La ricchezza di Stefano D’Arrigo

La ricchezza di Stefano D’Arrigo

Dario Lodi


Negli anni ’50, Stefano D’Arrigo (1919-1992) , scrittore siciliano, incontrò Elio Vittorini, noto talent scout, e questo incontro fu la svolta della sua vita. D’Arrigo aveva fatto conoscere un suo scritto su vicende marinare: metafore per sottolineare gli aspetti essenziali della vita.  La capacità affabulatoria del Nostro fu notata dalla Mondadori che lo prese sotto contratto commissionandogli un libro più consistente di quello che Vittorini aveva pubblicato a puntate sulla sua rivista “Menabò”.

Nasceva così un vero e proprio caso letterario, un caso incredibile sotto molti versi.

D’Arrigo iniziò l’operazione nel 1957 e solo nel 1975 presentò la stesura definitiva (si fa per dire, perché ci furono in seguito altre correzioni, per quanto piccole): il libro si intitolava “Horcynus orca” e constava di ben 1257 pagine. Lo scrittore siciliano aveva potuto lavorare con particolare precisione intorno alla sua opera perché la Mondadori lo aveva come assunto, assicurandogli una specie di stipendio. Certo la casa editrice non si aspettava una dilazione del genere. Ma D’Arrigo (che scrisse poco altro) voleva realizzare qualcosa di veramente significativo, soprattutto da un punto di vista letterario: egli intendeva adornare adeguatamente l’impeto espressivo.

La storia di per sé è poca cosa, si svolge in soli otto giorni ed ha un esito infelice. E un’ Odissea all’incontrario. Ma nel mezzo esiste una ricchezza narrativa notevolissima: D’Arrigo fa lunghe perlustrazioni nell’animo umano dilacerato dal passare del tempo e dalla impossibilità di dominare le cose. Il personaggio si muove nel caos del 1943, subito dopo l’armistizio dell’Italia con gli Alleati. Sentendosi in qualche modo libero, egli tenta di tornare a casa, per farlo deve passare lo stretto di Messina: è questo un luogo come trasognato da sempre, temuto e attraente allo stesso tempo. Mancano i mezzi per l’attraversamento e si spera in qualche naviglio di fortuna. L’attesa e la speranza consentono al personaggio (‘Ndrja Cambrìa) di rivedere il suo passato, i personaggi della sua vita, suo padre, sua madre, sui quali si sofferma con straordinaria tenerezza.

Il brano è attraversato da una malinconia dignitosa ma struggente e da riflessioni sfuggenti che Cambrìa tenta in qualche modo di dominare ricorrendo a mille artifizi espressivi. D’Arrigo usa qui un linguaggio decisamente barocco, infarcito di dialettismi, di neologismi addirittura, volendo significare, probabilmente, che è la voce interiore a prevalere, in ultima analisi, sulla scrittura vera e propria, incapace, quest’ultima di arrivare a certe profondità.

Minaccioso viene immaginato l’attraversamento dello stretto (Scill’e Cariddi viene chiamato e il suono sembra un avvertimento di pericolo mortale) per via della presenza immaginaria di un’orca feroce, amica-nemica dei pescatori (dà cibo, da morta, ma da viva dà morte). Quando finalmente il nostro personaggio rimedia un passaggio, ecco che viene colpito alla fronte casualmente dalla sentinella inglese di una nave da guerra che stazionava nei paraggi.

Non tutto è chiaro in “Horcynus orca”, D’Arrigo confonde spesso le carte, come preso da un’euforia espressiva, da una forza che scombina la logica per esaltare la complessità oscura della personalità umana.

L’interpretazione del libro è sovente cervellotica forse per dare allo stesso una consistenza epica che il libro in realtà possiede esteriormente, come scenario indispensabile al dramma che si sta consumando. Il dramma è gigantesco, lo sfondo deve essere adeguato.

Questo dramma, per chi scrive, si riferisce, in ultima analisi, alla guerra. Chi uccide è la guerra, non l’orca. L’orca diventa un immagine di morte a tutto tondo in presenza di un pericolo incombente creato dall’uomo. E’ l’uomo che accelera e volgarizza la morte.

Davanti a questo spettacolo, l’orca si trasforma in simbolo luttuoso, rappresentando l’aspetto deteriore della natura dovuto al’azione umana.

D’Arrigo è dunque pessimista nei confronti nel genere umano, ma non lo è del tutto in quanto all’azione nefanda dell’uomo, che con la guerra si vota alla morte senza indugio, oppone la nostalgia di una vita ideale che è, indirettamente, creatrice di vita.

La decisione di far morire ‘Ndria Cambrìa è una condanna decisa all’orribile presenza della guerra e all’uccisione di una coscienza innocente. Mille richiami fantastici, mille languori, mille pensieri e sensazioni sostengono ampiamente questa condanna, questo dolore profondo per le ferite a morte, provocate innaturalmente, davanti alle quali l’orca è davvero poca cosa. Essa appartiene al mondo fantastico, quello reale è ben più spietato. E’ crudele.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019