MARX E WEBER SULL’EVOLUZIONE
DELLE FORME ECONOMICHE E SOCIALI


Marx

Weber

Gli stadi evolutivi delle società umane nella visione di Marx (1818 – 1883)

parte seconda

- lo Stato antico (città-stato)

Ma lo Stato asiatico (o "modo di produzione asiatico") non è la sola forma d’organizzazione statale originaria. Marx parla di almeno altre due forme: quella antica e quella germanica.

La seconda viene trattata nelle Formen in modo assai superficiale, e noi ne parleremo specificamente soprattutto laddove tratteremo dell’organizzazione feudale della produzione.

Quanto alla prima, essa è caratterizzata dal fatto che le terre della comunità sono divise in modo tendenzialmente egualitario tra i suoi membri. Ognuno di essi è infatti proprietario a titolo privato di una parte di tali terre, anche se – e qui sta la vera differenza rispetto a una proprietà integralmente privata – solo e anzitutto in qualità di membro della comunità stessa. Il che significa che l’individuo è, in primis, membro della comunità e, in conseguenza di ciò, proprietario di una parte delle terre della comunità stessa.

Anche questa forma di organizzazione comunitaria sorge dal superamento della fase tribale, il che significa dall’aggregazione di più villaggi in precedenza separati in una medesima comunità, detta "città-stato". Non è raro che, tra i diversi gruppi tribali compresi nella comunità, ve ne sia sin dall’inizio uno prevalente sugli altri, i cui membri godono di maggiore benessere materiale. Tuttavia, nelle forme primitive di città-stato, vige ancora tra i membri della società una fondamentale parità a livello patrimoniale. Anche per quanto riguarda queste comunità cittadine, al pari che per quelle "asiatiche", il superamento della fase tribale e di villaggio è di solito determinato da una crescita della popolazione e delle esigenze alimentari, problemi la cui soluzione è trovata nell’aggregazione in un’unità più ampia e in un maggiore sviluppo della divisione del lavoro e dell’articolazione sociale.

Marx nota come, nonostante la proprietà delle terre non sia qui già più collettiva, la loro distribuzione sia ancora in gran parte paritaria. La proprietà privata dunque, in questa prima fase, si concilia ancora fondamentalmente con lo spirito comunistico delle fasi tribali. Il processo di espropriazione e di differenziazione sociale ha inizio infatti in un secondo momento, in conseguenza dello scontro della comunità con altre comunità confinanti.

La ragione dell’insorgente diseguaglianza sta nel fatto che terre e schiavi, costituenti il bottino di guerra, non vengono distribuiti in modo eguale tra i membri della comunità. Una parte maggiore viene difatti assegnata ai membri "superiori", alla nobiltà, e ciò crea col tempo uno squilibrio sempre più marcato tra questi e le classi inferiori (plebe). Iniziano a svilupparsi a questo punto gli elementi fondamentali di ogni società classista: una ristretta cerchia sociale che gode di maggiore benessere da un parte, e dall’altra una più ampia classe depauperata, col tempo sempre più legata alla precedente sia dai debiti sia, di conseguenza, da vincoli di gratitudine e di asservimento (clientelismo).

Riassumeremo attraverso i seguenti punti il discorso di Marx sulle società antiche, ovvero sulla natura e sul progresso dell’organizzazione economica e sociale delle città-stato:

  1. lo schiavismo (modalità di organizzazione dell’economia peculiare di queste ultime, che sorge con l’affermarsi della schiavitù come principale strumento produttivo);
  2. l’espropriazione (le società di classe sorgono con il superamento dell’eguaglianza originaria ancora vigente nelle comunità tribali, ovvero con una sempre più ineguale distribuzione delle terre e in genere della proprietà tra i privati cittadini);
  3. lo sviluppo dell’antagonismo tra campagne e città, e le sue conseguenze di lungo corso;
  4. le ragioni di fondo della trasformazione delle società antiche in società feudali, ovvero della progressiva scomparsa delle piccole proprietà agricole, tipiche degli stadi più arcaici delle società antiche.

1) Quanto allo schiavismo, cioè alla diffusione dell’impiego di schiavi domestici (individui privati di ogni diritto civile: cosa che li distingue dai liberi, anche delle più basse condizioni), un tale fenomeno diviene gradualmente uno dei pilastri dell’organizzazione produttiva delle società antiche. Mentre infatti, inizialmente, gli schiavi costituiscono solo un’integrazione rispetto agli ordinari modi di organizzazione della produzione, ancora basati essenzialmente sul lavoro dei liberi cittadini sulle terre di propria pertinenza, in un secondo tempo essi divengono il mezzo per eccellenza del lavoro, coloro che – al pari delle macchine nell’era moderna – svolgono la maggior parte delle mansioni lavorative, in particolare quelle più ingrate e faticose.

Ma, come si diceva, il fatto che la quantità di schiavi e di terre non sia distribuita in modo paritario tra i membri della società, porta quest’ultima a sviluppare differenze sempre più marcate al proprio interno.

Il processo è abbastanza lineare: i ricchi divengono sempre più ricchi, perché i poveri – strozzati dalle difficoltà economiche – si rivolgono a essi per i propri problemi di sussistenza, in cambio ovviamente di favori e servizi, diventando in tal modo loro clientes.

I clientes poi, si dividono in due diverse categorie: i piccoli proprietari di terre (inizialmente coloro che sono riusciti a mantenere una certa autonomia economica rispetto ai latifondisti, conservando una loro proprietà) e quelli che, totalmente espropriati delle loro proprietà, fanno della città (centro della vita politica della comunità) la propria residenza.

2) Lo schiavismo dunque concorre, assieme ad altri fattori, alla formazione di squilibri che creano nuove forme di organizzazione sociale. Il tessuto sociale è infatti ora diviso essenzialmente tra: i proprietari diretti delle terre e dei mezzi di produzione; i clientes (in tutte le gradazioni, sia di ricchezza che di prestigio sociale) che vivono più o meno a 'rimorchio' dei primi; gli schiavi, forza-lavoro di cui i ricchi sono forniti in più grande quantità rispetto agli altri ceti sociali.

È qui in atto dunque un processo di espropriazione, per il quale i mezzi della produzione (in primis le terre) finiscono per concentrarsi in poche mani, mentre alcuni cittadini formalmente liberi se ne trovano sprovvisti e sono perciò costretti a vendersi ai desideri e agli interessi di altri.

Questi ultimi sono quindi – in qualche modo – proletari, anche se va notato che, rispetto al proletariato moderno (capitalistico), essi non hanno l’obbligo del lavoro! Quest’ultimo infatti è espletato nelle società antiche soprattutto dagli schiavi, per ragioni di consuetudine e per una radicata concezione di fondo della società. I cittadini più poveri, infatti, tendono a vivere di quella parte di ricchezza che i loro concittadini ricchi - per vari ordini di ragioni - elargiscono loro.

Infine, per quanto ciò possa apparire strano ai nostri occhi, bisogna ricordare come gli schiavi non siano propriamente classi espropriate, in quanto non possono godere di fronte alla legge dello statuto di soggetti giuridici. Per logica conseguenza, al pari degli animali e degli oggetti inanimati, essi non godono di alcun diritto e non possono quindi essere considerati 'espropriati' di alcunché.

Se inoltre con proprietà intendiamo (conformemente a Marx), più che il riconoscimento giuridico del possesso esclusivo di un dato bene da parte di una singola persona, il diritto pratico al suo utilizzo, possiamo dire che sia i clientes sia gli schiavi rimangano in qualche misura proprietari dei beni alla base della propria sussistenza.

I clientes infatti, a partire dagli accordi di sudditanza e fedeltà presi con i cittadini ricchi, hanno pur sempre garantita una rendita che permette loro di vivere in relativa sicurezza. (Come i latifondisti vivono della rendita delle proprie terre, così loro vivono della rendita dovuta alla propria condizione di subordinazione: una rendita indiretta, ma pur sempre una rendita!).

Gli schiavi, dal canto loro (ai quali è concessa peraltro la possibilità di acquistare la libertà dietro pagamento di un riscatto) sono legati indissolubilmente alle terre o alle familiae per cui lavorano, anche se in qualità di semplici mezzi produttivi al pari dell’aratro, delle bestie da soma e degli altri mezzi produttivi. Essi sono dunque parte della proprietà del proprio padrone, e come tali godono di una forma indiretta di possesso nei confronti dei mezzi materiali alla base del proprio lavoro, cui sono vincolati.

Sia clientes sia schiavi sono quindi, in termini pratici, ancora in qualche grado proprietari dei mezzi alla base della loro esistenza, e in questo si distinguono – come meglio si vedrà avanti - dai proletari moderni.

3) Un altro punto da trattare è quello relativo al rapporto tra città e campagna.

Negli Stati di tipo asiatico, come si è detto, ogni villaggio costituisce tendenzialmente un universo chiuso, bastante a se stesso, capace di produrre ciò di cui i suoi membri hanno bisogno per vivere. In esso inoltre la divisione del lavoro è minima e tutti i membri svolgono attività simili: ovvero agricoltura, pastorizia, pesca e la stessa costruzione degli attrezzi che rendono possibili tali attività (aratro, armi per la caccia, ecc.). Per tale ragione, difficilmente si sviluppa una classe di lavoratori artigiani specializzati: ogni singola unità produttiva (familiare) crea infatti i propri mezzi, né vi è perciò necessità di un luogo (la città) preposto alla loro fabbricazione. Ogni villaggio dunque è un’entità self sustaining, i cui membri creano in autonomia gli strumenti necessari allo svolgimento delle proprie attività.

In questa situazione, non esiste una divisione tra città e campagna, ovvero tra le sedi delle attività agricole e di quelle tecniche e specializzate. A dire il vero, le città esistono anche negli Stati asiatici, ma come realtà del tutto sporadiche, cioè essenzialmente come luoghi d’insediamento dei poteri dirigistici dello Stato: la corte del Sovrano; i poteri funzionariali locali; i centri commerciali situati sulle vie carovaniere e preposti allo scambio di beni con gli altri Stati (scambio diretto e gestito dallo Stato stesso, non certo dai piccoli villaggi locali); le residenze delle alte caste sacerdotali.

Se si eccettuano questi casi, gli Stati asiatici restano essenzialmente realtà agricole, prive quindi della contrapposizione tra città e campagne, dal momento che le attività produttive (agricole e artigianali) sono praticate entrambe in realtà non urbane.

Le città-stato antiche hanno invece sin dall’inizio una struttura molto diversa. In essi infatti esiste da sempre un luogo, la città appunto, i cui membri si riuniscono per svolgere le attività di carattere politico, ovvero per prendere decisioni che riguardano la comunità, o attività riguardanti il culto degli dei.

Ma il cambiamento vero e proprio rispetto agli Stati asiatici si ha con il processo di espropriazione delle terre di cui si è parlato poc’anzi. La città infatti, da luogo delle attività comunitarie, inizia a divenire allora la sede stabile di molti individui che hanno perso le loro proprietà terriere. Così come di quegli individui che, pur non appartenendo originariamente alla comunità, si sono trasferiti all’interno dei suoi confini (in Grecia erano chiamati meteci). Questi ultimi, non essendo, anche se liberi e non schiavi, cittadini a pieno titolo, e non potendo perciò possedere terre in proprio, erano costretti a vivere nella città dove per mantenersi svolgevano di solito attività artigianali e commerciali. Del resto, anche tanti membri della comunità caduti in miseria, ma non divenuti schiavi, potevano decidere di svolgere tale tipo di attività (anche se, come si è detto, forte era la tendenza a diventare clientes dei cittadini più ricchi, e a vivere così di una rendita indiretta).

A partire da tali presupposti, si sviluppa una contrapposizione tra le città (sede delle attività artigianali e commerciali) e le campagne (sede delle attività agricole e di sussistenza). I commerci poi rendono necessario l’impiego della moneta come mezzo di compravendita dei beni: i cittadini infatti, non producendo beni atti di per se stessi a garantire la sopravvivenza, sono costretti a scambiare i propri prodotti con quelli agricoli, ma per fare ciò hanno bisogno di un mezzo che favorisca e renda possibile tali transazioni: cioè appunto della moneta (valore di scambio). In tal modo le città divengono le sedi di attività economiche non direttamente produttive, ma col tempo sempre più indispensabili per l’economia degli Stati antichi.

Va poi notata un'enorme differenza (un argomento su cui peraltro torneremo quando parleremo delle città medievali) tra il commercio antico e precapitalistico e quello propriamente capitalistico moderno. Mentre nel mondo moderno ogni singolo commerciante cerca di capitalizzare quanto più danaro possibile, anche (e anzi quasi sempre) a spese dei suoi omologhi e concorrenti, nelle città antiche il commercio si basava sulle corporazioni: associazioni di mestiere finalizzate alla sopravvivenza dei propri aderenti sulla base di norme da tutti condivise, la cui finalità era appunto quella di mitigare gli effetti della concorrenza.

Sempre nelle Formen Marx spiega in modo molto chiaro che: "Nell’artigianato cittadino [antico e medievale], sebbene esso poggi sullo scambio e sulla creazione di valore di scambio, lo scopo fondamentale, immediato di questa produzione è il sussistere in quanto artigiano, in quanto maestro artigiano: dunque valore d’uso, non valore di scambio; non arricchimento, non valore di scambio in quanto valore di scambio".

Al contrario, il fine del commercio – non più solo cittadino – all’interno delle società capitalistiche moderne, è quello dell’arricchimento indefinito del singolo commerciante, e non più la sua semplice sopravvivenza: un fatto che non può che attuarsi attraverso una guerra "senza quartiere" (ovvero priva o quasi di regole) di tutti contro tutti.

Nel mondo antico, le attività mercantilistiche e proto-industriali acquisirono col tempo una consistenza sempre maggiore, finendo così per riguardare anche le campagne. I latifondisti infatti, come del resto i piccoli proprietari, presero l’abitudine di produrre non solo ciò che era necessario alla loro sopravvivenza ma anche un surplus da impiegare nei commerci, onde integrare la ricchezza naturale (il puro valore d’uso) con una certa quantità di ricchezza astratta (valore di scambio).

Ciononostante l’esistenza di produzioni agricole finalizzate esclusivamente ai mercati è un fatto molto controverso, e anzi alquanto improbabile: quasi sicuramente infatti i traffici rimasero sempre, nelle campagne, attività complementari all’economia di autoconsumo, pur acquistando col tempo un ruolo e una consistenza sempre maggiori.

Dunque, assieme all’antagonismo tra città e campagna, le città-stato antiche svilupparono una prima forma (peraltro a tratti molto avanzata) di economia mercantile e monetaria, i cui ulteriori sviluppi si avranno in Europa con la rinascita delle città tra il tardo Medioevo e la vera e propria era moderna (XVI secolo).

Ma ciò non deve indurci a credere che la moneta sia una prerogativa esclusiva degli Stati europei antichi. Anche in Asia essa conobbe un proprio sviluppo.

Anzitutto bisogna ricordare che gli Stati asiatici commerciavano frequentemente tra loro. Per fare ciò – superata la fase iniziale del dono rituale tra sovrani – essi avevano bisogno di un mezzo di scambio, ovvero della moneta, seppure intesa di solito in forme diverse dal conio. Né si deve escludere la nascita di un piccolo commercio tra villaggi, né quella di fenomeni più meno sporadici di appropriazione delle terre a titolo privato (al di fuori cioè della proprietà del Sovrano). Anche in alcuni Stati asiatici inoltre - per esempio nelle città-stato sumeriche - si sviluppò una vita cittadina (le cui attività comprendevano l’artigianato, il commercio, l’amministrazione contabile…) contrapposta a quella delle campagne, e che richiedeva per molte attività (ad esempio la compravendita di beni) l’impiego della moneta.

4) Dopo avere analizzato gli Stati antichi nelle loro caratteristiche strutturali (economia schiavistica; struttura di classe: ricchi, poveri o clientes, schiavi; antagonismo tra città e campagne), ci restano da analizzare le modalità e le ragioni del loro collasso e della loro trasformazione in società feudali.

Come abbiamo già detto, tendenza della società antica – a partire dalle fasi iniziali e arcaiche, per arrivare a quelle finali – fu quella alla crescita costante degli squilibri economici. Dal comunismo proprio delle organizzazioni primitive e gentilizie (in cui le classi nobiliari, preposte al comando, erano ancora in una situazione di relativa parità patrimoniale con i rimanenti cittadini), si passò col tempo a sempre più accentuate disparità nel possesso sia di terre che di schiavi. Le guerre infatti comportavano una redistribuzione alquanto ineguale dei bottini tra cittadini alti e cittadini umili.

Anche senza considerare poi la persistenza delle guerre nell’arco di tutta la storia antica (greca e romana), una volta createsi, queste differenze non potevano nel corso del tempo che peggiorare per ragioni endogene (se, ad esempio, un cittadino normale o povero viveva un momento di particolare difficoltà economica, si trovava costretto a contrarre con dei cittadini più ricchi dei prestiti molto difficili da estinguere - molto diffuso era, ad esempio, il prestito a usura -, e a stringere in tal modo un legame di fedeltà e sottomissione nei loro confronti).

Questa inarrestabile tendenza di lungo corso, pur mitigata talvolta con provvedimenti politici di redistribuzione delle terre (quale, ad esempio, quello del riformatore greco Solone), portò nel corso dei secoli alla cancellazione pressoché totale della piccola e media proprietà agraria, e alla formazione di grandi latifondi (le "ville" del tardo mondo romano) che conducevano una vita più o meno autonoma rispetto al mondo esterno.

La concentrazione della vita nei grandi latifondi rese sempre meno utili e necessarie le città, intese come centri di intermediazione commerciale (i latifondi infatti, conducevano un’esistenza indipendente) e presto anche di fabbricazione degli attrezzi necessari all’agricoltura (che vennero sempre più di frequente fabbricati nelle campagne).

Con il declino della produzione artigianale e industriale si ebbe poi un imbarbarimento delle tecniche produttive, un impoverimento e un abbassamento generali delle esigenze di vita, che portò alla definitiva scomparsa dei centri urbani come luoghi di attività economiche.

Alla fine del mondo antico corrispose dunque l’inizio della società feudale, caratterizzata, come noto, dal frazionamento della vita economica (e dello Stato) in grandi lotti di terra contrapposti, detti appunto feudi.

Va notato infine come questo tipo di trasformazione compromise sempre di più, col tempo, gli sviluppi monetari (ovvero cittadini e mercantilistici) dell’economia antica. Tuttavia, in certi periodi, quest’ultima conobbe la formazione di imprese produttive e commerciali anche di grandi dimensioni, che molto hanno da spartire con le manifatture moderne e – seppure in modo limitato – con l’organizzazione capitalistica moderna (come vedremo meglio più avanti).

L’economia feudale, quindi, si pone come una radicalizzazione dell’organizzazione produttiva agraria propria del mondo antico, attraverso la rimozione degli aspetti monetari e, se non già capitalistici, quantomeno mercantilistici di quest’ultima. Oltre a ciò essa si pone al termine di un percorso di progressivo scardinamento degli originari rapporti di proprietà di carattere gentilizio, su cui si inserisce – come vedremo nel prossimo paragrafo – l’azione di conquista delle popolazioni barbariche.

- la società feudale

È nell’ambito del discorso sull’economia e sulla società feudali che le riflessioni di Marx sulle società germaniche, ovvero sull’organizzazione originaria dei popoli del nord Europa (gli stessi a cui Tacito dedicò una delle sue opere più celebri), acquistano un senso e uno spessore che va al di là del puro interesse erudito.

Finché infatti egli descrive, senza darvi un seguito concettuale, il modo di organizzazione caratteristico di tali popolazioni, il suo discorso resta lettera morta, priva cioè di implicazioni reali. È invece nel collegare una tale realtà a quella dell’Impero romano nei suoi stadi più avanzati, mostrando la loro profonda affinità strutturale, che egli dà un significato concreto alle sue precedenti osservazioni.

In un punto delle Formen, Marx descrive in questo modo la comunità germanica: "La comunità [germanica] appare come riunione, come unione, come accordo, i cui soggetti autonomi sono i proprietari fondiari, non come unità." In essa, egli spiega, non è l’appartenenza (etnica) a giustificare la proprietà, ma è al contrario la proprietà del singolo (l’essere egli cioè un latifondista autonomo) a giustificare la sua appartenenza alla comunità. Se dunque lo "Stato antico" (ovvero la città-stato) era caratterizzato, rispetto a quello asiatico, da un netto avanzamento della sfera privata (e privatistica) nei confronti di quella collettiva, la comunità germanica si caratterizza per uno sviluppo ancora maggiore dei fattori individuali e anarchici su quelli comunitari antichi.

A rigore, d’altronde, non si può nemmeno parlare di Stato per i Germani, in quanto tra di essi "la comunità esiste in fact [cioè di fatto, non de jure, n.d.r.], non quale Stato, non quale ente politico, come presso gli antichi [e dunque a maggior ragione presso gli Stati asiatici, n.d.r.]". Né deve stupire il fatto che la città stessa, che tanta importanza ha sin dall’inizio tra i popoli antichi (greci e romani) in qualità di centro di aggregazione politica dei suoi membri, sia invece pressoché inesistente presso i popoli germanici.

Insomma, sintetizza mirabilmente Marx, "la proprietà del singolo non appare qui mediata dalla comunità, ma è l’esistenza della comunità e della proprietà comune che appare mediata, come rapporto reciproco dei soggetti autonomi."

Possiamo quindi osservare come Marx individui una scala che, partendo dalla comunità-stato asiatica (segnata da un livello minimo di autonomia individuale rispetto alla collettività) e passando attraverso la città-stato antica, giunge ad un livello massimo di individualismo, che si invera appunto nelle società e nelle organizzazioni sociali germaniche. Dall’estremo di una proprietà ancora integralmente collettiva (il cosiddetto "modo di produzione asiatico"), egli giunge così a individuare un tipo di comunità già basata su una proprietà di carattere integralmente privato, la quale non solo non richiede alcuna giustificazione giuridica da parte della collettività ma che anzi costituisce il fondamento di quest’ultima.

A differenza che negli Stati asiatici e - seppur meno - in quelli antichi dunque, nelle comunità germaniche è la proprietà dei singoli ciò che 'fa' la comunità, in quanto questa è il risultato del libero accordo tra famiglie che conducono un’esistenza tra loro fondamentalmente indipendente (ciò che accade anche a causa di distanze territoriali molto grandi), pur restando legate da una storia e da un lingua comuni e riunendosi occasionalmente in assemblea.

Ma veniamo al feudalesimo, oggetto di questo paragrafo. Anche se nelle Formen Marx non si esprime mai in modo esplicito sull’argomento, egli sembra pensare che esso, modo di produzione instauratosi al termine del processo di disgregazione delle città-stato antiche (al tempo oramai riunite in un unico impero, quello romano), sia il risultato dell’incontro tra le tradizioni germaniche e la struttura della società romana dei periodi più tardi.

Il che sembra confermato da un breve passo presente in un altro suo scritto, l’Introduzione all’economia politica del 1857, laddove si legge: "I barbari germanici, per i quali la produzione tradizionale era la coltivazione dei campi ad opera dei servi e una vita isolata nella campagna, poterono sottomettere tanto più facilmente le province romane a queste condizioni, in quanto la concentrazione che si era avuta della proprietà terriera aveva già completamente demolito gli antichi rapporti nell’agricoltura."

Non a caso, il feudalesimo medievale si caratterizza soprattutto per due aspetti: una produzione su base prevalentemente servile (contrapposta a quella schiavile tipicamente classica), e la presenza dominante del grande latifondo come cellula produttiva autosufficiente rispetto al mondo esterno (economia di autoconsumo). Due caratteri questi, tipici tanto dell’organizzazione delle popolazioni germaniche già prima dell’invasione dei territori dell’Impero romano, quanto – almeno indicativamente – di quest’ultimo nelle fasi estreme del secolare processo di elisione della piccola e media proprietà di cui già si è parlato.

Restano da cercare di definire: 1) le differenze e le affinità sussistenti tra economia e produzione schiavile e servile; 2) le somiglianze (cui si è già accennato) tra società germanica originaria e Stato feudale (sempre che di Stato si possa parlare per questo periodo e per questo tipo di organizzazione); nonché 3) l’influenza che lo Stato feudale ebbe sulla nascita della società capitalistica e dello Stato europeo moderno.

1) Per ciò che riguarda l’economia a base servile, si deve ricordare prima di tutto che quello che chiamiamo "servo" (o colono, in un’accezione più mite) è la prosecuzione, almeno per quanto riguarda la storia antica, della figura dello schiavo. Carattere distintivo rispetto a quest’ultimo, è però quello di non essere più un semplice strumento nelle mani del padrone, ma di godere di alcuni diritti minimi.

Già nel mondo romano, a partire dal I secolo dopo Cristo, gli schiavi iniziarono a essere protetti per legge dai propri padroni, cui non era consentito di ucciderli o maltrattarli (almeno senza giusto motivo), e se ciò accadeva potevano denunciare il fatto, con conseguenze penali per il loro proprietario. Era l’inizio di un processo di umanizzazione della condizione dello schiavo (dovuto anche al fatto che, per vari ordini di ragioni, gli schiavi iniziavano a scarseggiare) che sarebbe in seguito culminato nella nascita di una vasta classe servile, che avrebbe sostituito quella schiavile come principale risorsa produttiva all’interno della società romana.

Ai servi era consentito di avere figli e di farsi una famiglia (cosa che ovviava il problema, legato invece alla manodopera schiavile, di una graduale scomparsa dei lavoratori, in mancanza di nuovi elementi capace di rimpiazzare quelli che morivano o divenivano inservibili), e inoltre essi non erano più legati al padrone delle terre su cui erano insediati come mezzi di sua proprietà, bensì come soggetti formalmente liberi obbligati a versargli parte dei prodotti del proprio lavoro (un tipo di organizzazione che, nei tempi moderni, sopravvive ancora lontanamente nella mezzadria).

Il periodo della tarda antichità fu caratterizzato, soprattutto nell’Europa occidentale, dall’allargamento della massa dei poveri (spesso piccoli proprietari caduti in miseria, o individui in fuga dalle città) e dall’innalzamento della condizione degli schiavi. Se infatti molti cittadini liberi decaduti vennero declassati a servi o coloni, gran parte della manodopera schiavile veniva invece innalzata a un grado servile (spesso, come si è detto, per ovviare al problema della sua graduale estinzione).

La condizione schiavile e quella servile ebbero anche però dei punti di contatto: sia gli schiavi che i servi infatti, pur nella differente durezza delle loro condizioni (almeno così si può presumere…), erano indissolubilmente legati al proprio padrone, che se da una parte poteva usufruire del loro lavoro, dall’altra era costretto (per ragioni di umanità, se non già per obblighi legali) a mantenerli sino alla morte. Dunque, in un’ottica marxista, sia schiavo che servo erano solo relativamente espropriati dei mezzi del loro lavoro, in quanto entrambi rimanevano a essi indissolubilmente legati fino alla morte. (Ben più radicale, in un’ottica marxista, è la condizione del proletario moderno, il quale può vedere ogni giorno interrotta la propria già misera condizione di salariato).

2) Altro argomento da approfondire è la relazione tra Stato feudale e società germanica originaria. Come si è detto, i germani nell’invadere l’Impero romano in piena decadenza, vi trovarono un tipo di organizzazione economica che ricordava la loro: frazionamento delle terre in proprietà indipendenti e affermazione quasi totale della manodopera servile, ovvero di popolazioni asservite e legate ai latifondisti dall’obbligo di versare dei tributi e talvolta di fornire delle prestazioni in natura.

Lo Stato poi, nei territori romani occidentali, quasi non esisteva più. Le guerre e la fortissima pressione fiscale che ne era derivata, avevano infatti impoverito a tal punto tanto le città quanto le campagne (soprattutto le piccole proprietà) da rendere quasi impossibile riscuotere qualsiasi tipo di tassa. E senza tale tipo di contribuzioni lo Stato non poteva mantenersi, ragion per cui la vita politica si era oramai praticamente estinta.

Il frazionamento territoriale dello Stato in isole produttive autonome aveva scardinato quel poco che ancora rimaneva della precedente comunità antica: i poteri cittadini (municipali) infatti, oramai non esistevano che in modo formale, e la presa di potere dei barbari su quelle regioni non fece altro che sanzionare ufficialmente la morte dello Stato come entità istituzionale super partes, sostituita - nei limiti del possibile, ovviamente - dall’attività pacificatrice della Chiesa cristiana e delle sue deboli istituzioni diocesane.

L’esplosione delle comunità antiche in sottocomunità autonome e spesso ostili (i feudi) aveva preparato un terreno fertile all’insediamento dei barbari, i quali ritrovavano in queste nuove regioni condizioni molto simili alle loro. Fu dunque facile, una volta eliminata gran parte della precedente nobiltà, impossessarsi delle sue terre e prendere il suo posto, al contempo radicalizzando trasformazioni sociali in atto ormai da secoli.

3) Infine, è necessario prospettare velocemente un tema che verrà sviluppato anche nel prossimo paragrafo: quello del rapporto generativo, e quindi di affinità, sussistente tra lo stadio feudale e quello capitalistico successivo.

Se è vero infatti che l’assenza pressoché totale dei mercati e dell’uso della moneta pone il modo di organizzazione servile in una posizione antitetica rispetto a quello successivo, caratterizzato dalla rinascita delle città dell’artigianato e dei commerci, nonché in un secondo momento dall’insorgere di una vera e propria organizzazione capitalistica, è però anche vero che tra questi due modi produttivi sussiste una profonda somiglianza. In entrambi, difatti, lo Stato, come entità collettiva che trascende i singoli individui e ne condiziona le scelte, si fa molto più debole che in passato. Se nel feudalesimo esso – come si è già detto – cessa pressoché di esistere, nel mondo moderno assume invece connotati nuovi che sono in gran parte eredità del modo di organizzazione precedente.

Scrive ad esempio Marx, sempre nell’Introduzione del ‘57, che "nella società della libera concorrenza [cioè nella società borghese, n.d.r.] il singolo appare [per la prima volta] sciolto dai legami naturali, ecc. che nelle epoche storiche precedenti ne fanno un elemento appartenente ad un agglomerato umano, determinato e circoscritto". E più avanti: "nella società borghese, le diverse forme dei nessi sociali si presentano al singolo come un puro strumento per i suoi fini privati, come una necessità esteriore".

È difficile non vedere come questo carattere basilare della società moderna, ovvero la natura estrinseca dello Stato (e della comunità che esso rappresenta) rispetto ai fini individuali, sia in gran parte una derivazione e un’eredità del modo di organizzazione (e della mentalità) della precedente età feudale, che aveva appunto decretato la definitiva scomparsa dei vincoli gentilizi e comunitari dell’organizzazione antica.

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Adriano Torricelli - Homolaicus - Contatto - Sezione Economia


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Aggiornamento: 12/09/2014