La casa di Silvio D'Arzo

La casa di Silvio D’Arzo

Silvio D’Arzo

Dario Lodi


Secondo Eugenio Montale, il grande poeta, “Casa d’altri” di Silvio D’Arzo è il miglior racconto del ‘900. Ma questo non soltanto secondo Montale. Silvio D’Arzo, al secolo Ezio Comparoni (1920-1952: mancò giovanissimo per una leucemia fulminante) era uno scrittore emiliano, piuttosto appartato, mite e un po’ ombroso, ma non era assolutamente un introverso. Molti i suoi racconti brevi, dispersi qua e là: quelli ritenuti migliori furono raccolti in un volume intitolato, appunto, “Casa d’altri”, con quello classico della stesso titolo in prima battuta.

Nel racconto in questione, “fatto d’aria” come scrisse sempre Montale sul “Corriere”, una vicenda assurda viene fatta passare per normale dall’autore. E’ normale che una vecchietta chieda ad un prete “da sagra” il permesso di suicidarsi. Ed è normale che il prete non sappia cosa rispondere, se non cose banali e convenzionali. D’Arzo ha la bravura di tenere tutto in sospeso, tutto in essere. La vicenda, infatti, non ha uno sviluppo: allo scrittore preme mettere in evidenza l’assurdità della richiesta o, molto più semplicemente, la sola richiesta.

Nello sfondo, rimane sfumato, riservato, schivo, il dolore per il vivere. D’Arzo suggerisce che si tratta di un dolore sotterraneo, metafisico che nasce da considerazioni sentimentali e da delusioni terribili per il loro esito.

La profondità del sentire le cose, la vita, l’esistenza, la realtà, è quanto mai intensa e suggestiva nel racconto, senza che vi sia ricorso mai ad effetti tradizionali, a tentazioni tragiche facilmente sfocianti nella teatralità o, peggio, nel melodramma.

A D’Arzo si sono fatti e si fanno torti inaccettabili: si leggono le sue pagine con una gravità del tutto impropria, con una cupezza che il nostro scrittore non prende neppure in considerazione.

Dal racconto in questione, Alessandro Blasetti trasse a suo tempo un breve filmato, inserito nel film ad episodi “Tempi nostri” (altrimenti noto come “Questa è la vita”, 1954) recitato dall’immenso Michel Simon (l’attore prediletto da Jean Vigo, che lo volle per il mitico film “L’Atalante”): riprese meste, in bianco e nero, dramma incombente, volti atteggiati, ritmo funebre. Tutte cose che non esistono nel racconto.

Nel racconto esiste uno stupore sospeso, per nulla indagato, accettato così com’è: una sorpresa per certe sensazioni, per certe larve di pensieri e la rassegnazione, però vigile, quanto consapevole della partecipazione alla stranezza, a dar loro retta, come se si trattasse, infine, di una cosa del tutto ovvia.

Nessun cedimento emotivo e nessuna concessione alla malinconia o alla tristezza. Miracolosamente il racconto sta in piedi da solo, senza bisogno di aiuti esterni. E’ una vicenda interiore, non è un evento esteriore. Ecco perché il prete, che rappresenta il sistema preposto a collocare, bene o male, ogni cosa, si trova a mal partito di fronte ad una espressione completamente fuori dalle righe, ma in qualche modo legittima perché presentata con ingenuità e candore. Non è spiazzante? Non è irreale?       

Ovviamente, la verità dice che candore e ingenuità non esistono affatto in quella richiesta assurda (assurda per le istituzioni), esiste piuttosto una normalità inquietante, una normalità che decreta la sconfitta della consuetudine. La vita e la morte sono cose troppo serie per questo mondo.

Silvio D’Arzo segue la vicenda con passo leggero, ma lascia orme indelebili: lievi e incisive come poche. Sono orme imbarazzanti che non portano da nessuna parte, se si esclude il duro mestiere di vivere. E’ un mestiere che il nostro scrittore conosce molto bene: l’ha, curioso e insistente nel proprio animo, con profonda semplicità. E’ vivo e palpitante come nient’altro.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019