Recensione

Lo dicevano già gli antichi: poeti si nasce e non c’è impegno o studio che possa dare quello che la natura non ha regalato. Si possono dire in versi cose profonde, o più spesso astratte; si possono pubblicare volumi e volumi in prestigiose collane e venire riveriti e acclamati come grandi dai mezzi di comunicazione; ma, se manca ciò che la natura non ha dato, i versi apparentemente più profondi rimarranno solo parole, forse anche concetti, ma non saranno poesia. Ed è purtroppo un’esperienza comune, leggendo i versi di tanti celebrati poeti moderni: di molti di loro, in realtà, non si può dire che siano né grandi né piccoli, semplicemente, non sono poeti, quali che siano gli argomenti trattati o, come accade più spesso, soltanto accennati.

Vi sono invece scrittori, conosciuti o meno non importa, celebri o noti solo a una ristretta cerchia di lettori, che sanno comunicare i propri sentimenti e i propri pensieri in un modo tale cha sa “catturare” – come usa dire – l’attenzione di chi legge, sanno coinvolgerlo nella propria sfera emotiva, nel giro delle proprie riflessioni sulla vita e sul mondo. Per quale motivo? Perché nei loro versi, nelle loro espressioni si avverte un ritmo particolare, un timbro, che rende quei versi e quelle espressioni simili alla musica, capaci di proporsi  direttamente all’animo e alla coscienza del lettore. Non si dà poesia senza musicalità. Certo, non ad ognuno sarà concesso di esprimersi con la stessa intensità o con la medesima arte. La delicatezza potente di Virgilio non può essere accostata allo scoccare preciso e vivace delle frecce di Marziale, né i canti del Leopardi alla scoppiettante gaiezza dei versi di Giuseppe Giusti. Ma in tutti costoro è presente quel ritmo e quella musicalità che distingue la vera poesia.

A questo secondo gruppo di autori appartiene senza dubbio Enrico Galavotti, poeta di autentica vena. Si potrebbe dire di lui che la vita stessa, il trascorrere della sua giornata, sia scandito dalla poesia. Partecipi ad un noioso consiglio di classe, cerchi di scalare in bicicletta una salita impervia, riandando col pensiero all’amico scomparso, che gli dia muscoli e fiato; osservi con amarezza la fatica degli operai sull’autostrada, o riveda con la fantasia il viso e gli occhi delle ragazze e delle donne che hanno attraversato in qualche modo la sua esperienza, sempre si avverte quel ritmo e quel carattere  che rivelano il vero poeta. E particolarmente nella raccolta di versi dedicati alla scuola (Prof e Stud, Lulu editrice, 2013) si comprende la natura della poesia di Galavotti.

Un mondo, come quello della scuola, che a molti può sembrare arido e, per così dire, non poetico (dimenticando, naturalmente, il Pascoli) viene riscattato dal suo apparente grigiore e reso oggetto di un’intima partecipazione, che trova un’eco nell’animo del lettore; l’esigenza di una scuola che insegni davvero e avvicini lo studente alla natura e alla vita, il rapporto quasi familiare tra professore ed allievi, fonte di dubbi e di speranze, il desiderio di una scuola nuova e veramente formativa: sono temi che potrebbero formare il contenuto di una discussione sociologica o filosofica, ma che  vengono comunicati al lettore per una via diretta e in modo immediato, come solo la poesia riesce a fare.

E vorrei concludere questa breve e approssimativa “recensione”, ricordando i versi “A mia moglie” (che non fa parte della raccolta Prof e Stud), i quali costituiscono un’arguta e veramente riuscita traduzione-rielaborazione del carme V del liber Catulli veronensis (“Vivamus, mea Lesbia..”). Nella franchezza del discorso, nella sua anti-retorica, vi è infatti una qualche affinità tra il cesenate Enrico Galavotti e il malinconico e scapestrato amante di Lesbia.

Alessandro Natucci

Verona, 16 gennaio 2014

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