L’acribia di Cristina Campo

L’acribia di Cristina Campo

Dario Lodi


Quasi tutti gli scritti di Cristina Campo (1923-1977) sono radunati nel volume “Gli imperdonabili” edito da Adelphi. Mancano le poesie di “Passo d’addio”, lettere ad amici e poco altro. La Campo si chiamava in realtà Vittoria Guerrini, era nata con problemi cardiaci (da qui la sua morte prematura) e viveva appartata. Lo pseudonimo le serviva per celarsi. Nascosta, poteva esprimere liberamente il suo pensiero, le sue sensazioni. Liberamente significa, in questo caso, una scelta di distaccarsi da ogni tipo di convenzione e di concentrarsi sulla ricerca della consistenza delle cose in maniera originale. Nata a Bologna, si trasferì presto a Firenze, dove conobbe e frequentò (anche passionalmente) il grande traduttore Leone Traverso che le fece conoscere l’alto pensiero di Hugo von Hofmannsthal e quello di Simone Weil. Lei stessa tradusse alcuni loro libri, oltre a tradurre il poeta statunitense William Carlos Williams ed altri. Infine, la Campo si trasferì a Roma, dove si legò allo studioso e scrittore Elèmire Zolla.

Sempre amò in modo particolare i tre autori citati, e in particolare Simone Weil, da cui trasse quel misticismo che caratterizzò gli ultimi anni della sua vita.

La questione fisica influì sicuramente sulla scelta espressiva della Campo. E’ una scelta difficile, tormentata, complessa che porta la scrittrice ad un impegno letterario assolutamente fuori del comune. Siamo a qualcosa di scientifico e di poetico insieme. L’aspetto scientifico è determinato dalle parole usate: esse vogliono essere rigorosamente significative secondo valori concettuali estremi. Cristina Campo non dà nulla alla convenzione. La sua originalità è relativa soltanto alle grandi prove di autori fuori dal sistema, quali il primo Montale, Mario Luzi, in parte, Carlo Bo, e i già nominati Hugo von Hofmannsthal e Simone Weil.

E’ stata soprattutto l’intelligenza sentimentale di quest’ultima ad ispirarla. L’aspetto poetico della prosa della nostra scrittrice è dato dalla densità e compattezza della frase (mentre la sua poesia, comunque eccellente, è forse troppo portata alla contrizione). La frase le consente un dispiegamento controllato del pensiero, mentre questo controllo le permette una ricca quanto ordinata confessione di se stessa a se stessa. Ne viene un commovente fluire di affermazioni e negazioni vissute con coscienza aperta, vogliosa di conferme e desiderosa di sogni di perfezione. La Campo vorrebbe negare la realtà, vorrebbe dire che non può credere che possa essere per sempre quella che ha sotto gli occhi. Preferisce rifugiarsi in angoli consolatori, rappresentati da un sapere oggettivo – sedimentato nel tempo – che aiuta a cristallizzare il metodo giusto di approccio alle cose, anche se non porta a nessuna conclusione risolutoria convincente e dominante sul tutto.

La Campo, in fin dei conti, si rifugia nell’erudizione, di cui non ha certo una venerazione superficiale, contando istintivamente di ricavarci quella conoscenza analitica che la possa portare ad una certa tranquillità interpretativa dell’esistenza in genere. Tutto ciò La invita all’approfondimento sentimentale del portato conoscitivo, nel quale, infine, si lascia andare, quasi si abbandona dolcemente sperando di trovare una significativa tranquillità d’animo: sapere dovrebbe calmare le proprie ansie, tacitare l’angoscia di vivere, guarire dal malessere dell’essere al mondo in modo instabile, senza alcuna possibilità di intervenire per salvarsi. Cristina Campo scrive straordinariamente di sé e del mondo che la circonda, tentando una distrazione benevola, sollecitata da motivi intellettuali di grande spessore.

Il libro è immerso in una sorta di atmosfera fiabesca (la Campo amava molto le fiabe, ne conosceva forse come nessuno) ed è scritto con grande attenzione, con enorme puntiglio dialettico. Molti i periodi esemplari, numerose le osservazioni e le considerazioni intelligenti. Esemplare l’impegno comunicativo.

Sospeso sulla meditazione interiore, naturale, il superiore desiderio speculativo, quel desiderio capace di affrontare imperiosamente il problema esistenziale e di piegarlo alla sua pretesa di capire. La Campo si affida, invece, alla spiritualità (non alla religione istituzionalizzata) seguendo le orme della Weil. Troverà nel rito ortodosso, bizantino, momenti di autentica consolazione. Ma qui siamo ormai alla fine della sua avventura terrena. Troppo poco il suo tempo per superare, come avrebbe potuto, il rifugio nella trascendenza. Comprensibile e affascinante il modo con cui vi ricorse, coerente con la “sostanza” dei pensieri contenuti in questo libro impagabile. “Imperdonabili”, il titolo del libro, sono coloro che cercano la perfezione: la Campo, in questa cerchia, è sicuramente fra le primissime posizioni.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019