La pronuncia del latino

LA PRONUNCIA DEL LATINO

Pier Paolo Vaccari


La pronuncia della lingua latina in epoca classica è da considerarsi oggi ben nota; il problema è semmai quello dell’insegnamento scolastico e della conseguente pronuncia corrente di vocaboli, frasi e nomi latini.

A latere sta la faccenda del latino ecclesiastico, che ha una tradizione consolidata, in passato significativa e condizionante, ma oggi del tutto secondaria.

Negli altri paesi il problema è stato da tempo affrontato e risolto con l’adozione tout court della pronuncia classica.

L’argomento può sembrare tutto sommato secondario, non trattandosi di una lingua parlata; ma in diversi contesti lo è ancora, e poi perché non favorire tutto ciò che può contribuire a renderla uniformemente praticata e sentita, vista la sua persistente vitalità e diffusione?

Il problema come noto si manifestò in modo eclatante sul finire del Medioevo, quando le persone colte dei diversi paesi si accorsero di non riuscire più a comunicare fra loro, pur intendendo di parlare la stessa lingua.

Famoso l’episodio di quel re francese che, avendo esortato i suoi ministri con un “macte animo”, quelli intesero “marciate animali”.

Né valsero gli sforzi degli Umanisti, a cominciare da Erasmo, per superare tale angosciosa situazione.

La possibilità verificatasi successivamente, a partire dall’ottocento, di rifondare la pronuncia latina su base classica, grazie ai progressi della glottologia, è stata dunque una necessità molto opportunamente colta da quei paesi; con il che venne anche a determinarsi oggettivamente una sorta di pressione nei confronti del nostro paese, per seguirne l’esempio.

Ora però dobbiamo considerare che la lingua italiana è quella che più direttamente discende dalla latina così come modificatasi a partire dai primi secoli, e non sembra possibile mettere sullo stesso piano le altre lingue nazionali che si svilupparono su ceppi linguistici autoctoni; nelle quali quindi la corruzione della pronuncia risultò influenzata da ogni sorta di contaminazioni.

Una ben diversa legittimazione sembra spettare, anche per ragioni di primato culturale, a quella lingua che si affermò nel medioevo italiano, si consolidò nel rinascimento, nella chiesa, e in tutta la cultura successiva in Italia, grazie a innumerevoli autori di grandissimo prestigio, che potremmo anche chiamare pronuncia “italiana”, rispetto a tutte quelle pronunce nazionali che avevano preso piede negli altri paesi europei.

Dobbiamo riconoscere che questa pronuncia risulta pienamente legittimata, sul piano storico-filologico, non meno di quella classica; il che giustifica obbiettivamente la resistenza italiana al cambiamento. I nostri professori non hanno davvero ragione di temere quando vanno all’estero di venir ripresi dal primo studentello.

Il problema in definitiva risulta tale da non ammettere una risposta univoca, almeno sul piano della correttezza storico filologica.

Per comportarsi in modo corretto si dovrebbero adottare pronunce diverse a seconda del contesto, il che appare ben poco praticabile.

Ma è anche vero che il problema può esser considerato da una angolatura diversa, giungendo a conclusioni opposte, qualora si accantonino le questioni di legittimità e correttezza, e si consideri la faccenda sotto il profilo semantico.

In altre parole anziché porsi il problema di quale delle due pronunce sia quella “corretta”, riflettere sul fatto che la pronuncia è in definitiva l’essenza di una lingua, ne riflette il carattere, la forza espressiva in relazione allo spirito dei tempi.

E lo spirito dei tempi della Roma antica, tradotto nel suo linguaggio, si pone inequivocabilmente su un livello diverso, più alto, rispetto a quello dei secoli che seguirono.

Non è tanto il concetto di decadenza che intendo evocare, quanto quello di purezza, e per converso, di contaminazione.

In tale ottica può effettivamente risultare giustificata la preferenza per la freschezza e la forza delle origini.

Con ciò non intendendo recare un torto al Petrarca piuttosto che a Cicerone; ma convinti anzi che il Petrarca stesso, e tutti gli umanisti con lui, necessitati allora a usare la lingua corrente, sarebbero stati ben lieti, insieme a noi, di riportare in auge la lingua classica in tutta la sua pienezza e completezza, se avessero avuto gli strumenti per farlo; e non nel modo, pur importante ma incompleto, che riuscirono, con la migliore buona volontà, a realizzare.

In effetti sembrerebbe particolarmente interessante e fecondo oggi, in un ambito così gravemente usurato dalla tradizione, un ritorno dal sapore di scoperta ai suoni, ai modi, e anche alle asprezze, della lingua originaria.

Un “nuovo incontro” con la latinità, capace forse di evocare un mondo per certi aspetti nuovo, quanto risaputo e ripetitivo appare il contesto tradizionale.

Solo per una questione di pronuncia?

Può essere, ma nella misura in cui un tale cambiamento può produrre una incrinatura attraverso la quale far passare un recupero di genuinità, esso può forse riservare nuove emozioni e sorprese.

E anche forse una correzione di noi stessi in connessione a quel passato.

Comunque è chiaro che un auspicabile e deciso intervento in materia, su scala nazionale, varrebbe se non altro a suscitare un’attenzione e un interesse sull’argomento, che  è difficile non valutare positivamente.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019