|
XEPEL
La nascita del modo di produzione asiatico
raccontata
dalla Bibbia
Le
prime esperienze di civiltà che diedero storicamente luogo a
uno Stato furono le società a modo di produzione asiatico, a partire da quella sumerica poi
diffusa con varie modalità in tutta l’area medio-orientale e mediterranea, dalla Grecia all’Egitto,
dall’India al Nord-Africa. La nascita delle prime formazioni
statali comportò cambiamenti rivoluzionari nella situazione
dell’umanità a tutti i livelli, dalle strutture
economiche alle forme ideologiche prevalenti. Soprattutto, accelerò
lo sviluppo di tutte le popolazioni, poiché il sorgere di uno
Stato costrinse tutti i popoli vicini a reagire oppure a finire
schiacciati, considerato che tra le altre novità permesse dal
sorgere degli Stati asiatici, l’accresciuta potenza militare
non fu tra le meno importanti. Tutti i capitribù dall’Arabia
all’Indo, sognarono di farsi re, trasformare le proprie capanne
in palazzi, i propri sepolcri in piramidi, i propri servitori in
armate. Per la prima volta, la legge dello sviluppo combinato, che
spinge le zone arretrate a saltare o tentare di saltare fasi storiche
per raggiungere le punte più avanzate dello sviluppo,
influenzò decisivamente la storia dell’umanità[1].
Naturalmente,
imitare non basta. In assenza delle condizioni (materiali e non)
necessarie a uno sviluppo endogeno di determinati rapporti sociali,
la loro importazione dall’esterno può sopravvivere solo
sotto forma di guscio vuoto, a meno che non ponga capo a una
effettiva trasformazione delle condizioni stesse. Il processo non è
meccanicamente predeterminato in una direzione: dall’esistenza
delle condizioni necessarie allo sviluppo. Ma perché lo
sviluppo crei per certi versi le proprie stesse condizioni occorrono
consistenti aiuti dall’esterno, occorrono cioè che le
condizioni siano mature almeno a livello generale dell’area
complessivamente intesa. Ciò non toglie che tale sviluppo, per
certi versi eterodiretto, risulti peculiare e dia luogo a fenomeni di
commistione tra epoche e rapporti sociali. Si pensi all’arrivo
dei mercanti capitalistici nelle zone arretrate di tutto il mondo,
dalla Compagnia delle Indie alle multinazionali del XXI secolo. Per
questo l’imperialismo, ossia l’esportazione dei rapporti
di produzione capitalistici a tutto il globo, ha prodotto fenomeni
economici, politici, ideologici nuovi.
Un
processo del genere avvenne sistematicamente nella Palestina dei
primi millenni avanti Cristo, considerata l’influenza
oppressiva quando non la diretta ingerenza dei potenti Stati asiatici
contigui. Tale minacciosa e costante presenza fornisce però
anche un modello di sviluppo già pronto per i popoli nomadi o
semi-nomadi che vivono tra la penisola araba e il deserto del Sinai,
che i leader più intraprendenti di queste tribù cercano
di imitare per acquisire almeno parzialmente un potere che gli doveva
sembrare ed era immenso rispetto al loro di capi pastori, tanto da
configurarsi come il rapporto tra uomini e divinità creatrici.
Di
queste tribù mediorientali che da nomadi si fanno stanziali
una è diventata particolarmente e a volte involontariamente
famosa trasformandosi nel popolo ebraico. Risulta particolarmente
interessante seguire le vicende degli ebrei a partire dai loro testi
sacri, noti in occidente come la Bibbia. Si tratta di testi la cui
storicità è notoriamente assai diseguale. Vi si narrano
singoli episodi probabilmente accaduti accanto a miti, per giunta
adattati spesso malamente da altre culture. Il debito che
nell’ideologia religiosa gli ebrei hanno verso le civiltà
confinanti (e tipicamente dominanti) non è però
casuale, è il riflesso di quel processo di imitazione di cui
si è detto sopra. Si può dire che l’essenza della
storia narrata dalla Bibbia è il tentativo di una generazione
dopo l’altra di capi-tribù di farsi faraoni o re
mesopotamici, di prendere posto, insomma, vicino a chi contava nelle
varie epoche. È anche la storia, cercheremo di spiegare, di
come questi tentativi, in assenza delle condizioni necessarie per il
loro sviluppo, abbiano più volte naufragato, sia per un crollo
interno, sia per interventi dall’esterno.
Quello
che colpisce dei testi sacri degli ebrei, al di là della loro
interpretazione successiva e del tutto estranea a quel contesto
storico fornita dal cristianesimo, è il tentativo di prendere
dalle culture vicine quanto occorre per costruire un proprio bagaglio
ideologico su cui innestare la nascita di uno Stato indipendente.
Trattandosi di un popolo nomade estremamente debole, per lunghi
tratti della propria storia privo di un territorio o addirittura
deportato in altri paesi, l’identificazione avviene attraverso
un’ideologia nazionale, che seppure non originale, diviene un
tratto distintivo, anzi il tratto distintivo del popolo ebraico.
Si
ha così un processo che procede per certi versi rovesciato. La
cultura di questo nascente, e spesso solo tale, Stato asiatico in
Palestina non è il portato dello sviluppo delle condizioni lì
presenti, ma il prodotto dello sviluppo di tutta la regione, a
cominciare dall’Egitto, da dove gli ebrei apprendono che cos’è
uno Stato asiatico e quali forme ideologiche assume. In mancanza del
primo, i capi ebraici partono con le seconde e le mantengono o
cercano di mantenerle. Laddove molti re, si pensi a quelli persiani
ma anche agli stessi faraoni, basando il proprio potere su forze
materiali inconfutabili (lo Stato, l’esercito, la casta dei
funzionari) possono permettersi generosità verso i culti
altrui, hanno anzi tutto l’interesse all’ecumenicità
delle loro vedute, riflesso della multi-etnicità del proprio
impero, gli ebrei devono difendere con le unghie e con i denti la
propria debole identità. Minuscolo insieme di tribù in
mezzo a potenti regni, gli ebrei si aggrappano alle proprie
tradizioni, per giunta prese a prestito dai vicini, per sopravvivere.
Nel far questo descrivono per così dire gli ingredienti del
sorgere dello Stato asiatico in forme, seppur ideologiche e distorte
da secoli di riscrittura dei testi, importanti per comprendere il
significato e la funzione di aspetti decisivi di quel modo di
produzione. A questo scopo servirà la lettura che qui faremo
della Bibbia, procedendo nell’ordine con cui le opere vennero
presentate.
Ogni
popolo ha una propria leggenda sulla nascita del mondo e dunque di se
stesso che lo lega, come progenie speciale, al Dio creatore. Nel caso
della Bibbia, questa storia è molto confusa per via delle
diverse tradizioni che vi confluiscono[2].
Addirittura, il racconto della creazione è, come noto,
descritto due volte in maniera completamente differente. Per quello
che ci interessa in questo lavoro, è importante rilevare
l’influenza sumerica leggibile nel passo legato al ruolo che
Dio[3]dà all’uomo “poi il Signore Dio prese l’uomo e lo
pose nel giardino di Eden perché lo lavorasse e lo custodisse”
(2, 15), che ricorda il mito sumerico in cui l’uomo viene
creato per far riposare gli dei. Questa influenza è visibile
anche nel passo in cui Dio, o meglio gli dei, comprendono che il loro
prodotto, l’umanità, non è influenzabile come
pensavano: “ecco che l’uomo è diventato come uno
di noi, conoscendo il bene e il male. E ora facciamo sì che
egli non stenda la sua mano e non prenda anche l’albero della
vita, così che ne mangi e viva in eterno” (3, 22).
Questo passo dice molte cose. Testimonia innanzitutto il politeismo
della Genesi in linea con le tradizioni mesopotamiche da cui attinge,
ma testimonia soprattutto la natura asiatica della società da
cui la leggenda è tratta. Si noti infatti che il punto dolente
è la conoscenza non la proprietà. Ciò che il
capo di questa cultura, Dio, rimprovera, a dire il vero un po’
meschinamente, ai propri protetti è che hanno osato farsi come
lui apprendendo e non appropriandosi, hanno rubato conoscenze non
beni, un ragionamento tipico di una società basata appunto
sulle conoscenze delle caste (sacerdotali, funzionariali) e non sul
dominio delle terre da parte di proprietari privati.
Scacciati
dall’Eden, per gli uomini iniziano i guai e anche i delitti.
Caino uccide Abele pastore nomade che gli rovina le terre. Questo
dimostra che si è mantenuto un ricordo seppur leggendario del
fatto che gli agricoltori e i pastori provenivano dalla stessa radice
comune ma che per ragioni obiettive iniziarono a sviluppare interessi
materiali differenti. È anche storicamente indubbio che i
pastori ebbero la peggio e furono cacciati ai margini dei territori
coltivati, dove vegetavano quelli che i bianchi trovarono lungo il
XIX e XX secolo.
Come
noto, la Genesi connette i contrasti tra i due fratelli ai sacrifici.
Questo particolare può sembrare irrilevante in quanto,
ovviamente, del tutto sovrapposto al residuo di vicenda storica, ma è
invece decisivo. Lo si capisce ancora meglio avanzando sino all’epoca
di Noè, il “giusto”, che viene salvato con la sua
famiglia dal diluvio universale, di cui è appena il caso di
ricordare le radici mesopotamiche. Quando le acque si ritirano, Noè
edifica un altare al Signore e gli offre molti animali. Ed ecco che
Dio “ne odorò la soave fragranza e disse in cuor suo ‘io
non tornerò a maledire il suolo per cagione dell’uomo’”
(8, 20). È difficile abbassare la statura morale del creatore
dell’universo a una tale grettezza (è sufficiente
l’aroma di carne arrostita per corrompere il suo animo), ma
ovviamente qui si parla di altro, si parla dei sacrifici stessi[4].
L’essenza del sacrificio, sfrondata dall’ovvio rituale
magico di ingraziarsi la divinità, aspetto che dura tuttora, è
che da luogo a un’accumulazione forzata nelle mani della casta
sacerdotale che, dopo aver bruciato carne al Dio, trattiene tutto il
resto. Come vedremo, il fatto che si parli così da principio
della funzione dei sacrifici non è un caso.
La
terza ondata, dopo Adamo e Noè, è quella di Abramo. Qui
scendiamo dalla vaga leggenda orientale all’insignificante
banda di predoni nomadi raccolti attorno a un patriarca. La cosa che
colpisce nel racconto di Abramo è che a differenza di quanto
uno si potrebbe aspettare circa il suo coraggio e la sua rettitudine,
di quest’uomo viene tramandata ogni nefandezza possibile. Sotto
il profilo storico non vi è molto altro da dire. Si tratta
appunto di una banda nomade che vive negli interstizi dell’impero
egizio, elemosinando qualche pascolo marginale. Dalla visita in
Egitto, oltre alle merci vinte cedendo la moglie all’harem del
faraone (costume comune alle tribù palestinesi nei confronti
degli imperi confinanti), Abramo riceve l’idea della
circoncisione.
Con
l’episodio di Isacco viene stabilito che il primogenito è
del Signore, ovvero dei sacerdoti. Ciò permette, come
principio, alla casta sacerdotale di poter fruire di una forza-lavoro
non indifferente, appunto i primogeniti di ogni famiglia, e di
accumulare un certo surplus, i primi nati di ogni animale domestico
della tribù. Storicamente di basso profilo risulta la
narrazione delle gesta dei discendenti di Abramo, che continuano a
essere descritti come una banda di pastori disonesti, che cercano con
ogni mezzo di farsi strada nelle difficili situazioni del tempo. Di
primaria importanza è invece il racconto delle gesta di
Giuseppe. Tolta la mistica dei sogni, comune a moltissime culture,
l’aspetto centrale è che la carestia è la
giustificazione della proprietà pubblica del suolo e del
grano. È interessante che si specifica l’aspetto
pianificatorio del calcolo: “Giuseppe ammassò il grano
come la sabbia del mare, in quantità assai grande, così
da dover cessare di farne il computo perché era incalcolabile”
(41, 49), il che dimostra che si era davvero in pieno modo di
produzione asiatico e Giuseppe era un visir o addirittura il gran
visir dell’impero egizio. Ciò dimostrerebbe che già
allora la selezione dei funzionari avveniva per merito, dato che
difficilmente Giuseppe poteva essere nato in una famiglia di qualche
peso nell’élite egizia. La Genesi sostiene anche che
Giuseppe ammassò tutto il denaro che si trovava nella regione
vendendo il grano, affermazione che appare piuttosto una
rivisitazione successiva, dovuta al fatto che quando l’opera
venne composta nessuno si ricordava più di come funzionavano i
palazzi egizi e i relativi rapporti di produzione vengono
mercantilizzati. Fatto sta che qualche ebreo fa fortuna. Mentre
infatti i fratelli di Giuseppe restano nullità (al cospetto
del faraone che gli chiede quale sia il loro mestiere essi
rispondono: “pastori di greggi sono i tuoi servi”), alla
sua morte Giuseppe viene addirittura imbalsamato e posto in un
sarcofago, segno che nella comunità ebraica in Egitto si era
giunti a una chiara differenziazione sociale.
La
differenziazione sociale si interseca con il problema
dell’oppressione nazionale. Non è chiaro se davvero gli
Egizi temevano la numerosità degli ebrei o in essi vedevano il
nucleo di una possibile rivolta sociale sotto i Ramessidi. Di sicuro
“l’Egitto sottopose i figli d’Israele a un lavoro
massacrante” (1, 13). Mosè, il salvato delle acque, come
molti altri leggendari fondatori di regni, ci viene comunque
presentato di cultura se non di stirpe egizia e dalla civiltà
dei faraoni pesca a piene mani per prefigurare lo Stato ebraico[5].
Da subito, Mosè associa a sé suo fratello
(probabilmente non di sangue) Aronne, il sacerdote. In ciò
imita la casta dominante egizia, che è appunto fatta di
guerrieri-amministratori e sacerdoti-scribi. Mosè scappa nel
deserto (la Bibbia ci dice, inverosimilmente, con oltre 600.000
uomini) e si trova in un’impasse totale.
Il
racconto mosaico è ovviamente una ricostruzione successiva, ma
è interessante notare che tipo di nascita dello Stato la casta
dominante immagina per il proprio passato. Senza le minime condizioni
materiali per costruire un’autorità stabile, il clan
raccolto attorno a Mosè non può che importare
dall’Egitto solo i segni esteriori del potere non già le
sue basi. Così si narrano continue rivolte soffocate nel
sangue dopo che Mosè aveva imposto leggi e giudici molto
severi. In mezzo a vendette e lapidazioni, le nuove norme trovano
però il posto per un briciolo, appena uno, di umanità:
“non opprimerai lo straniero: voi conoscete la vita dello
straniero, perché foste stranieri in terra d’Egitto”
(23, 9). Sarebbe d’altra parte suonato un po’ ridicolo
per dei nomadi senza terra opprimere gli stranieri, cioè i
residenti delle terre da occupare.
Gli
aspetti salienti della legge mosaica sono l’accentramento del
surplus in mano alla casta sacerdotale ottenuto, da un lato, con le
offerte della popolazione, più o meno spontanee, dall’altro
con il divieto per i leviti di ereditare e dunque di frazionare il
surplus accumulato. Per cementare l’alleanza con Jahvè
la popolazione è costretta a delle offerte in natura che, se
non date spontaneamente, comportano requisizioni forzate. Queste
offerte consentono, o dovrebbero consentire, di costruire i templi,
primi palazzi del potere. Ma gli ebrei vagano ancora nel deserto,
dunque, al posto di un edificio, la casta sacerdotale incarna il suo
potere in un simbolo in movimento, l’arca dell’alleanza.
In pratica, tutto ciò che viene accumulato e che in altre
civiltà era il tesoro del tempio, qui veniva trasportato, era
una cassa piena d’oro. La Bibbia espone anche un calcolo del
costo del tempio: “tutto l’oro impiegato per il lavoro,
in tutta la costruzione del santuario, oro presentato in offerta, fu
di ventinove talenti e settecentotrenta sicli” (38, 26), una
cifra inimmaginabile per una tribù nomade. L’oro però,
è solo il controvalore di offerte che avvengono in natura. In
questo senso la legge mosaica ribadisce che ogni famiglia deve
“riscattarsi” di fronte al Signore. Il riscatto viene
determinato all’atto del censimento, altra abitudine mutuata
dagli Egizi e avviene, secondo la rilettura biblica, già in
valore di scambio (mezzo siclo a persona). Non avendo terra, il
popolo non può che riscattarsi con l’unica cosa che ha:
il proprio lavoro, incarnato dalle corvée obbligatorie e dal
primogenito. In questo senso, la legge di Abramo e di Mosè
fornisce una delle prime definizioni letterali di proletariato.
Mosè
è descritto dunque come intento a costruire uno Stato
asiatico, plasmato sull’Egitto dei faraoni, ma con
caratteristiche specifiche determinate dalla realtà degli
ebrei nel deserto. Nomina il suo braccio destro, Aronne, capo dei
sacerdoti, carica ereditaria all’interno del clan dominante:
“le vesti di Aronne passeranno ai suoi figli dopo di lui”
ammonisce Dio (29, 29). La durezza delle condizioni nel deserto, come
detto, non potevano portare il popolo ebraico a una grande
considerazione per la cricca di Mosè, come emerge
nell’episodio del vitello d’oro a cui partecipano
addirittura i leviti (e Aronne in persona). Fatto sta che in quella
circostanza si intravede il taglio dei legami di clan: al popolo è
chiesta l’obbedienza allo Stato e ai suoi capi, non alla
famiglia e alla gens. Così Jahvè dice ai suoi “metta
ognuno la spada al fianco, passate e ripassate da porta a porta
nell’accampamento e uccidete a chi il suo fratello, a chi il
suo amico, a chi il suo vicino” (32, 27). Materialmente, le
squadre agli ordini dei leviti vengono consacrate come la struttura
che detiene il monopolio della violenza, sono cioè l’ossatura
dello Stato e dell’accumulazione palaziale.
Non
a caso, il successivo libro è appunto il libro dei leviti. Il
potere mosaico ha vinto e chi era stato descritto come felice di
scappare dalla padella della schiavitù egizia si ritrova ora
nella brace dell’oppressione di casta guidata dai due fratelli
Mosè e Aronne, la spada e i salmi, il tempio e il palazzo.
Questa opera è dedicata a spiegare in forma particolareggiata
come si fanno i sacrifici, ovvero le modalità di
concentrazione del surplus (essenzialmente agricolo) nelle mani dei
sacerdoti: (ad es.: “quello che resta dell’oblazione
appartiene ad Aronne e ai suoi figli”, 2, 3). La spiegazione
riguarda non solo il quantum ma anche il come: “i figli di
Israele, invece di offrire i loro sacrifici in campagna, li
porteranno al Signore all’ingresso della tenda del convegno, al
sacerdote” (17, 5). Questo è curioso, dovendosi pensare
che Dio è in ogni luogo, ma acquista senso se si pensa che il
nascente Stato ebraico non poteva che concentrare i propri sforzi
nell’edificazione urbana, al pari di ogni altro regime
palaziale dell’area. Il problema è che la fase di
accumulazione originaria, chiamiamola così in analogia al
periodo di nascita del capitalismo, era da tempo terminata nei paesi
limitrofi (Uruk o Tebe, ai tempi di Mosè, dovevano esistere
già da millenni). Le difficoltà sono dunque molto
maggiori.
Quanto
ai precetti propriamente religiosi, il libro descrive i tabù,
che sono numerosi e dettagliati[6],
e alcuni principi fondamentali quali il rispetto del sabato,
dell’anno sabbatico (cioè la limitazione a 7 anni della
schiavitù di altri ebrei), la legge del taglione, il giubileo
(cioè la limitazione a 7x7 anni della proprietà della
terra). Le punizioni descritte sono spesso in denaro, il che potrebbe
segnalare la contaminazione del modo di produzione asiatico ad opera
dei rapporti mercantili oppure una rielaborazione successiva. Merita
infine un’annotazione il problema della natura completamente
immanente del rapporto tra Jahvè e il popolo eletto. Premi e
punizioni per gli ebrei sono sempre materiali (raccolti e pascoli
numerosi, oppure carestie ed epidemie). I vaghi riferimenti a
ricompense ultraterrene sono assolutamente marginali. Tutti questi
precetti sono, come ricordato, largamente attinti alle culture della
zona, ma la loro elencazione in un quadro strutturato persegue lo
scopo di identificare la tribù ebraica rispetto ai vicini,
l’obiettivo è dunque di vietare in ogni modo la
contaminazione se non con quei popoli che si sottomettono (e
accettano dunque la circoncisione e le altre norme mosaiche). Questa
rigidità che sfocia nel razzismo è necessaria per non
disperdersi di fronte a popolazioni numericamente assai superiori.
Il
termine deriva dal censimento degli ebrei che risponderebbe
all’obiettivo di sapere su quale forza-lavoro i capi possano
contare. Nonostante debba descrivere un periodo di rafforzamento del
potere centrale, il censimento è chiaramente effettuato ancora
“per case” cioè per gens e tribù: “ognuno
presso la propria insegna, secondo le loro schiere”. Siamo
dunque a prima di Clistene e anche di Solone. Si parla di circa
600.000 persone (le stesse presumibilmente fuggite al faraone) più
i leviti, unici autorizzati al sacerdozio a pena di morte, che
vengono valutati in 22.000 circa, cioè il 3% della
popolazione. Viene nuovamente sottolineata l’esigenza di
centralizzazione del surplus verso la casta sacerdotale: “ciò
che uno da al sacerdote, a questo apparterrà” (5, 9).
L’idea
di fondo è che i sacerdoti leviti devono essere pagati perché
offrono un servizio essenziale, quello di placare Dio e di
interpretare i suoi voleri. Avendo questo lavoro a tempo pieno, i
sacerdoti sono espressamente esentati dalle altre mansioni: “i
leviti: da venticinque anni in su verranno a schierarsi in servizio
per il lavoro nella tenda del convegno e da cinquanta anni in poi si
ritireranno dall’esercizio del lavoro e non lavoreranno più.
Serviranno i loro fratelli nella tenda del convegno per conservare le
osservanze e il lavoro. Non lavoreranno” (8, 24-26). Per
sfamare questa forza-lavoro improduttiva, il popolo deve pagare con
la primogenitura (sia come lavoro coatto, che come offerta di
bestiame). È interessante osservare che in questa fase è
Mosè a consacrare i leviti, dunque il potere sacerdotale
sembra dipendere da quello militare-amministrativo.
Purtroppo
per il condottiero egizio-ebraico, i suoi sforzi per conquistare un
territorio alla sua gente non approdano a molto e così mentre
Mosè predispone il funzionamento della casta sacerdotale,
inizio dello Stato asiatico, il popolo si ribella più volte.
D’altra parte Mosè aveva promesso una terra da dove
trabocca latte e miele, mentre la terra promessa è abitata da
“un popolo più forte di noi”, avvertono i suoi
esploratori. La situazione è dunque drammatica: la vita nel
deserto è difficile, tornare in Egitto significa la morte o la
schiavitù e la terra promessa è già occupata. Ne
consegue inevitabilmente il crollo dell’autorità di Mosè
e di Jahvè, che si irrita per questa mancanza di fede ma si
placa grazie all’intercessione di Mosè che però
non dovette risultare del tutto efficace, dato che il libro spiega
che gli esploratori “morirono di un flagello di fronte a Dio”,
ovvero Mosè li fece uccidere perché non rivelassero la
triste verità: la terra promessa era già occupata.
La
nascita dello Stato ebraico appare così un processo
contraddittorio di violenza e di sopraffazione, in cui il potere
basato sulla norma mosaica non emerge linearmente. Le gens non sono
disposte ad accettare una struttura centrale che non gli fornisce
alcun servizio, come invece succedeva altrove, con le opere di
canalizzazione, le mura delle città. Non basta proclamarsi
prediletti da Dio, bisogna anche dimostrare di esserlo. Così
quando si crea la casta sacerdotale, la ribellione è
immediata. 250 capi, membri del consiglio e altri dirigenti vanno dai
due (Mosè e Aronne) e dicono a chiare lettere: Dio è di
tutti, “perché vi innalzate sull’assemblea del
Signore?” (16,3), ovvero, perché state emarginando le
istituzioni gentilizie?
A
questo punto sarebbe interessante cercare nella storia tracce di
difficoltà analoghe in situazioni simili (ad esempio nella
nascita del potere minoico o del faraone), ma queste difficoltà
non possono essere generalizzate a ogni processo di nascita dello
Stato palaziale. Il dramma che viene ascritto alle opere di Mosè
è infatti che nulla di buono questo può fare per il suo
popolo. L’accumulazione è minimale, pertanto il fardello
delle caste improduttive maggiore. Necessariamente ne deriva una
repressione feroce. Ad esempio, la rivolta contro i due fratelli, che
viene narrata in più libri e a più riprese, comporta il
massacro di 15.000 persone, il 2,5% della popolazione. Che gli ebrei,
emarginati dalle terre migliori, senza prospettive, dovessero
giungere a una forma di miscredenza era inevitabile: “chiunque
si avvicina alla dimora del Signore muore: dobbiamo forse morire
tutti?” (17, 28). Ma implacabile, la casta dominante procede
requisendo il poco che c’è, ovviamente su ordine del
Signore: “Ai figli di Levi, ecco, ho dato tutte le decime in
Israele come eredità” (18, 21). Ora, per una popolazione
così povera, il 10%, unito al resto delle requisizioni coatte,
doveva risultare un peso insopportabile in cambio del perdono che i
leviti riuscivano a ottenere da Jahvè[7].
Il
libro descrive più rivolte del popolo (usando sempre questo
termine e non riferendosi a una specifica tribù) dovute alla
mancanza d’acqua, di cibo e così via. Considerate le
terribili condizioni di vita nel deserto è logico che alcune
tribù si fondessero con i clan del luogo. Questo processo
riduceva però la possibilità degli ebrei nel loro
complesso di ottenere un territorio proprio. Per questo i dirigenti
mosaici cercano di conservare le tribù unite a costo di ogni
nefandezza. Si susseguono così descrizioni di massacri di
ebrei sposati con tribù del luogo. Ad esempio Mosè fa
uccidere 24.000 ebrei che si erano uniti ai moabiti. Poco dopo Mosè
muove una guerra di sterminio contro i madianiti, uccide tutti gli
uomini e fa schiavi donne e bambini, prendendosi tutti i loro beni.
Si tratta, ovviamente, di esagerazioni senza riscontro storico ma il
meccanismo sociale sottostante è chiaro: tanto più si
accresce la ricchezza degli ebrei tanto più aumenta la fame
della casta sacerdotale. Così il Signore ordina al popolo di
consegnare ai leviti 48 città compresi i pascoli attorno. Ora,
scontato il fatto che il termine città si riferisce ad
aggregazioni urbane di minuscole proporzioni, rimane il fatto che si
tratta di una quantità cospicua di terre.
Ecco
la “seconda legge”, un libro che come tutto il Pentateuco
dopo la Genesi, descrive precetti volti a consolidare il potere della
casta dominante. La differenza è che qui il potere statale è
descritto come più strutturato, e la popolazione come ormai
stabilita in un luogo da tempo. Scema dunque il retaggio gentilizio
mentre cresce quello della casta centrale (i giudici non sono più
i capi del clan ma vengono scelti dall’alto, formalmente da
Dio, in pratica sono i leviti che fungono da giudici).
I
racconti di vittorie militari, di pura fantasia ancor prima che
agiografici, sottolineano però una verità storica. Gli
ebrei non potevano pregare altre divinità perché non
potevano mescolarsi agli altri popoli. Questo dimostra come la
monolatria sia la base di ogni razzismo e di ogni sterminio etnico.
Ogni nefandezza è possibile perché si tratta del popolo
eletto. Ma ciò è necessario perché “voi
siete il più piccolo di tutti i popoli, ma il Signore vi ama”
(7, 7-8).
Questo
piccolo popolo che occupa un piccolo Stato deve comunque darsi una
struttura piramidale: “sopra di me – dice Jahvè –
voglio mettere un re, come tutte le nazioni che mi circondano”
(17, 14). Questo passo è molto rilevante perché
conferma la funzione dell’imitazione, o se vogliamo, della
legge dello sviluppo diseguale e combinato. Il livello di sviluppo
delle forze produttive degli ebrei non avrebbe mai permesso il
sorgere dello Stato asiatico, ma questi Stati c’erano tutti
attorno e per sopravvivere gli ebrei dovevano correre, senza contare
che alla figura che la leggenda ci ha tramandato come Mosè
veniva l’acquolina in bocca all’idea di diventare un
faraone, sia pure su piccola scala.
I
leviti si prendono le primizie e i primogeniti, e giunti alla terra
promessa, spingono per la soppressione dei santuari locali: si crea
un santuario centrale, riflesso della centralizzazione del potere. La
decima però era solo triennale, anche se non è chiaro
che ciò indicasse il 10% ogni 3 anni (ovvero, nell’ipotesi
pacifica di uno scarso sviluppo delle forze produttive, circa il 3%
annuo effettivo, o il 10% di tre anni pagati posticipatamente).
Il
libro cita gli Idumenei come unico popolo da non sterminare in quanto
come fratelli. Dato che si tratta di un popolo di origine egizio, ciò
indicherebbe, se vi è una qualche valenza storica della cosa,
che la casta dominante era in buona parte egizia.
Nel
famoso secondo discorso di Mosè, dove ribadisce i comandamenti
(di origine egizia pure quelli), viene confermata la morte delle gens
e la nascita del popolo: “Mosè e i sacerdoti leviti
parlarono a tutto Israele: ‘Taci e ascolta Israele. Oggi sei
divenuto un popolo per il Signore” (27, 9).
Dopo
questo testo si passa ai libri “storici”, opere cioè
che parlano di un periodo in cui la leggenda ha già molti
tratti reali e che spaziano dal XIII secolo fino al I a. C. Trattando
di un popolo che rimaneva debole e circondato da nemici assai più
forti, l’accento è sempre sull’isolamento
nazionalistico, sull’uso della religione come elemento
unificante anche nelle avversità e dunque sul corrispondente
predominio dei sacerdoti nell’apparato statale.
Dunque
Mosè muore e tocca al suo successore portare gli ebrei in
Palestina. Secondo la Bibbia si trattava di 40mila “in assetto
di guerra” (ricordiamo che erano usciti dall’Egitto in
oltre 600mila), segno che vagare nel deserto non aveva portato molta
fortuna…ed erano anche divisi, poiché c’erano
molti incirconcisi. Dio li aiuta a prendere Gerico dove “sterminarono
tutto quanto era nella città, uomini e donne, giovani e
vecchi, perfino i buoi e gli asini passarono a fil di spada”
(6, 21), vedi che bel popolo eletto. Nella battaglia di Gabaon per
continuare a massacrare i nemici, Giosuè dice al Sole di
fermarsi: “O sole, fermati su Gabaon…e il sole si fermò”
(10, 13), che come dimostrazione di monolatria è un po’
povera. Comunque gli ebrei continuano le operazioni di rigorosa
pulizia etnica (il testo ripete in continuazione che non furono
lasciati superstiti e che gli ebrei devono restare separati dagli
altri).
Giunti
nella terra promessa, le tribù si dividono. Ma il potere
sacerdotale rimane intatto. Il libro inizia così: “dopo
la morte di Giosuè gli Israeliti consultarono il Signore per
sapere chi di loro dovesse muovere a combattere contro i Cananei. Il
Signore rispose…” (1,1). Va da sé che “il
Signore” erano i sacerdoti. Queste tribù bellicose che
sterminano i vicini non riescono però a tenersene
completamente separate e questo si riflette nelle tristi lamentazioni
sul fatto che pregavano anche altri dei. Questo provocava la collera
divina, in quanto l’assimilazione significava, per una così
piccola popolazione, la scomparsa. Questo segna un ciclo storico
degli ebrei: trionfo-occupazione-dimenticanza di
Dio-punizione-crollo-perdono-nuovo capo-nuovo trionfo, ecc.
Anche
se molti hanno identificato Mosè con la nascita dello Stato
ebraico, la realtà è che le tribù israelitiche
non possedevano uno Stato vero e proprio, forse lo avevano ma si era
perso. I clan più forti cercano di farsi monarchi ma non certo
con la forza. Infatti re Abimelech viene eletto, presumibilmente
dall’assemblea dei capi clan e dura solo tre anni. Dopo c’è
un periodo di guerra per bande non riconducibile a intrighi di corte
di uno Stato vero e proprio. Appare chiaro che le conquiste mosaiche
non erano sufficienti ad accumulare le risorse per uno Stato, al
massimo per una banda di predoni. A volte tribù erranti si
sono fatte Stato, ma conquistando territori ampi e ricchi, non una
città palestinese dell’epoca. Mosè dunque è
indicato come un principe d’Egitto che ha cercato di innestare
il modo di produzione asiatico in Palestina fallendo, e infatti
nemmeno vi arriva. Si susseguono, dopo di lui, i condottieri che
promettono di liberare gli ebrei, ma senza risultato anche perché
nel frattempo sono arrivati i filistei. Come ai tempi di Mosè,
gli ebrei oppressi dai filistei cercano un condottiero e lo trovano
in Sansone, ma le sorti di questi eroi rimangono alterne a dir poco.
Si noti che giungendo a tempi storici non sempre i numeri si fanno
realistici. Anche se gli uomini non vivono più secoli ma
decenni, a volte gli eserciti sono comunque descritti come enormi. Ad
esempio, l’assemblea di Mizpa cita 400.000 fanti, una cifra che
Tsahal avrebbe difficoltà a mettere assieme anche oggi.
Si
continua a parlare dei maggiorenti ebrei che sono giudici. Una carica
politica decisiva e non elettiva. Si dice infatti che “Samuele
fu giudice su Israele per tutto il tempo della sua vita (7, 13) e
anche che “quando diventò vecchio, costituì i
suoi figli giudici d’Israele” (8, 1). Di nuovo il popolo
vuole un re, ci dice la Bibbia, ovvero, piuttosto, una casta cerca di
farsi monarchia e Samuele riferisce le parole del Signore al popolo
circa una sorta di patto tra re e popolazione su diritti e doveri
reciproci (si parla della decima e dei funzionari necessari
all’amministrazione statale e conclude che “voi stessi
diventerete suoi schiavi”, 8, 17). Il prescelto è Saul,
figlio di un famoso soldato, alto e bello, che viene consacrato da
Samuele, giudice e sacerdote. Non si tratta dunque di un potere
indipendente. Che il popolo sia ancora diviso in gens lo dice
testualmente la Bibbia che quando chiama il popolo davanti al re
spiega “or dunque presentatevi davanti al Signore per tribù
e per casate” a dimostrazione che le annunciate riforme
mosaiche e post-mosaiche erano solo sulla carta. Saul viene
presentato come re prescelto da Samuele che però sembra
pentirsi della scelta e infatti dice: “il male che avete fatto
chiedendo per voi un re è grande agli occhi del Signore”
(12, 17), forse la rapacità dei sacerdoti era tale che persino
un monarca veniva visto come il male minore dal popolo.
Sebbene
si tratti di periodi storici, alcune esagerazioni rimangono. Così
si parla di 30.000 carri farisei, un numero che avrebbe fatto invidia
a Tutmosi stesso. Di sicuro, i popoli costieri sono più forti
e costringono Saul a combatterli per quarant’anni. Di nuovo
vediamo che il regno asiatico palestinese è così debole
che spinge a continui rivolte popolari. Tale debolezza spiega anche
perché quando Saul si rivolge a Samuele (cioè quando
viene descritta la relazione tra potere sacerdotale e militare)
sembra di poter dire che il primo sia maggiore perché più
importante ai fini dell’accumulazione, ma potrebbe anche
dipendere dal fatto che la storia è stata rielaborata dai
preti e non dagli ufficiali. Così è il sacerdote che
sceglie Davide per sfidare il gigante Golia.
In
definitiva, possiamo dire che anche in questi testi vengono descritti
i tentativi infruttuosi degli ebrei di darsi una struttura statale.
Lo stesso Davide, dopo l’impresa contro i farisei, diventa un
capobanda che attira sbandati e fuoriusciti di ogni genere per
cercare ferocemente bottino: “Davide non lasciava vivo né
uomo né donna” (27,11) e mentre Davide continua la sua
guerra di guerriglia, Saul è sconfitto dai filistei e si fa
uccidere.
A
differenza del mondo greco, nel mondo semitico si raccontano rari
amori omosessuali. Fa eccezione l’elegia di Davide per Gionata.
Saputolo morto, dice “era meraviglioso per me il tuo amore, più
dell’amore delle donne” (1, 26), affermazione che pare
inequivoca.
L’elezione
di Davide a re di Israele dipende dalle tribù. Che cosa i
capi-tribù apprezzano di Davide e rimproverano a Saul?
Essenzialmente la tattica militare. Saul voleva farsi faraone o lugal
e combatteva i farisei in campo aperto, rimediandone sonore
sconfitte. Davide, con la sua agile guerra di guerriglia ottiene dei
successi. A prescindere dall’esistenza di questi personaggi, il
dato storico è chiaro: gli ebrei non avevano ancora un
esercito e un territorio. Mirabilmente il tutto è sintetizzato
nel famoso salmo riferito a Davide: “Dio mi salvò dal
mio potente nemico, dai miei avversari, perché più
forti di me” (22,18). Ad ogni modo, Davide, che pure, assicura
la Bibbia, amministra “rettamente la giustizia a tutto il
popolo”, deve affrontare ben presto rivolte: “il popolo
uscì in campo contro Israele” (18,6) che reprime facendo
20.000 morti. Un massacro enorme eppure non risolutivo perché
le rivolte si susseguono: le tribù non vogliono un re unico.
Continuano le esagerazioni numeriche: secondo il censimento fatto da
Ioab a quell’epoca tra Israele e Giuda c’erano 1.300.000
uomini abili, perciò una popolazione totale di forse 3-4
milioni di abitanti, una stima fantasticamente in eccesso (forse
anche di dieci volte), considerando che era il 950 a.C. circa, e che
ancora oggi non siamo molto oltre.
Si
narra qui del periodo di circa tre secoli che va da Davide all’esilio
babilonese. Si parte da Salomone, figlio ed erede di Davide, messo al
trono congiuntamente dal padre e dai sacerdoti. Subito dopo il re
depone il gran sacerdote Ebiatar e lo caccia, descrivendo rapporti di
forza che pendono in favore del re. Salomone diviene genero del
faraone con un classico matrimonio dinastico che rafforza i tratti
asiatici del regno. Il libro ci parla infatti dei funzionari del re e
dei suoi dodici prefetti e questo schema sembra far progredire le
cose dato che dopo secoli di massacri “Giuda e Israele erano
numerosi come la sabbia del mare; mangiavano, bevevano e stavano
allegri” (4,19). Il quadro è storicamente attestato:
Israele regno vassallo del faraone, con ciò più
importante dei regni confinanti “indipendenti”, come i
filistei che gli rendono tributi, ma non presso i veri padroni della
zona, come il re Chiram del Libano a cui Salomone consegna ogni anno
enormi quantità di grano e olio (come si vede, anche se la
Bibbia parla di tributi in denaro per periodi molto precedenti, non
appena si citano reali tributi, questi sono ancora in natura). Il re
è rappresentato come estremamente saggio e sapiente, giusto e
lungimirante. Fa costruire il tempio (evidentemente secondo canoni
egizi o mesopotamici) reclutando 30.000 lavoratori forzati (così
vengono definiti) che manda nel Libano a prendere cedri. La Bibbia
cita anche 70.000 portatori e 80.000 tagliapietre diretti da migliaia
di funzionari agli ordini della monarchia.
Dopo
400 anni dalla fuga dall’Egitto, sembra dunque che l’eredità
egizia sia finalmente realtà: un piccolo Stato asiatico. Ce lo
ricorda proprio la costruzione del tempio, che come per le piramidi
egizie o il palazzo di Cnosso, è il primo sforzo cosciente e
organico di pianificare l’economia, in grado di creare dal
nulla le strutture stesse della pianificazione. Oltre al lavoro
forzato di centinaia di migliaia di uomini (almeno tanti ne sono
citati, seppur non permanenti: i turni duravano un mese o due), il re
accumula ogni ricchezza, dato che il tempio viene rivestito d’oro
e di pietre preziose. Finito il tempio “Salomone costruì
il suo palazzo portandolo a termine in tredici anni” (7,1).
Sembra che in questa fase la monarchia si sia definitivamente
emancipata dal peso delle gens, dato che il re semplicemente le
convoca a corte per la festa. Per confermare la stretta derivazione
egizia del regno di Salomone giova citare un paragrafo sui rapporti
tra suocero e genero.
“Il
faraone, re d’Egitto, era salito e aveva conquistato Ghezer;
l’aveva incendiata, aveva massacrato i Cananei che l’abitavano
e l’aveva data in dote alla figlia, moglie di Salomone. Perciò
Salomone ricostruì Ghezer, Bet-Oron inferiore, Baalat e Tamàr
nel deserto del paese, tutte le città da magazzini
appartenenti a Salomone, le città per i suoi carri e i suoi
cavalli…tutta la gente rimasta..e i loro discendenti che erano
ancora rimasti nel paese…Salomone li ingaggiò nei
lavori forzati fino ad oggi. Ma ai figli d’Israele non impose
alcun lavoro forzato perché essi servivano come soldati…tra
essi vi erano i cinquecentocinquanta capi dei prefetti che dirigevano
i lavori di Salomone; essi comandavano la gente impiegata nei
lavori.” (9, 15-23)
Si
tratta dunque di un piccolo regno satellite del potere dei faraoni e
costruito a immagine di quello. Gli effetti benefici della sudditanza
verso l’Egitto sono richiamati nella costruzione di una
storicamente improbabile flotta e nell’enorme ricchezza
mobiliare (si parla di 666 talenti d’oro, una curiosa
coincidenza con il numero satanico per eccellenza). Un altro
beneficio del re ebreo è anche dato dalle 700 principesse e
300 concubine che fanno da contorno alla figlia del faraone.
Ovviamente, queste cifre si riferiscono al faraone stesso, a cui i
monarchi vassalli inviavano le figlie più belle. La saggezza
leggendaria di Salomone traspare dal desiderio di integrare i popoli
con cui veniva a contatto, qualcosa che nell’interpretazione
sacerdotale è vissuta come idolatria di divinità
altrui. Ad ogni modo, nonostante la saggezza, Salomone viene
ricordato dalla Bibbia per il “pesante giogo” che aveva
imposto al popolo (che, ricordiamolo, si limitava a prestare servizio
militare). È il problema di sempre di quella zona: la
burocrazia asiatica cerca di accumulare privilegi troppo rapidamente,
Salomone però non è né Stalin che ha la forza di
reprimere le rivolte contro l’accumulazione forzata, né
Mao che punisce l’eccessiva rapacità della burocrazia
cinese usando le masse: il regno si spezza in due. Lo scisma politico
diviene subito religioso, Geroboamo crea dei sacerdoti non
provenienti dalla casta levita (“presi dal popolo comune, che
non erano figli di Levi”) e prega divinità delle alture
(ma anche Roboamo aveva integrato il culto di Jahvè con quello
di altri dei). Se il leggendario regno unificato di Israele era
debole, i due staterelli post-salomoniani sono ancor più
fragili. Così arriva il faraone e saccheggia il tempio
portandosi via tutto. Si susseguono deboli re e profeti che perorano
la causa dell’unità, come Elia che dice al popolo: o
pregate per Baal o per Jahvè.
Per
burlarsi dei sacerdoti di Baal Elia usa parole che possono ben
estendersi a ogni divinità: “gridate più forte
perché egli è certamente dio, però forse è
occupato o ha degli affari o è in viaggio; forse dorme e deve
essere svegliato” (18,27). Ed Elia li sgozza tutti (erano
centinaia). Da notare questa meravigliosa metafora che rimanda al
pensiero magico: parlando del popolo Aram dicono ad Elia che il loro
è un Dio delle montagne e dunque se combattono in montagna
perderanno, occorre sfidarli in pianura.
Continuano
a succedersi deboli re mentre i profeti fanno miracoli. La debolezza
dello Stato fa sì che la continuità delle tradizioni
sia mantenuta dai profeti e dunque che la casta sacerdotale conti di
più che in contesti più strutturati. La debolezza si
vede dal fatto che in quattro secoli la dinastia che è durata
di più non ha superato le due generazioni. Il re Ioas è
saggio “perché il sacerdote Ioiada lo aveva istruito”
ma da saggio non parte distruggendo gli altari del popolo. Dice però
ai sacerdoti che tutto il denaro che viene dato ai singoli deve
essere rimesso al centro per riparare i danni del tempio. Detto
diversamente, l’accumulazione deve riprendere da dove la fine
di Salomone l’aveva lasciata: non ai templi locali ma al
palazzo. I sacerdoti acconsentono, certo ispirati dal Signore. Ad
ogni modo, si arriva a un compromesso, dato che la Bibbia spiega che
parte del denaro “era riservato ai sacerdoti”. Fatica
davvero sisifea. Dopo pochi decenni irrompe un re assiro e distrugge
tutto di nuovo. Secondo i costumi assiri, deporta il popolo locale e
importa gente dall’Assiria (quelli che poi saranno noti come
samaritani). Certo è curioso che Jahvè punisca gli
ebrei poco inclini al monoteismo con genti squisitamente politeiste.
Al regno di Giuda va poco meglio perché Sennacherib arriva
anche lì. L’unica cosa che gli ebrei possono opporre
alla potenza dei vicini sono i profeti, che però, al di fuori
dei racconti mitici della Bibbia, poterono ben poco. I rapporti tra
assiro-babilonesi e regno di Giuda sono gli stessi che c’erano
stati tra il faraone e Salomone. Quando dall’Assiria arrivano
degli emissari il re Ezechia gli fa vedere ossequiosamente tutto il
palazzo, come ricorda il testi biblico “non c’è
nulla dei miei magazzini che io non abbia fatto loro vedere”
(20, 14) a dimostrazione che per quei re la potenza si misurava
giustamente dall’accumulazione nel palazzo reale (come a Cnosso
o a Ebla).
Per
le ragioni spiegate il potere della casta sacerdotale è
notevole rispetto ai popoli vicini, sono custodi della continuità
dell’accumulazione. Così il re Giosia manda un suo
funzionario dai sacerdoti perché gli consegnino l’argento
con cui pagare gli operai che stanno riparando il tempio. Sebbene
Giosia fosse pio e amato dal Signore, e avesse ucciso tutti i preti
delle religioni avverse a Jahvè, nel mondo reale questi meriti
servono poco. Così, quando il faraone Necao decide di sfidare
gli assiri sull’Eufrate, Giosia prova a fermarlo “ma
Necao lo uccise al primo incontro”, imponendo nuovamente un
tributo a Giuda. Israele può solo passare da una sovranità
all’altra: quando i faraoni vengono respinti, prevale il re di
Babilonia che assedia e conquista la Palestina, deportandone capi e
soldati “in numero di diecimila” oltre a vari artigiani a
Babilonia, incendiando anche il palazzo e il tempio. Nabucodonosor
pone così fine alle liti intestine degli ebrei.
Un
testo poco interessante, si fa solo un elenco di capi. Si citano
38.000 leviti dei quali 24.000 dirigevano il lavoro del tempio, 6.000
scribi e giudici, 4.000 portieri e 4.000 “lodavano il Signore”.
Tralasciando le dimensioni ma prendendo per buone le proporzioni,
questo indicherebbe che i funzionari erano in tutto circa il 5% della
popolazione maschile adulta e che dei leviti solo un 10% era
propriamente parte della casta sacerdotale, mentre la gran parte
aveva un ruolo produttivo o amministrativo. I 12 funzionari generali
erano preposti alle 12 tribù (da cui probabilmente all’inizio
provenivano) e alle diverse attività.
Sul
presunto monoteismo ebraico tanto basti: “il tempio che voglio
edificare deve essere grande, perché il nostro Dio è
più grande di tutti gli dei” (2, 4)[8].
Questa fissazione per la ricostruzione del tempio può sembrare
irrazionale per un popolo così povero e instabile, ma invece
acquista senso se si pensa che il tempio è la chiave di volta
dell’accumulazione iniziale di quella società. Costruito
il tempio vi si accumula il surplus e per costruire il tempio si
creano le strutture dell’economia pianificata necessarie a far
procedere tutta l’economia. Non è dunque bigottismo o
fanatismo o vanagloria, è davvero imperativo. A questo serve
il tempio, come si vede ad esempio in questa indicazione successiva
al tempo di Salomone: “allora Ezechia ordinò di
preparare delle stanze nel tempio del Signore. Quando furono pronte,
vi portarono i contributi, cioè le decime e le offerte sante,
per porli al sicuro. Il levita Conania ne ebbe la sovrintendenza”
(31,11), dal che si vede che non di proprietà si parla (la
proprietà è del Signore), ma di “sovrintendenza”
cioè di controllo, al più possesso. Di Ezechia si parla
come di un re ricco, che accumulò tesori e che “possedette
magazzini per il raccolto del grano, del mosto e dell’olio, e
anche stalle per ogni specie di bestiame e ovili per i greggi. Fece
costruire città ed ebbe bestiame minuto e grosso in
abbondanza” (32,27). Un classico regno palaziale.
Divertente
è il passo in cui Sennacherib si burla degli ebrei dicendo che
tutti i popoli che lui conquistava dicevano che il loro dio li
avrebbe liberati e mai succedeva. Allora quelli si arrabbiano perché
parlava di Jahvè “come di uno degli dèi dei
popoli della terra, che sono opera delle mani dell’uomo”
(32,19).
Da
qui in poi le opere citano la vita di funzionari al servizio dei
persiani.
Grazie
a Ciro e non certo a Jahvè (ma oggi gli ebrei non
ammetterebbero mai di dovere qualcosa ai persiani...) gli ebrei se ne
tornano a casa. Ma sorgono vari problemi. I rimasti avevano
sviluppato una cultura propria, i ritornati avevano conservato più
o meno la cultura originale. Ad ogni modo gli esuli sono valutati in
oltre 42.000. La prima cosa che fanno appena tornano è
ricostruire il tempio. Anche se ovviamente non possiamo aspettarci
perfetta coerenza da un testo del genere, gli accenni agli “anziani”
e in generale al peso delle gens dimostra di converso la scarsa forza
del nascente (o rinascente) Stato ebraico. Esdra è un
“sacerdote e scriba” di Artaserse, ovvero un funzionario
sassanide che il re manda nello Stato vassallo per ricostruirlo sulla
base delle tradizioni locali.
Si
racconta la vita di questo funzionario: “coppiere del re”
(1,11). Il suo compito è ricostruire le mura di Gerusalemme.
Qui chi comanda è ancora più chiaro: “dal giorno
in cui il re stabilì che io fossi loro governatore in terra di
Giuda, cioè dall’anno ventesimo del re Artaserse fino al
trentaduesimo, per dodici anni, io e i miei fratelli non mangiammo
mai della provvigione del governatore” (5,14), una formula
classica con cui i funzionari dimostravano la propria rettitudine. Va
da sé che la ricostruzione delle mura è un atto, non
certo solo simbolico, di ricostruzione dell’organizzazione
statale, anche se di un paese vassallo. Tra le varie norme che
compaiono in queste prime fasi c’è quella della decima
ai leviti conservata nella “stanza della tesoreria” (il
tesoro dei templi, come anche in Grecia).
Avere
delle mura significa non solo ripararsi dai nemici (e la nascita
delle città coincide con la costruzione di grandi mura, dalla
Mesopotamia a Micene, con l’unica eccezione della civiltà
minoica perché in quel caso era ben più di protezione
il mare), ma anche accumulare, avere un luogo fisico e politico dove
tenere insieme il surplus prodotto.
Simili
vicende trattano il libro di Tobia e quello di Giuditta, mentre con
Ester siamo già in piena epoca ellenistica, anche nel
linguaggio (l’opera è composta nel 150 a. C).
Cambia
decisamente il quadro con i Maccabei, dove si narrano delle lotte di
liberazione, ovviamente ammantate da una battaglia per riscoprire la
vera religiosità contro il paganesimo dilagante. Per certi
versi i maccabei sono i primi no global, lottano contro l’ellenismo
trionfante per difendere le proprie tradizioni. A ciò si
unisce l’oppressione nazionale anch’essa con contenuti
religiosi (l’entrata nel tempio, la trafugazione di oggetti
sacri). Mattatia e il suo clan guidano la rivolta armata. Si
raccontano le gesta militari di questi gruppi, per lo più
rivolte contro altri ebrei poiché non avevano la forza per
attaccare le forze regolari che erano dotate di elefanti e strumenti
sofisticati, “un esercito straordinariamente grande e potente”
(6, 41). Alla fine i capi della rivolta non possono che cercare
protezione presso questa o quella potenza, come già i re ebrei
prima di loro. Alla fine si alleano coi romani pensando che, essendo
lontani, non li avrebbero infastiditi ma come la storia dimostrerà
fecero il peggior calcolo politico della storia israeliana. Il
secondo libro dei Maccabei é scritto in greco e i nomi sono
tratti dalla mitologia greca (Giasone, Menelao, Lisimaco). Si narra
già di una fase di sconfitta e dunque di sublimazione extra
terrena (Dio ci ricompenserà non con terre ma in un’altra
vita). Si criticano i costumi dei pagani e degli ebrei non osservanti
(promiscuità sessuale, cibi a base di carne di maiale) ma è
una condanna morale, senza nessun aspetto reale. L’impero
romano aveva definitivamente distrutto ogni ipotesi di Stato ebraico
anche solo in forma subordinata.
Finita
la storia, la Bibbia espone quello che dovrebbe essere il succo di
duemila anni di tribolazioni nei libri sapienziali. Di fatto sono
passati in proverbio nei loro aspetti di passività (su tutte,
la pazienza di Giobbe, probo e ricco possidente). L’Ecclesiaste
(Qohelet) è in questo senso la giustificazione storica della
passività, per certi versi simile al buddismo. Tutto si ripete
sempre, niente cambia mai: “ciò che è stato è
ciò che sarà. Ciò che è stato fatto è
ciò che si farà, niente di nuovo sotto il sole”
(1, 9). Anche l’idea che il sapere sia un male, acuisca solo il
dolore è molto passivizzante. Nulla ha senso, è tutto
solo dolore. E a proposito di vita dopo la morte, è molto
socratico: “i vivi sano che devono morire, ma i morti non sanno
nulla” (9, 5). Questa filosofia della passività viene
ribadita nello scritto greco (del 50 a. C. circa) definito Sapienza.
Anche qui nulla c’è dopo la morte: “per caso siamo
nati e dopo morte saremo come se non fossimo stati…il corpo
diventerà cenere, e lo spirito si disperderà come aura
leggera” (2, 2-4). Un minimo di condanna sociale lo ritroviamo
nel Siracide: “c’è pace tra iena e cane? E c’è
pace tra il ricco e il povero? I leoni nel deserto vanno a caccia di
onagri, così i poveri sono il pascolo dei ricchi” (13,
19). Però poi incoraggia a trattare duramente gli schiavi.
Siamo evidentemente in un’epoca che precedette le grandi
rivolte schiavili e la loro sublimazione ideologica, il
cristianesimo.
L’ultima
parte è infine costituita dai libri profetici, la cui origine
è ovvia. Risvegliare le coscienze nei periodi di sconfitta.
Isaia
è il profeta più famoso (anche se il libro è
stato composto da diversi autori). La prima parte narra di un profeta
che agisce attorno al 740-700 a. C. Si lamenta al solito del lusso e
dei costumi perduti e descrive un mondo del tutto palaziale. Quando
vuole sottolineare la caducità dei potenti dice: “i tuoi
occhi contempleranno il re nel suo splendore, vedranno un paese
immenso. Il tuo cuore mediterà con terrore: “dov’è
lo scriba dov’è colui che pesa? Dov’è colui
che conta le torri?” non vedrai più un popolo brutale,
un popolo dal linguaggio oscuro e incomprensibile, di lingua barbara,
che non si comprende” (34, 17-19). Inoltre, non c’è
ancora moneta coniata , il metallo si pesa: “traggono l’oro
dalla borsa, e pesano l’argento con la bilancia” (46, 6).
Con Geremia siamo al periodo della deportazione a Babilonia (tra il
630 e il 590 a.C.). Anche qui si descrive un mondo pienamente palaziale
con l’arrivo di Nabucodonosor e la sua corte di funzionari.
Molti
profeti attaccano gli idoli, ovvero l’idea di materializzare la
potenza divina. Dice ad esempio Baruc degli idoli che “se
cadessero per terra, non si rialzerebbero da se stessi”.
L’iconoclastia è certo un riflesso dell’impotenza.
La concretezza di Dio, il suo incarnarsi in qualcosa di materiale
significa la possibilità dei popoli invasori di catturarlo e
trafugarlo (come fu spesso fatto con gli dei babilonesi).
L’astrattezza della divinità ebraica riflette anche
l’assenza di un territorio tradizionale di insediamento.
La
cosa che colpisce dei libri profetici è che l’impotenza
degli ebrei nei confronti dei popoli vicini spinge i profeti a
scagliarsi contro il proprio popolo la cui élite non è
in grado di difenderli e anzi si vende ai più potenti.
Richiede dunque a tutti di sottomettersi a Jahvè, cioè
alla casta sacerdotale. Vale la pena di chiudere questo scritto con
un inno pacifista (attribuito a Michea) che, caso raro nella
letteratura religiosa universale, non chiede a Dio di massacrare,
distruggere, umiliare, ma di portare la pace:
“egli
governerà numerosi popoli e sarà arbitro di potenti
nazioni. Essi trasformeranno le loro spade in vomeri, le loro lance
in falci; un popolo non leverà più la spada contro un
altro, né si eserciterà più alla guerra.
Ciascuno sarà seduto sotto la sua vite e sotto il fico, senza
esser molestato” (4, 2-3)
Se
esistesse una divinità in grado di governare così gli
uomini, certo varrebbe la pena pregarla.
[1]
Per un’analisi storica eccellente e approfondita di tutta la
materia si rimanda a M. Liverani,
Oltre la Bibbia, (2003).
[2]
Che la Genesi sia un miscuglio di storie lo rivela anche la semplice
analisi dei nomi. Si parla di Nimrod, Babele, Accad, Assur, Ninive,
popoli mesopotamici famosi e con minimi o nulli rapporti con gli
ebrei. La stessa Torre di Babele indica la natura mesopotamica di
tutto ciò che gli ebrei ricordano dei propri inizi.
[3]
Come noto, la Bibbia si riferisce al Dio degli ebrei con termini
differenti, anche se la cultura ebraica li identifica oggi tutti con
Jahvè. I cristiani hanno poi sovrapposto a questo Dio (che gli
ebrei distinguono sempre bene dalle divinità altrui) il loro,
universale. In questo lavoro quando ci riferiamo al termine Dio
intendiamo la divinità di cui narra il vecchio testamento.
[4]
Giova osservare l’infondatezza di un pregiudizio classico che
riguarda l’irrazionalità presunta del sacrificio usando
un esempio illustre. Nella raccolta di saggi Dialettica
dell’Illuminismo, Horkheimer e Adorno, parlando del sacrificio
sottolineano che questo non sarebbe “reale” perché
il dio così accudito non può mangiarsi i cibi
sacrificati. Il punto però non è se davvero un essere
superiore gode di questi sacrifici, ma che ne godono i suoi guardiani
terrestri, cioè la casta dei sacerdoti. Il ruolo sociale dei
sacrifici è giustificare l’accumulazione del surplus
nelle mani della casta sacerdotale, processo reale e basilare nelle
società orientali. Freud osserva acutamente: “quando si
affermò l’idea della proprietà privata,
s’interpretò il sacrificio come un dono alla divinità,
un trasferimento dalla proprietà dell’uomo a quella del
dio; ma così facendo si rinunciò a spiegare tutto
quello che è peculiare nel rito del sacrificio. In tempi
antichissimi l’animale sacrificale era stato esso stesso sacro”
(Totem e tabù, p. 189). Questo è il punto centrale. Che
poi fosse rappresentato feticisticamente nell’idea che il
fragrante aroma delle carni arrivasse fino in cielo è naturale
in quel contesto sociale e ideologico. D’altra parte questo
feticismo vive tuttora in molte religioni: i cattolici pensano
davvero di cibarsi del corpo di Dio mangiandosi l’ostia. Se la
transustanziazione trova ancora credito nel XXI secolo, possiamo
capire come migliaia di anni fa non fosse strano ritenere che gli
altari servissero davvero a nutrire Dio.
[5]
Come noto, Freud ha dedicato diverse opere ad esplorare la natura
della religione e in particolare delle religioni monoteiste. L’idea
di fondo, coraggiosa e acuta, è che la religione sia una forma
di nevrosi, sostanzialmente legata alla repressione sessuale. Qui
però ci interessa, dell’analisi di Freud, solo il suo
aspetto di interpretazione strettamente storica. In L’uomo Mosè
e la religione monoteistica, ultimo testo scritto da Freud prima di
morire, lo scienziato viennese cerca di contestualizzare storicamente
il racconto biblico. Ciò è ovviamente un passo avanti
notevole rispetto agli studiosi, comuni ancora oggi, che provano a
sostenere la storicità del racconto, ma è comunque una
razionalizzazione insufficiente. Il punto non è infatti che
Mosè era diverso da come lo racconta la Bibbia, il punto è
che non è mai esistito (d’altronde lo stesso Freud
ammette che di lui sappiamo solo dalla Bibbia e sottolinea le
similitudini con altri mitici fondatori di imperi, da Romolo a Sargon
a Ciro). Ad ogni modo, Freud propone un’ipotesi ben nota: Mosè
sarebbe un egiziano, probabilmente un alto funzionario (come in
effetti suggerisce il nome che Freud intetpreta acutamente come una
tipica contrazione di un precedente nome che prima conteneva anche il
riferimento a un dio come in Tut-mose Ah-mose), che prese i residui
dell’ideologia monoteista di Eknaton per costruirci lo Stato
ebraico. Infatti, nel 1375 a.C. Amenofi introdusse il monoteismo (e
con esso l’intolleranza religiosa “sconosciuta
all’antichità prima di allora e ancora per lungo tempo
dopo”) per sottomettere la casta sacerdotale, prendendone anche
le proprietà. Il faraone non era più il capo di una
complessa piramide ma il rappresentante dell’unico Dio sulla
Terra. La nuova religione escludeva ogni forma di magia e di mito
(rendendo così inutili i sacerdoti per i quali quelle pratiche
costituivano una funzione decisiva). Questa fu la tradizione passata
agli ebrei da Mosè, dice Freud, assieme alla circoncisione. Di
sicuro Mosè anche nel racconto biblico non parlava ebraico.
[6]
Tra i tabù vi sono ovviamente anche quelli alimentari. È
opinione diffusa che il motivo per cui le popolazioni semitiche
(ebrei ed arabi) non mangino carne di maiale sia riconducibile ad
aspetti igienici. Si tratta ovviamente di razionalizzazioni
successive senza legami con l’origine del fenomeno. Basta
passare in rassegna le numerosissime specie animali che agli ebrei
sono vietate per capirlo. Si tratta di residui totemici, non certo di
una precoce coscienza medica.
[7]
Si osservi che in questo quadro, dove i sacerdoti si caricano sulle
spalle le colpe di tutti, il peccato è un elemento necessario
alla religione, è la funzione pagata con la decima.
[8]
Ma anche “nessuno c’è fra gli dei, o Signore, che
sia simile a te” (Salmo 85).
csepel - xepel
|