezzi di monopolio. Per avere prezzi scontati bisogna frequentare i mercati delle piazze urbane o aspettare i saldi o cercare particolari promozioni, offerte speciali per i nuovi clienti, oppure affidarsi completamente alla vendita abusiva, truffaldina.

Questo per dire che, a parità di condizioni estrinseche, esteriori, la concorrenza incide assai poco sulla formazione dei prezzi. Anzi, è più facile che tra i monopoli si formino dei cartelli, cioè dei patti sotto banco, quando addirittura, di fronte alla concorrenza straniera, non si provvede con forme varie di protezionismo.

Per noi consumatori si tratta semplicemente di porre una differenza tra mercato legale e mercato illegale, ovvero tra mercato in cui esiste una tassazione regolare e mercato in cui questa è minore (come p.es. a San Marino o in certi paesi esteri), o addirittura nessuna tassazione, come nel cosiddetto "mercato nero" o clandestino, quello degli oggetti non originali o contraffatti o addirittura trafugati (il mercato dei ricettatori).

Ora però immagina che, per un qualsivoglia motivo, la moneta non esista affatto: sono crollate tutte le borse, è scoppiata una guerra mondiale, gli Stati hanno fatto bancarotta, oppure, più semplicemente, perché vige solo il baratto, non essendo stato ancora inventato un equivalente astratto e universale per tutte le merci, quale può essere appunto il denaro (soprattutto nella forma della banconota o della carta di credito).

Supponi dunque di non poter stimare economicamente il mio orologio sulla base del denaro: quale altro parametro valutativo sceglieresti? Nel corso della storia del genere umano i parametri sono stati tantissimi: dalle conchiglie ai semi di cacao, ecc. Per le civiltà basate sullo schiavismo l'elemento di paragone più importante era l'oro o l'argento (ma anche il rame o il bronzo, per gli oggetti di minor pregio). Oggi tra i metalli pregiati di uso domestico abbiamo anche il platino (p.es. nei gioielli).

Ma supponi che non esista neanche questa possibilità, in quanto l'oro e l'argento vengono più che altro usati per motivi estetico-ornamentali e non economici, come accadeva tra le popolazioni primitive, che apprezzavano l'oro perché duttile, malleabile, lucente e perché non invecchia mai. Se non c'è neanche questo metro di paragone, come fai a valutare il mio orologio?

Non esistendo un vero e proprio valore di scambio per le merci, non ti resta che puntare al suo valore d'uso. Sei disposto a barattare il tuo cellulare col mio orologio semplicemente perché pensi che ti serva di più. Tuttavia, se fino adesso hai fatto senza, perché pensi che ti possa servire? Devi stare attento a questa mia proposta di scambio, perché al bene che ti offro potresti farci l'abitudine e, in tal caso, perderesti la tua autonomia. E' stato proprio in questa maniera che s'è realizzata la transizione dal baratto alla moneta.

Devi inoltre pensare a una cosa non meno importante: supposto che il mio orologio ti serva davvero, come fai a essere sicuro di fare uno scambio vantaggioso per te? Tu non puoi affatto saperlo se non conosci esattamente il tempo che è stato impiegato per produrre il mio orologio (e nel tempo ci puoi mettere dentro la fatica e l'intelligenza di reperire i materiali adatti, di assemblarli nel modo migliore, di presentarli al pubblico ecc.).

Se tu conosci esattamente tutte queste cose, allora vuol dire che, almeno in teoria, tu stesso potresti produrre il mio orologio; cosa che non fai probabilmente perché ami applicarti ad altri oggetti, le cui eccedenze vuoi scambiare con oggetti che non possiedi, tra cui appunto gli orologi automatici. Quel che è certo è che se non conosci il tempo socialmente necessario per produrre un determinato oggetto, tu rischi di rimetterci sempre negli scambi con quel medesimo oggetto.

Ora supponiamo che tu conosca l'entità effettiva del valore del mio orologio, a quali condizioni saresti disposto a compiere una transazione per te svantaggiosa sul piano economico? Ce n'è più di una. Io potrei essere tuo amico o diventarlo dopo esserci combattuti in battaglia; potrei essere un tuo parente o diventarlo in seguito a un matrimonio tra le rispettive famiglie. Potresti farmi un favore perché sai di essere, per qualche motivo, in debito con me, oppure perché speri che io possa essere più indulgente nei tuoi confronti. Insomma saresti disposto ad accettare una transazione materialmente non equa a condizione di poter ottenere dei vantaggi di tipo etico.

Sia come sia, ti rendi facilmente conto che se esistesse l'autoconsumo la transazione sarebbe più semplice e sicura, proprio perché ad entrambi sarebbe garantita l'indipendenza. Lo scambio lo faremmo solo con le rispettive eccedenze e solo per acquistare cose effettivamente utili, cioè dei beni che potremmo produrre anche noi e che non facciamo solo perché sappiamo che vicino a noi qualcun altro lo fa, non perché vi sia costretto da qualcosa, ma perché ne ha voglia, ne ha l'interesse, ne ha le competenze e perché è convinto che, facendolo, otterrà in cambio qualcosa di non meno utile e vantaggioso, per sé o per la sua famiglia o per la comunità in cui vive.

Tuttavia, perché l'autoconsumo e il baratto funzionino in modo adeguato, occorre che tra produttore e acquirente non vi sia molta differenza di stile, di comportamento, di modus vivendi e, prima di tutto, occorre che esista, in maniera generalizzata, la proprietà collettiva dei principali mezzi produttivi.

VALORE D'USO E DI SCAMBIO NELL'ETICA ECONOMICA MEDIEVALE

Che cosa c'era di sbagliato nell'etica economica medievale quando, rifacendosi alla crematistica aristotelica, i teologi della Scolastica consideravano lecito l'arricchimento soltanto se si fondava sul valore d'uso del prodotto venduto (frutto di un determinato lavoro)? Come noto, nelle loro teorie qualunque transazione venisse fatta usando unicamente il denaro (che per loro, essendo un semplice strumento di scambio, non poteva creare alcun valore ed era quindi considerato una cosa morta) sconfinava facilmente nell'illecito, nel moralmente riprovevole. Di qui ad esempio il divieto dell'usura o del prestito a interesse, cui si cercò di porre rimedio con l'istituzione dei monti di pietà.

C'erano due cose sbagliate: 1) anzitutto si affermava un'etica che veniva sistematicamente contraddetta dallo sfruttamento dei contadini, fonte principale della rendita feudale, laica ed ecclesiastica; 2) in secondo luogo l'etica economica medievale era puramente teorica, proprio perché, esistendo il servaggio e la rendita, l'aristocrazia non si sentiva in diritto d'impedire lo sviluppo dei rapporti mercantili.

Da un lato le classi dominanti impedivano ai contadini di vivere un'esistenza dignitosa, cioè si opponevano in tutte le maniere a una riforma agraria che spezzasse il latifondo e permettesse loro di avere in proprietà un lotto di terra con cui garantirsi, attraverso l'autoconsumo, il mantenimento della famiglia; dall'altro esse furono ad un certo punto costrette (diciamo a partire dal Mille) ad accettare l'idea che si formasse una classe sociale, giuridicamente libera, dedita ai commerci sulle lunghe distanze e in grado di realizzare guadagni favolosi ponendo il valore di scambio di talune merci (rare e preziose) ben al di sopra del loro valore d'uso.

In fondo chi era il borghese se non quell'ex-contadino che, consapevole di avere delle qualità personali, non voleva più stare sottomesso a un rapporto di sfruttamento e che quindi era disposto a fare di tutto per arricchirsi il più possibile, a titolo individuale o, al massimo, corporativo?

Il borghese è una figura sociale che poteva nascere solo in una società dove i princìpi etici erano sistematicamente contraddetti dalla pratica. È una figura sociale che, da un lato, deve tener conto degli alti ideali professati dai poteri costituiti, i quali formalmente pretendono il loro rispetto; dall'altro invece pensa di poter sfruttare a proprio vantaggio l'incoerenza fra teoria e pratica manifestata, piuttosto visibilmente, dagli stessi poteri costituiti, cioè pensa di potersi insinuare nelle strette maglie dell'ipocrisia, agendo con molta astuzia e circospezione, e facendo in modo che la piccola crepa iniziale si allarghi sempre più, fino ad approfondirsi in maniera irreversibile, diventando irreparabile.

Il borghese non può essere uno sprovveduto, poiché ha a che fare con due giganti sul piano sia politico-militare che ideologico; due istituzioni (una laica, l'altra religiosa) che deve cercare di raggirare nel migliore dei modi, assicurando a se stesso, alla propria famiglia e alla propria discendenza un'esistenza basata sul benessere economico.

Quando il teologo medievale parlava di "giusto prezzo", doveva già dare per scontato che la quantificazione di questo prezzo fosse in grado di deciderla soltanto il borghese (nella sua "coscienza"), nel senso che si sapeva benissimo che, nonostante tutti i controlli possibili nell'ambito delle corporazioni, in definitiva era soltanto il mercante che conosceva le spese effettive che aveva dovuto sostenere per commerciare una determinata merce. L'acquirente, in sostanza, non poteva fare altro che fidarsi dell'onestà del venditore. Il che - se ci pensiamo - era come chiedere all'agnello di farsi mangiare dal lupo per timore che potesse compiere di peggio.

Infatti, più che al "giusto prezzo" il borghese era (ed è ancora oggi) interessato ad altre cose: a risparmiare sui costi economici e commerciali, a vendere il più possibile e soprattutto a creare l'esigenza della necessità dei suoi prodotti. Attraverso la pubblicità la borghesia deve indurre falsi bisogni, quelli che permettono enormi arricchimenti.

Quando, nel Duecento, la Scolastica arrivò a parlare di "giusto prezzo", era già da molto tempo che il valore di scambio tentava di soppiantare quello d'uso, proprio perché si sapeva che, nell'ambito della società mercantile, è lo scambio che decide l'uso. E nel mercato lo scambio è imposto dalla borghesia, poiché qui prevale sempre la volontà di chi commercia. L'etica economica cattolica non aveva certamente gli strumenti operativi per favorire un'inversione di tendenza.

Da questo punto di vista appare quanto meno ridicolo persino il moderno economista inglese Adam Smith, quando diceva che, una volta separato il valore d'uso da quello di scambio, si poteva calcolare quest'ultimo sulla base della quantità di lavoro socialmente necessario a produrre una determinata merce ("socialmente necessario" nel senso che si faceva riferimento a un "tempo medio", senza considerare le specifiche abilità del singolo lavoratore).

In realtà tale quantità di lavoro, in un sistema mercantile, non può mai essere calcolata in maniera esatta, proprio perché il valore d'uso è dominato da quello di scambio; e lo scambio è tra estranei in competizione tra loro, dove chi vende parte necessariamente avvantaggiato, e chi compra deve continuamente difendersi, non potendo operare un controllo preliminare davvero significativo.

È proprio questo primato del valore di scambio che comporta l'utilizzo di fattori imponderabili, indipendenti dalla volontà del singolo capitalista, che vanno a incidere dall'esterno sul valore di una merce, la quale, in ultima istanza, finisce con l'avere un valore pari al suo prezzo, che oscilla continuamente, quando la situazione dei mercati è abbastanza regolare, da un minimo a un massimo, ma che drasticamente diminuisce o aumenta in maniera incontrollata quando si verificano situazioni molto critiche, come possono essere le guerre, le carestie, i crac borsistici, l'insolvenza degli Stati, le speculazioni finanziarie ecc.

Chiunque sa che il prezzo di una merce, nell'ambito del capitalismo, è tutto meno che razionale. Cioè non basta a determinarlo né il tempo di lavoro socialmente necessario né il costo delle materie prime e dei macchinari, né l'entità dei salari. In un sistema fortemente competitivo (anarchico) come quello capitalistico, è impossibile fare affidamento su una politica dei prezzi fondata su qualcosa di oggettivo. Non è possibile neppure in presenza di monopoli, a meno che questi siano in grado di non avere concorrenti a livello nazionale. Cosa però poco fattibile, in quanto il capitalismo impone un mercato mondiale, per cui un monopolio nazionale è destinato, col tempo, a essere superato.

E a livello mondiale non esistono dei monopoli in grado di decidere i prezzi delle loro merci, senza tener conto della concorrenza di altri monopoli. Se esistessero dei monopoli in grado di decidere i prezzi di tutte le merci del mondo, non avrebbero senso le borse. A quel punto non avrebbe neppure senso un capitalismo monopolistico privato. Ci vorrebbe una sorta di "socialismo capitalistico di stato" che permettesse alla società civile di praticare sì il capitalismo, ma non fino al punto da allestire nuovi monopoli, meno che mai se privati, in quanto gli unici possibili dovrebbero restare di patrimonio statale, anche se gestiti privatamente, assicurando ai manager lauti guadagni.

L'unico criterio oggettivo per stabilire il valore della merce è quello di considerare l'uso superiore allo scambio, ma questo comporta una conseguenza che il capitalismo non potrebbe mai accettare, e cioè che s'imponga, sul piano generale, l'idea e la pratica dell'autoconsumo e che il mercato serva soltanto per scambiare le eccedenze.

In presenza di autoconsumo si sa esattamente quanto tempo ci vuole per produrre un oggetto, quanto materiale occorre per produrlo e che prezzo mettere nel caso in cui si volesse venderlo. Ovviamente si dovrebbe pensare a un prezzo solamente nel caso in cui esistesse un mercato. In tal caso però il denaro sarebbe solo un mezzo per realizzare lo scambio, non una fonte per arricchirsi illimitatamente. Chi vende un bene in cambio di denaro, se dominasse l'autoconsumo, semplicemente reimpiegherebbe questo denaro per acquistare un bene diverso. Il denaro come equivalente universale per una semplice compravendita di prodotti non è un incentivo a far nascere il capitalismo, quando sussiste l'autoconsumo.

Certo uno può pensare che in presenza di autoconsumo, il denaro può anche non esistere, in quanto è possibile applicare il baratto come mezzo di scambio. È vero, ma ciò non toglie che, per convenzione, due o più comunità non possano mettersi d'accordo su quale mezzo di scambio dare un valore comune. Può essere l'oro, l'argento, il bronzo, il rame, il ferro, ma possono essere anche i grani del cacao, le pellicce, le conchiglie ecc. L'importante è mettersi d'accordo, senza che nessuno debba imporre ad altri quale sia l'universale equivalente.

Se insieme, per convenzione, si decidono le cose, è ovvio che la scelta di un mezzo comune di pagamento può valere come criterio per l'acquisto di qualunque cosa. È sbagliato pensare di dover scegliere la forma più semplice di pagamento per allargare il mercato, cioè per vendere quante più cose possibili. Infatti, più importante del mercato resta sempre l'autoconsumo, che va garantito dalla comunità d'appartenenza. I mercati non possono né debbono avere la quotidianità della vita di comunità. Un mercato ha senso anche se è soltanto annuale o semestrale o mensile. Dev'essere un avvenimento saltuario, temporaneo, in cui avvengono tutti gli scambi di cui si ha bisogno, ma di cui, in ultima istanza, si può fare anche a meno, proprio perché la soddisfazione dei bisogni primari è garantita dalla comunità d'appartenenza.

Al mercato ci si dovrebbe andare per soddisfare bisogni secondari, non imprescindibili, ma facoltativi. Anzi si dovrebbe guardare con sospetto il crescere di una specifica domanda da parte del mercato (p.es. gli anglo-francesi, agli albori della conquista dell'America del nord, chiedevano ai nativi soprattutto pellicce da vendere in Europa). Richieste di questo genere obbligano a modificare sensibilmente un determinato stile di vita. In cambio gli indiani ottenevano cose di cui fino a quel momento avevano potuto fare a meno.

La società basata sull'autoconsumo è completamente diversa da quella basata sul mercato. Non solo per motivi economici, ma anche per motivi sociali. Soprattutto è diversa la percezione dello stare insieme, della convivenza quotidiana. Si è infatti consapevoli della necessità di una interdipendenza assoluta. L'individuo s'identifica completamente col collettivo, sa di non poterne mai fare a meno.

Viceversa, nelle società di mercato l'antagonismo e l'individualismo sono la regola. La comunità è soltanto una somma di individui singoli tra loro rivali, dove quelli che dispongono della proprietà dei mezzi produttivi, dei beni mobili o immobili comandano su tutti gli altri, in ragione della loro proprietà. Sono loro che decidono tutte le leggi, anche quelle economiche. Lo stare insieme non è tra individui paritetici, ma è una costrizione, che inevitabilmente genera violenza, corruzione e alienazione.

Quando gli economisti borghesi dicono che il prezzo di una merce viene deciso dalla bilancia esistente sul mercato tra domanda e offerta, mentono sapendo di mentire, poiché tutti gli acquirenti sanno che i venditori sono più forti, sono loro che, in ultima istanza, decidono i prezzi. Quando la domanda non è conforme alle loro aspettative, sono loro che modificano le modalità di acquisto di una determinata merce, usando vari accorgimenti e strategie (p.es. gli sconti, le dilazioni, l'acquisto dell'usato, le offerte vantaggiose...). Sono sempre loro che possono decidere come ridurre il costo del lavoro, ricorrendo ai licenziamenti e aumentando il carico di lavoro al personale rimasto; sono sempre loro che delocalizzano le imprese là dove il costo del lavoro, le tasse, i contributi previdenziali ecc. sono ridotti al minimo. Non c'è nessuna parità sul mercato, se non quella formale dell'uguaglianza giuridica dei cittadini personalmente liberi.

Autoconsumo vuol dire anzitutto riappropriarsi della terra. Vuol dire considerarsi "figli della terra", vivere dei frutti della terra, riducendo al minimo l'impatto ambientale dei propri consumi e dei propri mezzi lavorativi, poiché la terra deve avere il tempo per rigenerarsi, per riprodursi. Vuol dire anche riciclare qualunque prodotto si usi, dagli scarti dell'alimentazione ai rifiuti organici (umani, animali e vegetali).

Bisogna imparare a non buttare via niente, a riutilizzare tutto, a risparmiare su tutto. Bisogna imparare a capire che ciò che si rinuncia in termini di comodità e di benessere materiale viene abbondantemente ripagato, grazie all'autoconsumo, in termini di pacificazione interiore, di soddisfazione morale, d'identificazione coi processi della natura. L'uomo è un ente di natura, che non può fare della natura ciò che vuole. È anzi la natura che gli dice cosa può e deve fare di se stesso e dell'ambiente in cui vive.

Tuttavia non vogliamo illuderci su questo punto: è infatti evidente che nella situazione attuale è impossibile un ritorno all'autoconsumo senza uno sconvolgimento epocale, di natura bellica o ambientale. Non ci potrà mai essere un ritorno pacifico all'autoconsumo, proprio perché chi detiene oggi le leve del potere cercherà d'impedirlo con ogni mezzo.

Il problema più grave tuttavia non è questo, ma il dopo. Cioè occorre avere, sin da adesso, la convinzione che l'unica alternativa possibile al mercato è l'autoconsumo e quindi la riappropriazione della terra, mentre l'unica alternativa possibile allo Stato è la democrazia diretta, gestita localmente. Noi non abbiamo soltanto il compito di resistere contro chi vuole portare l'umanità alla catastrofe (e la resistenza sarà sicuramente molto dolorosa, poiché gli interessi in gioco sono enormi), ma abbiamo anche il compito di porre le condizioni perché non abbiano a ripetersi, quando avverrà la transizione, né lo sfruttamento dell'uomo né quello della natura. Questo è davvero il compito più difficile, poiché le condizioni non possono prescindere dalla libertà personale, cui ogni essere umano ha diritto. Imporre l'autoconsumo e la democrazia diretta sarebbe un controsenso.

Vedi anche Tommaso d'Aquino e la dottrina del "giusto prezzo"


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia -  - Stampa pagina
Aggiornamento: 10/02/2019