La luna e i falò di Cesare Pavese

La luna e i falò di Cesare Pavese

Il mito in Cesare Pavese - Qual è il ruolo del mito nell'opera di Cesare Pavese, e in particolare nel romanzo La Luna e i falò?

I - II - III

Fabio Sommella


Pavese, il romanzo e il mito

La luna e i falò è l’ultimo romanzo dello scrittore che, di lì a poco, nell’agosto del 1950, pur avendo ricevuto il prestigioso “Premio Strega”, all’interno di una stanza dell’Hotel Roma di Torino, deciderà di mettere fine alla propria esistenza con l’ausilio di dosi massive di sonnifero. In quell’occasione lo scrittore era accompagnato dal suo testo certamente più intimo, I dialoghi con Leucò, vero e autentico ripostiglio personale e segreto del mondo pavesiano, nascondiglio del vissuto più riposto della propria esperienza di vita: se la Letteratura si pone verso la Storia come l’ambito in cui le vicende umane, al di là dei fatti, diventano intimo vissuto e lacerazione quotidiana e personale; il Mito, a sua volta, si pone verso la Letteratura come quello scomparto della stessa dove il vissuto, fattosi dolore e sangue, esprime significati lasciando spazi per intendere l’inesprimibile.

In questo senso già nel titolo duale e dialettico de La luna e i falò, vale a dire un titolo inerente a una singola emblematica candida antonomastica entità che si relaziona ad altri molteplici mutevoli enti in un rapporto di “una a enne” riecheggiante tanto gli “uno e centomila” quanto la leopardiana luna, il romanzo può anche intendersi come il regno di un mito pavesiano a sua volta accentuato dal vivifico e salvifico, nonché si oserebbe dire epistemico, particolare ruolo della memoria del protagonista-narratore.

La luna del titolo è il vettore della tradizione, delle usanze, delle credenze popolari e secolari, anche nelle contadine Langhe di Pavese, che a loro volta assurgono a simbolo universale di tutte le campagne e collettività agricole del mondo; e in tal senso, queste ultime, non sono dissimili dalle altre plausibili, cantate pur in diverse forme e stili da autori terzi: siano l’Emilia o la Romagna rispettivamente gucciniana o felliniana, o la Lucania ancestrale descritta dal forzatamente immigrato Carlo Levi o dall’indigeno Rocco Scotellaro o, ancora, la Sicilia dell’emigrato e ritornato Vittorini. La luna é tesi (o antitesi) rispetto ai falò; rispetto ai fuochi che si scorgono e vengono accesi sulle colline; i falò di cui il protagonista si domanda, inizialmente, la ragione di essere e che sono, a loro volta, l’antitesi (o la tesi) della luna. Tutto ciò nella ricercata e indispensabile “sintesi” di necessaria conoscenza che tutto il testo narrativo di Pavese sottende. Tale sintesi si attua in una magnifica progressione narrativa, come già ne “Il compagno” allargantesi analogamente alle acque del Belbo fino a un vortice finale, a una foce che tuttavia, invece di volgere verso il mare, volge attraverso i picchi collinari circostanti fino a una sorta di vertiginoso e improvviso baratro finale aperto, a cui Nuto conduce il protagonista e che lascia speranze e cognizioni al lettore; forse non all’autore.

Fissato e riproposto, pertanto, il perenne dualismo oppositivo fra tradizione e innovazione, tra “vecchi e giovani”, si deve osservare come Pavese attui ciò (ma questo è tipico di tutta l’opera dello scrittore) nei canoni e nello stile di una letteratura moderna quasi priva di apparenti legami con quella italiana ereditata dal secolo precedente e semmai presentante ampi nessi con quella di oltre oceano (letteratura che Pavese conosceva bene sia come lettore che come traduttore di opere americane, di cui subiva il fascino evocativo e di cui si colgono ampi echi in questo come in altri suoi testi). Ciò si riflette chiaramente anche nel romanzo: sintomatico, in tal senso, è l’essere il protagonista “Anguilla” un “bastardo”, figlio di nessuno, privo di origini, almeno ufficiali in loco; e viceversa quanto, sempre il protagonista, avverta la propria identità come consolidatasi proprio oltre oceano.

Ma, date queste premesse abbastanza ovvie, deve evidenziarsi come il romanzo si realizzi e sviluppi attorno a più temi e su più piani e lungo più dimensioni. Questi elementi, analogamente ai personaggi, vengono dosati nel racconto in un continuo gioco ritmico di rimbalzo tra memoria e presente, processo ciclico funzionale alle semantiche quasi mai esplicite bensì, appunto, “mitiche”.

Abbiamo detto: temi, personaggi, dimensioni e piani: cerchiamo di vederli più in dettaglio e da vicino!

Una prima triade: il nuovo dei falò.

Certamente, come già detto in modo implicito, vige la memoria del protagonista: ma questa, comune in generale a tanta narrativa, a un’analisi più fine possiamo e dobbiamo intenderla come il necessario telaio storico, collettivo o individuale cioè appunto “Storia” o “Luna”, sul quale e verso il quale l’autore pone le sue antitesi secondo il dualismo citato. Pertanto Pavese accende i suoi “Falò”, da cui fa emergere, come tenui immagini mitiche e impersonali, le sintesi che sono poetiche, esistenziali, politiche.

L’elemento storico è ovviamente immanente: l’Italia, o le Langhe, del fascismo e della lotta partigiana; ma essi non sono mai dominanti, espliciti, bensì silenti, latenti, subliminali, trasfigurati in elementi “mitici”, visti come un atto di impersonale e incombente necessità quotidiana con cui la labile coscienza umana deve comunque fare i conti.

Il tema centrale, verosimilmente, è il delta esistente non tanto tra passato e presente, inevitabile, ma tra le psicologie dei personaggi: il protagonista, innominato se non per l’affettuoso nomignolo ”Anguilla” affibbiatogli nel corso dell’adolescenza dalla lavorante Emilia della masseria della Mora, originariamente “bastardo”, inizierà ad assumere un ruolo e una qualche identità proprio presso la Mora per poi divenire uomo in terre lontane; Cinto, ragazzo storpio, alter ego presente del protagonista (in cui rivive sé medesimo), è comunque il redivivo il cui padre, contadino Valino frustrato e violento, in un terribile estremo gesto di rabbia, stermina la sua disperata famiglia e se stesso; Nuto, come detto da autorevoli critici e accademici, è quella sorta di virgiliana guida lungo un percorso dantesco, seppure alla rovescia, in cui non si procede dall’inferno all’empireo ma dalla inconsapevolezza del reduce alla conoscenza di un finale aperto pregno di tremenda pietà. Tuttavia Nuto è anch’egli alter-ego di Anguilla: Nuto, antico modello giovanile del protagonista, è colui che ha conosciuto il mondo pur restando nei territori natii; Anguilla, viceversa, è ora finalmente come il cugino de “I mari del Sud”, sorta di “gigante vestito di bianco” nella luce del crepuscolo, reduce da viaggi lontani.

Si può affermare che i piani di confronto/similitudine/divergenza, nelle dimensioni di spazio e tempo, dei tre protagonisti maschili si intersecano restituendo molteplici luci e valenze, componendo una sorta di “Meglio gioventù” ante-litteram che, pur muovendosi tra le incertezze delle loro esistenze spesso per contrarietà, risultano tutti artefici di una elaborazione del passato e, in certa misura, sono tutti proiettati verso il futuro: Nuto è la coscienza che rimane nel luogo natio, pur girando la valle; Anguilla quella che, in fuga dalla polizia fascista, si imbarca per luoghi lontani e ritorna cresciuto; Cinto è il futuro. Questa triade maschile è simile ad altre che nei decenni saranno riscontrabili nel teatro e nel cinema italiani: si pensi agli emblematici eduardiani figli di “Filumena Marturano” o ai tre amici partigiani del “C’eravamo tanto amati” di Scola. Anche in questo caso, questa triade emana un senso, inespresso ma rintracciabile sotto la scorza del racconto, di compiutezza del romanzo che, tra le altre cose, si chiude con l’assunzione di Cinto a una nuova dimensione di vita, nell’Italia liberata pur se non completamente pacificata (i falò ancora ardono).

Una seconda triade: il vecchio della luna.

Ma questa, appena detta, è solo una dimensione; forse soltanto la più evidente. Un’altra dimensione, storica, è quella dell’altra triade, stavolta tutta femminile, di Irene, Silvia e Santina (“Santa”), le belle figlie del Sor Matteo, ricco proprietario terriero (quanto di lui ci sarà, pur in una trasposizione temporale, nel Don Calogero di Tomasi?) della tenuta della Mora, già legionario in Abissinia o Eritrea, comunque in una delle pretese epiche epopee coloniali del regno italiano in terra d’Africa. E’ questo gruppo di personaggi che rappresenta, certamente, il legame col passato, con l’Italia unita ottocentesca che, dagli impeti garibaldini naufragati nelle contraddizioni crispine (o crispiane) quindi nei parziali compromessi del giolittismo e infine, dopo la Grande Guerra, nel fascismo, vuole ora (durante l’adolescenza di Anguilla) rinverdire le glorie antiche; è essa la borghesia bramosa di ulteriori promozioni sociali e che, in un continuo prendi e lascia, aspira all’unione con la nobiltà della famiglia del Nido, della contessa tornata da Genova e dei suoi figli, o con lo stuolo di spasimanti e fidanzati di Irene, la suonatrice di piano, e di Silvia, inconfessato e improponibile amore giovanile del protagonista, le affascinanti e rampanti sorelle maggiori di Santina. Tutte e tre faranno una fine terribile: una morirà malata per infezione seguente alla pratica dell’aborto (come non scorgere qui un nesso letterario/cantautorale con la futura “Piccola storia ignobile” di Guccini?); una malmenata dal marito; una mitragliata e arsa per la sua attività di spia nazi-fascista.

E’ questa un’eredità dura che Pavese lascia, dopo sempre più latenti affiorare, nell’ultima pagina del libro, nel punto più alto delle colline delle Langhe dove Nuto conduce Anguilla a vedere i resti di uno degli ennesimi falò, quello di Santina appunto. Oltre quel baratro, sta al lettore scorgere la possibilità di una pacificazione, analoga a quella dei tre figli della eduardiana Filumena Marturano, o una scissione, come per i tre amici del “C’eravamo tanto amati”; o, ancora, come una possibile “Meglio gioventù”.

I profondi elementi del femminile e del maschile

A latere, indugiando ulteriormente nell’analogia che si fonda sul dualismo del titolo, le indicate due triadi maschile e femminile possono individuare a loro volta un piano organizzativo superiore: si provi infatti a leggere il loro rapporto secondo i dettami di una plausibile psicologia del profondo fondata sulla dialettica tra polarità femminile e maschile. Laddove la luna, principio simbolicamente femminile, si contrappone al fuoco dei falò, principio simbolicamente maschile, pertanto “luna nera” contrapposta al “rosso del falò” (con le ovvie implicazioni politico-ideologiche), il romanzo di Pavese, attraverso le disfatte e gli errori di Irene Silvia e Santina, che si stagliano nette di fronte al sopravvivere nonché al tentativo di comprensione della realtà attuato, pur in modi e tempi diversi, da Anguilla Cinto e Nuto, in certo modo e misura sancisce la sconfitta dell’elemento femminile. Quest’ultimo, in questo romanzo di Pavese almeno, implode, appare appaiato alla tradizione e al mantenimento di uno status quo, laddove l’elemento maschile si pone viceversa come impulso al cambiamento, nonché evolve da una iniziale condizione di “figlio di nessuno” a un possibile futuro.

Certo, si potrebbe obiettare, personaggi maschili sono anche il Valino e il Sor Matteo, i quali periscono tragicamente anch’essi sotto i colpi e le ferite delle loro violenze e dei loro errori; ma essi più che autentici protagonisti appaiono come dei coprotagonisti aventi ruolo di tramite, ancorati al vecchio mondo, sia esso ferino-contadino o commerciale-politico, e veicolanti l’intreccio. Viceversa, ne La luna e i falò, non si scorge un personaggio femminile, protagonista, proiettato verso il futuro; e in ciò si può affermare che, a Pavese, si porrà in netta antitesi Marco Ferreri qualche decennio dopo con due sue pietre miliari filmiche quali “Ciao maschio” e “Il futuro è donna”. Ma, ovviamente, stiamo parlando di diverse storie, diverse epoche, diversi autori!

L’estensione dei sopracitati significati potenziali a un rapporto conflittuale di Pavese con il femminile, nella realtà contingente alla Constance Dowling di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi nonché implicitamente presente nell’epigrafe al romanzo “For C. Ripeness is all” (Per C. La maturità è tutto), farebbe anche propendere per spiegazioni similari ma sarebbe fin troppo facile e, in ogni caso riduttivo, ritenere ciò frutto di un’applicazione consapevole e volontaria dell’autore; piuttosto si deve imputare a una più autentica e profonda energia, appunto mitico – simbolica nonché inconscia, che nelle dinamiche artistico-immaginative dello scrittore si trasfiguravano nelle forme da lui realizzate.

Il ciclo dell’eterno ritorno

Ma alcune pagine de La luna e i falò, oltre alle interpretazioni sopra dettagliate, che si fondano ora sul dualismo del titolo, i dialettici elementi di tradizione e di nuovo, ora sulle polarità tra maschile e femminile, può essere inteso anche come il cantare un perenne ciclo di ritorno, sorta di Samsara indiano in cui un Buddha, alternativamente sornione e violento, amorevole e disperato, ironico e lirico, osserva l’universalità delle vicende dei singoli e ne ripropone l’eterno divenire, il perpetuo finire e ricominciare. Questa chiave di lettura è ben adombrata, poeticamente, in una delle più intense pagine del romanzo del capitolo XXVI: “(…) dispiace pensare a tanti anni vissuti, tante memorie, spariti così in una notte senza lasciare un segno. O no? Magari è meglio così, meglio che tutto se ne vada in un falò d’erbe secche e che la gente ricominci. (…)”.

E’, questa sopra, come un’ulteriore istanza del mondo di Pavese che va colta, non ultima e certamente denominatore comune anche di molta altra letteratura che, in questo caso, ancora una volta non può non rimandarci a Leopardi e pertanto alla luna, stavolta candida e benevola incantatrice.

Conclusioni

Si ritiene che tutte le istanze interpretative illustrate in precedenza convivessero, pur a diverse profondità e su diversi piani simbolici, nel sistema mitopoietico di Pavese e che pertanto esse siano tutte plausibili e attendibili circa l’interpretazione del vibrante e pregnante testo de La luna e i falò.

La speranza è che anche Pavese si sia comunque addormentato secondo un principio intriso, per dirlo alla Saba, di un sereno seppure “doloroso amore per la vita” e che anche Cinto, in questo addormentarsi, sia riuscito finalmente a trovare una propria dimensione, altra, rispetto a quella del Valino.

Fonte: www.fabiosommella.it

Fabio Sommella è nato, vive e lavora a Roma. Da giovane manifesta interessi per la letteratura e per vari strumenti musicali, ma si laurea in Scienze Biologiche discutendo una tesi in Neurologia Comparata circa la relazione che, nei phylum zoologici, vige fra tipologie di sistema nervoso e forme di apprendimento. Desiderando seguire l’impulso del proprio forte e diffuso interesse per la conoscenza, frequenta anche altri corsi universitari, ma, parallelamente, si dedica alla programmazione informatica, compie il tirocinio postlaurea in laboratori di analisi cliniche, sostiene l’esame di abilitazione alla professione di biologo, lavora e collabora a ricerche cliniche nei ruoli di biologo, statistico e informatico.
È proprio la professione informatica che, per decenni, svolge presso varie aziende con diversi ruoli e compiti (sistemista, programmatore, IT problem solver, dba, project manager) che gli permettono di coniugare - in una visione integrata - informatica, scienza, musica e cultura. Infatti studia e compone musica, anche col supporto di strumentazione elettronico-informatica, si diletta di matematica, scrive raccolte di poesie, testi di narrativa, saggi di critica letteraria e cinematografica, pubblica su WEB e con editori Print On Demand, riscuote graditi riconoscimenti in concorsi di composizione musicale e letteraria.
Da sempre quindi attivo in molteplici ambiti culturali, di recente ha voluto conferire maggior autorevolezza e ufficialità a tutto ciò laureandosi anche in Lettere come Operatore dei Beni Culturali, discutendo una tesi in Letteratura Italiana Contemporanea relativa al romanzo postmoderno.
Sostiene che denominatore comune, delle proprie eterogenee attività intellettuali, sia un approccio di tipo olistico, tanto filologico che comparatistico. Indicativi in tal senso, pur senza alcuna pretesa di esaustività, sono le tematiche riferite sul suo sito www.fabiosommella.it 

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Aggiornamento: 10-02-2019