ECONOMIA E SOCIETA'
idee per il socialismo democratico


TEORIA ECONOMICA CLASSICA VS MARGINALISMO

Adriano Torricelli

TEORIA ECONOMICA CLASSICA (E MARXISTA) E TEORIA MARGINALISTA: UN CONFRONTO

Carlo Marx, (…) allegando che “il valore è lavoro cristallizzato”, ne ricava per logica illazione il diritto dell’operaio al prodotto integrale del proprio lavoro, uno dei postulati fondamentali del socialismo scientifico. (…) Gli è che per dare valore a una cosa non basta lavorarla: occorre lavorarla in modo da renderla utile e cioè atta a soddisfare un bisogno.

William Stanley Jevons, Economia politica (Valore) – 1871

a) Caratteri salienti della teoria classica del valore-lavoro e sue principali implicazioni (prezzo come quantità di lavoro, o tempo di lavoro, contenuto nelle merci; conseguente teoria del profitto come sfruttamento del lavoro salariato)

b) Debolezza della teoria classica del valore e del prezzo (soprattutto l’idea del prezzo come equivalente del valore-lavoro o tempo di lavoro contenuto nella merce: perché non di più? Da dove proverebbe allora l’utile del capitalista? Integrazione della precedente teoria del prezzo con i fattori di domanda e offerta che diventeranno poi centrali, anche se in forma diversa, nella teoria marginalista. Inoltre, l’assunto stesso della teoria del valore-lavoro, secondo cui ad un tempo di lavoro determinato corrisponderebbe un valore di scambio determinato in modo univoco, è fondamentalmente indimostrabile. Integrazione della teoria del valore-lavoro con l’idea che i tipi di lavoro siano ognuno diversamente retribuito a parità di tempo)

c) Caratteri salienti della teoria del valore marginalista e sue principali implicazioni (valore come utilità percepita soggettivamente, ovvero de-oggettivazione e de-quantificazione dell’idea del valore dei teorici classici; smentita della legge del prezzo ricardiana: il prezzo non è vincolato al costo di produzione delle merci, dipende piuttosto dalla loro utilità marginale; e quindi della teoria marxiana della caduta tl saggio di profitto capitalistico)

d) Il valore della teoria marginalista in relazione agli sviluppi del capitalismo (sviluppo del capitalismo: emergere di classi medie, che ridimensionano il valore della teoria dello sfruttamento capitalistico; la mancata caduta del capitalismo profetizzata da Marx, impone una teoria non catastrofista di esso; eccesso di fiducia dei marginalisti nelle capacità autoregolative dei mercati)

e) Nuove teorie sulla fine del capitalismo (il progresso tecnologico, la fine della scarsità e dei mercati: la rinascita di un’idea cooperativa di società e di economia)

* * *

Il tema del valore delle merci (valore di scambio) è uno degli argomenti essenziali di ogni teoria economica. Con esso si tenta di rispondere alla domanda: perché un certo oggetto o servizio, posto sul mercato, assume un determinato valore o prezzo piuttosto che un altro?

Qui avanti analizzeremo due teorie del valore opposte tra loro: quella classica (sostenuta tra gli altri e principalmente da Smith, Ricardo e Marx – il quale ultimo peraltro, si pone per molti altri aspetti in contrapposizione col paradigma classico) e quella marginalista (successiva e alternativa sia al pensiero dei classici che, e ancor più, a quello marxiano).

Ma la teoria del valore, in quanto per sua natura principio e base di ogni sistema di pensiero economico, è all’origine del modo di affrontare anche tutte le altre questioni e problemi discussi da tale scienza. In particolare qui avanti, a partire dai diversi modi di trattare la questione del valore, ci soffermeremo sul problema dell’origine del profitto capitalistico e sul destino a lungo termine di tale sistema.

a) Caratteri salienti della teoria classica del valore-lavoro e sue principali implicazioni

Teoria classica del valore-lavoro

I classici (Adam Smith con alcune incertezze, David Ricardo in modo più sistematico) identificavano il valore economico di una merce (valore di scambio) con la quantità di lavoro in essa contenuta, ovvero con il tempo di lavoro necessario a crearla. Se – essi pensavano – per creare la merce A erano necessarie due ore di lavoro e per la merce B un’ora, a rigore di logica (e anche di fatto, seppure con alcuni margini di incertezza, come si vedrà meglio più avanti…) il prezzo della merce A dovrebbe essere il doppio di quello della merce B. Cosa infatti, può determinare il prezzo di una merce se non la “fatica” che è stata necessaria all’uomo per produrla?

Per essere più precisi, Adam Smith non era poi così sicuro che nel mondo moderno, industriale e capitalistico, il prezzo delle merci equivalesse al valore-lavoro in esse contenuto (ovvero a un prezzo in danaro corrispondente al tempo di lavoro alla base della loro creazione.) Egli osservava difatti, come nei tempi antichi il produttore lavorasse da solo e in indipendenza, senza intermediari, ragion per cui se la creazione di una certa merce di scambio (ad esempio, la caccia di un coniglio) era costata 2 ore, e tale era di solito il tempo di lavoro da essa richiesto (infatti, quasi sempre è giocoforza basarsi su tempi di produzione “medi”), il prezzo a cui tale produttore avrebbe messo tale merce sul mercato doveva equivalere a quelle due ore (il che poteva equivalere ad esempio, nei termini del danaro ‘di allora’, a due conchiglie).

Nel mondo moderno però, osservava Adam Smith, il lavoratore opera sempre alle dipendenze di qualcuno, ha cioè un principale o capitalista che gli fornisce i mezzi alla base del proprio lavoro: essenzialmente cioè gli strumenti del proprio lavoro e le materie prime. E anche quest’ultimo ha diritto ad un ricavo, a un compenso, per ottenere il quale dovrà: (A) fare rientrare le spese legate ai macchinari e alle materie prime con cui lavorano i suoi dipendenti; (B) ricavare un guadagno, un utile netto o profitto aggiuntivo rispetto a esse. Al compenso legato al tempo di lavoro dell’operaio dunque (al tempo di lavoro da questi prestato) si dovrà aggiungere nella determinazione del prezzo della merce anche un compenso per il capitalista. Per questo secondo Smith, nel mondo moderno, nell’era industriale in cui l’operaio lavoratore diretto non è più il solo a dover guadagnare dalla merce prodotta, il prezzo di quest’ultima eccede il valore-lavoro necessario a crearla.

Di diverso parere era David Ricardo, secondo il quale invece, la concorrenza tra imprenditori costringendo questi ultimi a tenere bassi i prezzi delle proprie merci, queste ultime dovevano essere vendute a un prezzo equivalente al loro costo di produzione, ovvero in ultima analisi al valore-lavoro o tempo di lavoro che vi era a base.

Ma come era possibile fare ciò se, come dimostrato da Smith, accanto all’introito dovuto al lavoratore vi era sia quello legato alle spese di produzione (a carico del capitalista) sia quello che doveva generare il profitto o utile capitalistico? Semplice, sosteneva David Ricardo, ciò era possibile se nel prezzo del prodotto erano compresi da una parte (A) il costo delle spese di produzione fisse, ovvero di materie prime, macchinari, affitto della terra, ecc. (spese che dovevano essere coperte integralmente, per forza di cose) e dall’altra (B) quello legato al salario del lavoratore, corrispondente al valore-lavoro o tempo di lavoro da lui espresso per la creazione di tale merce. Allora dove stava l’utile del datore di lavoro, o imprenditore, o capitalista? Semplice, tale utile veniva dalla decurtazione del salario dell’operaio. Mantenendo il prezzo delle merci al livello delle semplici spese di produzione (A + B), ma sottraendo all’operaio parte del compenso che gli era dovuto in base alla quantità di lavoro svolto, il capitalista aveva la possibilità di accumulare un utile netto o profitto, da lui poi reinvestito ai fini della crescita e dell’implementazione produttiva della propria impresa.

Va qui notato inoltre, come il capitalista decurti lo stipendio del lavoratore non per ragioni edonistiche ma per scopi molto concreti. La concorrenza tra imprese che si dedicano a uno stesso settore infatti, costringe ciascuna di esse a cercare di migliorare in continuazione le proprie prestazioni produttive e in generale l’appetibilità dei propri prodotti, al fine di guadagnare sempre nuove fette di mercato a spese delle proprie concorrenti. Se ciò non accade, le ragioni possono essere due: o una libera scelta da parte dell’imprenditore, il quale però in tal modo avrebbe la quasi certezza di trovarsi presto ‘fuori mercato’ e fallire; o l’esistenza di un mercato non libero, ovvero di un regime oligopolistico o (ancora peggio) monopolistico che inibisce in tutto o in parte i meccanismi selettivi e competitivi dell’organizzazione di mercato.

Perciò Ricardo contrapponeva rigidamente la classe dei capitalisti imprenditori, sottoposta ai vincoli della concorrenza e ai conseguenti rischi di impresa, a quella dei rentiers o proprietari terrieri, che affittavano le loro terre ai capitalisti in cambio di un compenso o rendita che ne intaccava il reddito. Al contrario degli imprenditori capitalisti i rentiers, non avendo nulla da rischiare e tantomeno intrinseche esigenze di incremento produttivo (si limitavano infatti a dare in gestione ad altri le loro terre), non investivano di solito i propri soldi in attività produttive, ma li dissipavano nell’acquisto di beni di lusso e in generale in spese voluttuarie.

Ricardo provava una spiccata antipatia per questa classe inattiva e inoperosa, e concepiva la lotta di classe anziché, come più tardi avrebbe fatto Marx, come lotta tra operai e capitalisti, come lotta tra capitalisti e proprietari terrieri: i soldi che i capitalisti dovevano ai rentiers per l’affitto delle loro terre, andavano infatti a scapito dei loro profitti e della loro capacità di investimento produttivo, il che significava nella visione ricardiana a scapito dello sviluppo economico e sociale complessivo. È inutile aggiungere che egli parteggiava politicamente per i capitalisti, sostenendo attraverso i propri trattati la necessità di riforme in loro favore e a sfavore della classe parassitaria della nobiltà terriera…

Ma tornando al discorso sui salari, come si giustificava idealmente una tale decurtazione del compenso dei lavoratori rispetto al valore-lavoro da essi effettivamente creato? Essa si giustificava col fatto che il lavoro era una merce qualunque, al pari di tutte le altre. (Infatti in un regime capitalistico di mercato, tutto ciò che rientra nella sfera dell’azione economica si riduce in ultima analisi a merce di scambio). Se ogni merce si paga in base al suo costo di produzione, allora il datore di lavoro produce, cioè rende possibile, il lavoro degli operai alle sue dipendenze nella misura in cui rende loro possibile vivere (o forse bisognerebbe dire, sopravvivere) nel periodo in cui prestano servizio per lui. Il che si traduce nel fatto che il lavoratore debba essere pagato il minimo possibile, esattamente come del resto si cerca minimizzare gli altri costi di produzione.

Ricapitolando: la merce è venduta in base al suo prezzo di produzione, coincidente con le spese: per l’affitto della terra, per l’acquisto e la manutenzione dei macchinari, per l’acquisto delle materie prime (tutti questi fattori si chiamano di solito spese fisse); e con i salari dei lavoratori (ovvero con le spese o fattori variabili).

Per inciso, è interessante notare come, se si eccettuano le spese per l’affitto della terra, per il resto le spese fisse siano il prodotto del lavoro di altri lavoratori, quelli cioè che creano e manutengono le macchine e che procurano le materie prime necessarie alla creazione delle merci finali. Se dunque, la legge secondo la quale la merce ha un costo equivalente al tempo di lavoro che l’ha creata ha un valore universale, se ne evince che anche l’imprenditore che acquista questi beni/servizi dovrà pagarli in base alla quantità di lavoro in essi contenuto. Indirettamente dunque, nel prezzo della merce che egli vende, sarà compresa non solo la quantità di tempo di lavoro espressa dai suoi operai (salari), ma anche quella degli operai che hanno prodotto i beni/servizi (il capitale) da lui acquistati per creare le proprie merci. Il che conferma, una volta di più, come la merce si paghi in base al costo in termini di ore di lavoro necessario a crearla, sia direttamente (lavoro dei dipendenti diretti), sia indirettamente (beni e servizi necessari a rendere possibile il lavoro degli operai: in altre parole, il capitale – a carico dell’imprenditore – che sta alla base del loro lavoro).*

È nella natura delle spese legate ai salari il fatto di essere variabili, cioè non stabilite in modo univoco, poiché appunto il datore di lavoro può decidere quanto pagare gli operai, in base (almeno orientativamente) al già citato principio del salario minimo o di sopravvivenza. Sono dunque tali spese, cioè i salari “decurtati” dei lavoratori dipendenti, a generare il profitto capitalistico: ovvero l’utile netto che fornisce al capitalista il valore economico necessario per l’investimento delle sue ricchezze personali nella crescita d’impresa, fattore necessario (in un regime di libera concorrenza) alla sua stessa sopravvivenza.

Si deve notare inoltre, come la teoria classica (e poi marxiana) di cui qui ci stiamo occupando ponga l’accento innanzitutto sul circolo virtuoso alla base dell’economia di mercato: produzione industriale delle merci → vendita e profitto capitalistico → investimento di tale profitto in un ulteriore implementazione della produzione (con la conseguenza di un aumento delle merci in circolo nella società).Il paradigma classico è insomma, un paradigma della crescita. Non a caso, esso si sviluppa in un periodo in cui l’industria e la tecnologia si stanno per la prima volta affermando come strumento produttivo a livello sociale (decadenza della produzione artigianale individuale), e in cui l’Umanità assiste a un incremento impressionante dei beni di consumo riversantisi sui mercati (…il fatto che poi la distribuzione dei redditi, e quindi della capacità di accedere a tali beni, fosse alquanto diseguale, è tutt’altro discorso!)

[*In sintesi, ciò significa che i costi dei mezzi produttivi sono a loro volta coincidenti con il tempo di lavoro che vi è a base, e che quindi il prezzo della merce finale è la somma del tempo di lavoro degli operai diretti dell’imprenditore + il tempo di lavoro degli operai che hanno creato i mezzi, acquistati e pagati dal capitalista, alla base del lavoro dei suoi operai.]

La legge marxiana della caduta del saggio di profitto capitalistico

In questo discorso si inserisce l’originale concezione di Karl Marx, teorico del socialismo e dell’inevitabile collasso dell’economia capitalista che lo precederebbe. Marx sosteneva che, se è vero come indiscutibilmente è vero, che la competizione di mercato impone alle aziende di creare sempre più merci e a costi sempre minori, e che questo risultato è ottenibile solo attraverso un impiego sempre più massiccio della tecnologia a scapito del lavoro umano, ne segue che gradualmente le aziende vedranno calare i propri profitti, fino a una loro pressoché totale scomparsa (o in ogni caso a un punto tale da rendere insostenibile e ingiustificabile l’attuale struttura della società, basata sulla proprietà privata dei mezzi produttivi da parte di una minoranza di imprenditori capitalisti).

E ciò poiché, dal momento che (come si è visto) il profitto si crea solo attraverso lo sfruttamento del lavoro umano, un impiego percentualmente sempre più massiccio di capitale fisso e sempre più esiguo di quest’ultimo, comporterà un margine di guadagno netto sempre minore per le imprese. E dal momento che l’utile netto o profitto costituisce l’anima stessa dell’organizzazione capitalistica della produzione, ovvero lo scopo ultimo di essa, un tale fenomeno ne comporterà inevitabilmente sui tempi lunghi la fine.

Questa appena descritta è chiamata “legge della caduta tl saggio di profitto”, ed è la base teorica stessa della previsione marxista della fine del sistema capitalista. Su tale teorema si basavano le speranze di una vasta parte dell’opinione pubblica e di vasti strati della popolazione in una fine imminente della società di mercato, e delle ingiustizie sociali che ad essa si accompagnano. Essa costituiva quindi, la base ideologica di un vasto movimento politico e sociale con scopi apertamente rivoluzionari dotato di un’articolata organizzazione a livello internazionale (Internazionale socialista era infatti il suo nome).

Per capire il marginalismo come fenomeno culturale e politico, è necessario tenere conto anche di tutto ciò: ovvero del potenziale politico e ideologico delle teorie marxiste e dell’organizzazione mondiale proletaria da esse sostenuta e orientata.

b) Debolezza della teoria classica del valore e del prezzo

La cosiddetta scuola economica classica, in particolare nella sua variante ricardiana, che fu per molti aspetti ripresa dallo stesso Karl Marx (il cui pensiero tuttavia, come noto, era politicamente antitetico a quello degli economisti classici, sostenitori del mercato e del profitto privato), pur chiara e coerente al suo interno, ha però anche dei punti di debolezza che non sono sfuggiti a molti critici.

La teoria dei prezzi

(a) Il primo riguarda la teoria dei prezzi, visti (nonostante la presenza di alcune variabili estrinseche, in particolare quelle legate al rapporto tra domanda e offerta) come la traduzione in termini monetari del tempo di lavoro impiegato per crearle. In altri termini, se una determinata merce è stata creata in un’ora di lavoro, e se un’ora di lavoro vale uno scellino, quella merce sarà venduta a uno scellino. L’idea che il prezzo di una merce corrisponda al tempo di lavoro che l’ha prodotta è un fatto naturale, come abbiamo già visto quando abbiamo accennato allo scambio primitivo: in esso, diceva in particolare Adam Smith, se la merce A si stimava che richiedesse un’ora di lavoro e la merce B due, la seconda merce valeva il doppio della prima (ex: due conigli si scambiano per una lepre). Nell’organizzazione capitalistica moderna però, in quanto basata sull’investimento da parte del capitalista dei surplus ricavati dalla commercializzazione dei prodotti della sua impresa, tale discorso pare non reggere. Se infatti il prezzo del prodotto coincide con il suo costo di produzione (cioè con il valore-lavoro o tempo di lavoro a esso sotteso), dove starebbe il guadagno del capitalista? Ricardo, come abbiamo visto, aggirava questa difficoltà affermando che questi pagasse gli operai alle sue dipendenze con un salario minimo, trattenendo il resto del valore da essi prodotto e incamerato nella merce per ricavarne appunto l’utile d’impresa.

È tuttavia, questo, o può in ogni caso apparire come un espediente macchinoso per salvare il principio originario del prezzo come equivalente del costo di produzione, ovvero del valore-lavoro alla base della creazione della merce. Oggi una tale tesi in genere non convince più. Anche un economista moderno di scuola “neo-ricardiana” come Piero Sraffa, osservava ad esempio a tale proposito che “fra i valori espressi dal lavoro contenuto [nelle merci] e i prezzi vi è proporzionalità solo nell’ipotesi, non rilevante in un’economia capitalistica, di un saggio dell’interesse, e quindi del profitto, pari a zero” (Roncaglia – Sylos Labini; “Il pensiero economico”, Laterza Bari 1995, pag. 29).

Ricardo, dal canto suo, giustificava questa posizione con il fatto che i capitalisti debbono tenere il più basso possibile il prezzo delle loro merci, a causa della concorrenza di mercato. Inoltre, fatto importantissimo, egli affermava che vi erano, oltre a questo fondamentale, anche altri fattori capaci di determinare il prezzo delle merci. Ma tali fattori potevano solo determinare un’oscillazione dei prezzi al di sopra o al di sotto del costo di produzione. Quest’ultimo costituiva dunque secondo lui pur sempre il perno attorno a cui essi inevitabilmente si muovevano.

In quest’ambito si inserisce il discorso sul rapporto tra domanda e offerta: se una merce è richiesta in quantità maggiore rispetto all’offerta, il suo prezzo sale al di sopra del suo costo di produzione; se al contrario l’offerta eccede la domanda, essa verrà venduta a un prezzo inferiore al suo costo effettivo per invogliare i potenziali compratori ad acquistarla. (Per inciso, il fattore del rapporto tra domanda e dell’offerta, seppure in una forma diversa da quella appena proposta di carattere oggettivo e quantitativo, diverrà nelle teorie marginaliste la base stessa di una nuova teoria del valore e dei prezzi delle merci.)

(b) Finora si è parlato della “rigidità” di questa teoria, che pare voler contenere arbitrariamente i prezzi di mercato entro un tetto definito: quello del costo di produzione o del valore-lavoro contenuto nelle merci. Vi è però un secondo aspetto critico in questa teoria, o meglio nelle implicazioni che essa assume nel pensiero di Karl Marx, che ne deduce come si è visto l’inevitabilità della fine del sistema di produzione capitalista. Se infatti – egli osservava – le merci sono vendute al loro costo di produzione e il profitto proviene dal lavoro operaio non pagato; e se come inevitabilmente accadrà la produzione diverrà col tempo sempre più meccanizzata, il profitto capitalistico sarà destinato progressivamente ad assottigliarsi con varie conseguenze, tra cui la concentrazione delle imprese in società di dimensioni sempre maggiori e in ultimo con la caduta stessa del capitalismo come sistema di organizzazione socio-produttiva.

A partire dalla tesi appena descritta, era prioritario per i teorici non marxisti, difensori dell’economia di mercato, elaborare una teoria antagonistica rispetto a quella di Marx, che ne vanificasse le previsioni riducendone l’autorevolezza e il potere di mobilitazione popolare e intellettuale. Questo compito (e più in generale quello di dimostrare la natura armonica e non conflittuale dell’economia di mercato moderna) fu assolto appunto dai teorici della scuola marginalista.

Astrattezza della teoria del valore-lavoro

Si può però andare ancora più a monte nella questione. Quel che difatti non convince nella teoria classica del valore, ancor prima delle sue implicazioni sulla teoria dei prezzi, è l’idea stessa che vi è a base.

È difatti estremamente astratta e indimostrabile empiricamente, la tesi secondo cui a un determinato tempo di lavoro debba corrispondere un determinato valore di scambio, secondo l’esempio già fatto del prodotto considerato frutto di due ore di lavoro che varrebbe il doppio di quello considerato frutto di una. Se ciò fosse vero, ad esempio, la moneta avrebbe da sempre una corrispondenza univoca con un determinato tempo di lavoro, per cui tutti stimerebbero (quantomeno suppergiù) che 1 euro (come qualsiasi altra unità monetale del presente e del passato) debba valere ad esempio 1 ora di lavoro, che abbia cioè quantomeno una corrispondenza tendenziale con un determinato tempo di lavoro produttivo. Invece così non è! E ciò sin dalla notte dei tempi, quando il valore delle cose si quantificava attraverso forme monetali primitive (ad esempio le conchiglie, i capi di bestiame, ecc.), il significato delle quali tuttavia già allora non era il tempo di lavoro contenuto ma il valore intrinseco del prodotto (intendi: il valore che esso acquisiva sul mercato grazie alle sue intrinseche caratteristiche).

È del resto lecito affermare che nella determinazione di tale valore entri anche il tempo di lavoro, ma solo come uno dei tanti fattori che vi sono a base e non certamente come l’unico e nemmeno (come per la verità affermava Ricardo, ammettendo l’esistenza di altre variabili capaci di determinare il valore di scambio delle merci) come il principale.

Infine, preme ricordare come tanto Ricardo quanto Marx fossero coscienti del fatto che esistano lavori di diverso pregio dal punto di vista economico, e che ad esempio l’ora di lavoro di un dottore valga più di quella di un lavoratore dequalificato (ad esempio un manovale). Il tempo di lavoro era quindi secondo loro una variabile non univoca ma a sua volta caratterizzata al proprio interno da molte varianti.

Ricardo e Smith inoltre, erano consapevoli che in quanto merce, anche il lavoro era sottoposto alla legge della domanda e dell’offerta, ovvero che il suo prezzo reale (cioè il compenso che il datore deve pagare all’operaio) poteva salire al di sopra o scendere al di sotto del suo prezzo naturale (il salario di sussistenza). Se ad esempio in un dato periodo e luogo vi fosse particolare bisogno di tornitori, il loro salario lieviterebbe verso l’alto, così come se di tale lavoro vi fosse un eccesso di offerta, il salario a esso corrispondente cadrebbe addirittura al di sotto del salario minimo.**

Pur con tutte queste precisazioni e attenuazioni, appare pur sempre lecito diffidare della fondatezza dell’idea secondo la quale il valore di una merce sia essenzialmente proporzionale al tempo di lavoro in essa espresso, ovvero al tempo di lavoro produttivo a base della sua produzione.

[**Ma è opportuno notare anche che quello di salario minimo o di sussistenza è un concetto molto flessibile, a detta dello stesso Ricardo. Infatti, in ogni epoca e luogo si ha un diverso concetto di “cosa” debba intendersi con l’idea di mera sussistenza, ovvero di una vita sobria e senza beni superflui. Con il progredire dello sviluppo economico e della tecnica che vi è a base, e quindi con l’innalzamento del livello di vita, infatti, un tale concetto ha finito per ampliarsi sempre di più, tanto che oggi cose che un tempo sarebbero apparse beni se non di lusso quantomeno voluttuari, appaiono magari diritti minimi.]

c) Caratteri salienti della teoria del valore marginalista e sue principali implicazioni

Tutte le difficoltà teoriche descritte sopra, più il problema sociale e culturale determinato dall’affermarsi dell’ideologia marxista (socialismo scientifico) con i suoi portati politici, determinarono un clima di profondo ripensamento delle basi stesse della disciplina economica da parte di molti pensatori appartenenti alla scuola liberale. Sorse da questi sforzi di aggiornamento una nuova corrente di pensiero economico, detta marginalista, che si fece interprete di queste nuove istanze. Tale scuola costituì quindi al tempo stesso una continuazione e una rottura rispetto alla scuola classica, ragione per cui viene spesso anche chiamata neoclassica.

La teoria del valore come utilità marginale

Mentre per i classici il valore di scambio di una merce era almeno in prima istanza proporzionale al tempo di lavoro in essa contenuto (misura quantitativa oggettiva), per i teorici marginalisti esso è invece essenzialmente proporzionale all’utilità in essa percepita dagli acquirenti (misura quantitativa soggettiva).

Il lavoro umano è in effetti un fattore imprescindibile perché vi siano merci: infatti (come si mostrerà meglio avanti) ciò che abbonda in natura e di cui non vi è scarsità alcuna, ciò che dunque non richiede alcuno sforzo per essere procacciato e fruito, non ha alcun valore di scambio, anche se (come, ad esempio, nel caso dell’acqua o dell’aria….) è assolutamente indispensabile ed ha quindi un’utilità assoluta per la sopravvivenza umana. Scrive Jevons (uno dei massimi teorici del marginalismo): “Il lavoro necessario per produrre in maggiore quantità una merce ne regola l’offerta; l’offerta produce un desiderio di averla più o meno ampio; e questa intensità di desiderio ne determina il valore.” (Economia politica; Valore.)

Il lavoro non è allora la misura del valore di mercato delle merci ma solo la precondizione per la loro esistenza. È invece la loro appetibilità, la loro capacità di creare desiderio nei potenziali consumatori la causa di tale valore, che è tanto maggiore quanto maggiore è tale desiderio e di conseguenza la quantità di sacrificio che essi sono disposti a fare per ottenerle.

I marginalisti però parlano di utilità (accompagnando peraltro tale termine a “marginale”), non di desiderio. Usano tale espressione perché se desideriamo qualcosa è sempre perché essa ci sembra utile (non importa in che termini: l’acqua lo è per la sopravvivenza, un diamante per la sua bellezza e il prestigio che conferisce a chi lo porta, o per l’utilità in alcune rare attività…) Ma l’utilità, pur avendo (spesso o forse quasi sempre) un fondamento oggettivo, è pur sempre un fatto soggettivo: ad esempio l’acqua la riteniamo utile perché sappiamo che ci serve per questa questa e altre infinite ragioni; i gioielli perché ci sembrano belli o perché suscitano ammirazione e rispetto in alcune persone, ecc. È in altri termini il soggetto a decidere cosa è utile per lui e quanto lo è, indipendentemente dal fatto che tale stima sia oggettivamente vera. L’utilità è sempre dunque, in ultima istanza, un dato soggettivo, non oggettivo.

Inoltre, nota Jevons, l’utilità percepita – ovvero il valore di scambio – è spesso funzione, più che dall’utilità assoluta e oggettiva di una merce, della (percezione della) sua scarsità. Proprio per questo, come si accennava già, l’aria e l’acqua o il cibo sono solitamente considerati di minor valore rispetto a una macchina di lusso o a un gioiello (ovviamente ciò può non essere vero per tutti, ma sul mercato i prezzi delle merci sono stabiliti in base a quella che si ritiene essere la stima dei potenziali acquirenti, ovvero più in generale in base a quella che si ritiene essere la percezione “media” del loro valore; il singolo fa testo nella definizione di un prezzo solo laddove vi sia contrattazione personale tra acquirente e venditore, cioè in casi particolari…) La ragione difatti per cui i beni di lusso hanno maggiore valore di scambio sul mercato rispetto a quelli di uso comune, risiede nel fatto che essi siano rispetto agli altri decisamente più rari, e quindi più difficili da acquisire.

Secondo tale visione allora, l’utilità di una merce, in senso economico o di valore di scambio, è tendenzialmenteproporzionale alla sua utilità assoluta sommata alla sua rarità o scarsità: l’acqua ad esempio è utilissima in senso assoluto ma è fortunatamente di solito un bene molto comune, quindi è percepita come di scarso valore economico; i diamanti sono senza dubbio molto meno essenziali per la vita, ma sono molto più rari e quantitativamente scarsi e sono quindi di solito considerati merci di alto valore o utilità. Provate però a trovarvi in pieno deserto, con l’acqua razionata, o assente: in tale situazione un bicchiere d’acqua, data la sua scarsità e la sua utilità assoluta, diventerebbe economicamente più prezioso e “utile” di un diamante…

Questo esempio ci introduce all’aspetto dinamico della teoria del valore marginalista, che spiega appunto l’uso del termine “marginale” accanto a “utilità”. In economia infatti, l’utilità non è un fatto statico, ma dinamico. Un bene può consumarsi o aumentare: ad esempio, se vado nel deserto con una borraccia piena d’acqua, ogni volta che ne bevo un po’ essa scema, fino all’esaurimento. Se al contrario, il mio fruttivendolo si accorge che una certa frutta è molto richiesta, ne ordinerà di più ed essa per me aumenterà. Ma quel che interessa la teoria economica è essenzialmente il fatto che l’offerta di un bene tenda solitamente a svalutarsi, ovvero che laddove l’offerta di un bene tenda a restare costante o ad aumentare, il suo valore di mercato (utilità marginale) tenderà a decrescere.

Infatti, se offro un bicchiere d’acqua a un assetato, questi considererà tale bene estremamente utile e gli attribuirà un grande valore; ma dopo il primo bicchiere la sua sete inizierà inevitabilmente a placarsi, anche se ne avrà ancora, ragion per cui stimerà il secondo bicchiere che gli viene dato di minore valore del precedente; così via di bicchiere in bicchiere fino all’esaurimento (nel nostro esempio) non dell’acqua, ma della sua sete. A questo punto il bicchiere d’acqua che gli verrà offerto per lui non avrà più alcun valore.

Se partiamo dal presupposto che il bene in oggetto sia disponibile, come solitamente avviene, in quantità non razionata rispetto ai bisogni dell’utenza, ne seguirà che col tempo, di consumo in consumo,sempre maggiore sarà l’assuefazione a esso e sempre minore il valore in esso percepito, cioè la percezione della sua scarsità e della soddisfazione che esso può dare: quindi, di margine in margine, il valore di tale bene andrà scemando.

Non a caso, la definizione di utilità marginale di Jevons è la seguente: “il grado di utilità […] dell’ultimo incremento in cui la cosa può materialmente o idealmente dividersi e che si trovi disponibile per il consumo”, cioè in poche parole, il grado di soddisfazione che di volta in volta può dare la fruizione di una merce, a partire da una certa quantità (stock) disponibile per il consumo che va scemando gradualmente in conseguenza del fatto di essere consumata. (Economia politica; Utilità).

Una tale legge generale, che afferma che il valore (di mercato) di una merce tende a consumarsi col tempo, mano a mano che essa diviene un oggetto di fruizione sempre più comune, si dicelegge tll’utilità marginale decrescente.

Ovviamente, si obbietterà, vi sono merci (ad esempio gli alimenti) di cui di volta in volta si rinnova l’esigenza e che perciò non hanno un’utilità che possa mai davvero cessare. È vero, ma è anche vero che un alimento comune come il pane, in condizioni normali di facile reperibilità, può in un certo senso venire a noia, e la clientela può cercare altri prodotti alternativi ad esso, svalutandone il valore. Se però, in una condizione di maggiore scarsità, la sua presenza sui mercati non possa più essere data altrettanto per scontata, il suo valore finirà per salire di nuovo, in quanto la percezione della sua scarsità (riflesso, in questo caso, di una scarsità reale) ne aumenterà il valore.

Come si vede, l’utilità marginale è l’equivalente del rapporto domanda-offerta dei classici, e si sostituisce al valore del tempo di lavoro come criterio essenziale per la determinazione del valore delle merci. ***

Tuttavia, per i classici domanda e offerta erano un fatto oggettivo: aumentando la domanda in relazione all’offerta, il prezzo di una merce cresceva e viceversa, aumentando l’offerta in relazione alla domanda esso diminuiva. Nella visione marginalista invece, il prezzo è stabilito in base alla valutazione soggettiva dell’utilità marginale di una merce (cioè, almeno in gran parte, alla valutazione della sua scarsità): valutazione che si suppone rifletta di solito fattori oggettivi, ma che è in ogni caso strutturalmente diversa da essi. La quantificazione dell’utilità e del valore di scambio delle merci insomma, dipende in tale visione, almeno in ultima istanza, dalla valutazione del soggetto che la deve acquistare, non da fattori oggettivi e quantificabili.

[*** Per i classici tuttavia, il tempo di lavoro è la determinate principale del valore delle merci, domanda e offerta (assieme ad altri fattori) quella secondaria. Per i marginalisti invece, l’utilità o, se vogliamo, il rapporto tra domanda e offerta ovvero il coefficiente di scarsità (utilità) percepita della merce, è l’unico fattore alla base del prezzo o valore di scambio.]

Contro Marx e Ricardo

Altro argomento interessante, cui già si è accennato, è osservare come l’impianto teorico marginalista contraddica alcuni presupposti essenziali della visione marxista: una visione che, non a caso, cominciò a diffondersi e a godere di grande popolarità proprio nel periodo in cui vennero elaborate tali teorie (se poi esse nascessero o meno per dare una risposta alle questioni poste dal filosofo di Treviri è un’altra questione, anche se è certo che in seguito si affermarono in gran parte proprio in quanto antagoniste alla sua filosofia!)

Due sono i bersagli del marginalismo sul fronte del marxismo: (A) la teoria della caduta tl saggio di profitto e (B) la teoria dello sfruttamento capitalistico del lavoro salariato (quindi implicitamente la visione rigidamente classista, che prima che marxiana era stata ricardiana, alla base di tale teoria). Per comprendere la critica al pensiero marxiano è però necessario tenere d’occhio ancor prima di tale pensiero il pensiero ricardiano, rispetto a cui il primo costituì in gran parte un approfondimento e uno sviluppo.

(a) Come si è già visto, la teoria marxiana della caduta tl saggio di profitto, base della sua previsione in merito alla fine del sistema capitalista, si fondava sulla teoria dei prezzi e del profitto di Ricardo. Sia per il filosofo inglese che per il fondatore del socialismo moderno infatti, il prezzo di una merce è l’espressione monetaria del costo in termini di tempo di lavoro o valore-lavoro alla base della sua produzione. Per entrambi inoltre il profitto del capitalista sarebbe il risultato dell’espropriazione da parte del capitalista di parte del valore-lavoro spettante all’operaio salariato, ovvero di ciò che è stato da lui concretamente prodotto.

Infatti, mentre i mezzi di produzione meccanici, le materie prime e i lavoratori esterni prestanti servizio alla sua impresa (quali potrebbero essere, ad esempio, i manutentori dei macchinari da essa impiegati) devono dal capitalista essere pagati per intero, i suoi dipendenti diretti possono essere espropriati di parte del valore-lavoro prodotto tramite il salario, il cui carattere essenziale è appunto di garantire loro la sopravvivenza senza tuttavia corrispondere a ciò che essi hanno concretamente prodotto. Proprio da una tale espropriazione deriverebbe il profitto o utile netto dell’impresa capitalistica.

Al contrario, secondo i marginalisti non sussisterebbe alcun legame rigido tra costo di produzione e prezzo della merce, se si eccettua il fatto che il capitalista, se vuole avere un utile o guadagno da essa, deve metterla sul mercato a un prezzo superiore al suo costo di produzione (somma dei vari costi in cui si divide la sua creazione: da quelli inerenti i macchinari, le materie prime, ecc. a quelli inerenti i lavoratori salariati.)

Il prezzo difatti è espressione non del costo di produzione ma dell’utilità della merce percepita dai potenziali clienti, in altri termini di ciò che essi sono disposti a spendere per averla. Se ad esempio, un imprenditore che fabbrica scarpe inventasse un modello ritenuto dall’utenza finale maggiormente confortevole o accattivante rispetto a quelli della concorrenza (dotato cioè di un valore aggiunto e quindi vendibile a un maggior prezzo), riuscendo a produrlo con spese a essa fondamentalmente analoghe, il suo profitto commerciale per ogni pezzo venduto sarebbe maggiore rispetto a quello dei suoi concorrenti, ciò che lo porrebbe in una condizione di vantaggio rispetto a essi.

In ogni caso, in ultima istanza, il profitto commerciale non deriverebbe in quest’ottica che dal fatto che il prodotto in commercio sia considerato dall’utenza finale tanto utile da giustificare un prezzo di vendita capace di coprire le spese di produzione con un avanzo o sovrappiù di valore economico, costituente appunto il profitto capitalistico.

Una tale visione non implica perciò assolutamente, al contrario di quella marxiana, alcuna progressione a decrescere del saggio di profitto capitalistico. Al contrario, secondo essa, vi saranno sempre capitalisti abili o fortunati, capaci di fare buoni affari e realizzare alti profitti, e capitalisti meno abili, a volte al punto da non riuscire ad accumulare surplus e destinati perciò al fallimento.

Abbiamo visto dunque, come la teoria dei prezzi marginalista (portato di quella del valore inteso come utilità marginale) contraddica la previsione marxiana della caduta del sistema capitalistico basata sull’idea di una progressiva elisione dei profitti d’impresa, cioè del motore ultimo di tale sistema.

(b) Anche la teoria dello sfruttamento capitalistico, secondo cui in tale tipo di organizzazione il lavoro sarebbe pagato, in quanto merce, sulla base della spesa minima alla base del suo mantenimento (cioè al prezzo della sussistenza degli operai), viene qui a cadere. Ciò poiché viene a cadere la teoria classica del prezzo delle merci. Infatti il prezzo del lavoro, ovvero il salario, dipende come quello di ogni altra merce dall’utilità percepita da chi lo acquista. Se dunque il lavoro di cui il capitalista ha bisogno ha per lui un grande valore, ne consegue che egli sarà disposto a pagare lautamente coloro che sono in grado di fornirglielo, garantendo a essi grandi entrate.

Più in generale, mentre le precedenti teorie classiche erano spiccatamente “classiste”, nel senso di scomporre la società in tre classi fondamentali: i capitalisti, i proprietari terrieri e i proletari o salariati, le teorie marginaliste sono caratterizzate al contrario dalla tendenza a porre tutti gli individui su uno stesso piano in qualità di soggetti capaci di contrattazione. Tutti hanno cioè qualcosa da vendere e qualcosa da acquistare, tutti propongono un prezzo (ciò che vale tanto per chi vende quanto per chi compra, anche se alla fine è ovviamente il secondo a decidere…) e tutti quindi vivono nel mercato e “di” mercato (almeno nelle società moderne, in cui la produzione economica è pressoché tutta finalizzata allo scambio). Ovviamente queste considerazioni nulla tolgono al valore della categorizzazione della società in differenti classi o ceti sociali, ma rendono tali divisioni più fluide, meno rigide.

Soprattutto, come si è appena visto, il marginalismo nega implicitamente il destino di povertà e di sfruttamento delle classi lavoratrici. In questo, una volta di più, esso si poneva in antitesi rispetto a Marx e al pensiero marxista, i quali tendono invece a sostenere che col tempo la frattura tra proletari nullatenenti e proprietari capitalisti si debba per forza di cose radicalizzare: sempre più poveri i primi, sempre più ricchi i secondi (anche se, a dire il vero, il discorso non è così semplice nemmeno in un’ottica marxista) e che una tale radicalizzazione costituirà uno dei motivi di debolezza e declino di tale sistema.

d) Il valore della teoria marginalista in relazione agli sviluppi del capitalismo

Ma la svolta teorica marginalista non ebbe valore solo come risposta alle critiche che Marx e in generale il pensiero socialista rivolsero al capitalismo, essa rispose anche (e forse prima di tutto) all’esigenza di ripensare le teorie classiche alla luce degli sviluppi dell’economia reale.

Difatti, come insegnano molti studiosi del pensiero economico, le teorie economiche non si sviluppano nel “vuoto”, ovvero in un ambiente neutro come un laboratorio di fisica in cui i fenomeni oggetto d’indagine possono essere analizzati in una forma pura, atemporale. Al contrario, le teorie economiche e in generale sociali sono profondamente condizionate dall’ambiente reale e storicamente determinato dal quale sorgono, e a cui (anche senza esserne pienamente consapevoli) si riferiscono. In tal modo esse, se da un lato trascendono, o cercano di trascendere, il contesto contingente in cui nascono, dall’altro restano pur sempre profondamente invischiate in esso, cercando di risolverne i problemi peculiari e più in generale riflettendo molti dei suoi caratteri di fondo.

Non solo il marginalismo allora, ma anche – per fare un esempio – il pensiero di un sociologo ed economista di grande importanza come Max Weber (un autore difficile peraltro da far rientrare in qualsiasi corrente…) si comprende davvero solo alla luce dell’esigenza di ripensare le teorie correnti in quanto incapaci, in ultima analisi, di penetrare a fondo la realtà a loro contemporanea.

Ma per tornare ai marginalisti, se ciò è vero dobbiamo chiederci in cosa le loro teorie riflettessero il contesto, sia reale sia ideologico, in cui si svilupparono e affermarono.

L’emergere di una vasta classe media

Prima di tutto, tali teorie riflettono una società in cui la ricchezza si è ampiamente diffusa, anche grazie alla formazione di una vasta classe media, la cui collocazione sociale è appuntointermediatra quella delle due classi, borghesia capitalistica e proletariato, cui facevano riferimento i pensatori classici e Marx (trattasi infatti pur sempre di una classe salariata, impiegata peraltro non solo da imprese private ma anche dallo Stato, per il quale svolge attività burocratiche e funzionariali, e che gode di un tenore di vita decisamente superiore a quello della pura sussistenza tipico del proletariato marxista).

E del resto, l’esistenza di una tale classe media o ‘intermedia’, nel senso di collocarsi in una condizione che le rende possibile sia l’accesso alle classi superiori che la retrocessione al rango delle classi proletarie in senso stretto, è in gran parte il portato dell’aumento di produttività determinato dall’avanzamento tecnologico delle società competitive e di mercato capitalistiche.

L’esistenza di una tale classe è stata portata spesso a dimostrazione dell’erroneità della visione marxista, la quale (come già si diceva) prevedeva col tempo un inasprimento della conflittualità e della disparità economica tra una ristretta classe ricca e una sempre più vasta classe di lavoratori nullatenenti o, peggio, di disoccupati, esercito di riserva del capitale internazionale. Un tale inasprimento, del resto, sarebbe stato in gran parte da collegarsi secondo Marx alla già menzionata legge della caduta tl saggio di profitto, che avrebbe comportato un sempre maggior sfruttamento delle masse lavoratrici da parte dei capitalisti, il cui fine sarebbe stato quello di compensare l’inarrestabile tendenza alla diminuzione del saggio degli utili d’impresa.

Marx non considerava abbastanza, insomma, il peso assunto dalle innovazioni tecnologiche nell’aumentare il livello di vita medio della popolazione dei paesi industrializzati a economia capitalista. Tali innovazioni, accrescendo la quantità di merci in circolazione e abbassandone di conseguenza il prezzo, produssero un innalzamento del livello di vita medio della popolazione, creando ampi ceti benestanti, impiegati in lavori meno umili e meno alienanti, oltre che meglio retribuiti, rispetto a quelli svolti delle classi propriamente operaie, ovvero dal proletariato marxista.

Il capitalismo insomma, sopratutto nelle sue fasi avanzate, pur basato effettivamente sul predominio economico (anche se non sempre politico) di ristrette classi proprietarie nei confronti di più vaste classi lavoratrici dipendenti, non portò solo miseria e sfruttamento ma anche benessere. Un fatto questo, di cui paiono essere ben coscienti i teorici marginalisti, con la loro visione dinamica e contrattualistica della società e dell’economia (il cui motto potrebbe essere: “ognuno può giuocare le sue carte, e vendere se stesso e i suoi prodotti al prezzo migliore che riesce a strappare”…) in contrasto con le rigide teorie del profitto e dello sfruttamento tipiche dei pensieri economici precedenti (il prezzo di mercato come prodotto del costo di produzione delle merci e la conseguente legge ferrea dello sfruttamento del lavoratore: unico mezzo per produrre utili soddisfacenti in un regime di libera concorrenza che spinge i prezzi sempre al ribasso…)

La mancata fine del capitalismo

Inoltre, sempre in opposizione ai marxisti, i marginalisti si impegnarono con le loro teorie a smentire alla radice la previsione di un imminente (?) collasso dell’economia capitalista: un collasso peraltro, che fino ad oggi indiscutibilmente non è avvenuto, anzi…

Essi colsero quindi, la vitalità della società e dell’economia capitaliste, in contrasto con la visione catastrofista dei loro avversari, i socialisti (che dal canto loro si fecero promotori delle esigenze di emancipazione sociale ed economica delle masse proletarizzate all’interno della società). Anche in questo senso, la loro impostazione può apparire più lungimirante rispetto a quella di questi ultimi, anche in considerazione dell’auto-implosione successivamente conosciuta dai sistemi comunisti a base statale sorti in Europa (in Russia) e nel mondo (in Cina, e in continenti arretrati quali l’Africa) nei primi decenni del XX secolo (periodo nel quale le teorie propriamente marginaliste conobbero peraltro il loro massimo splendore e la loro maggiore diffusione).

Un eccesso di ottimismo

Infine, è doveroso notare anche i limiti dell’impostazione marginalista: limiti che avrebbero portato nei primi decenni del XX secolo alla nascita di visioni decisamente meno liberiste, quale innanzitutto quella elaborata dal grande economista britannico John Maynard Keynes, impegnato ad affermare l’indispensabile ruolo equilibratore e stabilizzatore dello Stato nelle moderne società di mercato.

Già Adam Smith e David Ricardo (tra gli altri) avevano sostenuto la natura armonica, autoregolativa dell’economia di mercato. L’idea era l’esistenza di una Mano invisibile(secondo la celebre immagine di Adam Smith), di un meccanismo automatico che portava il Mercato, in un contesto di “concorrenza perfetta” (priva cioè di interferenze esterne), a svilupparsi nel modo migliore possibile per il benessere della società tutta.

Vediamo in dettaglio su cosa si fondasse questa idea. In sostanza, secondo i classici, dal momento che la domanda crea l’offerta (e ciò poiché – come si ricorderà – dove la domanda eccede l’offerta il prezzo naturale, basato sull’equivalenza tra costo di produzione e prezzo della merce, tende a essere superato, ovvero la merce a essere venduta a un prezzosuperiore al suo costo di produzione, aumentando così il margine di profitto per chi la vende), i capitalisti sono automaticamente portati a produrre ciò di cui la società ha bisogno. Questo meccanismo, basilare per il funzionamento del mercato, farebbe sì chel’interesse privato coincida con quello sociale o pubblico.

Ne deriva allora per logica conseguenza che il mercato come istituzione economica e sociale sia qualcosa di pienamente autosufficiente e autoregolato, e che ogni interferenza volta a modificarne il funzionamento spontaneo, pur magari costituendo a breve un vantaggio per qualcuno, si risolva sui tempi lunghi in uno svantaggio per la comunità complessivamente intesa!

Questa idea di fondo, di carattere spiccatamente liberista, costituisce senza dubbio il principale e più profondo debito dei marginalisti nei confronti della scuola economica classica.

Ed infatti, pur con qualche differenza, la giustificazione del liberismo da parte dei teorici marginalisti è essenzialmente uguale a quella appena descritta. Laddove difatti i classici utilizzano il concetto oggettivo e quantitativo di domanda, i marginalisti utilizzano quello soggettivo e psicologico di utilità e scarsità (l’utilità di una merce infatti, come si è visto, è percepita tanto maggiore quanto maggiore se ne avverte la scarsità). Se il capitalista è impegnato a realizzare profitti quanto maggiori possibile, è chiaro che egli cercherà di produrre le merci che il mercato in un dato momento dà segno di ritenere maggiormente utili. Ne consegue che, cercando di massimizzare i propri vantaggi, egli massimizzerà anche quelli della società, soddisfacendone i bisogni. (Questa evidente affinità di fondo peraltro, ci aiuta a comprendere come il pensiero marginalista o neoclassico costituisca per molti versi uno svolgimento originale di elementi già presenti in quello classico, nella fattispecie del rapporto tra domanda e offerta.)

Allo stesso modo, cioè sempre sulla base della ricerca del maggiore utile possibile, il lavoratore cercherà di offrire il proprio lavoro a chi ne avrà più bisogno, ovvero (a monte di ciò) di sviluppare attitudini e professionalità in linea con le esigenze del mercato stesso. In tal modo, egli otterrà le maggiori soddisfazioni economiche possibili, al tempo stesso garantendo l’occupazione di coloro che rivestono ruoli professionali meno appetibili del suo, nella misura in cui non farà loro concorrenza.

Un altro grande problema dell’economia capitalistica è poi quello della disoccupazione, che spesso si trasforma in un vero e proprio flagello sociale.

Nel loro ottimismo “metafisico” (e sinceramente davvero eccessivo) i marginalisti credono anche in questo caso, che tale problema tenda a risolversi attraverso il mercato piuttosto che attraverso misure che ne contrastino la logica spontanea. Essi osservano difatti che la disoccupazione, diminuendo la domanda (percezione di scarsità) di manodopera, ne diminuisce al tempo stesso il valore e quindi i salari, ragion per cui le imprese finirebbero per trovare più conveniente impiegare manodopera salariata che capitale meccanico, risolvendo o comunque attenuando tale problema.

È questa, una delle argomentazioni alla base del teorema marginalista della piena occupazione: teorema secondo il quale il libero mercato tenderebbe a impiegare tutta la forza lavoro disponibile, mentre i provvedimenti sindacali o politici volti a garantire alti salari e un alto livello di occupazione (pur sortendo magari effetti di breve periodo) porterebbero sui tempi lunghi a effetti opposti a quelli desiderati.

Pur non mancando queste argomentazioni di una propria logica e validità, la storia successiva ne avrebbe dimostrato la natura in gran parte illusoria. Le frequenti guerre imperialiste intraeuropee e i due grandi conflitti mondiali ad esempio, dimostrarono chiaramente a tutti come un’economia di mercato pura, slegata cioè dalla dimensione politica e sociale e fautrice di una collaborazione pacifica a livello internazionale, non sia in realtà possibile. E ciò poiché gli Stati si avvantaggiano sempre, attraverso tasse e altre misure economiche, della ricchezza prodotta dalle loro imprese, ragione per la quale tendono anche a favorirla, spesso entrando in competizione con esiti disastrosi.

Vi è poi un altro evidente elemento di debolezza all’interno dell’ottimismo marginalista: i mercati difatti, se abbandonati a se stessi, solitamente non si sviluppano armonicamente e in direzione di una maggiore solidità, ma in modo caotico e finanche autodistruttivo: un fatto questo, di cui la Grande depressione americana del ’29 (generatrice di povertà e disoccupazione a livello mondiale) costituì una innegabile evidenza. Proprio tale evento difatti, costituì lo spunto di ricerche di brillanti economisti – in primis appunto, Keynes – volte e ripensare le tesi radicalmente liberiste della scuola neoclassica.

In conclusione, si può dire che il principale merito della scuola marginalista fu quello di superare alcune rigidità e limitazioni teoriche dei propri predecessori, tanto liberali come Smith e Ricardo quanto socialisti come Karl Marx (Othmar Spann, un sociologo ed economista austriaco, sottolineò giustamente a questo riguardo come il socialismo sia stato un parto involontario ed “eretico” della stessa scuola classica, basata sul valore-lavoro…)

Il grande limite di essa fu però quello di cadere in un eccesso di astrattezza, nell’incapacità cioè di comprendere l’economia capitalistica nel suo funzionamento reale e concreto, in particolare nella sua relazione e reciproca influenza rispetto a fattori politici o non propriamente economici.

e) Nuove teorie sulla caduta del capitalismo

Senza dubbio, l’avvento del marginalismo ha profondamente modificato la nostra visione dell’economia capitalista. Un dato questo, che vale anche per autori come John Maynard Keynes (peraltro, come si è già accennato, profondamente critico verso alcuni aspetti centrali di essa) e Max Weber (il quale più che un economista fu un sociologo, che individuò nella razionalità e nella burocrazia i tratti distintivi dell’economia e della società moderne europee): autori peraltro di solito non collegati a essa se non, in particolare il primo, per opposizione.

Nessun grande autore del XX secolo, se si eccettuano quelli di scuola marxista, sposa più incondizionatamente la teoria del capitalismo come sistema economico intrinsecamente basato sullo sfruttamento o lavoro non pagato (cosa che non esclude ovviamente che sfruttamento possa esservi, e anche feroce!), così come nessuno accetta più la tesi marxista dell’impoverimento progressivo delle masse (tesi che, si può dire, è stata fondamentalmente smentita dalla storia) o la previsione di una sua inevitabile caduta, in particolare se basata sulla legge tl saggio di profitto decrescente.

Tuttavia anche oggi, nonostante il collasso del sistema dei paesi del Socialismo reale e l’implicita “definitiva” vittoria del Capitalismo, alcuni individui “originali” tornano a preconizzare un’imminente fine di quest’ultimo. Interessante è però notare come completamente differenti rispetto alla teoria marxista siano i presupposti alla base delle loro previsioni (le quali inoltre, altra differenza notevole, non prefigurano tanto l’instaurazione di un sistema socialista/comunista, quanto innanzitutto quella di una società “tecnocratica”.)

La fine del sistema capitalista secondo Marx

Marx basava la sua “profezia” sulla fine del Capitalismo sull’idea che il saggio di profitto capitalistico (il saggio, si badi bene, cioè la percentuale del profitto o guadagno netto rispetto alla totalità delle spese di produzione) dovesse decrescere col tempo in modo tendenziale (e ciò a causa, come si ricorderà, del peso sempre maggiore assunto dalla tecnologia nelle spese di produzione complessive). Il risultato di tale processo sarebbe stato il fatto che un gruppo sempre più sparuto di capitalisti avrebbe finito per accentrare sotto il proprio capitale, cioè sotto la propria proprietà, la produzione sociale complessiva (e ciò è ovvio: dal momento infatti che secondo Marx gli utili sono destinati ad assottigliarsi sempre più a causa della crescita costante delle spese fisse, per avere degli utili di un certo peso, i capitalisti dovranno secondo lui fondere tra loro le proprie imprese creando delle corporations, dando così avvio a un processo di accentramento dei capitali e alla formazione di società numericamente sempre minori e sempre più vaste.)

Marx sosteneva altresì, che un tale accentramento avrebbe avuto come effetto quello di creare una società dove sempre più esiguo sarebbe stato il numero dei proprietari capitalisti e sempre più ampio quello dei proletari: i poveri e gli “schiavi” del sistema. Al tempo stesso, la produzione strutturandosi sulla base di organismi sempre più vasti e articolati, la società si sarebbe organizzata sempre di più in forme collettive e collaborative (nelle aziende infatti vale il principio della cooperazione, laddove invece la concorrenza è la legge che regola il rapporto tra diverse società).

A un certo punto però, sosteneva Marx, la situazione si sarebbe fatta insostenibile: pochissimi individui molto ricchi da una parte, e una massa di proletari salariati, abituati a collaborare in vista di obiettivi produttivi comuni dall’altra. I secondi si sarebbero allora in sostanza chiesto che senso avesse perpetuare una simile situazione, tutta a vantaggio di pochi (l’élite dei ricchi) ma a svantaggio di molti (la massa dei proletari).

Da tale considerazione sarebbe sorta una rivoluzione della classe operaia, per molti versi simile a quella portata avanti secoli prima dalla borghesia francese, la quale scalzò con la violenza (“levatrice della storia”) la nobiltà feudale dal suo antico primato sociale e politico. In modo alquanto simile dunque, il proletariato avrebbe ora scalzato dal suo ruolo di comando, se necessario anche con la forza, la ristretta classe capitalistica borghese detentrice delle leve politiche ed economiche della società, decretando la nascita di un novo sistema sociale di carattere cooperativo, socialista prima e poi comunista: un sistema che però, si badi, era in sostanza già sorto prima di tale evento, in conseguenza delle trasformazioni economiche e sociali conosciute dal sistema capitalista (necessità storica).

La teoria della rivoluzione di Marx peraltro, aveva la propria scaturigine più profonda nella teoria del valore-lavoro dei classici, in quanto questa partoriva la teoria ricardiana dei prezzi come costo di produzione, la quale a sua volta partoriva quella del profitto come risultato dello sfruttamento dei lavoratori salariati, la quale ultima partoriva con Marx la legge delle caduta tl saggio di profitto, causa della rivoluzione stessa.

La fine del capitalismo secondo le nuove teorie

Molto diversa è l’impostazione dei nuovi “profeti” della fine del capitalismo. Mi riferisco, in particolare, a due autori caratterizzati da nazionalità e percorsi formativi molto distanti tra loro: un ingegnere (il termine va inteso in senso molto allargato) statunitense di nome Jacque Fresco, e il celebre filosofo italiano Emanuele Severino.

Questi due autori, pur con inevitabili e comprensibili differenze dovute a differenti background culturali (Fresco entra molto più nel dettaglio dell’evoluzione delle tecnologie future elaborando ipotesi sperticate spesso dimostratesi profetiche, Severino si sofferma maggiormente sugli aspetti politici e culturali della questione), avanzano nei loro scritti e nelle loro interviste tesi assai simili sul futuro delle società umane, tanto che le loro visioni paiono essere caratterizzate da un nocciolo di concetti condivisi:

1) la tecnologia (quella attuale e ancor più quella futura) come fonte di un’offerta di beni superiore alla domanda, ovvero la fine della scarsità oggettiva e del bisogno;

2) la fine della società di mercato, che trova appunto in tale scarsità il proprio presupposto, in favore di una società in cui la distribuzione dei beni avrà luogo in base a logiche non più di mercato e monetarie.

Quel che collega queste ipotesi sul futuro delle società umane a ciò che si è scritto finora, è l’idea della scarsità. Abbiamo visto che nella visione marginalista il valore di una merce è il risultato della valutazione da parte dei potenziali acquirenti della sua utilità, ovvero del valore astratto o di scambio che essi sono disposti a cedere per il suo possesso od uso. Ma tale valutazione d’utilità dipende dalla valutazione di due variabili: (A) l’utilità assoluta della merce in questione; (B) la sua scarsità. La scarsità ha peraltro un aspetto soggettivo e uno oggettivo. Da una parte difatti, se ad esempio un soggetto ha molta fame, avvertirà in se stesso una forte esigenza e scarsità di cibo, e quindi il cibo avrà per lui un grande valore; dall’altra però, egli valuterà anche la scarsità oggettiva di esso: in un luogo dove le sostanze alimentari abbondano difatti, il loro valore di mercato è minore rispetto a un luogo in cui scarseggino.

Riassumendo, il valore della merce è dato dai seguenti elementi: il fatto che l’oggetto-merce possieda una qualche utilità per chi l’acquista o è tentato di farlo (il cibo ha un’utilità oggettiva massima, poiché senza di esso non sarebbe possibile la vita; lo stesso o quasi dicasi per i vestiti; l’utilità assoluta di un’automobile è già minore; quella di un diamante è ancora inferiore, e così via); il fatto che vi sia scarsità di esso: sia da un punto di vista soggettivo (che se ne avverta un più o meno grande bisogno e desiderio) che da un punto di vista oggettivo (che ve ne sia una reale scarsità in relazione alla domanda: ovvero che l’offerta non copra per intero la domanda, nel senso che lo stock di prodotti disponibili sia insufficiente, anche se di poco e senza che vi sia quindi vera e propria penuria, a soddisfare le esigenze di consumo della popolazione). ****

A ben vedere, tuttavia, è la scarsità oggettiva a fare il mercato, anche se è la valutazione soggettiva dell’utilità a stabilire il valore economico delle merci. Se infatti venisse a mancare tale scarsità, verrebbe di conseguenza a mancare la ragione stessa di un’istituzione basata sullo scambio di beni e servizi con altri beni e servizi (lo scambio è infatti sempre scambio di un bene con un altro bene, anche se ciò avviene quasi sempre in modo indiretto attraverso l’uso del danaro). Non sarebbe difatti, in questo caso, più semplice e pratico approvvigionarsi di ciò che ci serve in modo gratuito, ovvero senza cedere qualcosa in contropartita?

Non stupisce allora che, secondo queste visioni, la (presunta) capacità della tecnologia moderna di eliminare il bisogno, di produrre cioè un’abbondanza di beni di consumo che vada al di là della possibile domanda, si accompagni per forza di cose alla fine del mercato: e ciò non perché non sia possibile, anche in una condizione di abbondanza assoluta, allocare i beni prodotti sulla base delle logiche del mercato, ma perché sarebbe sciocco e inutile continuare a farlo.

Ciò che questi teorici ipotizzano e preconizzano è allora una società nella quale gli enormi surplus di risorse derivanti dall’impiego di tecnologie sempre più progredite saranno utilizzati, oltre che per il consumo e il benessere immediato dell’Umanità, come strumento per superare i limiti che ad essa ancora rimangono. Ritorna quindi il circolo (o meglio laspirale) virtuosa alla base delle teorie economiche classiche: produzione -> creazione di un surplus o profitto -> reinvestimento di esso nella crescita produttiva (ovvero, in gran parte, in attività di ricerca volte all’avanzamento tecnologico).

E tuttavia un tale meccanismo o circolo virtuoso, già presente nell’attuale economia capitalista, non si attuerebbe più in vista di finalità di accrescimento particolari, private, bensì in vista di finalità pubbliche e sociali e sulla base di una pianificazione a sua volta pubblica e sociale. Una tale organizzazione economica dunque, non avrebbe più come scopo il profitto capitalistico privato, bensì il benessere della comunità complessivamente intesa. (A questo proposito, Severino utilizza una nota immagine hegeliana, affermando che la scienza e la tecnica, da serve dell’economia capitalista, diventerebbero a un certo punto padrone di se stesse, emancipandosi dalla precedente dipendenza dalla prima).

In una tale società, le vastissime risorse create e rese disponibili attraverso la tecnologia, non verrebbero utilizzate per assecondare (influenzandole) le congiunture dello scambio e del mercato, la natura dei quali come noto è intrinsecamente irrazionale, bensì in vista di un piano organico di sviluppo dell’Umanità, attraverso una costante estensione dalle sue possibilità tecnologiche.

Non è mia intenzione discutere la correttezza di queste ipotesi, a partire dal primo e fondamentale assunto che vi è a base: la presunta capacità della tecnologia attuale o futura di “sconfiggere” la scarsità (come è possibile infatti, porre un limite ai desideri umani?…), passando per gli inconvenienti riconosciuti di un’economia burocratizzata e statalizzata, che elimina in sostanza l’incentivo del profitto privato dalla sfera della produzione (un inconveniente storicamente già sperimentato, e non molti decenni fa…) Ciò che mi urgeva porre in luce, era invece l’affiorare di una nuova idea di socialismo o di economia sociale, a partire non più dai presupposti classici dell’economia, ma da quelli delle più moderne correnti marginaliste, in particolare dalla teoria dell’utilità marginale dei beni economici.

[****È importante distinguere chiaramente tra loro questi due concetti: povertà relativa penuria. Il mercato richiede per esistere la prima, ma non la seconda (e ciò, beninteso, anche se essa non è di alcun ostacolo al suo funzionamento, ed anzi – come si sarà capito – ha il potere di accrescere ulteriormente il valore delle merci).]

Vi è povertà relativa di una merce quando lo stock di essa non basterebbe a soddisfare le esigenze di consumo più voluttuarie. Ad esempio, se produco una merce in quantità tale che, una volta ceduto l’ultimo pezzo, vi sia ancora qualcuno che, magari per semplice capriccio, me ne chieda ancora.

Laddove invece lo stock di beni prodotti fosse chiaramente superiore alle esigenze di consumo, cioè alla domanda, vi sarebbe abbondanza assoluta. In una condizione normale, ad esempio, l’aria basta abbondantemente per tutti, ragione per cui non avrebbe alcun senso “venderla”.

Sia chiaro, anche in una condizione di abbondanza assoluta di un bene si potrebbe teoricamente “vendere” tale bene, ma sarebbe un’operazione scorretta moralmente e praticamente inutile. Che senso avrebbe infatti, razionarne la distribuzione (il mercato difatti raziona l’accesso ai beni decidendo chi può e chi non può accedervi) se esso è sovrabbondante rispetto alla richiesta?

Fonti:

  • Roncaglia, Sylos Labini: Il pensiero economico (temi e protagonisti); Laterza – 1995
  • Othmar Spann, Breve storia delle dottrine economiche; Sansoni – 1936
  • A. Kumar Dasgupta, La teoria economica da Smith a Keynes; Il Mulino – 1987
  • G. Stanley Jevons, Economia politica; Hoepli – 1982

Fonte: adrianotorricelli.wordpress.com


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia -  - Stampa pagina
Aggiornamento: 10/02/2019