Il nichilismo di Céline

Il nichilismo di Céline

Dario Lodi


Chiave di volta dell’espressione di Céline (Louis-Ferdinand Auguste Destouches, Céline era il nome della nonna, assunto come pseudonimo per odio verso il padre, che lo picchiava 1894-1961) è l’esperienza del Nostro nella prima guerra mondiale. Lo scrittore e medico francese fu testimone di numerose carneficine, conobbe direttamente l’orrore della guerra in tutte le sue terribili manifestazioni (compresa la triste esperienza dei gas, usati per la prima volta in battaglia dai Tedeschi a Yprès). Il suo entusiasmo di interventista si era subito scontrato con l’orrore della trincea, con i mucchi di cadaveri smembrati, con la terra fatta di sangue.

E’ da tutto questo che viene la sua profonda disistima nei confronti dell’umanità e che subentra in lui un drammatico nichilismo al posto di una pur flebile speranza nel progresso morale e civile umano. I suoi scritti sono intrisi di pessimismo che si veste di realismo con determinazione sofferta quanto inderogabile. Ne viene una visione cinica della vita, con interventi stoici quasi involontari. I suoi romanzi, in special modo “Viaggio al termine della notte” nascono dal desiderio di denuncia della condizione umana in genere in un mondo creato dalla corruzione del materialismo. Céline nei suoi scritti – che sono sistematicamente di una lucidità spietata – mescola letteratura alta con il linguaggio popolare. L’argot parigino (un gergo) fa da contrasto a speculazioni e considerazioni accademiche: vince nella dimostrazione di un malessere di fondo molto più incisivo della disinvoltura comportamentale. L’amarezza per un vivere brutale, negli scritti del francese è palpabile. Céline tenta di mascherarla con una specie di nonchalance, con una sorta di distacco, come da medico sul malato, che consente una trattazione ancora più spietata della materia, intellettualmente moribonda, di quanto probabilmente sia nelle sue intenzioni.  Si avverte un piacere sottile per la sofferenza che si dipana dalle sue descrizioni, quasi che il piacere fosse un giusto castigo per tanta dissennatezza.

La crudeltà che accompagna tutto questo non è letteraria. E’ un urlo di dolore alla Munch (il grande pittore nordico autore del famosissimo quadro che porta tale titolo: L’urlo) sottolineato da un vero e proprio spaesamento, da un disorientamento atroce.

Nulla conta più, tutto è inutile, la vita è una farsa orribile, l’uomo è il peggiore degli animali e la sua nobile capacità speculativa è una fantasia irrealizzabile, un addobbo di cartapesta. Céline scrisse molto, senza mai uscire dai suoi incubi. Suo nemico principale fu il capitalismo, visto come la causa vera del disastro morale. In un pamphlet, divenuto suo marchio d’infamia (“Bagattelle per un massacro”), lo scrittore francese se la prese con gli Ebrei (allora percepiti come capitalisti per eccellenza). Più tardi egli dirà di non aver avuto sentimenti razzisti. Ma la sua adesione al nazismo (Céline considerava Hitler un pacificatore!) e il sostegno dato al Governo di Vichy, filotedesco, non facevano ritenere la sua dichiarazione attendibile. Sartre fu il suo maggior nemico: pretese ed ottenne (insieme ad altri) che Céline fosse allontanato dalla Francia (lungo esilio in Danimarca, dove scrisse tre libri noti come “La trilogia del nord”). I libri de “La trilogia del nord”, dimostrano quanto lo scrittore francese fosse psicologicamente fragile e quanto fosse forte moralmente, pur cercando di dimostrare ancora una volta l’inutilità di ogni pensiero e di ogni azione a favore del salvataggio della reputazione umana. Una reputazione per lui usurpata, un cascame umanistico ormai inservibile perché, per giunta, maltrattato. Ma un pizzico di vanagloria, considerando il suo nichilismo, non gli mancò: Céline avrebbe voluto essere sepolto al Père Lachaise, il cimitero delle glorie parigine, e non solo. Sarebbe stata, in pratica, la sua consacrazione di intellettuale di peso (dunque l’idea alla fine vincente sull’inutilità del tutto). La moglie non poté accontentarlo: continuava a pesare sullo scrittore il precedente collaborazionismo, un collaborazionismo più in linea con il suo lasciarsi vivere che frutto di ipocrisia ed opportunismo.

Nessuno come lui, nel ‘900, mise così bene in luce la povertà della natura umana, ma soprattutto l’incapacità di contrastarla da parte dell’uomo stesso, un uomo, secondo Céline, alla fin fine, probabilmente in grado di farlo.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019