ECONOMIA E SOCIETA'
idee per il socialismo democratico


VERSO UNA CRISI SISTEMICA DEL CAPITALISMO

di Luigi Agostini

La grande crisi, esplosa con il fallimento della Lehman-Brothers, alla maniera di un vorticoso processo di combustione, è giunta al terzo atto: dagli iniziali piani di salvataggio delle banche, ai piani di stimolo fiscale, agli attuali piani di austerità.

Il processo di combustione procede secondo le linee di faglia interne alle singole economie e ha raggiunto ormai direttamente le condizioni concretissime di lavoro e di vita. Pomigliano docet, anche in termini simbolici.

Il rischio politico che si corre come Sinistra, se non si appronta una sistematica narrazione della crisi, è quello di finire prigionieri delle sue singole fasi.

La crisi, infatti, nel suo concreto procedere, porta a concentrare la luce dei riflettori sull'ultima linea raggiunta dal fuoco, con la conseguenza che il potenziale di conflitto teorico e politico, prodotto dalle cause originarie e strutturali della crisi, può perdersi per strada, nei mille rivoli delle situazioni particolari, progressivamente coinvolte e colpite.

E' facile cioè smarrire una visione d’insieme, tra le tante affermazioni che il peggio è passato, la ripresa è iniziata e così via, con la conseguenza non solo di liberare da ogni responsabilità le forze che la crisi hanno incubato e poi scatenato, ma anche di impedire una valutazione politica generale, e quindi una capacità di proposta e di mobilitazione sociale e politica all'altezza prospetticamente della questione. La crisi insomma ridotta ad accidente persino esterno, figlia di padre ignoto.

I passaggi interni della crisi invece, dalle iniziali politiche di salvataggio alle successive politiche di stimolazione ed infine alle politiche di austerità, se ben analizzati, ci consegnano due temi di riflessione di importanza strategica: la natura della crisi, in primo luogo, il suo aspetto dominante, cioè sempre più chiaramente, l’eccesso di capacità produttiva; in secondo luogo, il carattere dei singoli passaggi che, prodotti per svolgere una funzione risolutiva, diventano invece momenti di accumulo di problemi ancora maggiori, bombe ad orologeria, atti che innescano conflitti ancora più aspri tra aree e classi sociali, forieri di uno stadio ancor più virulento e sistemico della crisi.

Ancora alla fine del 2009, negli Stati Uniti ed in Europa, oltre il 35 per cento della capacità produttiva era inutilizzata (N. Roubini). La crisi cioè, pur prendendo origine da fenomeni di carattere finanziario, si rivela  sempre più come una crisi classica da sovrapproduzione. Da decenni il fenomeno crisi era scomparso dal pensiero dominante. Le crisi-boom insostenibili seguite da declini catastrofici - anche quando venivano evocate - erano considerate altamente improbabili, estremamente inusuali e dalle conseguenze circoscrivibili; comunque la crisi era ormai un fenomeno di economie e di paesi scarsamente sviluppati.

L’irrompere della crisi nel cuore sviluppato dell’Occidente, anche per questo ha un valore epocale. Altro che 11 settembre: il vero spartiacque è rappresentato ormai dal fallimento della Lehman-Brothers! Decenni di fondamentalismo liberista hanno gettato le basi del tracollo del 2007: i cosiddetti “riformatori”, progressivamente, hanno spazzato via la regolamentazione bancaria introdotta da Roosevelt dopo la Grande Depressione degli anni Trenta, e le grandi banche d’affari di Wall Street - i signori dell’universo - hanno trovato il modo di evadere le poche regole rimaste.

In quel clima culturale - che ha portato a cancellare il Glass-Steagal Act, cioè la separazione tra banca di investimento e banca commerciale - un secondo sistema bancario ombra si è sviluppato, al riparo di ogni vigilanza, e si è adottato un sistema di retribuzione come i bonus che incoraggiavano le operazioni a breve termine, ad alto rischio, e con un grado elevatissimo di leva finanziaria.

La crisi da sovrapproduzione apre due enormi questioni, sia sul versante della distribuzione del reddito che sul versante dell'attività produttiva, ineludibili proprio ai fini del superamento della crisi stessa; ci propone cioè, nello specifico dell'insufficienza della domanda, il peso che la diseguaglianza sociale ha avuto nella determinazione del livello della domanda stessa, e nello specifico dell’eccesso di capacità produttiva, il problema della produzione, del come si è formata, degli errori di previsione delle imprese nella strategia di investimento sulla grande scala.

La crisi da sovrapproduzione muove inoltre le domande più elementari: perché in un contesto di eccesso di capacità produttiva, le imprese dovrebbero intraprendere nuove spese in conto capitale? perché consegnare - visto l’esito - solo a decisioni private le strategie degli investimenti futuri? fino a quando il costo delle politiche di salvataggio e di stimolazione può essere scaricato sui bilanci pubblici, senza arrivare al fallimento? Viene in mente la celebre battuta di un vecchio imprenditore che diceva che pensare il capitalismo senza il fallimento era come pensare la chiesa senza l’inferno.

Ma, prima di tutto, l’irrompere della crisi da sovrapproduzione manda in mille pezzi la grande costruzione egemonica del mercato che si autoregola dei Chicago Boys. "La guerra fredda e finita: l’hanno vinta i Chicago boys, titolava un noto giornale ormai vent'anni fa". "La storia è finita", faceva eco Francis Fukuyama.

La storia invece, come un processo che avanza per contraddizioni, continua; la storia richiama a nuova vita i pensatori dell'economia della crisi, come Marx, Keynes, Schumpeter e altri, cioè di coloro che consideravano proprio il capitalismo intrinsecamente instabile e soggetto alle crisi, un procedere per cicli.

Lo stesso procedere dell'ultima crisi, oltre al carattere di tamponamento e di palliativo di molte politiche assunte, porta ad un'evidenza mai così esplicita il nocciolo dei problemi - economici, politici, istituzionali - delle aree principali del pianeta. Fino ad ora l'unico vero erede di Roosevelt sembra essere Hu JinTao. Infatti il socialismo di stato cinese, con una forte capacità di dirigismo pianificatore, ha retto meglio di ogni altro all’esplodere della crisi.

Ma fino a quando può reggere il dollaro come moneta di riserva, se gli Usa continuano ad indebitarsi con politiche di salvataggio all’insegna del "troppo grande  per essere lasciato fallire" e con politiche di stimolo a carico del bilancio pubblico? Già oggi gli Stati Uniti sono diventati il più grande debitore mondiale, e le loro passività verso il resto del mondo raggiungono cifre da leggenda (3.000 miliardi di dollari).

Fino a quando può reggere l’euro senza disintegrarsi, di fronte alla varia consistenza dei debiti sovrani dei singoli paesi, senza uno Stato alle spalle, senza cioè un governo unificato delle politiche economiche e fiscali su scala europea? Nella storia nessuna unione valutaria è mai sopravissuta senza una unione fiscale e politica. La crisi greca dimostra l’intima fragilità del punto a cui è giunta la costruzione europea; l’adozione inoltre di rigide politiche di austerità, con le loro conseguenze politiche e sociali inevitabili, potrebbero accelerarne le difficoltà, invece che scongiurale.

Fino a che punto capitali finanziari vaganti, che entrano ed escono da specifici mercati e da singole economie, possono esacerbare la volatilità dei prezzi delle attività e l’intensità delle crisi finanziarie?

Globalizzazione e innovazione tecnologica sono andate in questi anni di pari passo, rafforzandosi a vicenda. Ciò ha permesso il pieno dispiegamento dei movimenti dei capitali, ma mentre la finanza si è globalizzata, la sua regolamentazione è rimasta una questione nazionale.

Dopo il fallimento di Toronto, in cui nessun passo avanti si è fatto sulla strada della regolamentazione globale dei meccanismi finanziari, lo scenario concreto che si annuncia è solo quello di una grande deflazione.

Il cuore del processo di finanziarizzazione dell’economia che ha portato al peggior disastro dai tempi della grande depressione - piena liberalizzazione del mercato dei capitali, banca universale, società di rating, sistema retributivo centrato sui bonus - non viene sfiorato da nessuna misura, dopo il tanto parlare di riforme nella prima fase della crisi, mentre la crisi, per i suoi automatismi interni, approda alle politiche di austerità.

D’altra parte, le politiche di austerità, se non si mette mano ad un nuovo modello di sviluppo, sono le più adatte per smaltire l’eccesso di capacità produttiva e possono persino funzionare come armi di distrazione di massa per oscurare le responsabilità delle forze che hanno portato alla crisi stessa.

Il potere assoluto della finanza, la riconferma di fatto a Toronto dei suoi meccanismi essenziali, in nome della innovazione finanziaria, lasciano intatti i fattori che hanno provocato la crisi. Ciò non fa che accrescere le probabilità di una crisi ancora più globale e sistemica. La Sinistra ha di fronte anni duri e può affrontarli solo recuperando il grande pensiero della crisi, attualizzarlo al tempo della globalizzazione, mettere al centro il grande tema del nuovo modello di sviluppo e delle istituzioni (europee) per governarlo.

La crisi sistemica che si sta preparando, non potrà, per la Sinistra, essere un cigno nero, per usare l’immagine simbolica di N. Taleb, cioè una sorpresa, un evento impossibile da prevedere, come in gran parte è avvenuto nel settembre del 2007. Pena la condanna alla sua inutilità storica. Non ci sono secoli da contare, direbbe Giorgio Ruffolo.

Luigi Agostini già dirigente sindacale nazionale e segretario confederale, è stato Direttore del Centro Studi di Politica Economica (CESPE) ed è autore di numerosi articoli di politologia e di economia.

www.steppa.net

Fonti


Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia -  - Stampa pagina
Aggiornamento: 10/02/2019