IL CANDORE DI ANTONIO DELFINI

IL CANDORE DI ANTONIO DELFINI

Delfini Antonio

Dario Lodi


Antonio Delfini (1907-1963) è un autore letterario fuori dagli schemi consueti. Egli, figlio di possidenti terrieri emiliani, visse per lo più nella sua città natale, Modena, salvo una lunga vacanza a Firenze, dove frequentò, da osservatore esterno, i letterati che si riunivano allo storico caffè delle “Giubbe rosse”.

Nel primo dei suoi racconti editi da Garzanti nel 1963 – pare su insistenze di Natalia Ginzburg e di Cesare Garboli (due benemeriti delle lettere italiane) -, lui già morto, Delfini descrive l’esperienza fiorentina con un certo ribrezzo. Il racconto s’intitola “Una storia” ed è palesemente autobiografico. Forse è la sua cosa migliore. Da essa gronda una sincerità disarmante, spiazzante.

Delfini vi appare come un provinciale alle prese di cose più grandi di lui che, poi, alla luce di una disamina serena, si dimostrano spesso meschine. Egli viene tirato dentro in imprese editoriali sgangherate. C’è chi si approfitta di lui, delle sue sostanze, facendogli versare fior di quattrini, mensilmente, per promuoverlo redattore senza mai pubblicargli qualcosa, se non assai raramente.

Delfini è un autodidatta ed è lontano dal mondo letterario. Scrive per passione e ritiene di avere della originalità perché si esprime senza birignao, dall’alto di una timidezza e di una ingenuità che aiutano la sua verve e la sua capacità d’osservazione. Quest’ultima finisce con il prendere il sopravvento, in questa storia, regalandoci un autore delizioso, arguto, ironico, mai affranto dall’amarezza delle sue considerazioni che lo vedono soccombere sotto il peso ingombrante, inutile, di soloni delle virgole e dei punti.

I tempi (fra la fine della prima e l’inizio della seconda guerra mondiale) sono per l’abbandono del decadentismo e l’assunzione dello sperimentalismo (vi sono i poeti ermetici, ad esempio) purché sia pregno il concetto, anche a danno della forma. La forma, infatti, richiama il formalismo e questo l’inerzia del pensiero. Delfini, timidamente, preferisce parlare di “emotivismo”, trasformandosi, a sua insaputa, in un antesignano, in Italia, della narrazione caratterizzata dal “flusso di coscienza”: scrivo ciò che sento sul momento, rispettando un ordine di fondo. Ma il Nostro è quanto mai lontano dall’inseguimento di una tecnica scientifica. Joyce, maestro del flusso di coscienza, non lascia nulla al caso. Il suo ordine di fondo si rifà a una filosofia precisa, sua. Delfini scrive ciò che sente più nel cuore che nella mente.

Egli è un sentimentale prestato occasionalmente alla razionalità. Ma questa razionalità non viene usata in appoggio al sentimento, bensì trova sfogo in valutazioni critiche, al ribasso, di ciò che gli sta intorno e che non possiede sentimenti nobili. Le sue osservazioni sui frequentatori del famoso caffè fiorentino non sono benevole. Egli non si ritrova in quell’ambiente fasullo, fatto di mille ipocrisie, invidie, vendette. Preferisce la sua provincia, apprezza maggiormente le figure genuine delle sue parti, sulle quali riversa tutto il suo affetto, la sua indulgenza, la sua attenzione. Delfini non vive veramente in mezzo a loro: egli è come un osservatore esterno al quale non sfugge niente, ma di coinvolgimento nelle loro vite non se ne parla. E questo non perché si senta superiore, anzi l’incontrario: teme di non riuscire ad inserirsi. Così sogna amori impossibili (che lui rende impossibili) e si macera – senza drammi – nella solitudine.

Secondo canoni tradizionali, la sua prosa è debole, rinunciataria, non si presta a facili entusiasmi. Oltre alla Ginzburg e a Garboli, chi gli diede veramente una mano fu Giorgio Bassani (un talent scout alla Vittorini), che gli fece pubblicare “Poesie della fine del mondo”. Delfini fu un fascista della prima ora, ma odiò presto i fascisti: questo, unito al suo stile crepuscolare, non lo aiutò certamente nella carriera letteraria. Votò per la monarchia nel 1946, ma sempre, in cuor suo, pensò a una specie di comunismo-liberalismo dove la proprietà privata fosse comunque garantita. Anche tutto ciò rientrava nella sua strana personalità, fatta di fuochi sopiti e di fiamme che non si alzavano da terra: lui provvedeva subito a contenere tutto quanto.

Il nostro personaggio non amava apparire. La sua timidezza si trasformava in coraggio, in fierezza, di fronte alle troppe apparizioni che lo circondavano. Delfini era per una maggiore concentrazione su se stessi, sulla ricerca dell’essere e del poter essere: fenomeni testimoniati dal suo amore ideale, ossessivo, per la Basca (“Il ricordo della Basca”, una ragazzina spagnola incontrata al mare): un istante, eterno, di fortunato rapimento dalla realtà.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019