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XEPEL

La nascita del modo di produzione asiatico
raccontata dalla Bibbia

Le prime esperienze di civiltà che diedero storicamente luogo a uno Stato furono le società a modo di produzione asiatico, a partire da quella sumerica poi diffusa con varie modalità in tutta l’area medio-orientale e mediterranea, dalla Grecia all’Egitto, dall’India al Nord-Africa. La nascita delle prime formazioni statali comportò cambiamenti rivoluzionari nella situazione dell’umanità a tutti i livelli, dalle strutture economiche alle forme ideologiche prevalenti. Soprattutto, accelerò lo sviluppo di tutte le popolazioni, poiché il sorgere di uno Stato costrinse tutti i popoli vicini a reagire oppure a finire schiacciati, considerato che tra le altre novità permesse dal sorgere degli Stati asiatici, l’accresciuta potenza militare non fu tra le meno importanti. Tutti i capitribù dall’Arabia all’Indo, sognarono di farsi re, trasformare le proprie capanne in palazzi, i propri sepolcri in piramidi, i propri servitori in armate. Per la prima volta, la legge dello sviluppo combinato, che spinge le zone arretrate a saltare o tentare di saltare fasi storiche per raggiungere le punte più avanzate dello sviluppo, influenzò decisivamente la storia dell’umanità[1].

Naturalmente, imitare non basta. In assenza delle condizioni (materiali e non) necessarie a uno sviluppo endogeno di determinati rapporti sociali, la loro importazione dall’esterno può sopravvivere solo sotto forma di guscio vuoto, a meno che non ponga capo a una effettiva trasformazione delle condizioni stesse. Il processo non è meccanicamente predeterminato in una direzione: dall’esistenza delle condizioni necessarie allo sviluppo. Ma perché lo sviluppo crei per certi versi le proprie stesse condizioni occorrono consistenti aiuti dall’esterno, occorrono cioè che le condizioni siano mature almeno a livello generale dell’area complessivamente intesa. Ciò non toglie che tale sviluppo, per certi versi eterodiretto, risulti peculiare e dia luogo a fenomeni di commistione tra epoche e rapporti sociali. Si pensi all’arrivo dei mercanti capitalistici nelle zone arretrate di tutto il mondo, dalla Compagnia delle Indie alle multinazionali del XXI secolo. Per questo l’imperialismo, ossia l’esportazione dei rapporti di produzione capitalistici a tutto il globo, ha prodotto fenomeni economici, politici, ideologici nuovi.

Un processo del genere avvenne sistematicamente nella Palestina dei primi millenni avanti Cristo, considerata l’influenza oppressiva quando non la diretta ingerenza dei potenti Stati asiatici contigui. Tale minacciosa e costante presenza fornisce però anche un modello di sviluppo già pronto per i popoli nomadi o semi-nomadi che vivono tra la penisola araba e il deserto del Sinai, che i leader più intraprendenti di queste tribù cercano di imitare per acquisire almeno parzialmente un potere che gli doveva sembrare ed era immenso rispetto al loro di capi pastori, tanto da configurarsi come il rapporto tra uomini e divinità creatrici.

Di queste tribù mediorientali che da nomadi si fanno stanziali una è diventata particolarmente e a volte involontariamente famosa trasformandosi nel popolo ebraico. Risulta particolarmente interessante seguire le vicende degli ebrei a partire dai loro testi sacri, noti in occidente come la Bibbia. Si tratta di testi la cui storicità è notoriamente assai diseguale. Vi si narrano singoli episodi probabilmente accaduti accanto a miti, per giunta adattati spesso malamente da altre culture. Il debito che nell’ideologia religiosa gli ebrei hanno verso le civiltà confinanti (e tipicamente dominanti) non è però casuale, è il riflesso di quel processo di imitazione di cui si è detto sopra. Si può dire che l’essenza della storia narrata dalla Bibbia è il tentativo di una generazione dopo l’altra di capi-tribù di farsi faraoni o re mesopotamici, di prendere posto, insomma, vicino a chi contava nelle varie epoche. È anche la storia, cercheremo di spiegare, di come questi tentativi, in assenza delle condizioni necessarie per il loro sviluppo, abbiano più volte naufragato, sia per un crollo interno, sia per interventi dall’esterno.

Quello che colpisce dei testi sacri degli ebrei, al di là della loro interpretazione successiva e del tutto estranea a quel contesto storico fornita dal cristianesimo, è il tentativo di prendere dalle culture vicine quanto occorre per costruire un proprio bagaglio ideologico su cui innestare la nascita di uno Stato indipendente. Trattandosi di un popolo nomade estremamente debole, per lunghi tratti della propria storia privo di un territorio o addirittura deportato in altri paesi, l’identificazione avviene attraverso un’ideologia nazionale, che seppure non originale, diviene un tratto distintivo, anzi il tratto distintivo del popolo ebraico.

Si ha così un processo che procede per certi versi rovesciato. La cultura di questo nascente, e spesso solo tale, Stato asiatico in Palestina non è il portato dello sviluppo delle condizioni lì presenti, ma il prodotto dello sviluppo di tutta la regione, a cominciare dall’Egitto, da dove gli ebrei apprendono che cos’è uno Stato asiatico e quali forme ideologiche assume. In mancanza del primo, i capi ebraici partono con le seconde e le mantengono o cercano di mantenerle. Laddove molti re, si pensi a quelli persiani ma anche agli stessi faraoni, basando il proprio potere su forze materiali inconfutabili (lo Stato, l’esercito, la casta dei funzionari) possono permettersi generosità verso i culti altrui, hanno anzi tutto l’interesse all’ecumenicità delle loro vedute, riflesso della multi-etnicità del proprio impero, gli ebrei devono difendere con le unghie e con i denti la propria debole identità. Minuscolo insieme di tribù in mezzo a potenti regni, gli ebrei si aggrappano alle proprie tradizioni, per giunta prese a prestito dai vicini, per sopravvivere. Nel far questo descrivono per così dire gli ingredienti del sorgere dello Stato asiatico in forme, seppur ideologiche e distorte da secoli di riscrittura dei testi, importanti per comprendere il significato e la funzione di aspetti decisivi di quel modo di produzione. A questo scopo servirà la lettura che qui faremo della Bibbia, procedendo nell’ordine con cui le opere vennero presentate.

Ogni popolo ha una propria leggenda sulla nascita del mondo e dunque di se stesso che lo lega, come progenie speciale, al Dio creatore. Nel caso della Bibbia, questa storia è molto confusa per via delle diverse tradizioni che vi confluiscono[2]. Addirittura, il racconto della creazione è, come noto, descritto due volte in maniera completamente differente. Per quello che ci interessa in questo lavoro, è importante rilevare l’influenza sumerica leggibile nel passo legato al ruolo che Dio[3]dà all’uomo “poi il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo lavorasse e lo custodisse” (2, 15), che ricorda il mito sumerico in cui l’uomo viene creato per far riposare gli dei. Questa influenza è visibile anche nel passo in cui Dio, o meglio gli dei, comprendono che il loro prodotto, l’umanità, non è influenzabile come pensavano: “ecco che l’uomo è diventato come uno di noi, conoscendo il bene e il male. E ora facciamo sì che egli non stenda la sua mano e non prenda anche l’albero della vita, così che ne mangi e viva in eterno” (3, 22). Questo passo dice molte cose. Testimonia innanzitutto il politeismo della Genesi in linea con le tradizioni mesopotamiche da cui attinge, ma testimonia soprattutto la natura asiatica della società da cui la leggenda è tratta. Si noti infatti che il punto dolente è la conoscenza non la proprietà. Ciò che il capo di questa cultura, Dio, rimprovera, a dire il vero un po’ meschinamente, ai propri protetti è che hanno osato farsi come lui apprendendo e non appropriandosi, hanno rubato conoscenze non beni, un ragionamento tipico di una società basata appunto sulle conoscenze delle caste (sacerdotali, funzionariali) e non sul dominio delle terre da parte di proprietari privati.

Scacciati dall’Eden, per gli uomini iniziano i guai e anche i delitti. Caino uccide Abele pastore nomade che gli rovina le terre. Questo dimostra che si è mantenuto un ricordo seppur leggendario del fatto che gli agricoltori e i pastori provenivano dalla stessa radice comune ma che per ragioni obiettive iniziarono a sviluppare interessi materiali differenti. È anche storicamente indubbio che i pastori ebbero la peggio e furono cacciati ai margini dei territori coltivati, dove vegetavano quelli che i bianchi trovarono lungo il XIX e XX secolo.

Come noto, la Genesi connette i contrasti tra i due fratelli ai sacrifici. Questo particolare può sembrare irrilevante in quanto, ovviamente, del tutto sovrapposto al residuo di vicenda storica, ma è invece decisivo. Lo si capisce ancora meglio avanzando sino all’epoca di Noè, il “giusto”, che viene salvato con la sua famiglia dal diluvio universale, di cui è appena il caso di ricordare le radici mesopotamiche. Quando le acque si ritirano, Noè edifica un altare al Signore e gli offre molti animali. Ed ecco che Dio “ne odorò la soave fragranza e disse in cuor suo ‘io non tornerò a maledire il suolo per cagione dell’uomo’” (8, 20). È difficile abbassare la statura morale del creatore dell’universo a una tale grettezza (è sufficiente l’aroma di carne arrostita per corrompere il suo animo), ma ovviamente qui si parla di altro, si parla dei sacrifici stessi[4]. L’essenza del sacrificio, sfrondata dall’ovvio rituale magico di ingraziarsi la divinità, aspetto che dura tuttora, è che da luogo a un’accumulazione forzata nelle mani della casta sacerdotale che, dopo aver bruciato carne al Dio, trattiene tutto il resto. Come vedremo, il fatto che si parli così da principio della funzione dei sacrifici non è un caso.

La terza ondata, dopo Adamo e Noè, è quella di Abramo. Qui scendiamo dalla vaga leggenda orientale all’insignificante banda di predoni nomadi raccolti attorno a un patriarca. La cosa che colpisce nel racconto di Abramo è che a differenza di quanto uno si potrebbe aspettare circa il suo coraggio e la sua rettitudine, di quest’uomo viene tramandata ogni nefandezza possibile. Sotto il profilo storico non vi è molto altro da dire. Si tratta appunto di una banda nomade che vive negli interstizi dell’impero egizio, elemosinando qualche pascolo marginale. Dalla visita in Egitto, oltre alle merci vinte cedendo la moglie all’harem del faraone (costume comune alle tribù palestinesi nei confronti degli imperi confinanti), Abramo riceve l’idea della circoncisione.

Con l’episodio di Isacco viene stabilito che il primogenito è del Signore, ovvero dei sacerdoti. Ciò permette, come principio, alla casta sacerdotale di poter fruire di una forza-lavoro non indifferente, appunto i primogeniti di ogni famiglia, e di accumulare un certo surplus, i primi nati di ogni animale domestico della tribù. Storicamente di basso profilo risulta la narrazione delle gesta dei discendenti di Abramo, che continuano a essere descritti come una banda di pastori disonesti, che cercano con ogni mezzo di farsi strada nelle difficili situazioni del tempo. Di primaria importanza è invece il racconto delle gesta di Giuseppe. Tolta la mistica dei sogni, comune a moltissime culture, l’aspetto centrale è che la carestia è la giustificazione della proprietà pubblica del suolo e del grano. È interessante che si specifica l’aspetto pianificatorio del calcolo: “Giuseppe ammassò il grano come la sabbia del mare, in quantità assai grande, così da dover cessare di farne il computo perché era incalcolabile” (41, 49), il che dimostra che si era davvero in pieno modo di produzione asiatico e Giuseppe era un visir o addirittura il gran visir dell’impero egizio. Ciò dimostrerebbe che già allora la selezione dei funzionari avveniva per merito, dato che difficilmente Giuseppe poteva essere nato in una famiglia di qualche peso nell’élite egizia. La Genesi sostiene anche che Giuseppe ammassò tutto il denaro che si trovava nella regione vendendo il grano, affermazione che appare piuttosto una rivisitazione successiva, dovuta al fatto che quando l’opera venne composta nessuno si ricordava più di come funzionavano i palazzi egizi e i relativi rapporti di produzione vengono mercantilizzati. Fatto sta che qualche ebreo fa fortuna. Mentre infatti i fratelli di Giuseppe restano nullità (al cospetto del faraone che gli chiede quale sia il loro mestiere essi rispondono: “pastori di greggi sono i tuoi servi”), alla sua morte Giuseppe viene addirittura imbalsamato e posto in un sarcofago, segno che nella comunità ebraica in Egitto si era giunti a una chiara differenziazione sociale.

La differenziazione sociale si interseca con il problema dell’oppressione nazionale. Non è chiaro se davvero gli Egizi temevano la numerosità degli ebrei o in essi vedevano il nucleo di una possibile rivolta sociale sotto i Ramessidi. Di sicuro “l’Egitto sottopose i figli d’Israele a un lavoro massacrante” (1, 13). Mosè, il salvato delle acque, come molti altri leggendari fondatori di regni, ci viene comunque presentato di cultura se non di stirpe egizia e dalla civiltà dei faraoni pesca a piene mani per prefigurare lo Stato ebraico[5]. Da subito, Mosè associa a sé suo fratello (probabilmente non di sangue) Aronne, il sacerdote. In ciò imita la casta dominante egizia, che è appunto fatta di guerrieri-amministratori e sacerdoti-scribi. Mosè scappa nel deserto (la Bibbia ci dice, inverosimilmente, con oltre 600.000 uomini) e si trova in un’impasse totale.

Il racconto mosaico è ovviamente una ricostruzione successiva, ma è interessante notare che tipo di nascita dello Stato la casta dominante immagina per il proprio passato. Senza le minime condizioni materiali per costruire un’autorità stabile, il clan raccolto attorno a Mosè non può che importare dall’Egitto solo i segni esteriori del potere non già le sue basi. Così si narrano continue rivolte soffocate nel sangue dopo che Mosè aveva imposto leggi e giudici molto severi. In mezzo a vendette e lapidazioni, le nuove norme trovano però il posto per un briciolo, appena uno, di umanità: “non opprimerai lo straniero: voi conoscete la vita dello straniero, perché foste stranieri in terra d’Egitto” (23, 9). Sarebbe d’altra parte suonato un po’ ridicolo per dei nomadi senza terra opprimere gli stranieri, cioè i residenti delle terre da occupare.

Gli aspetti salienti della legge mosaica sono l’accentramento del surplus in mano alla casta sacerdotale ottenuto, da un lato, con le offerte della popolazione, più o meno spontanee, dall’altro con il divieto per i leviti di ereditare e dunque di frazionare il surplus accumulato. Per cementare l’alleanza con Jahvè la popolazione è costretta a delle offerte in natura che, se non date spontaneamente, comportano requisizioni forzate. Queste offerte consentono, o dovrebbero consentire, di costruire i templi, primi palazzi del potere. Ma gli ebrei vagano ancora nel deserto, dunque, al posto di un edificio, la casta sacerdotale incarna il suo potere in un simbolo in movimento, l’arca dell’alleanza. In pratica, tutto ciò che viene accumulato e che in altre civiltà era il tesoro del tempio, qui veniva trasportato, era una cassa piena d’oro. La Bibbia espone anche un calcolo del costo del tempio: “tutto l’oro impiegato per il lavoro, in tutta la costruzione del santuario, oro presentato in offerta, fu di ventinove talenti e settecentotrenta sicli” (38, 26), una cifra inimmaginabile per una tribù nomade. L’oro però, è solo il controvalore di offerte che avvengono in natura. In questo senso la legge mosaica ribadisce che ogni famiglia deve “riscattarsi” di fronte al Signore. Il riscatto viene determinato all’atto del censimento, altra abitudine mutuata dagli Egizi e avviene, secondo la rilettura biblica, già in valore di scambio (mezzo siclo a persona). Non avendo terra, il popolo non può che riscattarsi con l’unica cosa che ha: il proprio lavoro, incarnato dalle corvée obbligatorie e dal primogenito. In questo senso, la legge di Abramo e di Mosè fornisce una delle prime definizioni letterali di proletariato.

Mosè è descritto dunque come intento a costruire uno Stato asiatico, plasmato sull’Egitto dei faraoni, ma con caratteristiche specifiche determinate dalla realtà degli ebrei nel deserto. Nomina il suo braccio destro, Aronne, capo dei sacerdoti, carica ereditaria all’interno del clan dominante: “le vesti di Aronne passeranno ai suoi figli dopo di lui” ammonisce Dio (29, 29). La durezza delle condizioni nel deserto, come detto, non potevano portare il popolo ebraico a una grande considerazione per la cricca di Mosè, come emerge nell’episodio del vitello d’oro a cui partecipano addirittura i leviti (e Aronne in persona). Fatto sta che in quella circostanza si intravede il taglio dei legami di clan: al popolo è chiesta l’obbedienza allo Stato e ai suoi capi, non alla famiglia e alla gens. Così Jahvè dice ai suoi “metta ognuno la spada al fianco, passate e ripassate da porta a porta nell’accampamento e uccidete a chi il suo fratello, a chi il suo amico, a chi il suo vicino” (32, 27). Materialmente, le squadre agli ordini dei leviti vengono consacrate come la struttura che detiene il monopolio della violenza, sono cioè l’ossatura dello Stato e dell’accumulazione palaziale.

Non a caso, il successivo libro è appunto il libro dei leviti. Il potere mosaico ha vinto e chi era stato descritto come felice di scappare dalla padella della schiavitù egizia si ritrova ora nella brace dell’oppressione di casta guidata dai due fratelli Mosè e Aronne, la spada e i salmi, il tempio e il palazzo. Questa opera è dedicata a spiegare in forma particolareggiata come si fanno i sacrifici, ovvero le modalità di concentrazione del surplus (essenzialmente agricolo) nelle mani dei sacerdoti: (ad es.: “quello che resta dell’oblazione appartiene ad Aronne e ai suoi figli”, 2, 3). La spiegazione riguarda non solo il quantum ma anche il come: “i figli di Israele, invece di offrire i loro sacrifici in campagna, li porteranno al Signore all’ingresso della tenda del convegno, al sacerdote” (17, 5). Questo è curioso, dovendosi pensare che Dio è in ogni luogo, ma acquista senso se si pensa che il nascente Stato ebraico non poteva che concentrare i propri sforzi nell’edificazione urbana, al pari di ogni altro regime palaziale dell’area. Il problema è che la fase di accumulazione originaria, chiamiamola così in analogia al periodo di nascita del capitalismo, era da tempo terminata nei paesi limitrofi (Uruk o Tebe, ai tempi di Mosè, dovevano esistere già da millenni). Le difficoltà sono dunque molto maggiori.

Quanto ai precetti propriamente religiosi, il libro descrive i tabù, che sono numerosi e dettagliati[6], e alcuni principi fondamentali quali il rispetto del sabato, dell’anno sabbatico (cioè la limitazione a 7 anni della schiavitù di altri ebrei), la legge del taglione, il giubileo (cioè la limitazione a 7x7 anni della proprietà della terra). Le punizioni descritte sono spesso in denaro, il che potrebbe segnalare la contaminazione del modo di produzione asiatico ad opera dei rapporti mercantili oppure una rielaborazione successiva. Merita infine un’annotazione il problema della natura completamente immanente del rapporto tra Jahvè e il popolo eletto. Premi e punizioni per gli ebrei sono sempre materiali (raccolti e pascoli numerosi, oppure carestie ed epidemie). I vaghi riferimenti a ricompense ultraterrene sono assolutamente marginali. Tutti questi precetti sono, come ricordato, largamente attinti alle culture della zona, ma la loro elencazione in un quadro strutturato persegue lo scopo di identificare la tribù ebraica rispetto ai vicini, l’obiettivo è dunque di vietare in ogni modo la contaminazione se non con quei popoli che si sottomettono (e accettano dunque la circoncisione e le altre norme mosaiche). Questa rigidità che sfocia nel razzismo è necessaria per non disperdersi di fronte a popolazioni numericamente assai superiori.

Il termine deriva dal censimento degli ebrei che risponderebbe all’obiettivo di sapere su quale forza-lavoro i capi possano contare. Nonostante debba descrivere un periodo di rafforzamento del potere centrale, il censimento è chiaramente effettuato ancora “per case” cioè per gens e tribù: “ognuno presso la propria insegna, secondo le loro schiere”. Siamo dunque a prima di Clistene e anche di Solone. Si parla di circa 600.000 persone (le stesse presumibilmente fuggite al faraone) più i leviti, unici autorizzati al sacerdozio a pena di morte, che vengono valutati in 22.000 circa, cioè il 3% della popolazione. Viene nuovamente sottolineata l’esigenza di centralizzazione del surplus verso la casta sacerdotale: “ciò che uno da al sacerdote, a questo apparterrà” (5, 9).

L’idea di fondo è che i sacerdoti leviti devono essere pagati perché offrono un servizio essenziale, quello di placare Dio e di interpretare i suoi voleri. Avendo questo lavoro a tempo pieno, i sacerdoti sono espressamente esentati dalle altre mansioni: “i leviti: da venticinque anni in su verranno a schierarsi in servizio per il lavoro nella tenda del convegno e da cinquanta anni in poi si ritireranno dall’esercizio del lavoro e non lavoreranno più. Serviranno i loro fratelli nella tenda del convegno per conservare le osservanze e il lavoro. Non lavoreranno” (8, 24-26). Per sfamare questa forza-lavoro improduttiva, il popolo deve pagare con la primogenitura (sia come lavoro coatto, che come offerta di bestiame). È interessante osservare che in questa fase è Mosè a consacrare i leviti, dunque il potere sacerdotale sembra dipendere da quello militare-amministrativo.

Purtroppo per il condottiero egizio-ebraico, i suoi sforzi per conquistare un territorio alla sua gente non approdano a molto e così mentre Mosè predispone il funzionamento della casta sacerdotale, inizio dello Stato asiatico, il popolo si ribella più volte. D’altra parte Mosè aveva promesso una terra da dove trabocca latte e miele, mentre la terra promessa è abitata da “un popolo più forte di noi”, avvertono i suoi esploratori. La situazione è dunque drammatica: la vita nel deserto è difficile, tornare in Egitto significa la morte o la schiavitù e la terra promessa è già occupata. Ne consegue inevitabilmente il crollo dell’autorità di Mosè e di Jahvè, che si irrita per questa mancanza di fede ma si placa grazie all’intercessione di Mosè che però non dovette risultare del tutto efficace, dato che il libro spiega che gli esploratori “morirono di un flagello di fronte a Dio”, ovvero Mosè li fece uccidere perché non rivelassero la triste verità: la terra promessa era già occupata.

La nascita dello Stato ebraico appare così un processo contraddittorio di violenza e di sopraffazione, in cui il potere basato sulla norma mosaica non emerge linearmente. Le gens non sono disposte ad accettare una struttura centrale che non gli fornisce alcun servizio, come invece succedeva altrove, con le opere di canalizzazione, le mura delle città. Non basta proclamarsi prediletti da Dio, bisogna anche dimostrare di esserlo. Così quando si crea la casta sacerdotale, la ribellione è immediata. 250 capi, membri del consiglio e altri dirigenti vanno dai due (Mosè e Aronne) e dicono a chiare lettere: Dio è di tutti, “perché vi innalzate sull’assemblea del Signore?” (16,3), ovvero, perché state emarginando le istituzioni gentilizie?

A questo punto sarebbe interessante cercare nella storia tracce di difficoltà analoghe in situazioni simili (ad esempio nella nascita del potere minoico o del faraone), ma queste difficoltà non possono essere generalizzate a ogni processo di nascita dello Stato palaziale. Il dramma che viene ascritto alle opere di Mosè è infatti che nulla di buono questo può fare per il suo popolo. L’accumulazione è minimale, pertanto il fardello delle caste improduttive maggiore. Necessariamente ne deriva una repressione feroce. Ad esempio, la rivolta contro i due fratelli, che viene narrata in più libri e a più riprese, comporta il massacro di 15.000 persone, il 2,5% della popolazione. Che gli ebrei, emarginati dalle terre migliori, senza prospettive, dovessero giungere a una forma di miscredenza era inevitabile: “chiunque si avvicina alla dimora del Signore muore: dobbiamo forse morire tutti?” (17, 28). Ma implacabile, la casta dominante procede requisendo il poco che c’è, ovviamente su ordine del Signore: “Ai figli di Levi, ecco, ho dato tutte le decime in Israele come eredità” (18, 21). Ora, per una popolazione così povera, il 10%, unito al resto delle requisizioni coatte, doveva risultare un peso insopportabile in cambio del perdono che i leviti riuscivano a ottenere da Jahvè[7].

Il libro descrive più rivolte del popolo (usando sempre questo termine e non riferendosi a una specifica tribù) dovute alla mancanza d’acqua, di cibo e così via. Considerate le terribili condizioni di vita nel deserto è logico che alcune tribù si fondessero con i clan del luogo. Questo processo riduceva però la possibilità degli ebrei nel loro complesso di ottenere un territorio proprio. Per questo i dirigenti mosaici cercano di conservare le tribù unite a costo di ogni nefandezza. Si susseguono così descrizioni di massacri di ebrei sposati con tribù del luogo. Ad esempio Mosè fa uccidere 24.000 ebrei che si erano uniti ai moabiti. Poco dopo Mosè muove una guerra di sterminio contro i madianiti, uccide tutti gli uomini e fa schiavi donne e bambini, prendendosi tutti i loro beni. Si tratta, ovviamente, di esagerazioni senza riscontro storico ma il meccanismo sociale sottostante è chiaro: tanto più si accresce la ricchezza degli ebrei tanto più aumenta la fame della casta sacerdotale. Così il Signore ordina al popolo di consegnare ai leviti 48 città compresi i pascoli attorno. Ora, scontato il fatto che il termine città si riferisce ad aggregazioni urbane di minuscole proporzioni, rimane il fatto che si tratta di una quantità cospicua di terre.

Ecco la “seconda legge”, un libro che come tutto il Pentateuco dopo la Genesi, descrive precetti volti a consolidare il potere della casta dominante. La differenza è che qui il potere statale è descritto come più strutturato, e la popolazione come ormai stabilita in un luogo da tempo. Scema dunque il retaggio gentilizio mentre cresce quello della casta centrale (i giudici non sono più i capi del clan ma vengono scelti dall’alto, formalmente da Dio, in pratica sono i leviti che fungono da giudici).

I racconti di vittorie militari, di pura fantasia ancor prima che agiografici, sottolineano però una verità storica. Gli ebrei non potevano pregare altre divinità perché non potevano mescolarsi agli altri popoli. Questo dimostra come la monolatria sia la base di ogni razzismo e di ogni sterminio etnico. Ogni nefandezza è possibile perché si tratta del popolo eletto. Ma ciò è necessario perché “voi siete il più piccolo di tutti i popoli, ma il Signore vi ama” (7, 7-8).

Questo piccolo popolo che occupa un piccolo Stato deve comunque darsi una struttura piramidale: “sopra di me – dice Jahvè – voglio mettere un re, come tutte le nazioni che mi circondano” (17, 14). Questo passo è molto rilevante perché conferma la funzione dell’imitazione, o se vogliamo, della legge dello sviluppo diseguale e combinato. Il livello di sviluppo delle forze produttive degli ebrei non avrebbe mai permesso il sorgere dello Stato asiatico, ma questi Stati c’erano tutti attorno e per sopravvivere gli ebrei dovevano correre, senza contare che alla figura che la leggenda ci ha tramandato come Mosè veniva l’acquolina in bocca all’idea di diventare un faraone, sia pure su piccola scala.

I leviti si prendono le primizie e i primogeniti, e giunti alla terra promessa, spingono per la soppressione dei santuari locali: si crea un santuario centrale, riflesso della centralizzazione del potere. La decima però era solo triennale, anche se non è chiaro che ciò indicasse il 10% ogni 3 anni (ovvero, nell’ipotesi pacifica di uno scarso sviluppo delle forze produttive, circa il 3% annuo effettivo, o il 10% di tre anni pagati posticipatamente).

Il libro cita gli Idumenei come unico popolo da non sterminare in quanto come fratelli. Dato che si tratta di un popolo di origine egizio, ciò indicherebbe, se vi è una qualche valenza storica della cosa, che la casta dominante era in buona parte egizia.

Nel famoso secondo discorso di Mosè, dove ribadisce i comandamenti (di origine egizia pure quelli), viene confermata la morte delle gens e la nascita del popolo: “Mosè e i sacerdoti leviti parlarono a tutto Israele: ‘Taci e ascolta Israele. Oggi sei divenuto un popolo per il Signore” (27, 9).

Dopo questo testo si passa ai libri “storici”, opere cioè che parlano di un periodo in cui la leggenda ha già molti tratti reali e che spaziano dal XIII secolo fino al I a. C. Trattando di un popolo che rimaneva debole e circondato da nemici assai più forti, l’accento è sempre sull’isolamento nazionalistico, sull’uso della religione come elemento unificante anche nelle avversità e dunque sul corrispondente predominio dei sacerdoti nell’apparato statale.

Dunque Mosè muore e tocca al suo successore portare gli ebrei in Palestina. Secondo la Bibbia si trattava di 40mila “in assetto di guerra” (ricordiamo che erano usciti dall’Egitto in oltre 600mila), segno che vagare nel deserto non aveva portato molta fortuna…ed erano anche divisi, poiché c’erano molti incirconcisi. Dio li aiuta a prendere Gerico dove “sterminarono tutto quanto era nella città, uomini e donne, giovani e vecchi, perfino i buoi e gli asini passarono a fil di spada” (6, 21), vedi che bel popolo eletto. Nella battaglia di Gabaon per continuare a massacrare i nemici, Giosuè dice al Sole di fermarsi: “O sole, fermati su Gabaon…e il sole si fermò” (10, 13), che come dimostrazione di monolatria è un po’ povera. Comunque gli ebrei continuano le operazioni di rigorosa pulizia etnica (il testo ripete in continuazione che non furono lasciati superstiti e che gli ebrei devono restare separati dagli altri).

Giunti nella terra promessa, le tribù si dividono. Ma il potere sacerdotale rimane intatto. Il libro inizia così: “dopo la morte di Giosuè gli Israeliti consultarono il Signore per sapere chi di loro dovesse muovere a combattere contro i Cananei. Il Signore rispose…” (1,1). Va da sé che “il Signore” erano i sacerdoti. Queste tribù bellicose che sterminano i vicini non riescono però a tenersene completamente separate e questo si riflette nelle tristi lamentazioni sul fatto che pregavano anche altri dei. Questo provocava la collera divina, in quanto l’assimilazione significava, per una così piccola popolazione, la scomparsa. Questo segna un ciclo storico degli ebrei: trionfo-occupazione-dimenticanza di Dio-punizione-crollo-perdono-nuovo capo-nuovo trionfo, ecc.

Anche se molti hanno identificato Mosè con la nascita dello Stato ebraico, la realtà è che le tribù israelitiche non possedevano uno Stato vero e proprio, forse lo avevano ma si era perso. I clan più forti cercano di farsi monarchi ma non certo con la forza. Infatti re Abimelech viene eletto, presumibilmente dall’assemblea dei capi clan e dura solo tre anni. Dopo c’è un periodo di guerra per bande non riconducibile a intrighi di corte di uno Stato vero e proprio. Appare chiaro che le conquiste mosaiche non erano sufficienti ad accumulare le risorse per uno Stato, al massimo per una banda di predoni. A volte tribù erranti si sono fatte Stato, ma conquistando territori ampi e ricchi, non una città palestinese dell’epoca. Mosè dunque è indicato come un principe d’Egitto che ha cercato di innestare il modo di produzione asiatico in Palestina fallendo, e infatti nemmeno vi arriva. Si susseguono, dopo di lui, i condottieri che promettono di liberare gli ebrei, ma senza risultato anche perché nel frattempo sono arrivati i filistei. Come ai tempi di Mosè, gli ebrei oppressi dai filistei cercano un condottiero e lo trovano in Sansone, ma le sorti di questi eroi rimangono alterne a dir poco. Si noti che giungendo a tempi storici non sempre i numeri si fanno realistici. Anche se gli uomini non vivono più secoli ma decenni, a volte gli eserciti sono comunque descritti come enormi. Ad esempio, l’assemblea di Mizpa cita 400.000 fanti, una cifra che Tsahal avrebbe difficoltà a mettere assieme anche oggi.

Si continua a parlare dei maggiorenti ebrei che sono giudici. Una carica politica decisiva e non elettiva. Si dice infatti che “Samuele fu giudice su Israele per tutto il tempo della sua vita (7, 13) e anche che “quando diventò vecchio, costituì i suoi figli giudici d’Israele” (8, 1). Di nuovo il popolo vuole un re, ci dice la Bibbia, ovvero, piuttosto, una casta cerca di farsi monarchia e Samuele riferisce le parole del Signore al popolo circa una sorta di patto tra re e popolazione su diritti e doveri reciproci (si parla della decima e dei funzionari necessari all’amministrazione statale e conclude che “voi stessi diventerete suoi schiavi”, 8, 17). Il prescelto è Saul, figlio di un famoso soldato, alto e bello, che viene consacrato da Samuele, giudice e sacerdote. Non si tratta dunque di un potere indipendente. Che il popolo sia ancora diviso in gens lo dice testualmente la Bibbia che quando chiama il popolo davanti al re spiega “or dunque presentatevi davanti al Signore per tribù e per casate” a dimostrazione che le annunciate riforme mosaiche e post-mosaiche erano solo sulla carta. Saul viene presentato come re prescelto da Samuele che però sembra pentirsi della scelta e infatti dice: “il male che avete fatto chiedendo per voi un re è grande agli occhi del Signore” (12, 17), forse la rapacità dei sacerdoti era tale che persino un monarca veniva visto come il male minore dal popolo.

Sebbene si tratti di periodi storici, alcune esagerazioni rimangono. Così si parla di 30.000 carri farisei, un numero che avrebbe fatto invidia a Tutmosi stesso. Di sicuro, i popoli costieri sono più forti e costringono Saul a combatterli per quarant’anni. Di nuovo vediamo che il regno asiatico palestinese è così debole che spinge a continui rivolte popolari. Tale debolezza spiega anche perché quando Saul si rivolge a Samuele (cioè quando viene descritta la relazione tra potere sacerdotale e militare) sembra di poter dire che il primo sia maggiore perché più importante ai fini dell’accumulazione, ma potrebbe anche dipendere dal fatto che la storia è stata rielaborata dai preti e non dagli ufficiali. Così è il sacerdote che sceglie Davide per sfidare il gigante Golia.

In definitiva, possiamo dire che anche in questi testi vengono descritti i tentativi infruttuosi degli ebrei di darsi una struttura statale. Lo stesso Davide, dopo l’impresa contro i farisei, diventa un capobanda che attira sbandati e fuoriusciti di ogni genere per cercare ferocemente bottino: “Davide non lasciava vivo né uomo né donna” (27,11) e mentre Davide continua la sua guerra di guerriglia, Saul è sconfitto dai filistei e si fa uccidere.

A differenza del mondo greco, nel mondo semitico si raccontano rari amori omosessuali. Fa eccezione l’elegia di Davide per Gionata. Saputolo morto, dice “era meraviglioso per me il tuo amore, più dell’amore delle donne” (1, 26), affermazione che pare inequivoca.

L’elezione di Davide a re di Israele dipende dalle tribù. Che cosa i capi-tribù apprezzano di Davide e rimproverano a Saul? Essenzialmente la tattica militare. Saul voleva farsi faraone o lugal e combatteva i farisei in campo aperto, rimediandone sonore sconfitte. Davide, con la sua agile guerra di guerriglia ottiene dei successi. A prescindere dall’esistenza di questi personaggi, il dato storico è chiaro: gli ebrei non avevano ancora un esercito e un territorio. Mirabilmente il tutto è sintetizzato nel famoso salmo riferito a Davide: “Dio mi salvò dal mio potente nemico, dai miei avversari, perché più forti di me” (22,18). Ad ogni modo, Davide, che pure, assicura la Bibbia, amministra “rettamente la giustizia a tutto il popolo”, deve affrontare ben presto rivolte: “il popolo uscì in campo contro Israele” (18,6) che reprime facendo 20.000 morti. Un massacro enorme eppure non risolutivo perché le rivolte si susseguono: le tribù non vogliono un re unico. Continuano le esagerazioni numeriche: secondo il censimento fatto da Ioab a quell’epoca tra Israele e Giuda c’erano 1.300.000 uomini abili, perciò una popolazione totale di forse 3-4 milioni di abitanti, una stima fantasticamente in eccesso (forse anche di dieci volte), considerando che era il 950 a.C. circa, e che ancora oggi non siamo molto oltre.

Si narra qui del periodo di circa tre secoli che va da Davide all’esilio babilonese. Si parte da Salomone, figlio ed erede di Davide, messo al trono congiuntamente dal padre e dai sacerdoti. Subito dopo il re depone il gran sacerdote Ebiatar e lo caccia, descrivendo rapporti di forza che pendono in favore del re. Salomone diviene genero del faraone con un classico matrimonio dinastico che rafforza i tratti asiatici del regno. Il libro ci parla infatti dei funzionari del re e dei suoi dodici prefetti e questo schema sembra far progredire le cose dato che dopo secoli di massacri “Giuda e Israele erano numerosi come la sabbia del mare; mangiavano, bevevano e stavano allegri” (4,19). Il quadro è storicamente attestato: Israele regno vassallo del faraone, con ciò più importante dei regni confinanti “indipendenti”, come i filistei che gli rendono tributi, ma non presso i veri padroni della zona, come il re Chiram del Libano a cui Salomone consegna ogni anno enormi quantità di grano e olio (come si vede, anche se la Bibbia parla di tributi in denaro per periodi molto precedenti, non appena si citano reali tributi, questi sono ancora in natura). Il re è rappresentato come estremamente saggio e sapiente, giusto e lungimirante. Fa costruire il tempio (evidentemente secondo canoni egizi o mesopotamici) reclutando 30.000 lavoratori forzati (così vengono definiti) che manda nel Libano a prendere cedri. La Bibbia cita anche 70.000 portatori e 80.000 tagliapietre diretti da migliaia di funzionari agli ordini della monarchia.

Dopo 400 anni dalla fuga dall’Egitto, sembra dunque che l’eredità egizia sia finalmente realtà: un piccolo Stato asiatico. Ce lo ricorda proprio la costruzione del tempio, che come per le piramidi egizie o il palazzo di Cnosso, è il primo sforzo cosciente e organico di pianificare l’economia, in grado di creare dal nulla le strutture stesse della pianificazione. Oltre al lavoro forzato di centinaia di migliaia di uomini (almeno tanti ne sono citati, seppur non permanenti: i turni duravano un mese o due), il re accumula ogni ricchezza, dato che il tempio viene rivestito d’oro e di pietre preziose. Finito il tempio “Salomone costruì il suo palazzo portandolo a termine in tredici anni” (7,1). Sembra che in questa fase la monarchia si sia definitivamente emancipata dal peso delle gens, dato che il re semplicemente le convoca a corte per la festa. Per confermare la stretta derivazione egizia del regno di Salomone giova citare un paragrafo sui rapporti tra suocero e genero.

“Il faraone, re d’Egitto, era salito e aveva conquistato Ghezer; l’aveva incendiata, aveva massacrato i Cananei che l’abitavano e l’aveva data in dote alla figlia, moglie di Salomone. Perciò Salomone ricostruì Ghezer, Bet-Oron inferiore, Baalat e Tamàr nel deserto del paese, tutte le città da magazzini appartenenti a Salomone, le città per i suoi carri e i suoi cavalli…tutta la gente rimasta..e i loro discendenti che erano ancora rimasti nel paese…Salomone li ingaggiò nei lavori forzati fino ad oggi. Ma ai figli d’Israele non impose alcun lavoro forzato perché essi servivano come soldati…tra essi vi erano i cinquecentocinquanta capi dei prefetti che dirigevano i lavori di Salomone; essi comandavano la gente impiegata nei lavori.” (9, 15-23)

Si tratta dunque di un piccolo regno satellite del potere dei faraoni e costruito a immagine di quello. Gli effetti benefici della sudditanza verso l’Egitto sono richiamati nella costruzione di una storicamente improbabile flotta e nell’enorme ricchezza mobiliare (si parla di 666 talenti d’oro, una curiosa coincidenza con il numero satanico per eccellenza). Un altro beneficio del re ebreo è anche dato dalle 700 principesse e 300 concubine che fanno da contorno alla figlia del faraone. Ovviamente, queste cifre si riferiscono al faraone stesso, a cui i monarchi vassalli inviavano le figlie più belle. La saggezza leggendaria di Salomone traspare dal desiderio di integrare i popoli con cui veniva a contatto, qualcosa che nell’interpretazione sacerdotale è vissuta come idolatria di divinità altrui. Ad ogni modo, nonostante la saggezza, Salomone viene ricordato dalla Bibbia per il “pesante giogo” che aveva imposto al popolo (che, ricordiamolo, si limitava a prestare servizio militare). È il problema di sempre di quella zona: la burocrazia asiatica cerca di accumulare privilegi troppo rapidamente, Salomone però non è né Stalin che ha la forza di reprimere le rivolte contro l’accumulazione forzata, né Mao che punisce l’eccessiva rapacità della burocrazia cinese usando le masse: il regno si spezza in due. Lo scisma politico diviene subito religioso, Geroboamo crea dei sacerdoti non provenienti dalla casta levita (“presi dal popolo comune, che non erano figli di Levi”) e prega divinità delle alture (ma anche Roboamo aveva integrato il culto di Jahvè con quello di altri dei). Se il leggendario regno unificato di Israele era debole, i due staterelli post-salomoniani sono ancor più fragili. Così arriva il faraone e saccheggia il tempio portandosi via tutto. Si susseguono deboli re e profeti che perorano la causa dell’unità, come Elia che dice al popolo: o pregate per Baal o per Jahvè.

Per burlarsi dei sacerdoti di Baal Elia usa parole che possono ben estendersi a ogni divinità: “gridate più forte perché egli è certamente dio, però forse è occupato o ha degli affari o è in viaggio; forse dorme e deve essere svegliato” (18,27). Ed Elia li sgozza tutti (erano centinaia). Da notare questa meravigliosa metafora che rimanda al pensiero magico: parlando del popolo Aram dicono ad Elia che il loro è un Dio delle montagne e dunque se combattono in montagna perderanno, occorre sfidarli in pianura.

Continuano a succedersi deboli re mentre i profeti fanno miracoli. La debolezza dello Stato fa sì che la continuità delle tradizioni sia mantenuta dai profeti e dunque che la casta sacerdotale conti di più che in contesti più strutturati. La debolezza si vede dal fatto che in quattro secoli la dinastia che è durata di più non ha superato le due generazioni. Il re Ioas è saggio “perché il sacerdote Ioiada lo aveva istruito” ma da saggio non parte distruggendo gli altari del popolo. Dice però ai sacerdoti che tutto il denaro che viene dato ai singoli deve essere rimesso al centro per riparare i danni del tempio. Detto diversamente, l’accumulazione deve riprendere da dove la fine di Salomone l’aveva lasciata: non ai templi locali ma al palazzo. I sacerdoti acconsentono, certo ispirati dal Signore. Ad ogni modo, si arriva a un compromesso, dato che la Bibbia spiega che parte del denaro “era riservato ai sacerdoti”. Fatica davvero sisifea. Dopo pochi decenni irrompe un re assiro e distrugge tutto di nuovo. Secondo i costumi assiri, deporta il popolo locale e importa gente dall’Assiria (quelli che poi saranno noti come samaritani). Certo è curioso che Jahvè punisca gli ebrei poco inclini al monoteismo con genti squisitamente politeiste. Al regno di Giuda va poco meglio perché Sennacherib arriva anche lì. L’unica cosa che gli ebrei possono opporre alla potenza dei vicini sono i profeti, che però, al di fuori dei racconti mitici della Bibbia, poterono ben poco. I rapporti tra assiro-babilonesi e regno di Giuda sono gli stessi che c’erano stati tra il faraone e Salomone. Quando dall’Assiria arrivano degli emissari il re Ezechia gli fa vedere ossequiosamente tutto il palazzo, come ricorda il testi biblico “non c’è nulla dei miei magazzini che io non abbia fatto loro vedere” (20, 14) a dimostrazione che per quei re la potenza si misurava giustamente dall’accumulazione nel palazzo reale (come a Cnosso o a Ebla).

Per le ragioni spiegate il potere della casta sacerdotale è notevole rispetto ai popoli vicini, sono custodi della continuità dell’accumulazione. Così il re Giosia manda un suo funzionario dai sacerdoti perché gli consegnino l’argento con cui pagare gli operai che stanno riparando il tempio. Sebbene Giosia fosse pio e amato dal Signore, e avesse ucciso tutti i preti delle religioni avverse a Jahvè, nel mondo reale questi meriti servono poco. Così, quando il faraone Necao decide di sfidare gli assiri sull’Eufrate, Giosia prova a fermarlo “ma Necao lo uccise al primo incontro”, imponendo nuovamente un tributo a Giuda. Israele può solo passare da una sovranità all’altra: quando i faraoni vengono respinti, prevale il re di Babilonia che assedia e conquista la Palestina, deportandone capi e soldati “in numero di diecimila” oltre a vari artigiani a Babilonia, incendiando anche il palazzo e il tempio. Nabucodonosor pone così fine alle liti intestine degli ebrei.

Un testo poco interessante, si fa solo un elenco di capi. Si citano 38.000 leviti dei quali 24.000 dirigevano il lavoro del tempio, 6.000 scribi e giudici, 4.000 portieri e 4.000 “lodavano il Signore”. Tralasciando le dimensioni ma prendendo per buone le proporzioni, questo indicherebbe che i funzionari erano in tutto circa il 5% della popolazione maschile adulta e che dei leviti solo un 10% era propriamente parte della casta sacerdotale, mentre la gran parte aveva un ruolo produttivo o amministrativo. I 12 funzionari generali erano preposti alle 12 tribù (da cui probabilmente all’inizio provenivano) e alle diverse attività.

Sul presunto monoteismo ebraico tanto basti: “il tempio che voglio edificare deve essere grande, perché il nostro Dio è più grande di tutti gli dei” (2, 4)[8]. Questa fissazione per la ricostruzione del tempio può sembrare irrazionale per un popolo così povero e instabile, ma invece acquista senso se si pensa che il tempio è la chiave di volta dell’accumulazione iniziale di quella società. Costruito il tempio vi si accumula il surplus e per costruire il tempio si creano le strutture dell’economia pianificata necessarie a far procedere tutta l’economia. Non è dunque bigottismo o fanatismo o vanagloria, è davvero imperativo. A questo serve il tempio, come si vede ad esempio in questa indicazione successiva al tempo di Salomone: “allora Ezechia ordinò di preparare delle stanze nel tempio del Signore. Quando furono pronte, vi portarono i contributi, cioè le decime e le offerte sante, per porli al sicuro. Il levita Conania ne ebbe la sovrintendenza” (31,11), dal che si vede che non di proprietà si parla (la proprietà è del Signore), ma di “sovrintendenza” cioè di controllo, al più possesso. Di Ezechia si parla come di un re ricco, che accumulò tesori e che “possedette magazzini per il raccolto del grano, del mosto e dell’olio, e anche stalle per ogni specie di bestiame e ovili per i greggi. Fece costruire città ed ebbe bestiame minuto e grosso in abbondanza” (32,27). Un classico regno palaziale.

Divertente è il passo in cui Sennacherib si burla degli ebrei dicendo che tutti i popoli che lui conquistava dicevano che il loro dio li avrebbe liberati e mai succedeva. Allora quelli si arrabbiano perché parlava di Jahvè “come di uno degli dèi dei popoli della terra, che sono opera delle mani dell’uomo” (32,19).

Da qui in poi le opere citano la vita di funzionari al servizio dei persiani.

Grazie a Ciro e non certo a Jahvè (ma oggi gli ebrei non ammetterebbero mai di dovere qualcosa ai persiani...) gli ebrei se ne tornano a casa. Ma sorgono vari problemi. I rimasti avevano sviluppato una cultura propria, i ritornati avevano conservato più o meno la cultura originale. Ad ogni modo gli esuli sono valutati in oltre 42.000. La prima cosa che fanno appena tornano è ricostruire il tempio. Anche se ovviamente non possiamo aspettarci perfetta coerenza da un testo del genere, gli accenni agli “anziani” e in generale al peso delle gens dimostra di converso la scarsa forza del nascente (o rinascente) Stato ebraico. Esdra è un “sacerdote e scriba” di Artaserse, ovvero un funzionario sassanide che il re manda nello Stato vassallo per ricostruirlo sulla base delle tradizioni locali.

Si racconta la vita di questo funzionario: “coppiere del re” (1,11). Il suo compito è ricostruire le mura di Gerusalemme. Qui chi comanda è ancora più chiaro: “dal giorno in cui il re stabilì che io fossi loro governatore in terra di Giuda, cioè dall’anno ventesimo del re Artaserse fino al trentaduesimo, per dodici anni, io e i miei fratelli non mangiammo mai della provvigione del governatore” (5,14), una formula classica con cui i funzionari dimostravano la propria rettitudine. Va da sé che la ricostruzione delle mura è un atto, non certo solo simbolico, di ricostruzione dell’organizzazione statale, anche se di un paese vassallo. Tra le varie norme che compaiono in queste prime fasi c’è quella della decima ai leviti conservata nella “stanza della tesoreria” (il tesoro dei templi, come anche in Grecia).

Avere delle mura significa non solo ripararsi dai nemici (e la nascita delle città coincide con la costruzione di grandi mura, dalla Mesopotamia a Micene, con l’unica eccezione della civiltà minoica perché in quel caso era ben più di protezione il mare), ma anche accumulare, avere un luogo fisico e politico dove tenere insieme il surplus prodotto.

Simili vicende trattano il libro di Tobia e quello di Giuditta, mentre con Ester siamo già in piena epoca ellenistica, anche nel linguaggio (l’opera è composta nel 150 a. C).

Cambia decisamente il quadro con i Maccabei, dove si narrano delle lotte di liberazione, ovviamente ammantate da una battaglia per riscoprire la vera religiosità contro il paganesimo dilagante. Per certi versi i maccabei sono i primi no global, lottano contro l’ellenismo trionfante per difendere le proprie tradizioni. A ciò si unisce l’oppressione nazionale anch’essa con contenuti religiosi (l’entrata nel tempio, la trafugazione di oggetti sacri). Mattatia e il suo clan guidano la rivolta armata. Si raccontano le gesta militari di questi gruppi, per lo più rivolte contro altri ebrei poiché non avevano la forza per attaccare le forze regolari che erano dotate di elefanti e strumenti sofisticati, “un esercito straordinariamente grande e potente” (6, 41). Alla fine i capi della rivolta non possono che cercare protezione presso questa o quella potenza, come già i re ebrei prima di loro. Alla fine si alleano coi romani pensando che, essendo lontani, non li avrebbero infastiditi ma come la storia dimostrerà fecero il peggior calcolo politico della storia israeliana. Il secondo libro dei Maccabei é scritto in greco e i nomi sono tratti dalla mitologia greca (Giasone, Menelao, Lisimaco). Si narra già di una fase di sconfitta e dunque di sublimazione extra terrena (Dio ci ricompenserà non con terre ma in un’altra vita). Si criticano i costumi dei pagani e degli ebrei non osservanti (promiscuità sessuale, cibi a base di carne di maiale) ma è una condanna morale, senza nessun aspetto reale. L’impero romano aveva definitivamente distrutto ogni ipotesi di Stato ebraico anche solo in forma subordinata.

Finita la storia, la Bibbia espone quello che dovrebbe essere il succo di duemila anni di tribolazioni nei libri sapienziali. Di fatto sono passati in proverbio nei loro aspetti di passività (su tutte, la pazienza di Giobbe, probo e ricco possidente). L’Ecclesiaste (Qohelet) è in questo senso la giustificazione storica della passività, per certi versi simile al buddismo. Tutto si ripete sempre, niente cambia mai: “ciò che è stato è ciò che sarà. Ciò che è stato fatto è ciò che si farà, niente di nuovo sotto il sole” (1, 9). Anche l’idea che il sapere sia un male, acuisca solo il dolore è molto passivizzante. Nulla ha senso, è tutto solo dolore. E a proposito di vita dopo la morte, è molto socratico: “i vivi sano che devono morire, ma i morti non sanno nulla” (9, 5). Questa filosofia della passività viene ribadita nello scritto greco (del 50 a. C. circa) definito Sapienza. Anche qui nulla c’è dopo la morte: “per caso siamo nati e dopo morte saremo come se non fossimo stati…il corpo diventerà cenere, e lo spirito si disperderà come aura leggera” (2, 2-4). Un minimo di condanna sociale lo ritroviamo nel Siracide: “c’è pace tra iena e cane? E c’è pace tra il ricco e il povero? I leoni nel deserto vanno a caccia di onagri, così i poveri sono il pascolo dei ricchi” (13, 19). Però poi incoraggia a trattare duramente gli schiavi. Siamo evidentemente in un’epoca che precedette le grandi rivolte schiavili e la loro sublimazione ideologica, il cristianesimo.

L’ultima parte è infine costituita dai libri profetici, la cui origine è ovvia. Risvegliare le coscienze nei periodi di sconfitta.

Isaia è il profeta più famoso (anche se il libro è stato composto da diversi autori). La prima parte narra di un profeta che agisce attorno al 740-700 a. C. Si lamenta al solito del lusso e dei costumi perduti e descrive un mondo del tutto palaziale. Quando vuole sottolineare la caducità dei potenti dice: “i tuoi occhi contempleranno il re nel suo splendore, vedranno un paese immenso. Il tuo cuore mediterà con terrore: “dov’è lo scriba dov’è colui che pesa? Dov’è colui che conta le torri?” non vedrai più un popolo brutale, un popolo dal linguaggio oscuro e incomprensibile, di lingua barbara, che non si comprende” (34, 17-19). Inoltre, non c’è ancora moneta coniata , il metallo si pesa: “traggono l’oro dalla borsa, e pesano l’argento con la bilancia” (46, 6). Con Geremia siamo al periodo della deportazione a Babilonia (tra il 630 e il 590 a.C.). Anche qui si descrive un mondo pienamente palaziale con l’arrivo di Nabucodonosor e la sua corte di funzionari.

Molti profeti attaccano gli idoli, ovvero l’idea di materializzare la potenza divina. Dice ad esempio Baruc degli idoli che “se cadessero per terra, non si rialzerebbero da se stessi”. L’iconoclastia è certo un riflesso dell’impotenza. La concretezza di Dio, il suo incarnarsi in qualcosa di materiale significa la possibilità dei popoli invasori di catturarlo e trafugarlo (come fu spesso fatto con gli dei babilonesi). L’astrattezza della divinità ebraica riflette anche l’assenza di un territorio tradizionale di insediamento.

La cosa che colpisce dei libri profetici è che l’impotenza degli ebrei nei confronti dei popoli vicini spinge i profeti a scagliarsi contro il proprio popolo la cui élite non è in grado di difenderli e anzi si vende ai più potenti. Richiede dunque a tutti di sottomettersi a Jahvè, cioè alla casta sacerdotale. Vale la pena di chiudere questo scritto con un inno pacifista (attribuito a Michea) che, caso raro nella letteratura religiosa universale, non chiede a Dio di massacrare, distruggere, umiliare, ma di portare la pace:

“egli governerà numerosi popoli e sarà arbitro di potenti nazioni. Essi trasformeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non leverà più la spada contro un altro, né si eserciterà più alla guerra. Ciascuno sarà seduto sotto la sua vite e sotto il fico, senza esser molestato” (4, 2-3)

Se esistesse una divinità in grado di governare così gli uomini, certo varrebbe la pena pregarla.


[1] Per un’analisi storica eccellente e approfondita di tutta la materia si rimanda a M. Liverani, Oltre la Bibbia, (2003).

[2] Che la Genesi sia un miscuglio di storie lo rivela anche la semplice analisi dei nomi. Si parla di Nimrod, Babele, Accad, Assur, Ninive, popoli mesopotamici famosi e con minimi o nulli rapporti con gli ebrei. La stessa Torre di Babele indica la natura mesopotamica di tutto ciò che gli ebrei ricordano dei propri inizi.

[3] Come noto, la Bibbia si riferisce al Dio degli ebrei con termini differenti, anche se la cultura ebraica li identifica oggi tutti con Jahvè. I cristiani hanno poi sovrapposto a questo Dio (che gli ebrei distinguono sempre bene dalle divinità altrui) il loro, universale. In questo lavoro quando ci riferiamo al termine Dio intendiamo la divinità di cui narra il vecchio testamento.

[4] Giova osservare l’infondatezza di un pregiudizio classico che riguarda l’irrazionalità presunta del sacrificio usando un esempio illustre. Nella raccolta di saggi Dialettica dell’Illuminismo, Horkheimer e Adorno, parlando del sacrificio sottolineano che questo non sarebbe “reale” perché il dio così accudito non può mangiarsi i cibi sacrificati. Il punto però non è se davvero un essere superiore gode di questi sacrifici, ma che ne godono i suoi guardiani terrestri, cioè la casta dei sacerdoti. Il ruolo sociale dei sacrifici è giustificare l’accumulazione del surplus nelle mani della casta sacerdotale, processo reale e basilare nelle società orientali. Freud osserva acutamente: “quando si affermò l’idea della proprietà privata, s’interpretò il sacrificio come un dono alla divinità, un trasferimento dalla proprietà dell’uomo a quella del dio; ma così facendo si rinunciò a spiegare tutto quello che è peculiare nel rito del sacrificio. In tempi antichissimi l’animale sacrificale era stato esso stesso sacro” (Totem e tabù, p. 189). Questo è il punto centrale. Che poi fosse rappresentato feticisticamente nell’idea che il fragrante aroma delle carni arrivasse fino in cielo è naturale in quel contesto sociale e ideologico. D’altra parte questo feticismo vive tuttora in molte religioni: i cattolici pensano davvero di cibarsi del corpo di Dio mangiandosi l’ostia. Se la transustanziazione trova ancora credito nel XXI secolo, possiamo capire come migliaia di anni fa non fosse strano ritenere che gli altari servissero davvero a nutrire Dio.

[5] Come noto, Freud ha dedicato diverse opere ad esplorare la natura della religione e in particolare delle religioni monoteiste. L’idea di fondo, coraggiosa e acuta, è che la religione sia una forma di nevrosi, sostanzialmente legata alla repressione sessuale. Qui però ci interessa, dell’analisi di Freud, solo il suo aspetto di interpretazione strettamente storica. In L’uomo Mosè e la religione monoteistica, ultimo testo scritto da Freud prima di morire, lo scienziato viennese cerca di contestualizzare storicamente il racconto biblico. Ciò è ovviamente un passo avanti notevole rispetto agli studiosi, comuni ancora oggi, che provano a sostenere la storicità del racconto, ma è comunque una razionalizzazione insufficiente. Il punto non è infatti che Mosè era diverso da come lo racconta la Bibbia, il punto è che non è mai esistito (d’altronde lo stesso Freud ammette che di lui sappiamo solo dalla Bibbia e sottolinea le similitudini con altri mitici fondatori di imperi, da Romolo a Sargon a Ciro). Ad ogni modo, Freud propone un’ipotesi ben nota: Mosè sarebbe un egiziano, probabilmente un alto funzionario (come in effetti suggerisce il nome che Freud intetpreta acutamente come una tipica contrazione di un precedente nome che prima conteneva anche il riferimento a un dio come in Tut-mose Ah-mose), che prese i residui dell’ideologia monoteista di Eknaton per costruirci lo Stato ebraico. Infatti, nel 1375 a.C. Amenofi introdusse il monoteismo (e con esso l’intolleranza religiosa “sconosciuta all’antichità prima di allora e ancora per lungo tempo dopo”) per sottomettere la casta sacerdotale, prendendone anche le proprietà. Il faraone non era più il capo di una complessa piramide ma il rappresentante dell’unico Dio sulla Terra. La nuova religione escludeva ogni forma di magia e di mito (rendendo così inutili i sacerdoti per i quali quelle pratiche costituivano una funzione decisiva). Questa fu la tradizione passata agli ebrei da Mosè, dice Freud, assieme alla circoncisione. Di sicuro Mosè anche nel racconto biblico non parlava ebraico.

[6] Tra i tabù vi sono ovviamente anche quelli alimentari. È opinione diffusa che il motivo per cui le popolazioni semitiche (ebrei ed arabi) non mangino carne di maiale sia riconducibile ad aspetti igienici. Si tratta ovviamente di razionalizzazioni successive senza legami con l’origine del fenomeno. Basta passare in rassegna le numerosissime specie animali che agli ebrei sono vietate per capirlo. Si tratta di residui totemici, non certo di una precoce coscienza medica.

[7] Si osservi che in questo quadro, dove i sacerdoti si caricano sulle spalle le colpe di tutti, il peccato è un elemento necessario alla religione, è la funzione pagata con la decima.

[8] Ma anche “nessuno c’è fra gli dei, o Signore, che sia simile a te” (Salmo 85).

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia
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Aggiornamento: 12/09/2014