Leonardo Sciascia

CANDIDO, OVVERO UN SOGNO FATTO IN SICILIA

Leonardo Sciascia

I - II


NOTIZIE BIOGRAFICHE

Leonardo Sciascia è nato a Racalmuto in provincia di Agrigento nel 1921, Leonardo Sciascia si distingue nel panorama della narrativa contemporanea per la fedeltà, nella tematica delle sue opere, alla sua terra: la Sicilia, con la sua storia e con i suoi problemi.

Ha pubblicato Le parrocchie di Regalpeira nel 1956, 1 racconti de Gli zii di Sicilia nel 1958, Il giorno della civetta nel 1961, Il consiglio d'Egitto nel 1964, A ciascuno il suo nel 1966. Notevoli anche i suoi scritti su Pirandello e stilla cultura siciliana raccolti in Pirandello e la Sicilia (1901) e ne La corda pazza (1970). Negli anni Settanta Sciascia si è particolarmente imposto all'attenzione: sia per il vivace dibattito, che per le ultime sue opere Il contesto, 1971; Todo modo, 1975 - hanno suscitato, sia per le sue analisi del (mal) costume della società italiana sottese da lina tensione di moralista deluso, sia per i suoi interventi sulla cronaca politica (L'affaire Moro, 1978, fra l'altro) che - al di là delle scelte contingenti (prima “ scomodo ” compagno di strada de con-itinisti, poi dei radicali) - si, distinguono sempre per lucidità intellettuale e anticonformismo. È morto nel 1989 a Palermo.

ANALISI CRITICA DELL'OPERA

Invece che Un sogno fatto in Sicilia, il sottotitolo di questo romanzo di Sciascia, avrebbe potuto essere: “ come salvare la propria infanzia e cioè se stessi ”. Non l'infanzia quale mondo chiuso cui ripiegare, un po' alla Proust, tanto per intenderci, bensì lo slancio esistenziale che, in quegli anni, verso il mondo della vita e della cultura, della vita che è cultura e della cultura che è vita, ci porta (il tema è già riscontrabile ne Gli zii di Sicilia). Candido Munafò nasce nel 1943, in Sicilia; più precisamente, in una grotta, nella notte dal 9 al 10 luglio. Se erano tempi avversi (stavano arrivando gli angloamericani, bombardando e mitragliando), non era il neonato figlio di povera gente: padre avvocato, madre bella e giovane, figlia di un generale fascista; dei beni al sole anche. La madre s'invaghisce di un ufficiale americano con cui, a guerra finita, si sposa, lasciando l'Europa e il figlio. Questi , affidato dal tribunale al padre, trascorre la prima infanzia curato amorosamente da Concetta, la cameriera che, intensamente lo ama benché, o, meglio, perché nato “un po' nella mente annebbiato ” , per via di quella “ notte d'inferno ” del luglio '43. Per colpa del bambino che ha rivelato ingenuamente un grave segreto d'ufficio, l'avvocato Munafò si suicida. Così, Candido cresce tra il nonno, diventato deputato democristiano e Concetta. Un po' più avanti negli anni (età scolastica), nella educazione del giovane interviene un terzo personaggio, l'arciprete Lepanto. Strana figura di prete (da aggiungere alla collezione già lunga dei preti sciasciani) il quale, di spirito modernissimo, si applica a capire, in chiave psicanalitica il suo pupillo. Il che aiuta, a sua insaputa, il sacerdote a liberarsi dal formalismo religioso (sempre meglio si afferma il rapporto con la psicanalisi nell'opera di Sciascia). Evolvendosi nel senso di una ]progressiva liberazione interiore, l'arciprete finirà con lo spretarsi (senza grandi crisi o plateali rotture), per poi dare l'adesione al partito comunista. E per poco non si spreterà dalla chiesa comunista. Anzi, lo si può definire uno spretato dall'interno.

Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia, ad una lettura immediata, appare come il romanzo della perdita di una fede comunista. Non in chiave tragica, magniloquente o piagnona, come altri ci hanno abituato a sopportare, ma ironicamente -essendosi la ferita tramutata nel suo contrario e cioè in tagliente punta. Come la vecchia, la nuova religione è una illusione e Sciascia diventa il suo Voltaire. Di lì l'importanza del costante riferimento al Candido settecentesco, dove, sarcasticamente, veniva deriso il finalismo ottimistico alla Leibniz e alla Pope. Tale dottrina, dal suo Maestro Pangloss, era stata insegnata all'ingenuo Candido che, nelle sue concrete esperienze del mondo, tra guerre e catastrofi naturali, personali disavventure e narrazioni di casi altrui, scopriva la anti-illustrazione di quell'ideologia. Ma don Antonio - così viene chiamato l'ex-arciprete Lepanto - non è un nuovo Pangloss. Anzi, qui, maestro e discepolo vivono una reciproca dialettica della illuminazione dell'uno attraverso l'esperienza dell'altro. La loro presa di coscienza è progressiva, lunga liberazione dalla ideologia che porta al ricupero della vera religiosità: quella di un inquieto godersi ed esperire l'esistenza (sensi, sentimento, cultura). Un pieno ricupero, tuttavia, don Antonio non lo raggiunge. In lui permangono antiche incrostazioni: un che di pretesco che, egli stesso, nei confronti della donna, per esempio, percepisce. Ideologicamente, pure. Vogliamo vedere in questo tratto del personaggio la volontà, da parte di Sciascia, di non disgiungere la storicizzazione dalla concreta finitezza cui l'individuo sottostà. Libero, liberato è invece Candido. Il buon prete ha provveduto a proteggerlo dal cattolicesimo, con la immagine di se stesso, anche con un viaggio a Lourdes, durante il quale il giovane fa la sua prima esperienza amorosa. P, ancora in seguito a questo secondo viaggio (già ci era andato, circa una ventina d'anni prima) che don Antonio prende la decisione di spretarsi, definitivamente preso dalla ripugnanza... “ non per quei corpi, per quelle piaghe, per quegli occhi acquosi o bianchi, per quelle bave; ma per quella speranza organizzata, convogliata ” (e qui, si capisce che, nella mente di Sciascia, il santuario francese, con i suoi pellegrinaggi di vittime della divina creazione, ha una specie di valore paradigmatico e rimanda ai vari sotto Lourdes verso cui viene convogliata la miseria delle plebi meridionali).

Il vero problema per Candido non è il cattolicesimo ma “ la religione dei nostri tempi ”: il comunismo. Teorica e pratica insieme è l'esperienza che da Candido ne viene fatta. Romanzo della formazione è Candido, ma più sul tipo dell'Henry Brulard stendhaliano che non del “ Bildungsroman ”. Le letture del protagonista, quindi, vi hanno una notevole importanza, come testimonia, ad esempio, questa riflessione in margine ai Quaderni del carcere:

“ I cattolici italiani: e dove li aveva visti Gramsci? La domenica alla messa di mezzogiorno: poiché non altrimenti esistevano. Erano una debolezza, e Gramsci aveva cominciato a farne una forza: nella storia d'Italia, nell'avvenire del paese ”.

E ancora l'affermazione di una capacità persuasiva, di una maggiore attualità degli scrittori rivoluzionari - Hugo o Zola - che non dei teorici o dei politici. Più rabbinico, più legato ai testi nel suo essere marxista, don Antonio dissente e il giovane non sa “ altro rispondere che se avesse solo letto Marx e Lenin non sarebbe stato comunista se non come a una specie di ballo mascherato: vestito come al tempo di Marx, come al tempo di Lenin ”.

Per Candido, infatti, il sentire marxista non rimanda ad una dottrina, è un fatto vitale, un po' come il fare all'amore.

Col senno di poi, anche noi diremo che non c'è da stupirsi se i rapporti del giovane Munafò con il partito comunista saranno una serie di dure delusioni. Al momento dell'ingresso, non mancano i sospetti nei suoi confronti: egli è ricco (ma meno del locale deputato del partito), è figlio di quella madre scappata con l'americano. Delle perplessità ce ne sono pure nei confronti di don Antonio la cui rottura con la chiesa non è stata clamorosa e non può dare adito ad un chiassoso sfruttamento politico. Diremo noi che l'ex-arciprete Lepanto ha il merito di non essere un istrione. intorno a lui i giovani cominciano a riunirsi e a parlare di marxismo e di psicanalisi. S'impone quindi un ricupero di quell'intellettuale inorganico e del suo discepolo. Ma la vita di partito sarà un susseguirsi di disavventure attraverso le quali Candido si accorgerà che il suo marxismo vitale non ha niente a che -vedere con quello dei burocrati. Questi intervengono pesantemente nella sua vita privata in ossequio ad un gretto moralismo piccolo-borghese. Viceversa non vogliono impegnarsi per la costruzione di un ospedale su un terreno regalato dal giovane barone; non denunciano la speculazione fatta su un altro terreno per la costruzione di quello Stesso ospedale. Candido viene espulso dal partito. Intanto la sua famiglia l'ha fatto interdire. Ma viaggia per il mondo in compagnia della giovane e simpatica cugina. A Torino comincia la liberazione quando, tornando amareggiato da una riunione con i compagni, Francesca - la cugina gli dice: “ E se fossero soltanto degli imbecilli ”. Francesca e Candido partono per Parigi.

Parigi, dove don Antonio li raggiungerà e dove, ultima peripezia da conte settecentesco, Candido ritrova per caso -­ da Lipp -, invecchiati, la madre col suo marito americano, le strade di Parigi, diciamo, sono lo straordinario scenario del finale del romanzo. E queste pagine vanno aggiunte a quelle già numerose del “ Mito di Parigi ”: Eldorado spirituale, utopia (in senso etimologico) cui approda Candido, l'uomo (ormai ha trentaquattro anni) che ha saputo attraversare tutte le istituzioni (oltre la chiesa e il partito comunista: la scuola, la giustizia, l'ospedale psichiatrico), salvando l'ingenua spregiudicatezza dell'infanzia.

Se Candido riesce a salvarsi è perché figlio della fortuna (ultima frase del romanzo). La sua fortuna è stata di non dover sottostare alla legge della istituzione princeps: alla famiglia. La madre se n'è andata al momento giusto con l'americano e, incontratala a Parigi il tempo di una serata in un grande ristorante, ne sarà di nuovo liberato grazie all'America. Il padre, con una imprudenza verbale, Candido l'ha ucciso al momento giusto (periodo edipico). Facendolo partecipare alla soluzione di un enigma poliziesco piú avanti negli anni, l'arciprete si assicurerà che l'inconscio del giovane si è perfettamente assestato. Probabilmente, uno psicanalista avrebbe non poche chiose da fare al libro di Sciascia. Ma al lettore piace godere ingenuamente di quella permanenza nell'adulto della forza affascinante del bambino onnipotente e trasgressore capace di aggirare l'inferno, la follia delle istituzioni per esperire il vivo delle passioni (anche sconvolgenti) e dell'intelligenza.

Non pochi aspetti di questa opera fanno pensare che forse già si profila una nuova maniera di Sciascia. Ma piuttosto che cercare d'indovinare il futuro dello scrittore, considereremo Candido come il punto d'arrivo di un travaglio ideologico e personale (il rapporto tra i due, s'intende, è dialettico) che ci riporta alla svolta della seconda metà degli anni '60, tra A ciascuno il suo e Il contesto. Sciascia ha sempre affermato che le sue origini culturali sono di stampo illuministico. Legati all'ideologia del secolo di Voltaire sono Bellodi e Di Blasi. Si capisce che, laddove la meridiana della Matrice segna sempre quella data del 13 luglio 1789, l'ideale illuministico possa svolgere la funzione di una aspirazione a cambiare la società per chi si ribella alla ingiustizia “ feudale ”. Paul-Louis Courier, scrittore all'opposizione ai tempi della Restaurazione è il maestro di chi compone Le parrocchie. Se non che, proprio perché è una filosofia “ mondana ” che alla ragione pratica si affida, l'illuminismo deve trovare, nei fatti una sua verificabilità. A lungo Sciascia si è sentito solidale con coloro che nella sinistra e in modo specifico, nel partito comunista, riponevano tale capacità operativa. Probabilmente, intorno al momento di A ciascuno il suo (1966) si attua la disperata presa di coscienza che si tratta di una illusione. In una prospettiva diversa - sebbene esistano punti di contatto - nello stesso periodo, la opposizione di sinistra al P.C.I. esce dalla confidenzialità. Ma Sciascia che non è né un ideologo, né tanto meno, un militante politico, non cerca uno sbocco nella teorizzazione o nell'azione. Egli ha scelto la letteratura e sarà attraverso una rappresentazione fantastica - Il contesto - che quella dilacerazione si manifesterà.

L'illuminismo (rimandiamo all'esempio classico del '700 lombardo o, in area siculo-sciasciana, al periodo del vice ré Caracciolo) rappresenta il tentativo di far coincidere tra di loro, all'insegna della Ragione, i tre discorsi dello Stato, dell'intellettuale, del progresso civile e morale. Ne Il contesto, a Cusan viene chiaramente detto dal successore di Amar che ragione di partito e ragione di Stato (due ragioni particolari che sono la negazione della Ragione universale) possono coincidere tra di loro, cancellando il razionale confine che dalla menzogna separa la verità. Questa distinzione Cusan scopre di essere l'unico rimasto a darle importanza; anche a Rogas importava, ma è stato fatto fuori. Per la ragione non c'è piú spazio. In Sciascia, il momento della disintegrazione è sempre quello in cui si abolisce l'opposizione su cui si fondava la ragion d'essere di un impegno e si confondono le parti. Già Il quarantotto è la storia di un compromesso storico.

La coincidenza - non l'identità - del discorso sciasciano con quello del P.C.I. funzionava per l'autore de Il giorno della civetta come una garanzia di razionalità nella misura in cui il pensiero illuministico o trova la sua verifica nella dialettica sociale o non ha piú senso. Al di là o al di qua delle circostanze, contingenti, la candidatura alle elezioni del '75 e le dimissioni, due anni dopo, possono essere interpretate la prima come volontà di non perdere il contatto con la realtà socio-politica rappresentata dal partito comunista, la seconda come la drastica risoluzione della schizofrenia oggettiva di chi la pensa in un modo e sembra, nel comportamento pubblico, servire da cauzione a chi la pensa in un altro, nella fattispecie, diametralmente opposto. Proprio per quell'assunto illuministico di fondo, la rottura con il partito comunista, dallo scrittore, non può essere vissuta come un banale dissenso su scelte di strategia o di tattica politica.

D'altra parte, la crisi della razionalità non è un discorso in sé. È la crisi della razionalità per Sciascia, in Sciascia. Perciò, interpretiamo il periodo che va da Il contesto a Candido come sforzo verso la conquista di una nuova razionalità. Il discorso della follia (Il contesto) prosegue attraverso il Majorana che costituisce una specie di variante scientifica. Sistematicamente tutte le istituzioni vengono liquidate: ne Il contesto viene ucciso il segretario del Partito Rivoluzionario Internazionale (P.C.I.), in Todo modo un prete della Chiesa cattolica. I pugnalatori mostrano che, fin dall'inizio lo Stato unitario era stato delinquenziale. Candido, è, per eccellenza, l'uomo anti-istituzionale. In Sciascia la nuova razionalità trova il suo baricentro nell'atto di scrivere, nel suo essere uno scrittore. Scrivere significa attuare il sogno fatto in Sicilia di essere onnipotente e libero, fuori dalle istituzioni come il giovane Munafò.

ANALISI CRITICA di LEONARDO SCIASCIA

Il conflitto fra narrazione e riflessione appare fondamentale per uno scrittore come Leonardo Sciascia che, per il prevalere, a un certo punto della sua esperienza di scrittore, della passione del saggista, del moralista, del maitre-à-penser, ha vista sollevata a grande popolarità la propria figura, proprio nel momento in cui la scrittura veniva a perdere di invenzione e di incisività. Le Favole della dittatura (1950) e Gli zii di Sicilia, del 1957 (usciti nei “Gettoni” vittoriniani), rappresentano molto bene il carattere grottesco, “umoristico” (nel senso pirandelliano), della narrativa di Sciascia alle sue origini. Una Sicilia fra fascismo, occupazione alleata e dopoguerra, nei racconti de Gli zii di Sicilia, viene a proporsi come il luogo deputato dallo scrittore per far scattare le sue moralità acuminate, feroci, ma anche condotte sulla linea di un'indagine di costume politico e di caratteri che segna, sulla strada del Pirandello novelliere e dei siciliani autori di “ caratteri”, come Serafino Amabile Guastella e Francesco Lanza, la secca, razionale, lucida indicazione di una scrittura del tutto alternativa rispetto al fasto barocco di altri siciliani, come De Roberto, la Morante, più tardi Bufalino e Mazzaglia e altri ancora. I personaggi dei racconti di Sciascia sono tutti portatori di un'esemplarità negativa, all'interno di una società ipocrita, complice di mali ancestrali che si perpetuano senza nessun sussulto più di verità, neppure nel cambiamento dei regimi e dopo gli sconvolgimenti di un'ennesima guerra che ha avuto come teatro la Sicilia stessa. Ma la loro misura è il grottesco, non la serietà del tragico; e la scrittura così secca e netta rileva perfettamente, con un che di alacre aggressività, tale disposizione di giudizio. L'altra faccia di questo modo di narrare è data da Le parrocchie di Regalpetra, del 1956, che rientra in una breve moda di libri-testimonianza, ma che trascende tale occasione. La città che è oggetto della descrizione di Sciascía è Racalmuto, la patria dello scrittore. Dominata dalle cento chiese, dalla tradizionale alleanza del potere economico e sociale e di quello religioso, Regalpetra è il luogo della memoria, che si offre come reattivo esemplare della condizione dell'Italia del dopoguerra, nella peggíore incarnazione siciliana, dove il potere democristiano e la mafia, almeno, la difesa feroce dei privilegi e dei beni, nonché della tradizione come garanzia del non mutamento e, di conseguenza, della conservazione sicura del dominio nelle mani di chi da sempre lo detiene, costituiscono la regola del vivere, a malgrado della popolazione misera, e per parte sua superstiziosa, e dei tentativi di riformare e trasformare qualcosa attraverso la scuola. Ne Le parrocchie la scrittura, sfuggendo al rischio della pura documentazione, si muove fra indignazione e denuncia, ironia ed esaltazione della memoria che rievoca pietre ed edifici con una straordinaria levità e grazia (che sono, naturalmente, escluse dalle pagine sulla società e sul mondo politico). Un autore assume la parte dell'illuminista, che si affida alla ragione per rivelare e mostrare in ogni cosa il male che sono le superstizioni, gli inganni, le complicità politiche, le consorterie mafiose, la religione fatta strumento di potere politico attraverso la democrazia cristiana e l'appoggio che a essa danno i preti. E lo spirito illuminista domina anche il romanzo Il giorno della civetta (1961), il più celebre di Sciascia, anche perché è incentrato intorno a una vicenda di mafia. La ragione vi è incarnata dal capitano dei carabinieri Bellodi, che, in una cittadina della Sicilia occidentale, decide di andare a fondo in un delitto di mafia, anche al prezzo di colpire i potenti, quelli che sono considerati intoccabili. E capitano riesce a trovare chi testimonia sugli esecutori del delitto e sul mandante; e anche se il testimone viene assassinato, tuttavia questi lascia pure una lettera che, postumamente, racconta come sono andate le cose; e il capomafia può essere arrestato. Ma ben presto il capitano si trova di fronte al dissolversi non soltanto di quella che ha accertato essere la verità, ma del movente stesso: da delitto di mafia a delitto di onore. Spuntano altri testimoni che raccontano di aver visto i sicari in luoghi lontani da quello degli omicidi, e sono sostenuti da personaggi insospettabili e autorevolissimi. Interviene il potere politico a favore dell'accusato; il capitano Bellodi, a Parma per rendere una testimonianza, apprende dai giornali che l'accusato è stato prosciolto per mancanza di prove. Deciderà tuttavia di ritornare al suo posto, nell'Isola. t un atto di fiducia nella ragione che, dopo, verrà incrinandosi nell'opera di Sciascia. Ma, intanto, rende possibile anche la rappresentazione del capo mafioso con un certo rispetto. 

E' un uomo, appunto, “di rispetto”, che giudica lucidamente gli altri e non nasconde ammirazione e simpatia per l'ufficiale dei carabinieri che ha avuto il coraggio di scoprire la verità dei fatti e di arrestarlo. Lo sconfigge in forza della complicità mafiosa dei poteri politici e della società siciliana, ma ne riconosce il coraggio e l'onestà. Sciascia, insomma, nel suo primo romanzo di mafia, dà ai capi di essa un riconoscimento di pur diabolica e malvagia grandezza di idee e di visione del mondo; e dalla loro è lo scetticismo fondamentalmente siciliano, poi sempre più presente nelle opere di Sciascia intorno alla verità, alla storia, alla politica, alla vita stessa. Un altro romanzo di mafia, A ciascuno il suo (1966), è già sotto il segno di tale scetticismo della verità. Il professore ingenuo e sprovveduto, che scopre una storia che sembra molto comunemente di adulterio. in cui sono implicati personaggi dell'alta società della sua cittadina siciliana, e anche un sacerdote particolarmente autorevole nella gestione del potere politico ed economico del luogo, arriva a poco a poco, in virtù di una pervicace curiosità e a malgrado degli avvertimenti a tenersi lontano dalla faccenda, alla verità delle responsabilità e delle colpe; ma non giunge a cogliere e comprendere fino in fondo la rete delle omertà e delle complicità, e si lascia sorprendere dalla tentazione amorosa, così da perdersi, alla fine, e da saltare per aria con la sua auto, in una zona di scavi e sbancamenti per la costruzione di un nuovo quartiere a Palermo. E' la sconfitta della verità. Non c'è nessun capitano Bellodi, emiliano, a portare con sé la verità e a fame ancora in futuro lo scopo delle sue azioni. Nell'esplosione si cancella l'unico indagatore, quasi involontariamente coraggioso fino all'incoscienza. La mafia vince in modo radicale, irrimediabile, definitivo.

La tecnica poliziesca ritorna in due romanzi politici come Il contesto (1971) e Todo modo (1974). Nel primo una vicenda mafiosa è riflessa sulla situazione politica dell'intera Italia, divisa fra il potere democristiano e l'opposizione comunista, tuttavia sottilmente complice anch'essa del sistema del primo, e anche della mafia, in ultima analisi. Per questo il giornalista che, ingenuo e audace, ha sciolto un mistero di mafia in Sicilia, che coinvolge le alte autorità dello Stato e della politica, quando si rivolgerà all'amico comunista perché almeno lui pubblichi la verità sul suo giornale, finirà cancellato dall'agguato che, proprio con la complicità del giornalista d'opposizione, gli viene teso dall'organizzazione mafiosa. Alla mafia di paese, di provincia, di piccoli potentati politici ed economici, di complicità ecclesiastiche e dello stesso apparato dello Stato, adesso Sciascia contrappone un kafkiano ordine onnipotente, che comanda ovunque, sa tutto, tutti fa complici del proprio potere. Di fronte alla potenza assoluta, che è la mafia, ogni sfida di intelligenza e di onestà è donchisciottescamente vana quanto penosa. Il personaggio dell'indagatore della verità, del poliziotto onesto e lucidamente razionale, che rifiuta di credere all'onnipotenza mafiosa e crede di poterla combattere o almeno svelare alla coscienza di chi non è ancora del tutto asservito, è ormai impotente, e la sua morte, a cui collaborano gli uomini del governo e quelli dell'opposizione, è emblematica del pessimismo di Sciascia, che rappresenta il fallimento dell'ipotesi illuminista dei libri precedenti, della possibilità, cioè, di riformare il sistema politico e di vincere la mafia. 

In Todo modo la struttura poliziesca si rivela ormai non più che il supporto narrativo di una proclamazione dell'insensatezza assoluta del mondo, politico e religioso, nei colori lividi di un grottesco che, dal “giallo”, ricava soprattutto la sequenza delle morti tutte inspiegabili, apparentemente illogiche e senza relazioni l'una con l'altra, il luogo separato dal mondo, dove sono raccolte le persone che via via appaiono come possibili colpevoli degli assassini e poi, magari, si rivelano vittime. Il convento per gli esercizi spirituali di un gruppo di uomini politici democristiani, che approfittano dell'occasione per tessere intrighi e coltivare progetti e complicità con un sacerdote, che pronuncia le omelie giornaliere con concetti che ricordano quelli del gesuita Naphta ne La montagna incantata di Thomas Mann, è il luogo deputato alla dissacrazione più radicale della religione, che pure dovrebbe essere la ragione della riunione. Il cinismo vi regna, nelle forme più ambigue e subdole. Chi sia il misterioso assassino che uccide i vari notabili democristiani, misteriosamente, non si saprà mai. Il poliziesco di Sciascia non ci dà più colpevoli, perché tutti sono colpevoli e complici. Ma il dubbio di fondo di Todo modo è un altro, più profondo: se, cioè, l'uccisione dei notabili democristiani risponda a un disegno criminale oppure sia un atto di radicale giustizia, grandiosamente barocco nella sua radicalità che non conosce pietà, perché nessuno la merita; e allora il sacerdote che governa gli esercizi spirituali potrebbe essere lui il giustiziere in nome di quel Dio che i politici hanno sempre in bocca, ma che hanno tradito coinvolgendolo nelle proprie mene di potere e facendosene uno scudo o un alibi.

Da questa sfiducia così radicale nella storia italiana nasce l'ulteriore fase dell'opera di Sciascia: quella, anzitutto, dell'autore di romanzi storici, che lo scrittore alterna alle opere di argomento contemporaneo, per poi dedicarsi presso che completamente alla narrazione della storia del passato come specchio di un male incurabile di ogni tempo, onde il mondo contemporaneo della mafia e del potere democristiano viene a essere rispecchiato in vicende esemplari del passato. A un certo punto, Sciascia finisce con il dedicarsi all'intervento nella cronaca, dalla posizione, che si assume, di maitre-à-penser, chiarendo così ai lettori meno abbagliati della risonanza delle sue prese di posizione e meno facilmente adescabili dall'indubbio fascino del polemista e del moralista, come, nella vicenda letteraria del dopoguerra, sia molto più significativo come intellettuale organico a un'idea della scrittura come “lezione”, ammaestramento, indicazione del bene e del male della cronaca, rivelatore e portatore sempre della verità e, come tale, non discutibile e non contestabile, che non come narratore, molto più episodico nei risultati, discontinuo, contraddittorio. 

Tuttavia, proprio nell'ambito del romanzo storico Sciascia scrive la sua opera più alta e sicura: Il consiglio d'Egitto (1963). Già emblematica è la scelta del tempo storico del romanzo: il tardo Settecento e il primo Ottocento, nella Palermo esclusa dai grandi moti di rinnovamento della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche, perché rimasta sotto i Borboni, difesi dalla flotta inglese, ma percorsa anche da qualche fermento, dall'illusione del mutamento politico e sociale. Alla base del romanzo sta il falso che un abate palermitano mette in opera per gioco, dapprima, ma poi credendo sempre di più alla sua stessa invenzione, componendo dei falsi documenti che metterebbero in crisi l'intero sistema feudale ancora vigente nella Sicilia proprio perché essa è rimasta esclusa dalla possibilità di godere delle leggi che aboliscono la feudalità nel Regno di Napoli, emesse durante il periodo in cui fu re Gioacchino Murat, Per un poco, finché il falso non è scoperto, sembra che l'ordine plurisecolare della feudalità siciliana sia destinato a cadere, sia pure non in senso illuministico e moderno, ma per effetto di quel “Consiglio d'Egitto” che durante la dominazione araba avrebbe posto le basi di un ordinamento politico-amministrativo ben diverso da quello poi instaurato con la sottrazione dei documenti e la loro distruzione a opera dei feudatari posteriori, che in questo modo avrebbero fondato potere e ricchezze. Nel pessimismo di Sciascia, che si riverbera sulla storia della contemporaneità siciliana e mafiosa, soltanto una falsificazione può, sia pure per poco, mettere in crisi il potere sociale e politico: non la ragione, tanto è vero che il giovane ed entusiasta illuminista e riformatore viene condannato a morte e ucciso, quando tenta, con pochi altri spiriti moderni, nutriti delle idee della ragione e dell'Encyclopédie, di suscitare un'insurrezione a Palermo. 

E' certamente l'eroe della storia, ma non riesce a nulla, e il suo fallimento e la morte significano la presa di coscienza, nell'allegoria degli eventi di quasi duecento anni prima, da parte di Sciascia alla speranza del rinnovamento, della trasformazione, dell'instaurazione. sia pure parziale o faticosa, della giustizia e della chiarezza della ragione moderna nel mondo oscuro, delittuoso, omertoso, della Sicilia e dell'Italia. Anche in Morte dell'inquisitore (1964) Sciascía rappresenta il personaggio del pensiero libero, dell'indagine della ragione, della lotta contro la superstizione nella sua sconfitta. Il protagonista di un minimo fatto storico del Seicento siciliano finisce anch'egli vinto e schiacciato dalla forza del sistema inquisitoriale, che ha trasformato la religione in superstizione. Sì, l'inquisitore muore anch'egli, orribilmente, ma Sciascia si affida all'ultima risorsa degli oppressi, quella delle origini cristiane durante le persecuzioni imperiali, che è l'intima certezza che anche gli oppressori sono destinati alla morte, e i loro trionfi, di conseguenza, sono effimeri, e gli oppressi possono attendere con disperata fiducia che la morte se li porti via. Anche l'altro romanzo storico di derivazione manzoniana, nel senso che racconta un episodio di caccia alle streghe nella Milano dei tempi dei Promessi Sposi, facendovi capitare dentro anche il cardinale Federigo, ha lo stesso tono di disperata pietà per le vittime delle superstizioni e degli inganni nella storia. 

E' un modo di narrare la storia che è ben manzoniano, non tanto del Manzoni del romanzo quanto di quello della Storia della colonna infame. Non c'è altro da fare, per lo scrittore, che andare a cercare nelle cronache del passato episodi di ingiustizia e di crudeltà, per risarcire le vittime almeno con il ricordo delle loro sofferenze e l'ammonimento sui mali che portano con sé la superstizione e l'esercizio del potere come prevaricazione e oppressione dei deboli. La Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A. D., del 1969, è, invece, piuttosto un esercizio di abilità dialettica, quanto mai ironica fino al grottesco, nella raffigurazione della capziosità, delle contorsioni, delle complicazioni e degli intrichi del rapporto fra i poteri e i potenti, sul vuoto della ragione. Ma, intanto, la cronaca passata e recente finisce a sostituirsi alla storia, e proprio il gusto dialettico, della trovata un poco a effetto, da avvocato dei processi dell'attualità, sofistico, dedito al ritrovamento di misteri e di complicità politiche dietro ogni fatto preso in esame, diviene la guida di numerose opere di Sciascia, fra le meno felici, anche se sono state quelle che hanno suscitato maggiore clamore di reazioni giornalistiche; e anche lo stile si adegua al basso di tale concetto dell'uso della parola, con un fondo di popolaresco piacere del colpo di scena e dell'indagine e della scoperta del mistero attraverso ipotesi ingegnose da investigatore un poco esagerato e fantasioso, ma avvincente. 

E' il caso de La scomparsa di Majorana (1975), che ha come protagonista il matematico sparito durante il tragitto in nave fra Palermo e Napoli negli anni Trenta, a proposito del quale Sciascia ipotizza il ritiro in convento, per sfuggire alla responsabilità di collaborare alla preparazione dell'atroce strumento di morte della bomba atomica, per di più sotto il fascismo. I pugnalatori (1976) rievoca un oscuro evento di cronaca nera nella Palermo dell'Ottocento, dopo l'Unità d'Italia: anche qui immagina complicità e omertà del potere politico nazionale con quello siciliano e con la mafia. Gli Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (197 1) e Eaffaire Moro (1978) hanno anche strutturalmente la forma dell'inchiesta giornalistica, ma perfettamente rappresentano la scelta della letteratura non più come invenzione e scrittura, ma come ipotesi interpretativa dei “misteri” antichi e recentissimi, scoperta di colpevoli, rivelazione di fatti tenuti celati, analisi psicologica dei protagonisti in funzione della concezione che Sciascia si è fatto intorno a ciò che è accaduto, in modo ormai indolore per quel che riguarda il poeta Roussel morto a Palermo misteriosamente, molto più pensosamente e con peggiore responsabilità per quel che riguarda Aldo Moro, il rapimento a opera delle brigate rosse, la detenzione, infine l'assassinio da parte dei rapitori. Sciascía si costruisce H personaggio, e sulla base di tali idee racconta come sono andate secondo lui le cose, nell'intrico delle complicità e delle responsabilità, naturalmente attribuite a quel sistema politico, democristiano e d'opposizione puramente infinta, che già era stato oggetto di accusa e condanna ne Il contesto. Nero su nero (1979), Cruciverba (1983), 0cchio di capra (1985) hanno, pur nella brevità degli scritti giornalistici e polemici che li compongono, lo stesso carattere, che diviene sempre più quello di una predicazione abbastanza funebre, di una denuncia intinta nel buio della negazione e della condanna universale. 

Significativamente, quando in mezzo a opere del genere Sciascía introduce ancora un romanzo, questo (Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia, 1977) è un rifacimento e una riscrittura. Il “Candido” di Sciascia è siciliano, si trova a confrontarsi con l'orrore e le violenze della storia nel periodo che va dalla guerra allo sbarco alleato, al dopoguerra di banditi e mafiosi, che attraversa con il suo ottimismo, ma non fino al punto, in questo molto allontanandosi dal modello voltairiano, da restare nella sua isola a scontrarsi con pericoli e rovine, ma, al contrario, a un certo punto andandosene a Parigi. Se anche il romanzo A futura memoria (se la memoria ha un futuro), uscito postumo nel 1990, non è che la ripresa o, meglio, il rifacimento del modulo poliziesco di opere precedenti e particolarmente fortunate, s ha da dire allora che, nell'attività letteraria di Sciascia degli ultimi decenni faccia eccezione, per altezza di concezione e per assoluta purezza e forza di stile, Il Cavaliere e la Morte (1988). Romanzo filosofico, anzi metafisico, a cui bene si addice il titolo dureriano, è il racconto del viaggio verso la Morte da parte dell'uomo che, emblematicamente, ha combattuto la buona battaglia nel mondo con le armi della ragione, con decoro, con onore, con dignità. C'è una limpida, divina misura di malinconia e di distacco dal mondo, ma anche di profondo quanto vano, ormai, amore nel Cavaliere che va all'incontro con la Morte; e anche il linguaggio subisce una trasformazione profonda, perdendo ogni eccesso di capziosità alla ricerca di spiegazioni sempre troppo ingegnose per i “misteri” della cronaca italiana. Di fronte all'autentico mistero della vita e della morte, Sciascia ritrova di colpo la lucidità del grande razionalista e la trepidazione di fronte alla prova decisiva che è la morte, con l'ombra del sigillo su quanto c'è (o non c'è) al di là, e sul senso, allora, di quanto accade al di qua, nel mondo.

Sciascia è stato anche un grande saggista letterario più che di costume. Opere come Pirandello e il pirandellismo (1953), Pirandello e la Sicilia (1961) e, soprattutto, La corda pazza (1970), che ha un così efficace ed emblematico titolo pirandelliano (da Il berretto a sonagli), sono fra le più vive e acute della saggistica italiana del Novecento, su quella linea di intelligenza arguta e un poco sofistica che è tipica della scrittura di Sciascía, sempre. Sciascia, come molti scrittori e intellettuali siciliani, finisce a essere preso dall'idea della specificità isolana della letteratura di scrittori nati e operanti in Sicilia, nell'ambizione di poterne dare una definizione che tutti li possa comprendere, e anche se stesso, i propri caratteri distintivi nei confronti della letteratura nazionale, con un misto di orgoglio e di ansia di trovare una collocazione, compagnia, somiglianza, segni di onore e, al tempo stesso, il pericolo della solitudine, dell'impossibilità di avere una collocazione, un punto di riferimento in Europa, avendo, in qualche misura, allontanato molto al di là dello Stretto l'Italia e la tradizione italiana; e, in più, c'è un brivido di sospetto di una follia isolana, che nasce ed è coltivata nella stessa rivendicazione della “sicilianità” non soltanto letteraria, ma anche di visione del mondo, con un omaggio, in ultima analisi, alle idee che Tomasi di Lampedusa mette in bocca al suo principe di Salina.

BIBLIOGRAFIA

Opere di Leonardo Sciascia

“STORIA DELLA CIVILTA' LETTERARIA ITALIANA” (UTET)
“GRANDE DIZIONARIO ENCICLOPEDICO” (UTET)
“RICERCA SU INTERNET”
“CANDIDO: OVVERO UN SOGNO FATTO IN SICILIA” collana FABULA.

Scarpellini Mario <skifox@uninetcom.it>


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019