Il risentimento di Anton Cechov

Il risentimento di Anton Čechov

Dario Lodi


I fantasmi dell’infanzia sono difficili da scacciare, a volte è impossibile. Anton Čechov (1860-1904) fa parte della schiera degli sconfitti, ma questa sconfitta fu la sua fortuna letteraria e quella dei suoi lettori. Il nostro scrittore nacque in una cittadina russa sul mare d’Azov, Taganrog, fondata da Pietro il Grande nel 1698 e prima base della marina militare russa. Allora la città aveva circa 60.000 abitanti, oggi sono oltre 270.000.

Secondo Čechov gli abitanti di Taganrog erano ben misere persone, interessate solo a mangiare, bere e procreare. Egli vedeva le cose da una posizione, per così dire, subordinata. Dalle sue vene scorreva il sangue di un servo della gleba: lo era stato suo nonno, che poi si era affrancato con grande sacrificio economico. Anche sua madre proveniva dai servi della gleba. Suo padre aveva una piccola drogheria ed era un vero e proprio despota in famiglia. Picchiava i figli senza pietà. Anton si alzava al mattino chiedendosi a che ora sarebbe stato schiaffeggiato o preso a pedate. Sua grande amica era la sorella Marija, cui resterà legato per tutta la vita, quasi due corpi e un’anima sola, benché Anton finirà sposato.

Anton Čechov si fece praticamente da solo. Diventò medico, e pare un bravo medico. Ma se n’era andato da Taganrog ed era finito a Mosca. Svolgeva la sua attività di giorno e la notte scriveva novelle. L’editore Lejikin ne ospitò qualcuna sul suo periodico “Schegge”. Il critico Dmitrij Grigorovic (anche scrittore) lodò quelle prose. Fu l’inizio di una carriera strepitosa che portò Cechov nell’olimpo della letteratura russa, accanto a Tolstoj, che conobbe, ammirò, ma non amò.

Non poteva esserci intesa intellettuale fra Čechov e Tolstoj. Troppo diversi. Tolstoj nutriva una speranza nella riscossa morale umana, Cechov era invece pessimista: vedeva la società irrimediabilmente alla deriva, schiacciata da un materialismo che impediva qualunque ribaltamento. La gente coltivava solo un obiettivo: avere. Il materialismo risultava più convincente che qualunque virtù.

Il convincimento materialista, assunto roboticamente, non facilitava certo la realizzazione di aspirazioni diverse. Ai tempi di Čechov, più di oggi, la sconfitta intellettuale e sentimentale pensava parecchio. Non ci si capacitava della vittoria borghese, ovvero la si accettava con incredulità teatrale, preparando quella vera con cui si voleva respingerla. Rimaneva la vita autentica che la si viveva beneficiando del sistema proprio avversandolo. Si assisteva alla fase decadente del Romanticismo, al tramonto di speranze estetiche, ma anche consistenti.

I personaggi di Čechov sono dei perdenti. Perdono perché non osano. Il nostro scrittore, nei suoi racconti, nelle sue commedie, soprattutto: “La corsia n. 6”, “I contadini”, “La signora col cagnolino”; “Il gabbiano”, “Le tre sorelle”, “Il giardino dei ciliegi”, “Zio Vanja”, “Ivanov”, fa emergere le aspirazioni dei personaggi, aspirazioni che sfidano il sistema, lasciando intravvedere un mondo migliore, per poi soffocarle tramite rinunce forzate o volontarie. Čechov evidenzia una loro debolezza facendola intendere debolezza propria dell’uomo di fronte a scelte capitali: meglio dormire e non pensare che pensare e non dormire. La formula trascina con sé una rassegnazione dolorosa ma inevitabile. L’uomo è poca cosa e crede di essere immensa.

Čechov gioca sull’immensità e sulla pochezza, ma lo fa senza alcuna malizia. La sua grandezza sta nell’individuazione del molto. Il poco è la conseguenza di una specie di constatazione che vede l’umanità prigioniera del sistema in cui è costretta a vivere dalle decisioni della classe superiore. Nel caso del nostro scrittore, è la Russia zarista a comandare. E’ l’arretratezza. Čechov la prende ad esempio per sostenere la teoria per cui l’uomo vive di ciò che ha, non di ciò che è.

Il grande russo non s’interessò mai di politica, ma si adoperò per la civiltà. Fu con Zola nel famoso caso Dreyfus, ad esempio. Non fu religioso e questo lo privò di un riferimento, diretto e indiretto, che probabilmente l’avrebbe reso meno pessimista sul destino dell’umanità. Tolstoj, che contestò la religione, ma non la spiritualità, tentava tesi salvifiche per la dianoetica, Cechov, invece, si concentrò sui mali della borghesia, rivelando, per primo, questa nuova verità sociale, peraltro ormai primeggiante nei confronti degli atteggiamenti e dei comportamenti dell’uomo.

Il mondo di Tolstoj era quello di ieri, quello di Čechov di domani. Il nostro scrittore parlava già di un mondo privo di riferimenti aristocratici, mancante di metafisica e di alti sentimenti. La borghesia accumulava grettezza e covava risentimenti, invidie, avidità. Era pronta a scannarsi per un nonnulla. L’industria, la facilità commerciale, davano al bene l’autentico valore da perseguire. Il resto era silenzio o segreto personale da seppellire al più presto. Poteva disturbare le convenzioni. Il piccolo borghese era una vite del sistema, come avrebbe potuto togliersi da quella comoda-incomoda condizione? La comodità vinceva l’incomodità, non c’è dubbio. E’ questo di cui Cechov vuole parlare.

Lo scrittore non evidenzia una cosa elementare, ma chiaramente non entusiasmante in termini intellettuali, con del compiacimento, bensì con una specie di malinconia, strisciante e a volte oppressiva per una precisa delusione, intuita come insanabile. Čechov si lascia andare all’andamento fatale della storia, con spirito di sacrificio superiore a quello dei suoi personaggi. Egli resiste alla descrizione dell’indescrivibile. Vede gli uomini come marionette (ma in tali non li trasforma) e ne patisce. Registra e denuncia. Altri, magari, raccoglieranno tutto questo e cambieranno le cose. Lui si ripete, con diverse modulazioni, perché sia chiaro il messaggio. Ora è stanco, ha fatto il suo – ha fatto moltissimo - e toglie il disturbo.

Čechov, affetto da tubercolosi, muore a soli quarantaquattro anni, nei pressi di Berlino. C’era andato per una cura estrema, ma il medico, suo collega, un luminare, non gli aveva nascosto la verità. Qualche tempo prima aveva ricevuto la visita di Aleksei Maksimovic Peskov, il poi famoso Gorkij (che significa amaro): non gli era piaciuto, troppo impetuoso. La rivoluzione si fa con la testa, non con i muscoli. Cechov, nelle sue opere, dice come stanno le cose, ma rivela anche le potenzialità dell’uomo. Esse non vanno trasformate in qualcosa di fisico, bensì d’intellettuale. Occorre tempo, ma bisogna cominciare: Čechov è sicuramente fra i pionieri più attendibili. Angoscia e conforta.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019