MARX E WEBER SULL’EVOLUZIONE
DELLE FORME ECONOMICHE E SOCIALI


Marx

Weber

Dal capitalismo al comunismo

parte seconda

Sono essenzialmente due, secondo Marx, le ragioni dell’inevitabile involuzione della società capitalistica e della sua successiva trasformazione nella società socialista/comunista.

L’una – più semplice da individuare – è la concentrazione progressiva dei capitali nelle mani di un sempre minor numero di capitalisti, conseguenza della competizione di mercato e della formazione, dovuta ovviamente alla progressiva eliminazione di gran parte della concorrenza, di poteri economici e finanziari sempre più vasti (fase monopolistica od oligopolistica del capitalismo). Un tale fenomeno comporta lo sviluppo di organismi economico-finanziari sempre più ampi e articolati, all’interno dei quali vige per forza di cose un’organizzazione "di squadra" (Weber la definirà burocratica o burocratizzata) che penalizza fortemente i valori e comportamenti individualistici nettamente dominanti nelle fasi precedenti, ancora basate sulla piccola e media imprenditoria, ovvero su un’iniziativa economica libera e anarchica.

Ma la formazione di un’economia socializzata in seno allo stesso capitalismo, e l’estensione alla stragrande maggioranza delle persone della condizione di "proletario", ovvero di lavoratore salariato, pone le basi dello sconvolgimento dell’ordine istituzionale esistente (fondato sulla proprietà privata dei mezzi produttivi e sulla rigida divisione tra lavoratori e capitalisti) in favore di una nuova organizzazione economica (la quale, in realtà, si è già in gran parte sviluppata) basata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione e sull’amministrazione di essi in funzione, anziché degli interessi del singolo capitalista, dell’intera umanità.

In altri termini vengono poste in questa fase le basi della società socialista (la quale, in un secondo momento, radicalizzandosi diventerà comunista). E ciò per azione di quel medesimo processo dialettico che ha caratterizzato la fine di tutte le altre fasi della storia umana.

Ma vi è anche un’altra tendenza di lungo corso che rende inevitabile il collasso dell’economia capitalista. Marx parla a questo proposito della legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, un concetto la cui comprensione richiede la conoscenza di un altro aspetto del suo pensiero, quello della teoria del plus-valore.

- La teoria del valore

Nelle società capitalistiche, nelle quali l’interezza (o quasi) dei prodotti è destinata a essere venduta sui mercati in qualità di merce, vale per Marx l’equivalenza tra il valore economico dei prodotti (misurato ovviamente in termini monetari) e il tempo o la quantità di lavoro impiegati per la loro creazione. Il prezzo delle merci infatti è direttamente proporzionale al lavoro impiegato per crearle.

Ma il lavoro stesso è una merce, che il capitalista acquista per produrre altre merci, che poi vende ricavandone dei guadagni. Marx distingue anche due diversi tipi di lavoro: quello meccanico e quello umano (svolto da lavoratori salariati), i quali hanno una natura molto diversa tra loro.

Il prezzo delle macchine preposte alla produzione è equivalente a quello di qualsiasi altra merce, cioè proporzionale alla quantità di lavoro impiegata per crearle. Come tale, la spesa per il loro acquisto dovrà essere riassorbita dal capitalista nel corso del tempo, attraverso i propri profitti. Se quindi la creazione di una data macchina richiede un lavoro x, essa avrà, di conseguenza, un costo y, il quale dovrà essere riassorbito dal capitalista attraverso un guadagno equivalente a y. Tutto ciò significa che il costo del macchinario potrà soltanto essere ammortizzato dal capitalista, ma che esso non creerà alcun guadagno supplementare rispetto alle spese legate al suo acquisto e mantenimento.

Invece il lavoro umano ha una natura differente: il prezzo di esso infatti, equivale - almeno secondo una logica capitalistica - a quanto semplicemente necessita al lavoratore per sopravvivere e, quindi, continuare a lavorare. Il suo prezzo, ovvero il salario, si identifica dunque tendenzialmente col minimo necessario alla sopravvivenza del lavoratore stesso, e niente più.

Il capitalista dunque, dal momento che si trova in una situazione di concorrenza, dovrà: a) tenere quanto più basso possibile il prezzo dei suoi prodotti, appunto per contrastare la concorrenza; b) ammortizzare completamente le spese legate alla loro produzione; c) guadagnare o ‘capitalizzare’ una somma di danaro quanto più grande possibile da utilizzare tanto per il proprio sostentamento materiale, quanto (secondo appunto, la logica della concorrenza di mercato) per investimenti strutturali finalizzati al miglioramento degli standard produttivi della propria impresa. Quest’ultimo aspetto si chiama plus-valore.

Per ottenere un plus-valore egli dovrà fissare un prezzo alle proprie merci che, pur basso in relazione a quello dei concorrenti, vada comunque il più possibile oltre il mero ammortamento delle spese legate alla loro creazione. Tale plus-valore egli lo crea appunto sottraendo ai lavoratori parte del profitto dovuto al loro lavoro, ovvero riducendo il loro stipendio al grado più basso possibile: il che significa, come già si diceva, alla loro sopravvivenza fisica. Il lavoro umano dunque – e qui sta appunto la differenza essenziale rispetto a quello meccanico – ha dal punto di vista del capitalista la caratteristica di creare un plus-profitto.

È quindi solo attraverso questo tipo di lavoro (caratterizzato da un intrinseco sfruttamento), che il capitalista può creare quel plus-valore che gli permette di portare avanti la propria impresa, secondo il meccanismo di competizione e di crescita continua dei profitti che sta alla base del sistema di produzione capitalista.

Quest’ingiustizia originaria, peraltro, è resa possibile dal fatto che i lavoratori – in quanto salariati – siano sottoponibili al ricatto del licenziamento e della miseria, e che non abbiano quindi troppe possibilità di ribellarsi alle decisioni dei datori di lavoro (questo, spiega Marx, è particolarmente vero nei periodi, ciclicamente ricorrenti, di recessione economica: quelli nei quali cioè vi è più richiesta di lavoro da parte dei lavoratori che non da parte dei capitalisti).

I termini del problema sono quindi per Marx essenzialmente tre: a) la necessità di tenere bassi i prezzi delle merci; b) la necessità di riassorbire le spese legate alla loro produzione; c) la necessità di ottenere un profitto o valore supplementare (plus-valore) rispetto al semplice ammortamento delle spese legate alla loro produzione.

Il tutto nella cornice dell’idea che il valore, o prezzo, di una merce (sia essa un prodotto, o il lavoro necessario a crearlo) dipenda dalla quantità oggettiva di energia spesa perché essa possa sussistere.

- la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto

Dopo aver compreso la teoria del valore, è possibile comprendere anche la legge della caduta del saggio di profitto. Su di essa, bisogna osservare anzitutto che ha una validità solo tendenziale, che è valida cioè solo a partire da condizioni che non possono essere date del tutto per scontate; e inoltre che il suo senso ultimo consiste nel fatto di mettere in crisi il meccanismo stesso alla base del capitalismo: quello cioè dell’autovalorizzazione del capitale.

Tale legge afferma che, dal momento che l’imprenditore è costretto, onde fronteggiare efficacemente la concorrenza, a investire una parte sempre maggiore del proprio plus-profitto in capitale immobile (ovvero nell’acquisto di macchinari sempre più sofisticati e costosi) il saggio di profitto della sua impresa tende progressivamente a calare. Se infatti da una parte egli deve produrre merci a costi sempre più bassi (cosa che può fare appunto soltanto attraverso l’impiego di tecnologie sempre più avanzate), dall’altra, investendo sempre più danaro nell’acquisto e nella manutenzione di beni infruttuosi (le macchine, appunto), il suo saggio di profitto – ovvero il suo plus-profitto – tende col tempo a calare.

Tutto questo sembrerebbe dimostrare come, accanto al processo di accentramento della ricchezza finanziaria di cui abbiamo già parlato, sia in atto nel capitalismo anche un processo di contrazione dei plus-profitti.

D’altra parte, paradossalmente, la progressiva elisione di questi ultimi tende a coincidere con la crescita dei profitti commerciali delle imprese stesse, almeno di quelle vincenti sui mercati. Queste ultime infatti, ereditando una parte della fetta di mercato dei propri concorrenti, aumentano i propri guadagni. Ma – ed è questo l’aspetto paradossale – nonostante ciò, si trovano ad avere sempre meno plus-valore da reinvestire ai fini della propria crescita, in ragione della tendenza espressa dalla legge qui descritta. E dal momento che la ricerca del plus-valore è il senso e lo scopo ultimo del capitalismo, è chiaro che è qui in corso una crisi dei presupposti stessi che vi sono a base.

Prima di analizzare sinteticamente le ragioni della natura solo tendenziale di questa legge, vogliamo fare delle ulteriori osservazioni sull’evoluzione intrinseca del capitalismo.

Abbiamo già visto come esso conosca due tendenze di lunga durata: 1) quella all’accentramento del capitale finanziario in sempre meno mani; e 2) quella alla decrescita del plus-profitto, ovvero alla crisi del meccanismo di autovalorizzazione del capitale.

Ma parallelamente a queste due tendenze, ve n’è anche un’altra: 3) quella all’estensione a livello globale o planetario dell’organizzazione capitalistica. Ciò accade perché lo scopo ultimo del capitalista è quello di incrementare all’infinito i propri guadagni, cosa per ottenere la quale è costretto a estendere continuamente sia i propri mercati sia la propria produzione. Ma tutto questo non può non avvenire – almeno da un certo momento in avanti – a spese di quelle regioni nelle quali il modo di produzione capitalistico non si sia ancora sviluppato, e la cui minore complessità sociale (nonché il minore sviluppo tecnologico) ne spiega la vulnerabilità di fronte alla sua penetrazione. Ma anche questo processo di estensione a livello geografico della produzione capitalista giunge a un certo punto a un livello non oltrepassabile, ponendo così in crisi un altro presupposto di essa: quello della crescita continua dei mercati e della produzione.

Secondo Marx, solo quando questi tre processi siano giunti a uno stadio molto avanzato (determinando così: 1) una sperequazione insostenibile tra ricchi e poveri; 2) una drastica stagnazione delle possibilità di sviluppo economico del sistema capitalistico; 3) l’assenza quasi totale di nuovi mercati e quindi, di nuovo, di nuove occasioni di sviluppo per il capitale), solo allora sono realmente poste le basi per lo scardinamento dell’ordine economico-sociale vigente. Ciò spiega perché, per Marx, l’idea della Rivoluzione in un solo paese o in una sola area del mondo sia del tutto velleitaria: la rivoluzione socialista infatti, è per lui possibile solo come processo che riguarda tutto il mondo, non parte di esso.

Analizziamo ora alcuni dei possibili fattori frenanti della caduta del saggio di profitto. Quelli che ci appaiono più probabili e, quindi più rilevanti, nell’evoluzione della società capitalista sono i seguenti: una decrescita (o comunque una mancata crescita) del costo dei macchinari, ovvero del prezzo del capitale fisso; la nascita di nuovi tipi di mercato (ovvero la commercializzazione di nuovi tipi di prodotti); la possibilità di un ulteriore abbassamento dei salari; ed infine – fattore assolutamente da non sottovalutare – la stipula, più o meno esplicita, di accordi di carattere monopolistico (ovvero corporativo) tra produttori concorrenti sul mercato.

Per quanto riguarda il primo punto, si deve notare che esso non fu previsto da Marx, il quale non poteva nemmeno immaginare la velocità e le caratteristiche che il progresso tecnologico avrebbe assunto nei periodi seguenti alla sua vita. Una delle caratteristiche centrali di tale sviluppo, infatti, è quella di portare spesso a un abbassamento anche notevole del costo dei macchinari, in modo tale che – a parità di prestazioni – essi richiedono investimenti finanziari (anche per ciò che riguarda la loro manutenzione) molto inferiori rispetto al passato. Senza contare che alle volte, progresso tecnico e decrescita dei prezzi si accompagnano vicendevolmente. Tutto questo finisce per vanificare, almeno in senso tendenziale, la previsione marxiana di un aumento delle spese ‘morte’ del capitale e della conseguente decrescita dei plus-profitti.

Un altro punto è quello riguardante l’abbassamento dei salari. Non è vero infatti che il capitalista tiene sempre il salario a livelli di pura sussistenza, e ciò soprattutto nei periodi in cui la richiesta di manodopera è più forte (periodi, chiaramente, di crescita dei mercati e quindi degli investimenti).

I salari conoscono invece un abbassamento soprattutto nei periodi in cui il mercato si contrae e in cui, di conseguenza, diminuisce o si interrompe l’esigenza da parte dei capitalisti di incrementare la produzione e quindi di assumere nuova manodopera, nonché alle volte di tenere quella che già hanno; o nei periodi in cui nuove fonti di manodopera (quali, ad esempio, individui provenienti o residenti in altri paesi) si affacciano all’orizzonte, facendo per logica conseguenza scendere il valore e il prezzo del lavoro.

In questo tipo di periodi i salari possono scendere anche al di sotto del livello di sussistenza (livello, peraltro, molto difficile da stabilire) permettendo in tal modo maggiori profitti, e quindi plus-profitti, ai capitalisti stessi.

Infine, un altro fattore da ricordare è quello dell’invenzione di settori di mercato sempre nuovi, i quali, pur spesso superflui rispetto alle reali esigenze di consumo della popolazione, sono comunque strettamente necessari per creare nuovi spazi di espansione finanziaria del capitale, in un panorama in cui le prospettive di crescita dei mercati dei prodotti primari, o di quelli che comunque hanno alle spalle una lunga storia e un lungo sviluppo, siano oramai in via di esaurimento.

Detto in altri termini, se non si può più spremere danaro – ad esempio – dal mercato del pane, si cerca di espandere quello della ristorazione; oppure, se tutti i possibili acquirenti sono oramai forniti di vestiti a basso costo, si inventa o si incrementa il mercato dei vestiti 'alla moda' ecc. Tutto questo meccanismo ha, in un’ottica capitalistica, la funzione di fornire agli imprenditori nuove occasioni di crescita sia dei profitti che dei plus-profitti.

Marx aveva peraltro in qualche modo previsto questo tipo di sviluppi, laddove aveva profetizzato l’insorgere di un’"era della mercificazione del superfluo", dell’invenzione di nuove e spesso assurde fonti di guadagno, prodotto dell’ideazione di merci sempre più strane e inessenziali. Un’era che, per molti versi, sembra essere ormai giunta a compimento.

D’altronde, a onor del vero, bisogna anche ammettere che non è sempre facile distinguere ciò che è superfluo da ciò che non lo è. E ciò anche in considerazione del fatto che ogni epoca storica pone all’umanità dei nuovi problemi e delle nuove esigenze di sviluppo, le quali possono trovare nei mercati una valida valvola di sfogo.

Infine – last but not least – vi sono i cosiddetti "accordi di monopolio". Le fasi di sviluppo più tardo dell’economia capitalista vedono infatti, spesso, l’insorgere tra i produttori concorrenti di patti di carattere corporativo (di solito clandestini e illegali, in quanto considerati sleali nei confronti degli acquirenti) finalizzati a tenere artificialmente alti i prezzi delle merci e con essi, i profitti e i saggi di profitto derivanti dalla loro commercializzazione.

Il principio che sta a base di tali patti è quello secondo cui, se le aziende concorrenti anziché farsi la guerra tra loro si accordano reciprocamente sul prezzo dei prodotti, gli acquirenti non possono che prendere atto di una situazione che non presenta alternative, rassegnandosi ad acquistare più o meno indifferentemente i prodotti dall’una o dall’altra di esse. In tal modo ogni azienda tende a mantenere inalterato il proprio bacino di utenza, senza peraltro essere costretta a diminuire il prezzo dei propri prodotti.

Tale accordi presuppongono però delle condizioni che non sempre si realizzano e che, anche quando ciò avvenga, non sempre riescono a essere mantenute a lungo. Anzitutto è necessario, perché tali accordi possano essere stipulati, che vi siano pochi concorrenti, ovvero un ristretto numero di produttori che si sono appropriati della totalità (o quasi) dei mercati relativi ad un determinato tipo di prodotti (situazione di oligopolio).

In secondo luogo, anche laddove una tale condizione si sia realizzata, sempre aperta rimane la possibilità che uno dei sottoscrittori del patto scelga di violarlo, abbassando a sorpresa il prezzo delle proprie merci e aumentando i propri profitti, ma innestando anche nuovamente la spirale della concorrenza.

La fase monopolistica è, per Marx (e non solo per lui), una tappa obbligata dello sviluppo del capitalismo nelle sue fasi più avanzate. Ma tali strategie, anche se riescono effettivamente a ostacolare e a rallentare il processo di caduta dei plus-profitti, non possono comunque nascondere la crisi in atto all’interno dell’economia capitalistica matura – crisi che come si è detto prepara il terreno alla rivoluzione socialista, basata sull’abolizione della proprietà privata e della ricerca del profitto individuale a spese degli interessi della comunità.

Per concludere questa breve carrellata sul pensiero di Karl Marx, vogliamo ribadire ancora una volta – alla luce di quanto si è appena detto – la natura economicistica e fondamentalmente deterministica del suo pensiero, basato sull’idea di una logica intrinseca nella trasformazione delle società umane, le cui fasi mature sono già in qualche modo inscritte in quelle iniziali. È chiaro inoltre il debito marxista nei confronti della dialettica e dello storicismo hegeliani.

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Adriano Torricelli - Homolaicus - Contatto - Sezione Economia


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Aggiornamento: 12/09/2014