I canti politici della divina commedia

I Canti politici della Commedia


INFERNO VI, vv. 40-93

Nel Canto VI dell'Inferno né Ciacco né Dante fanno un'analisi politica della situazione di Firenze: si limitano a una di tipo etico. Il primo parla di "invidia", il secondo di "divisioni tra i partiti" (oggi parleremmo di "criminalizzazione dell'avversario", di misconoscimento della sua legittimità). E insieme aggiungono altri due aggettivi: "superbia" e "avidità".

Dante, che pur aveva appoggiato i guelfi contro i ghibellini, aveva sperimentato sulla sua pelle cosa voleva dire essere dichiaratamente "cattolici" in politica. I Neri infatti volevano esserlo in maniera integralistica: il loro non era un cattolicesimo "democratico" ma "teocratico" o "ierocratico", dove il peso politico del papato (e del clero in generale) sarebbe stato enorme. Una ingenuità, la sua, che ancora oggi la si può constatare ogniqualvolta i cattolici, pur di non concedere nulla alle idee della sinistra, si lasciano coinvolgere in alleanze politiche moralmente molto discutibili.

Peraltro qui Dante si riferisce alle divisioni tra guelfi Bianchi e Neri, essendo i ghibellini fiorentini già stati sconfitti dal papato con l'aiuto dell'intervento armato dei francesi di Carlo di Valois. E' un odio politico tutto interno al mondo dei cattolici politicamente impegnati, a testimonianza che, quando è in gioco il potere, non c'è fede (religiosa) che tenga. Ed è un po' patetico vedere Dante chiedere a Ciacco quando finirà l'odio politico nella sua città e se, in mezzo a quest'odio, è rimasto qualcuno onesto. La risposta doveva apparirgli scontata. Avrebbe semmai dovuto chiedersi il motivo per cui una medesima fede religiosa non ha alcun valore quando si entra nell'arena politica, ovvero il motivo per cui, quando si difendono determinati interessi economici, la religione si presta così facilmente a essere strumentalizzata.

Se si fosse posto una domanda del genere avrebbe evitato di far dire a Ciacco che i fiorentini più in vista penavano in gironi infernali assai peggiori del suo, per motivi del tutto estrinseci alla politica, come l'ateismo (nel caso di Farinata degli Uberti), la sodomia (nel caso del Tegghiaio) ecc. Se qualcuno andava posto all'inferno, non poteva essere semplicemente per motivi "morali", anche perché, operando una scelta del genere, Dante, inevitabilmente e forse involontariamente, finisce col giustificare una separazione dell'etica dalla politica.

La cosa strana di questa conversazione con Ciacco è che Dante, pur dichiarandosi di parte Bianca, ragionava come un aristocratico e non come un borghese; certo non come un aristocratico clericale e neppure come un nobile terriero che vedeva la politica solo come uno strumento per la conservazione del potere economico; ma indubbiamente come un aristocratico che non vuol spingere la democrazia sino alla sua radicalità popolare e che anzi preferisce un governo di "ottimati", di persone che si elevano sulla massa e la dirigono dall'alto, senza dare ad essa una vera possibilità di riscatto. A Dante il "popolo", così come lo intendiamo oggi, non piaceva. La nobiltà, per lui, non doveva essere solo dell'animo, da contrapporre al cinismo e alla venalità della borghesia, ma anche della mente, quella che permetteva di elevarsi al di sopra di qualunque interesse di parte. Da Dante a Croce, passando per tutta la filosofia idealistica tedesca: ecco un'interessante linea di tendenza del cristianesimo impegnato in politica, sia esso nella forma esplicita di quella tradizione che nasce con l'imperatore Teodosio, che nella forma laicizzata assunta a partire dalla riforma luterana.

Va detto tuttavia che se in questo Canto alcuni possono avere l'impressione che Dante parli non tanto come un guelfo di parte Bianca quanto proprio come un ghibellino, ben convinto non solo del valore della diarchia tra papato e impero (cosa in cui credevano anche i Bianchi), ma anche della necessità che un imperatore imponga con la forza la sua autorità (sul papato e su tutte le città guelfe, inclusa ovviamente Firenze), di fatto ciò non trova riscontri nella Commedia, ma al massimo nel De Monarchia (rimasto allo stato di bozza), in quanto fino al 1313 Dante aveva sperato che con la discesa in Italia di Arrigo VII di Lussemburgo, imperatore del Sacro romano impero, il papato potesse subire una sconfitta decisiva (a meno che il "veltro" di cui parla nel primo Canto non vada identificato con lo stesso imperatore).

Non bisogna mai dimenticare che il Dante esule, a partire dal 1302, era continuamente alla ricerca di assistenza, anche presso delle Signorie che potevano non condividere le sue posizioni politiche. E il suo "biglietto da visita" era l'Inferno.

PURGATORIO VI, vv. 76-151

L'abbraccio affettuoso tra il grande trovatore mantovano Sordello da Goito e il suo conterraneo Virgilio viene colto da Dante come pretesto per una lunga digressione sulle misere condizioni dell'Italia, dilaniata dalle guerre intestine tra le varie Signorie e abbandonata a se stessa dagli imperatori tedeschi del Sacro Romano Impero.

Perché Dante l'abbia messo in Purgatorio e, nonostante questo, gli abbia permesso di fare da guida per ben tre Canti, non è chiaro, anche perché nel De Vulgari Eloquentia lo elogia. Forse l'ha fatto perché quando Sordello serviva presso Riccardo di San Bonifacio, conte veronese, gli rapì la moglie Cunizza nel 1226, su mandato del fratello di lei Ezzelino III; o forse perché Sordello trescava con la stessa Cunizza, che pur Dante mette in Paradiso in quanto penitente in tarda età; o forse perché in Linguadoca-Provenza era considerato un diffamatore interessato a ottenere posizioni di rendita e di prestigio; o forse perché in Spagna contestava duramente tutti i sovrani, incluso Federico II di Svevia, giudicandoli imbelli e ignavi (per Dante la politica doveva essere centralizzata nella figura dell'imperatore); o semplicemente perché aveva servito in armi Carlo d'Angiò, conte di Provenza, seguendolo in Italia contro Manfredi nel 1266 (per Dante l'arrivo dei francesi in Italia fu una delle cause principali delle divisioni politiche tra guelfi e ghibellini e tra guelfi Bianchi e Neri).

Probabilmente Dante ha voluto far vedere che anche tra gli anti-imperiali (quale doveva essere Sordello), potevano trovarsi persone di rilievo. Tuttavia, conoscendone i trascorsi immorali, non lo avrebbe messo in paradiso neppure se non ci fosse stata di mezzo la politica.

La sua presenza permette a Dante di scrivere l'invettiva più famosa contro l'Italia, i cui mali principali - a suo giudizio - sono appunto dovuti al fatto che manca una guida politica nazionale (che a quel tempo avrebbe anche potuto essere "imperiale", se il papato e le Signorie comunali l'avessero permesso). Dante pensa ancora alla figura dell'imperatore quale toccasana della letale divisione che lacera i Comuni, e se la prende, in particolare, con Alberto I d'Asburgo (1298-1308), che si sarebbe interessato unicamente della Germania, sicché per Dante la carica imperiale sarebbe rimasta vacante dalla morte di Federico II di Svevia (1250) alla elezione di Arrigo VII di Lussemburgo (1308, che è lo stesso anno in cui Alberto I fu assassinato dal duca Giovanni di Svevia). Nel Paradiso (XIX, 115 ss.) non lo considera neppure tra gli imperatori dei romani, sebbene fosse stato regolarmente eletto, e gli rimprovera l'invasione della Boemia nel 1304. Se la prende con gli imperatori germanici quando l'idea di "impero" in Prussia rimase in vigore fino agli inizi del 1800, mentre in Italia non se ne voleva sapere sin dai tempi della lotta per le investiture.

In effetti l'impero aveva già perduto il possesso dell'Italia con gli eredi di Federico II (Corrado IV, Manfredi e Corradino), fatti fuori dall'alleanza della Francia col papato, col sostegno della borghesia guelfa, ma Dante dimentica di sottolineare che l'impero rischiava di perdere anche la Germania, poiché qui i signori feudali volevano trarre profitto dalla logorante lotta degli imperatori in Italia, rendendosi sempre più indipendenti da quest'ultimi. L'Italia fu abbandonata a se stessa proprio perché ben tre imperatori dovettero pensare esclusivamente a ripristinare la loro autorità in Germania: Rodolfo d'Asburgo (1273-91), Adolfo di Nassau (1292-98) e appunto Alberto I d'Asburgo.

Gli ultimi tre imperatori che tentarono, inutilmente, di ripristinare l'autorità imperiale in Italia furono Arrigo (Enrico) VII di Lussemburgo (1308-1313), su cui Dante sperò sino all'ultimo e che però morì improvvisamente a Buonconvento; Ludovico IV il Bavaro (1314-47), che fu deposto dagli stessi tedeschi in quanto incapace di vincere gli angioini di Roberto di Napoli, e Carlo IV di Lussemburgo-Boemia (1347-78), che però, visti gli scarsi consensi sul territorio italico, preferì emettere la Bolla d'oro (1356) con cui l'imperatore rinunciava definitivamente a rivendicare propri diritti nella nostra penisola.

Il fatto che Dante, morto nel 1321, citi soltanto Alberto d'Asburgo, lascia pensare che il Purgatorio sia stato concluso intorno al 1308. Egli infatti sembra non rendersi conto che gli imperatori tedeschi non avevano rinunciato all'Italia per coltivare, con "cupidigia", i loro interessi in Germania, ma proprio perché gli ostacoli incontrati in Italia erano stati insormontabili. Avrebbe dovuto prendersela più con le corti signorili filo-pontificie che con gli imperatori, evitando di definire l'Italia "il giardino dell'impero" (v. 105), non foss'altro perché poco prima l'aveva paragonata a un "bordello".

Dante attribuisce all'ignavia degli imperatori tedeschi la causa del declino delle varie casate di guelfi e di ghibellini, che si sono distrutte a vicenda, combattendosi senza sosta: Montecchi (ghibellini di Verona) contro Cappelletti (guelfi di Cremona), Monaldi (guelfi di Perugia) contro i Filippeschi (ghibellini di Orvieto), tanto per fare degli esempi, e non si chiede se sia vero il contrario, e cioè se la crisi dell'idea di "impero" in Italia non sia dovuta proprio alle lotte fratricide tra le varie Signorie e persino all'interno di ciascuna di esse; quelle lotte che impedirono di abbattere lo Stato pontificio, che permisero ai francesi di occupare il Mezzogiorno, compromettendo seriamente la possibilità di costituire un'unità nazionale. Ma forse non se lo chiede perché è proprio alle Signorie che va chiedendo assistenza e ospitalità e impieghi remunerati come profugo politico.

Dante è tutto intento a pensare ancora come un "medievale", fidando nel fatto che un'autorità, dall'alto del suo ruolo, in forza del suo potere politico e militare, possa riportare pace e ordine, quando in realtà l'Italia era già diventata ampiamente borghese, e la borghesia voleva soltanto un sovrano che ridimensionasse, e di molto, le prerogative della nobiltà: cosa che gli imperatori non seppero mai fare, in quanto non vedevano le città come alleate strategiche ma soltanto come una fonte fiscale di reddito.

Dante aveva una concezione troppo idealizzata della figura dell'imperatore: non riusciva soprattutto a capire che tutti gli imperatori provenivano dai ceti nobiliari e non avrebbero mai fatto nulla per negare a questi ceti il diritto di campare di rendita. Non solo non capiva che l'attività affaristica della borghesia era un'alternativa convincente allo stato parassitario e prepotente dei ceti aristocratici, ma non riusciva neppure ad accettare l'idea che un qualunque sovrano dovesse essere l'espressione di una volontà popolare.

Il suo ideale di "imperatore" era addirittura quello di Giustiniano (482-565), di settecento anni prima, di cui parlerà estesamente nel Canto VI del Paradiso. A lui attribuisce la più grande raccolta legislativa di tutti i tempi (il Corpus iuris civilis), lamentando che in Italia queste leggi non sono mai state applicate proprio per la mancanza di un'autorità politica. In realtà il Corpus fu più usato nell'impero bizantino che nei regni romano-barbarici non perché qui mancassero dei sovrani autorevoli, quanto perché i sovrani germanici che avevano abbattuto l'impero occidentale emanarono leggi proprie. Solo a partire dal basso Medioevo il Corpus venne preso in esame.

La mancanza di questa autorità Dante avrebbe dovuto attribuirla anche a se stesso, quale strenuo difensore della chiesa (basta vedere il suo impegno nella battaglia di Campaldino contro i ghibellini), almeno sino alla sua espulsione da Firenze. Anzi, gli ci è voluto proprio questo esilio per iniziare a capire il vero volto della chiesa romana, tant'è che qui, in questo canto, finalmente addebita soprattutto a tale chiesa il vizio della litigiosità degli italiani, ognuno geloso del proprio particolare e tutti restii ad accettare governi centralizzati.

La chiesa infatti, pur essendo gestita da una gerarchia autoritaria (in quanto il papato è una monarchia politica), non ha mai favorito l'unità nazionale sotto un unico sovrano; anzi - e lo dice espressamente nei versi 91-96 - essa si è sempre avvalsa delle faziosità interne, coltivandole, per riuscire a conservare il proprio potere.

Parlando bene del Corpus giustinianeo, Dante, indirettamente, difendeva anche la diarchia bizantina, cioè la separazione politica tra le cose temporali e quelle spirituali; lo fa, beninteso, non in quanto laico-ghibellino ma in quanto cattolico-democratico. Purtuttavia non riesce a spendere una parola per nessun altro imperatore bizantino: mille anni di storia bizantina vengono da lui riassunti nella figura di Giustiniano, il quale, peraltro, nel suo Paradiso si trova a "godere" meno di Carlo Magno, che di quell'impero d'oriente fu, insieme al papa che lo incoronò, il primo grande traditore, avendo usurpato un titolo che non gli spettava in alcun modo.

D'altra parte la coscienza storica di Dante, per quanto vasta fosse la sua cultura, era alquanto limitata, colpevole in questo la stessa chiesa ch'egli difendeva, che s'era inventata una storiografia a proprio uso e consumo. Lo dimostra ad es. il fatto che nel Purgatorio (XVI, 97-114) fa dire al ghibellino Marco Lombardo che la diarchia era esistita nella chiesa romana sino al secolo XIII, quando poi cominciò ad essere negata da alcuni canonisti, da papa Innocenzo IV, fino ai teologi di papa Bonifacio VIII. In realtà qui si parla di una negazione teologicamente formalizzata: quella materialmente praticata risaliva a ben prima. Persino l'idea giustinianea di "renovatio imperii" non riuscì a realizzarsi a causa delle forti resistenze della sede romana, che preferiva avere in Italia gli ariani ostrogoti piuttosto che i cristiani bizantini.

Questo poi senza considerare che quando parla di "diarchia", Dante è già fuori tempo massimo, in quanto la borghesia del suo tempo stava elaborando progressivamente un concetto molto più moderno di "democrazia rappresentativa", per quanto ancora connotata da una certa oligarchia. Molto più moderno di lui era Marsilio da Padova, che vedeva nel sovrano un eletto da parte del popolo.

Quando poi parla di Roma, Dante ha già presente la cattività avignonese, iniziata nel 1309; quindi qui a piangere non è alcun papa, ma gli stessi fedeli della città, che si sono visti esautorare del loro plurisecolare prestigio storico. D'altra parte, da buon cattolico, egli non può esimersi dal ritenere che lo stato di abbandono in cui la penisola si trova, lacerata da opposte fazioni politiche, sia soltanto una prova posta dalla provvidenza. In quanto aristocratico però egli non può pensare che il "salvatore della patria" possa essere un semplice contadino ("villan", v. 126), che, a capo di una fazione, diventi un "Marcel" (v. 125). Dovrà per forza essere un nuovo imperatore, cioè una persona altamente carismatica.

Dante era un "cattolico democratico" per modo di dire: anche quando dice di aver fiducia assoluta nel Corpus giustinianeo, non ha difficoltà nel sostenere che tutte le popolazioni prive di leggi scritte son come "barbare": "senza il freno della legge sarebbe minore la vergogna" (v. 90), sottinteso "del peccato". Una posizione, questa, che oggi definiremmo del tutto astratta, in quanto non tiene conto che la legge è mera espressione formale di rapporti sociali antagonistici, e il non averla non significa affatto, di per sé, che nella società non vi siano rapporti democratici.

Infine se la prende con la sua Firenze, con ironia e amarezza (ma molti critici han visto del sarcasmo). Infatti - scrive al verso 130 - non pochi cittadini hanno "la giustezza in cuore", ma non la esternano per timore di conseguenze: ecco perché sono così "prudenti".

E' forse possibile leggere in questi versi una difesa del popolo, della società civile di Firenze, contro i suoi potenti, le sue istituzioni politiche? Difficile la risposta. Dante non era esattamente per una democrazia popolare ma per un governo di ottimati. Quando scrive che molti rifiutano le cariche pubbliche, giudicandole politicamente onerose, e poi aggiunge che, in conseguenza di ciò, emergono delle figure popolari che presumono di potersi autogovernare, esprime un chiaro giudizio negativo su questa evoluzione delle cose, anche perché ritiene che la politica sia una "professione", da non potersi esercitare con leggerezza e improntitudine. Il popolo va "governato", non è capace di "autogestirsi", poiché quando lo si lascia fare, ognuno pensa solo per sé.

Quanto, in questo giudizio sulla democrazia, pesassero le convinzioni religiose che facevano del peccato originale la fonte di tutti i mali, è facile convincersi. Lui stesso d'altra parte fa capire che modelli di "democrazia politica" erano Atene e Sparta, con la loro legislazione organizzata e "civile" (v. 140), ed erano modelli - come noto - che escludevano dal governo della città almeno i 3/4 della popolazione. Senza poi considerare che non è affatto vero - come dice Dante - che i loro provvedimenti fossero semplici e di lunga durata: quando lo erano, era perché in realtà si stava esercitando una dittatura, e Sparta, in questo, era sicuramente più solerte di Atene.

PARADISO VI, vv. 1-142

Scritto sicuramente a Ravenna, il Paradiso e quindi anche questo Canto riflette l'ideale di vita di un uomo rassegnato, legato ancora a ideali politici che il suo tempo ha superato da un pezzo.

I suoi modelli di imperatori restano Giustiniano (527-565) e Carlo Magno (742–814): l'uno per aver realizzato il Corpus (terminato nel 533), l'altro (citato nel Canto XVIII) per aver difeso la cristianità contro i longobardi e gli islamici; entrambi per aver cercato di restaurare l'antico impero romano.

Di Giustiniano Dante ha informazioni a dir poco errate, e Carlo Magno viene visto in maniera del tutto mitologica. Senza dubbio è vero che il basileus cercava di esercitare il suo ruolo in accordo con la chiesa greca, ma non divenne mai da eretico (monofisita) a cristiano ortodosso grazie al papa Agapito. I rapporti ch'ebbe con quest'ultimo furono soltanto politici, finalizzati alla riconquista dell'Italia da parte dei bizantini, nella loro campagna antigotica. Anche quando cercava d'ingraziarsi i monofisiti, lo faceva solo per motivi politici. E il suo rapporto col generale Belisario non fu affatto idilliaco, poiché dopo che questi sottomise i goti, i vandali e i persiani, fu incarcerato, per un certo tempo, proprio da Giustiniano.

Ma quel che è più grave è che Dante è favorevole a tutto lo sviluppo politico dell'impero romano, prima pagano e poi cristiano, non vedendo in ciò alcuna prevaricazione dei romani (pagani e cristiani) ai danni delle altre popolazioni. A suo giudizio, l'unico sbaglio degli imperatori fu quello di permettere che gli ebrei uccidessero il Cristo, cosa che poi però lo stesso Israele pagò duramente, e giustamente (come fosse una punizione divina), con la distruzione di Gerusalemme da parte delle legioni di Tito.

In realtà egli cerca di giustificare la croce del Cristo dicendo, alla stregua degli apostoli Pietro e Paolo, che dio permise, nella sua prescienza, che Tiberio punisse, con la passione di Gesù, voluta dagli ebrei, il peccato di Adamo; sicché l'impero, alle cui leggi e alla cui autorità il Cristo volle sottomettersi pienamente, rappresenta uno strumento di redenzione all'interno dell'economia divina salvifica.

Riprenderà poi questo controverso argomentare nel Canto VII (vv. 19-51), quando Beatrice gli spiegherà che la morte in croce piacque a dio che, avendo diritto a una soddisfazione, poté così perdonare l'uomo, evitando di abbandonarlo a se stesso.

Quanto a Carlo Magno, non vede in lui che il distruttore dei prevaricatori longobardi, ariani e ostili allo Stato della chiesa. Non dice nulla del fatto che l'incoronazione di Carlo Magno, voluta da papa Leone III, fu una sorta di colpo di stato nei confronti del trono imperiale di Bisanzio. Neppure una parola sul fatto che con quell'incoronazione la chiesa romana inaugurava una politica ecclesiastica in cui l'imperatore veniva a svolgere una funzione di mero "braccio secolare".

Dante inoltre attribuisce ai guelfi di parte Nera la causa della decadenza dell'Italia, perché combattevano l'idea di "impero" appoggiandosi agli Angioini e al papato, ma critica anche i ghibellini, perché li vede interessati solo alla politica e non anche all'etica (che per lui è eminentemente religiosa, mentre i ghibellini, che professano un'etica agnostica se non addirittura atea, vengono visti come cinici). Non vede più differenze di sostanza tra i due partiti, essendo totalmente rassegnato all'idea che l'Italia debba restare divisa in Signorie contrapposte.

Dante è del tutto dipendente dalla ricostruzione dei fatti operata dai teologi della chiesa romana, benché qui se la prenda con Carlo d'Angiò (re di Napoli nel 1285, morto nel 1309), che non riconosceva alcun potere imperiale diverso dal proprio, ch'era quello di un semplice conte. E infatti dio - scrive Dante - non trasferirà nella Casa angioina i diritti imperiali.

Il suo modello di uomo politico qui, se si prescinde dai due suddetti imperatori, è Romeo di Villanova (nato verso il 1170 e morto in Provenza nel 1250), il quale, dopo aver servito Raimondo Berengario IV, conte di Provenza, fu costretto ad andarsene povero e vecchio. Egli infatti, dopo aver aiutato le figlie di Raimondo a diventare regine o principesse, dovette subire le accuse di concussione da parte di alcuni nobili, che lo costrinsero a mendicare il pane "a frusto a frusto".

Tale ricostruzione dei fatti è però frutto della fantasia di Giovanni Villani, a parte il ruolo di ministro che tenne Romeo: Dante se ne è servito per potersi identificare in una sorta di esule immeritevole.

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Fonti

Opere di Dante Alighieri

La critica

SitiWeb

Film

  • Il conte Ugolino, film diretto da Giuseppe de Liguoro (1908)
  • Il conte Ugolino, film diretto da Riccardo Freda (1949)

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019