L’UMANESIMO A TOLMEZZO NEL 1500

L’UMANESIMO A TOLMEZZO NEL 1500

Un percorso per la lettura

Ermes Dorigo


Questo libro, frutto di un lavoro di tre anni, ha una sua solida motivazione, che chiarirò di seguito. Per ogni opera del genere qui presentato, inoltre, si deve fornire un percorso di lettura, che rassicuri e non disorienti il lettore. In questa introduzione a mo’ di premessa vorrei chiarire entrambi questi aspetti, tanto più per un libro come questo, che si colloca in un settore e in un contesto preciso, apparentemente specialistico, ma in realtà, con le mie traduzioni e note ai testi latini, alla portata di qualsiasi lettore medio, anche non conoscitore della lingua classica. Perché, in effetti, la vera finalità di fondo é quella di ridestare l’interesse sempre più sbiadito (come l’affresco di copertina, scelto appunto con questo intento) per la classicità ed i suoi tre valori fondamentali: Bene, Bello, Vero - Etica, Estetica, Morale -, che ci permettano di evidenziare i disvalori attuali: per cui esso assume anche una connotazione d’impegno, oltre che culturale, civile attraverso il recupero della propria memoria storica, per far uscire una comunità dall’isolamento e dai complessi di inferiorità. Con questo arriviamo alla ‘motivazione’, di cui ho detto in apertura.

La revisione della geografia culturale - di tutti i generi culturali - non é solo un dovere storiografico, ma si trasforma in un atto etico-civico nel momento in cui, attraverso la giusta rivalutazione delle espressioni letterarie di un territorio, si dà alla comunità, che le ha espresse in passato, il senso dell’uscita dalla lateralità e marginalità e la consapevolezza di appartenere a pieno titolo ad una comunità più vasta. Tale revisione, per quanto concerne Tolmezzo e la Carnia, deve concentrarsi sul 1400 e 1500, perché é con l’instaurazione del dominio veneto nel 1420, che si diffonde l’Umanesimo e inizia per questa terra quell’ascesa economica, sociale e culturale che culminerà nel 1700. Nell’introduzione ai volumi dell’Età veneta del Nuovo Liruti. Dizionario biografico dei Friulani, si lascia intuire che, accanto a quella nel campo artistico di Domenico e Gian Francesco da Tolmezzo, si può a tutti gli effetti parlare di Scuola Tolmezzina anche per quanto concerne la coeva cultura e letteratura umanistica, da mettere accanto, quindi, all’unica finora esaltata e celebrata Scuola di San Daniele, fondata da Guarnerio d’Artegna (anche se é ben vero che Tolmezzo e la Carnia non vantano umanisti cultori di biblioteche e collezionisti di manoscritti antichi, se si fa eccezione per Giovanni di Mainardo di Amaro, che visse e insegnò però a Cividale. La sua biblioteca, nella prima metà del Quattrocento, contava 109 codici, tra cui si notavano, oltre ai testi grammaticali e propri della professione, opere di mitologia, astronomia, storia, esegesi biblica, patristica, e alcuni volumi di letteratura moderna, da Petrarca e Boccaccio in poi).

La prima particolarità che balza agli occhi é la presenza massiccia, tra gli umanisti, di autori con un cognome non usuale nel territorio della Carnia: Cillenio Raffaele, il più famoso dei Cillenio, un casato che ha dato numerosi letterati di humanae litterae nel corso del 1500, firmava talora le sue opere «Cillenio Angeli» o «Cillenio De Angelis». Il Liruti afferma, scrivendo a proposito di un Domenico Cillenio, autore dell’opuscolo dell’Ordine Militare de’ Romani, Greci e Latini: «Non ritrovo però ch’egli sia de’ soprallodati Cillenj nostri Angeli di Friuli, abitatori di Tolmezzo […] e perché so che in Verona v’era pure una famiglia di tale denominazione, per distinguersi dalla quale possono i nostri Friulani avervi aggiunto il soprannome De Angeli». Secondo il Puppini «si sa che la famiglia dei Cillenio si era imparentata in qualche modo con il notaio e cancelliere tolmezzino Cristoforo Angeli». A mio avviso si dovrebbe suggerire una diversa ipotesi circa il cognome, ovvero che quello reale fosse ‘Angeli’; probabilmente, in un qualche cenacolo letterario, dov’era consuetudine assumere uno pseudonimo, un Angeli scelse quello di ‘Cillenio’ (il monte dell’Arcadia, dove nacque Hermes-Mercurio, inventore della lira – canto, poesia -, accanto all’Elicona, il monte delle Muse), che divenne il patronimico, salvo poi, nei casi di possibile omonimia, riprendere e/o aggiungere il cognome originario.

Sulla letteratura quattro-cinquecentesca a Tolmezzo sono stati fatti studi approfonditi su Girolamo Biancone (Pellegrini), il maggior poeta in lingua friulana del secolo; su Fabio Quintiliano Ermacora (Tremoli) per il suo monumentale De antiquitatibus Carneae (Gli antichi avvenimenti della Carnia) – qui é riportato un lungo brano relativo ad una contesa tra Cadorini e Tolmezzini -; e l’edizione critica (Dorigo) di un Canzoniere petrarchesco del XVI secolo di Anonimo da Tulmegio. Nel libro si raccolgono tutti i rappresentanti di questa cultura; naturalmente anche quelli che per inquietudine o prestigio o concrete possibilità di lavoro vissero a lungo o si trasferirono in altre città, particolarmente significativi e famosi al di fuori dell’ambito locale come Raffaele Cillenio – Venezia, Vicenza -; quelli che, come egli scrive, non rimasero «chiusi, senza infamia e senza lode, solamente nella paterna e avita contrada, litigandovi al modo di galli domestici, né mai manifestarono l’intenzione di uscirne qualche volta, e in genere amano solo i campi, i monti, i fiumi e i boschi della terra natia»; come il medico Giuseppe Daciano, a Udine, e il giurista Francesco Janis, a Udine e Venezia.

Siccome Venezia tiene lontana la nobiltà e l’alta borghesia dal potere «il latino – scrive Tremoli – é sì simbolo di distinzione, ma diviene anche strumento difensivo, utile e necessario per trattare alla pari con i nuovi padroni. Anche per questa ragione si spiegano le cure speciali dedicate all’eccellenza delle scuole – a Tolmezzo fu molto curata la scuola di grammatica e retorica - e la considerazione di cui vien fatto oggetto chi conosce il latino». Certamente rispetto ai grandi umanisti toscani, i tolmezzini sono dei ‘minori’, anche se quell’umanesimo civile latino, soprattutto fiorentino, comincia a declinare verso la metà del 1400 a favore del volgare, che nel corso del Cinquecento si impone definitivamente con i capolavori dell’Ariosto, di Machiavelli, del Tasso; continua però un filone di letteratura nelle lingue Latina e Greca, tanto é vero che in un testo addirittura del 1596 si pone in premessa una lettera del 1511 circa di Andrea Navagerio al pontifex maximus Leone X Medici, protettore degli umanisti, per giustificare e difendere la loro produzione letteraria nelle due lingue classiche e per tutelarsi dagli inquisitori domenicani della Controriforma, che li consideravano paganeggianti. Inoltre, come scrive ancora Tremoli, «hanno la loro importanza perché rappresentano, quale che sia stata, la cultura della loro terra, e perché ci tramandano con la loro opera una preziosa serie di testimonianze su quella che fu la condizione sociale del loro tempo». Basti leggere di Anteo Cillenio il suo poemetto De peste Italiam vexante (La peste che devasta l’Italia) del 1577, che ci dà in chiave controriformistica un quadro apocalittico del passaggio dalla società feudale a quella borghese, caratterizzato dalla crisi della famiglia e del matrimonio; dall’adulterio; dalla lotta di tutti contro tutti; dalla smania del denaro; dalla pratica dell’usura: una società rissosa e violenta, insomma.

Col citato e anticipato Anteo entriamo nella seconda parte di questa premessa: una guida alla lettura, non senza aver chiaro che l’Umanesimo si esprime sia in latino che in italiano, a seconda dei generi e delle finalità degli scritti.

Poche notazioni innanzitutto su qual’era il contesto nel quale operavano questi poeti e scrittori umanisti, Tolmezzo, secondo la descrizione che ci dà Jacopo Valvasone di Maniaco nella sua Descrittione de la Cargna: «Questa Terra, quantunque sia di piccolo ambito é tutta allegra e ben fabbricata, al presente è la capitale di tutta la Cargna, abitata da persone civili e di acuto intelletto, conforme a quell’aere sottile, ben fabbricata, e nei tempi estivi molto allegra, nella quale nuovamente sono state descritte 950 anime…».

Il nostro percorso inizia con un’opera in volgare, il Canzoniere petrarchesco del XVI secolo di Anonimo da Tulmegio già attribuito a Giuseppe Cillenio. Questo Canzoniere é di grandissima importanza perché é l’unico documento del petrarchismo in tutto il Friuli Venezia Giulia. Tale manoscritto è una «Copia del Codicetto cartaceo che era posseduto dall’Eruditissimo Ab. Ongaro», che nelle prime due pagine dello stesso premette: «Questo piccolo ma elegante Canzoniere è stato acquistato quest’anno 1771 in Tolmezzo dall’amico Dr. Francesco Floreani dal quale lo ha avuto in dono mio fratello. Deb’essere di un Poeta Tulmetino, buon seguace del Petrarca, e leggiadrissimo poeta del secolo xvi». Del codice originale dà la seguente descrizione:«Come è pulitamente scritto così fu legato pulitamente per quei tempi in pelle rossa con contorni dorati e dorate pur furono le carte; cosicché è da supporre fatto copiare dall’autore (scrivendo di sua mano lo avria scritto più corretto) per presentarlo alla sua Donna [Fiammetta]. Infatti nel diritto della coperta stava impresso a lettere d’oro il nome della medesima e forse anche nella sigla, che si incontra a’ piedi, sopra quello dell’autore». Nulla dice circa il nome del poeta. Successivamente il nobile Bartolini, donatore della biblioteca che porta il suo nome, sul frontespizio del manoscritto scrive di suo pugno: «Manoscritto acquistato per non lieve prezzo. Il presente Canzoniere inedito attribuito a Giuseppe Cillenio di Tolmezzo…». Non documenta, però, questa sua attribuzione, che si fonderà, in seguito, solo su questa affermazione. Per questo il curatore, in mancanza di prove certe, ha optato per l’Anonimo da Tulmegio.

Infatti sulla scrittura e ambientazione dell’opera a Tolmezzo non possono esserci dubbi; leggiamo infatti: Canzone i, vv.13-15: Ma tu beato coro, / Che lungo al bel Tulmegio / Di Lei soavemente vai cantando; Sonetto lxxvii, vv.12-14: Tulmegio, tu poi ben di suoi costumi / Andar altiero, e le tue donne belle / Reverenti venir a farli onore; Sonetto cxli, vv.12-14: Udranle adunque almen, tra fiamme e gelo, / il bel Tulmegio, ogni sua riva e fiume, / poi che tanto non po’ mio basso stile.

Paradigmatica rimane, a tutti gli effetti, l’opera di Rocco Boni autore di un poema di 1633 esametri dal titolo Austriados Libri quatuor [quattuor], pubblicato nel 1559 a Vienna per i tipi di Michele Zimmermann, dopo essere stato approvato dal Collegio poetico di quella celeberrima Università e dal suo Rettore, il Magnifico Giorgio Eder, giureconsulto, e dedicato – dedica accettata - alle Maestà di Ferdinando I d’Asburgo, Imperatore dei Romani, e del figlio Massimiliano, re di Boemia. Opera, probabilmente commissionata - a conferma di quanto afferma il Menis, che Venezia «vide nel Friuli una preziosa area strategica per la salvaguardia dei suoi fragili confini con l’Austria» - ad un suddito letterato di confine, sotto la minaccia di consegnarlo all’Inquisizione, che ha soprattutto lo scopo di accentuare e rafforzare i legami di pace e di amicizia tra Venezia e Austria (era ancora aperto il contenzioso per il dominio su Aquileia); quindi al di là del volo dell’autore (abbiamo qui la prima visione ‘aerea’ di Tolmezzo: Di seguito vediamo le torri di Gemona, e le alte / mura di Tolmezzo, e le fortificazioni disposte sui colli./ Quindi vediamo le rovine spianate al suolo dell’antico / Foro di Giulio, ricoperte da erbacce selvatiche; / si notano delle tombe e blocchi di marmo incisi con epigrafi), trasportato da Mercurio sull’Olimpo e ad Augusta, e dei panegirici dei due Asburgo, conta soprattutto la continua sottolineatura della bontà del governo veneziano e della sua più volte ribadita «alleanza perpetua» e convivenza pacifica con l’Austria, e di questa il buon governo in Friuli con un lungo epinicio bucolico di Gorizia e del suo territorio, con Gradisca e Trieste domini austriaci. Aspetto questo sottolineato con forza e ampiezza almeno tre volte.

Ne cito solo uno: il primo, che fa riferimento all’imperatore Federico iii; il duca d’Austria Federico v (1439-1493) assunse il titolo imperiale come Federico iii, elevò l’Austria da ducato ad arciducato; da questo momento in poi l’unico titolo riconosciuto sarà quello di Imperatore. É un passo importante, in quanto l’autore vuole sottolineare che l’alleanza e un patto di non belligeranza tra Aquila Imperiale e Leone di San Marco sono ben radicati da lunga data (Liber ii, vv. 195-217): «Vir fuit insignis toto Fridericus in orbe, / Qui Latii quondam felix concessit ad oras: / Cui sacro Imperii cinxit diademate frontem / Nicolaus triplici redimitus tempora mitra. / […] Post Venetam mediis surgentem fluctibus urbem, / Quae retinet clarum decus et memorabile nomen / Hic petit, Heroum magna stipante caterua; / Occurrit gaudens princeps sanctusque Senatus, / Innumeris toto comitantibus aequore cymbis. / […] Vt fuit Adriacam Caesar comitatus ad urbem, / Regifico haec luxu tectis excepit apertis, / Largius effudit toto plaudente senatu / Munera laetitiae, tanto quo Caesar honore / Fouit, et aeterno Venetos sibi foedere iunxit». (Fu l’eroe famoso in tutto il mondo, Federico, / che una volta approdò gradito nelle terre del Lazio, / al quale Nicolò, con il capo incoronato dal triregno, cinse / la fronte con la sacra corona dell’Impero. […] Poi egli si diresse verso la città Veneta che sorge in mezzo alle acque, / la quale detiene un illustre prestigio e un nome glorioso, / accompagnato da una grande seguito di uomini illustri; / accorre a riceverlo rallegrandosi il nobile e venerando Senato, / con l’accompagnamento su tutto il canale di innumerevoli barche. […] Appena il Cesare fu fatto entrare nella città Adriatica, / questa lo accolse con fasto regale e con le dimore spalancate, / e molto prodiga esternò, con l’approvazione festosa del Senato, / manifestazioni di lietezza, e di questo così grande onore / il Cesare si compiacque, e legò a sé i Veneziani in un’alleanza perpetua).

Ad Anteo Cillenio abbiamo già fatto cenno. Nel 1577 compone in distici elegiaci un poemetto di 346 versi, De peste Italiam vexante (La peste che devasta l’Italia), dedicato “Nobili, ac Pererudito Adolescenti D. Trissino Trissineo”. Nel corso del 1500 colpirono la regione ben tredici epidemie di peste, vaiolo e tifo petecchiale, la più recente nel 1572 – nella cura delle quali si distinse, come vedremo, il medico tolmezzino Giuseppe Daciano -; per Anteo la peste diventa una grande metafora della punizione di Dio per la corruzione dei costumi, che dominava il genere umano; convinzione diffusa a livello popolare come aveva scritto pure l’Amaseo: «Ma da qualunque causa fosse proveniente, per universal iuditio fu reputato esser discesa dal divino flagello, imperochè se mai per avanti fo cognosuta l’ira di Dio sopra altri lochi…» Il poemetto lo scrive in latino probabilmente per il prestigio, che procurava questa lingua, ma anche per un certo qual senso di frustrazione e con un non malcelato intento polemico nei confronti degli altri più famosi Cillenio, Nicolò senior e Raffaele.

Quando Anteo scrive si avverte una profonda tensione socio-culturale, vuoi per il diffondersi anche in Friuli e in Carnia – «morbida facta pecus» - delle dottrine protestanti (Ferigo), vuoi soprattutto per l’affermarsi di nuovi costumi e nuovi valori, in quanto nella seconda metà del secolo «il regno dell’aristocrazia feudale finisce, e incomincia quello della borghesia cittadina […] composta in parte da commercianti arricchiti, in parte da notai, avvocati, medici, ecc.» (Leicht); anche a Tolmezzo si afferma questa classe sociale: «Vi sono buone case e cittadini assai ricchi» (Porcia), per il formarsi di una borghesia rurale, che fondava la sua ricchezza sul patrimonio fondiario, unito al commercio, a prestiti di denaro o sull’esercizio della professione notarile o forense. Un’epoca contrastata di transizione e di instabilità, che l’Autore puntualmente registra con inquietudine nel suo poemetto didascalico, dalla ostentata professione di fede tridentina, attraverso il quale ci offre uno spaccato della società rissosa e violenta del tempo molto realistico, grazie anche al suo osservatorio pubblico - Cancelliere del Comune - privilegiato.

Innanzitutto, la crisi e disgregazione della famiglia; dalla famiglia tale ‘peste’ si diffonde all’intera società. Le cause: Aumenta anche la scellerata brama d’argento e d’oro; si pratica pure l’usura: Oramai tutti accecati dalla smodata brama del denaro / praticano l’usura vietata dai Celesti. […] Il popolo si lascia corrompere […] / Ahimè ora anche la dignità giace vinta dal denaro. / Nessuna lealtà: é stata cacciata dall’oro: la giustizia é comprata. Segue la giusta punizione divina proprio attraverso la peste, appunto, una «dira et avara lues», che assume la figura della mitologica Erinne, uscita «e stigijs tartareisque locis».

Troviamo poi Nicolò Cillenio senior (senior e junior sono giunte mie, per distinguere nonno e nipote) con la sua opera in versi Psyches–Rhapsodiae duas [duae] (Di Psiche-Due rapsodie), molto complessa stilisticamente per gli arcaismi e ideologicamente, il quale, in odore d’eresia, dietro un’adesione di facciata, spesso ironica, al clima controriformistico, (col Concilio di Trento – 1545/1563 – inizia l’età della Controriforma e dell’Inquisizione) dimostra, con una grande apertura mentale e culturale, una profonda nostalgia per le origini greco-etrusche della cultura latino-italiana, esaltando la libera ed eclettica cultura umanistico-rinascimentale, soffocata dal cattolicesimo; il mondo metamorfico dell’alchimia; le teorie orientali di Zoroastro; l’esoterismo misterico delle antiche religioni nella figura centrale del mitico cantore Orfeo (Faccio presente che il nipote, Nicolò Cillenio junior é citato brevemente, per scarsità di documenti; fu figlio del più famoso Raffaele Cillenio, al quale é dedicata invece un’attenzione particolare e uno spazio molto ampio, in quanto autore di numerose opere in prosa e versi, in latino e in greco: é il maggiore degli umanisti tolmezzini). Nicolò Cillenio senior, é maestro a Tolmezzo negli anni Venti del secolo nella scuola pubblica, che veniva finanziata a volte con le settimine, a volte con le entrate dei dazi; maestro a Gemona negli anni Ottanta, certamente nel 1579-1580 (Baldissera); padre del celeberrimo Raffaele; sospetto di essere in rapporto con Marco Antonio Pichissino, che apparteneva ad un gruppo, in contatto tra l’altro con Pier Paolo Vergerio, in odore di eresia e, pertanto, sorvegliato dal Sant’Uffizio, i cui membri si radunavano per leggere e discutere i libri proibiti di Lutero e di altri riformatori: «Il 24 gennaio 1579, chiamato a deporre contro il suo anziano collega, il medico Cipriano Brancolino stipendiarius di Gemona testimoniò: “Esso Marco Antonio (Pichissino, n.d.r.) pratica strettamente col maestro di schola messer Nicolò Cillenio. […] Io credo che né l’uno né l’altro sii troppo divoto di messa, né delli offici divini, perché né l’uno né l’altro si vedon frequentarli”» (Ferigo). È necessario, pertanto, per la comprensione di quest’opera pluristratificata, tener conto che «il clima che si respirava a Tolmezzo e in Carnia nella seconda metà del xvi secolo era piuttosto pesante, e le interferenze e il controllo esercitato dalla chiesa perfino sulla vita privata delle famiglie e sui comportamenti quotidiani dei singoli era assoluto ed asfissiante, fin quasi all’oppressione» (Puppini).

Nicolò, in questo uggioso clima post tridentino, ormai vecchio - e infort[unatus], come scrive nella Dedica, - infelice, sfortunato, disgraziato, malridotto -, timoroso di incorrere nell’Inquisizione, scrive un’opera metaforica, criptica e allusiva, le cui due parti sono speculari nell’ambiguità e in opposizione nei contenuti: nella prima troviamo il rimpianto, del quale apparentemente sembra pentirsi, per la libera ed eclettica cultura umanistico-rinascimentale e per il background greco-etrusco della civiltà latino-italiana, soffocata dal Cattolicesimo controriformistico; nella seconda, la formale accettazione dei dogmi e dei riti del Concilio di Trento - però la favola di Orfeo, nel finale, ribadisce implicitamente il suo attaccamento alle dottrine esoteriche e a quanto esaltato nella prima parte, l’estraneità ai suoi tempi bui -, descritti talora con una tale verbosità manieristica da risultare intrinsecamente ironici. Però, in realtà, la sua posizione non é facilmente mascherabile: in fin dei conti al tridentino inno alla Vergine é sostituito quello alla pagana Psiche, della quale sono riportate le diverse interpretazioni (vedi: Breve introduzione alla favola di Amore e Psiche).

Raffaele Cillenio, il più importante latinista e grecista «nacque circa il principio del decimo sesto secolo nella nobile e popolata terra di Tolmezzo; capo di quella parte montuosa del Friuli, che si estende fra l’Alpi verso la Germania per circa trenta miglia, chiamata Carnia» (Liruti). Figlio di Nicolò Cillenio, che fu pure suo maestro insieme ad Antonio Michiseo o Michisotto, elegante poeta, che era stato precettore anche di Jacopo Valvasone di Maniaco, fin dalla giovinezza si dedica alla professione di insegnante delle Lingue Latina e Greca, esercitandola in luoghi diversi fino alla morte. Nel 1570, come strumento della sua professione e per aiutare gli allievi compone alcune tavole, una manuale di grammatica, per l’inventio e la dispositio oratoria, che vengono lodate, consigliate e utilizzate in molti ambienti scolastici. La sua produzione in prosa e in poesia é vastissima.

Dopo aver insegnato in varie scuole di città prestigiose d’Italia e soprattutto nel Veneto, a Venezia e Vicenza, «praeclarae civitates» ritorna nel 1573, anche su sollecitazione dei rappresentanti della Comunità, nella sua città natale, ma solo parecchi anni dopo aver manifestato questa intenzione, come si comprende nell’Oratio ad cives Foroiulienses (Orazione ai cittadini Friulani) del 1565; il rientro avrebbe voluto fosse imminente, ma prima aveva l’obbligo di portare a compimento il «prestigiosissimo» incarico, che occupava a Vicenza, dove insistevano per trattenerlo ancora per un triennio, mentre alcuni gli offrivano con insistenza due altri prestigiosi incarichi in città diverse almeno per un quinquennio; per cui, di fatto, il ritorno a Tolmezzo avvenne solamente agli inizi degli anni ‘70; e anche per numerose e non chiare circostanze come si intuisce da alcuni versi dei Carmina (Poesie): Ma, poiché siamo oppressi da un grande peso di problemi, / e la nostra nave vaga senza direzione nel vasto mare (a Bernardo Giorgio); […] mi restituisci a me stesso. / La morte suole essere intollerabile: ma più orrida di ogni morte / era questa fuga, da intraprendere in tutta fretta. / Grazie a te ritorna per me la vita, e più gradita della stessa vita / la Fama, quasi perduta per mia cattiva sorte. (ad Antonio Milledonio, Segretario del Consiglio dei Dieci del Senato Veneto)

A Tolmezzo viene assunto nella scuola locale con il cospicuo stipendio annuo di 130 ducati; dentro di sé, per quanto legato alla terra natia, coltiva però sempre il desiderio di concludere la sua carriera d’insegnante nella capitale della Patria del Friuli, Udine, dove avevano insegnato personaggi prestigiosi di fama nazionale, come Cimbriaco, Sabellico, Parrasio, Amaseo, Filomuso…; il che avrebbe rappresentato la consacrazione definitiva del suo magistero nelle humanae litterae, la gloria e la fama, cosa ben diversa della rinomanza di cui già godeva: «uomo lodato dai maggiori Letterati d’Italia» (Liruti). Finalmente un anno prima della sua morte Raffaele compone, pronuncia, stampa l’Oratio ad cives utinenses habita pridie Nonas Decembris 1594 (Orazione ai cittadini udinesi tenuta il 4 dicembre 1594), che rappresenta il vertice della sua arte oratoria, in occasione del conferimento della cattedra di Lingua Latina e Greca nella città di Udine, della quale ci restituisce un’immagine stupenda pur nel tono da panegirico, come si può osservare nella Dedica, dove si firma «Humillimus ac perpetuus cliens», rivelando, lui costretto al nomadismo culturale, «errante per mestiere» (Liruti), una nostalgia per la figura del poeta cortigiano, che in Friuli non aveva avuto modo di esprimersi e realizzarsi, perché non esistevano le corti come in altre città d’Italia, ma anche la tendenza – l’umanesimo ha ormai perso la sua funzione civile - ad un panegirismo adulatorio talora iperbolico, come si può, ad esempio, cogliere anche nel poemetto dedicato nei Carmina (Poesie) a Marco Cornelio, Pretore del Friuli, cui l’orazione é rivolta: «Extollant alij licet Aecon, aut Rhadamantum, / Et Minoa suum Cretes ad astra ferant, / Haud tamen his fueris minor, o iustissime Marce, / Sed maior multo, nec renuente Iove / […] Vigeat Marci nomen cum Sole perenne: / Et mihi sit dominis plaudere posse meis» (Lasciamo pure che altri esaltino Eaco o Radamanto, / e che i Cretesi innalzino fino alle stelle il loro Minosse, / tuttavia non sarai mai inferiore a costoro, o giustissimo Marco, / ma di molto maggiore, col favore di Giove. […] Sopravviva il nome di Marco perpetuo insieme col Sole: / e a me sia concesso di tessere le lodi dei miei signori).

Altri umanisti, pur padroneggiando latino e greco, anche per motivi professionali predilessero l’italiano, come ad esempio il medico Giuseppe Daciano: «Esso fu originario, e nato nella nobil Terra di Tolmezzo Capitale di tutta la Carnia nostra montuosa» (Liruti) da famiglia illustre, ricordata tra quelle nobili nel De antiquitatibus Carneae (Gli antichi avvenimenti della Carnia) di Fabio Quintiliano Ermacora, all’inizio del secolo, probabilmente nel 1500: «Avrà egli appreso le prime Lettere verisimilmente in Patria, ed assieme l’eloquenza nelle due dotte Lingue Greca e Latina, avendo sempre quella Comunità, come gli altri luoghi di conto della Provincia, mantenuto a spese del Pubblico un Maestro di Scuola pe’ suoi abitanti; e quindi bene istruito in queste passò alla Università di Padova, dove applicatosi alla Filosofia, ed alla Medicina Teorica, e Pratica, e fatti di sé i soliti esperimenti, con lode, ed approvazione ottenne la Laurea nella Filosofia, e nell’Arti, come si costuma» (Liruti). Nel 1500 è ancora l’Università di Padova il centro di attrazione per la formazione sia in campo giuridico che in quello della medicina oltre che, naturalmente, in campo umanistico; qui si afferma il culto della oggettività nella scienza della “fabrica” dell’uomo (si pensi al De humani corporis fabrica del medico fiammingo, ma docente a Padova, Andrea Vesalio, pubblicata nel 1543), ossia nell’anatomia, nella botanica, quella farmaceutica in specie, e nell’insegnamento clinico svolto direttamente al letto del malato. È importante soprattutto l’orientamento metodologico, che caratterizzerà i suoi laureati: descrizione, dimostrazione, studio sistematico; la frequente tendenza alla pubblicazione di resoconti di ciò che si era osservato; ovviamente, una solida cultura medica ed anatomica.

Nel 1552 era già da alcuni anni medico a Udine, stimato per la sua grande preparazione e competenza; infatti, dopo aver svolto a Tolmezzo la sua professione, acquistò una tale stima e rinomanza che la città di Udine lo prescelse come suo Medico con lauto stipendio: «G. Daciano fu Medico celeberrimo, ed uno degli stipendiati della generosissima città di Udine, il quale con tutto zelo di carità si diportò nell’occasione del contagio ne gli anni di Christo 1556. e 72. (nel qual tempo Udine, con tutta la Patria, e gran parte d’Italia era di tal calamità gravemente oppressa) che meritò à comune benefizio della medesima d’esser da quello dal Signor’Iddio miracolosamente preservato» (Capodagli).

Il Daciano si distinse soprattutto per la sua competenza e umanità in occasione della epidemia petecchialedel 1552, che si ripeterà anche nel 1560, e in altri due contagi di peste. É autore del Trattato della peste e delle petecchie del 1576 (vedi: Peste e letteratura nei secoli di Nicola Corbelli), osteggiato dalla corporazione scientifica e dalla Chiesa, in quanto opera di divulgazione scientifica in volgare al di fuori della cerchia degli specialisti, mentre il Daciano spiega perché proprio non ha scelto il latino: «Per il che ho voluto publicarla in lingua volgare Italiana, acciò che da tutti sia intesa, come cosa, ch’à tutti generalmente habbia d’esser di non poco giouamento, & salute. Resta solamente benigni lettori, che voi con lieto animo, & grato l’accettiate, non mordendola, ma da i morsi de maligni pietosamente difendendola, & guardandola; che sarà opera giusta, & cortese, & degna di voi & così facendo darete maggior animo, & à me, & ad altri di scriuere, & pubblicar dell’altre nostre fatiche. che ora stanno nascoste in domestico silentio, à conseruation della vostra sanità, senza la quale questa vita, che per altro é così dolce, & cara, si rende sopra ogn’altra cosa graue, & noiosa».

Ultimo, ma non meno significativo, anzi, Francesco Janis, «dottor di Leggi stimatissimo, et Oratore facundissimo e perciò adoperato in negozi di grandissimo rilievo non meno dalla Patria, che dalla Repubblica» (Capodagli). Lo Janis nacque probabilmente verso la metà del xv secolo e, dopo aver compiuto gli studi di humanae litterae nella città natale, come molti giovani delle famiglie facoltose si laureò in giurisprudenza all’Università di Padova: «Procacciatosi fama di valente giureconsulto e di facondo oratore, aveva nel 1497 ottenuto l’onore della cittadinanza udinese ed era stato successivamente chiamato agli ufficî più gravi nella sua patria» (Fulin); il 20 luglio 1505, ad esempio, il Parlamento del Friuli lo inviò come ambasciatore alla Signoria di Venezia, dalla quale ottenne la revoca del dazio imposto sulla seta e fu ricompensato dalla città di Udine con il conferimento della sua nobiltà; per il suo ingegno fu chiamato alle più alte cariche, ottenendo fama e ricchezza, tanto da riuscire in poco tempo a costruirsi in contrada Savorgnan un signorile palazzetto in stile lombardo.

Di lui viene riportato – dato che il manoscritto dello Janis é andato perduto - il Sumario di Marino Sanuto [Marin Sanudo], che l’ha desunto probabilmente dal diario dello Janis, Viaggio in Spagna di Francesco Janis di Tolmezzo del 1519-20, che narra minuziosamente della sua missione su incarico della Serenissima presso Carlo I, re di Spagna, che proprio mentre si trovava in loco fu eletto Imperatore col nome di Carlo V, per risolvere, come fece, la questione tra la Spagna e Venezia, che chiedeva la liberazione di navi e merci di sudditi veneziani, sequestrate da alcuni mercanti spagnoli come rappresaglia per presunti danni patiti. Dalle descrizione del viaggio ricaviamo l’impressione che esso senz’altro anticipi i Grand Tour dei secoli successivi (si pensi a quello famoso di Goethe); infatti si caratterizza come un viaggio nella storia e nella cultura italiana, dall’antica Roma alle dominazioni straniere dei tempi più recenti: cinque giorni a Roma tra la grandiosità del presente e del passato, attraverso il suo patrimonio archeologico; il paese di Ottaviano Augusto e la villa di Cicerone, per soggiornare più di un mese a Napoli («è come uno scorpion, qual habi distese le braze») con visita alla tomba di Virgilio, poi nove giorni a Pozzuoli e Baia con il «laco Averno»; infine, prima di salpare, la spelonca della Sibilla a Cuma; in Spagna - dopo aver rischiato il naufragio, perché «dete quasi la nave in saxi di l’isola di Helva» e per «haver lapso per medios piratas» - sui sentieri che portarono Annibale e i suoi elefanti in Italia e nelle varie città, descritte minutamente come pure, con ariosità, le campagne con la loro vegetazione e le loro coltivazioni; al ritorno, lunga sosta ad Avignone con una visita al monastero e alla chiesa dei Frati Minori: «[…] Qui è, sotto uno portico di la chiesia, depenta una figura di S. Zorzi, che varda il serpente - e lì è una donzela di mirabil beleza retrata, Madona Laura, dove è scriti 4 versi che fe’ il Petrarcha». E si potrebbe continuare con l’esemplificazione.

Durante il viaggio e nel suo diario ha modo di rivelare la sua solidissima cultura umanistica, dimostrando di eccellere non solo nell’arte oratoria, ma anche nell’epistolografia in latino e nella versificazione, come si può constatare da questi due epigrammi satirico-erotici: «Septem compatres dedit unica filia matri. / Non mirum: natae tot dedit illa patres» (Un’unica figlia dette sette compari alla madre. / Nessuna meraviglia: lei diede alla figlia altrettanti padri), e «Adducti Bajas sociorum quisque subivit / Antra loci; solus mansi ego Putheolis. / Sed mihi non desit subeam quo pronus et antrum: / Foemina me cunni traxit in antra sui (Accompagnati a Baia ognuno dei compagni entrò / negli antri del luogo; rimasi solo a Pozzuoli. / Ma anche a me non mancò un antro attraverso il quale penetrassi prono: / una femmina mi trascinò dentro gli antri della sua vulva).

A Napoli l’incontro più importante è quello con Jacopo Sannazaro, «patricio napoletano, richo e doto, e chiaro di costumi» (Sanuto), ormai molto celebre dopo la pubblicazione nel 1504 dell’Arcadia - romanzo pastorale in prosa e versi, dal quale prenderà il nome la famosa Accademia di Arcadia, fondata nel 1690 e che caratterizzò la cultura della prima metà del Settecento - per il quale scrive un breve componimento poetico di tono oraziano, dedicandolo all’amico Francesco Cari col titolo Dialogus ad Carium: «Qui nos Pathenope doces notanda, / Cari, dic cineres ubi Maronis sunt, / Dic qui ille animus meavit artus. / Pontanus cineres tulit sepultos, / Sed praeclaram animam, jubente Phebo, / Condit pectore Sanazarus imo. / Quem praestare igitur putas duorum?/ Hunc, cui spiritus incubat Maronis» (Tu che ci indichi quali siano le cose da osservare a Napoli, / o Cari, di’ dove sono le ceneri di Marone [Virgilio], / e di’ [dov’è] quello spirito che permeò le membra. / Pontano esaltò le ceneri sepolte. / Ma l’anima preclara, per volere di Febo, / la conserva nel profondo del cuore Sannazaro. / Quale dei due ritieni dunque che sia superiore? / Questo, nel quale dimora lo spirito di Marone). Per quanto riguarda l’epistolografia, in una sua lettera «scritta per domino Francesco di Tolmezo doctor al magnifico conte domino Hieronymo Savorgnan, data a Barzelona, à dì 2 Luio 1519», pur scritta in italiano si riconosce lo stile ampio ciceroniano e l’influenza della famosa lettera di Machiavelli a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513.

Arrivato alla conclusione, mi auguro di aver condotto per mano con semplicità e chiarezza il Lettore nel viaggio all’interno di questo libro e di aver suscitato l’interesse per esso, allontanando ogni diffidenza e timore, il desiderio di leggerlo e di gustarlo: un piacere della sua intelligenza.

Indice

JACOPO VALVASONE DI MANIACO

Descrittione de la Cargna, 1565

ANONIMO DA TULMEGIO

Biobibliografia

canzoniere petrarchesco del XVI secolo

(ampia Antologia)

ROCCO BONI

Biobibliografia

Austriados, libri quatuor, 1559

(testo latino - 1694 versi, con traduzione in italiano e note)

ANTEO CILLENIO

Biobibliografia

De peste Italiam vexante, 1577

(testo latino - 346 versi, con traduzione in italiano e note)

NICOLÒ CILLENIO senior

Biobibliografia

Psyches – Rapsodiae duae, post 1577

(testo latino - 556 versi, con traduzione in italiano e note)

Breve introduzione alla favola di Amore e Psiche

Sulla”Virtù”

NICOLÒ CILLENIO junior

Biobibliografia

Breve Antologia di poesie latine con traduzione italiana

RAFFAELE CILLENIO

Biobibliografia

Oratio ad cives foroiulenses

(con traduzione in italiano)

Oratio ad cives utinenses habita pridie Nonas Decembris 1594

(con traduzione in italiano e note)

Carmina

(ampia silloge con traduzione in italiano e note)

GIUSEPPE DACIANO

Biobibliografia

Trattato della peste e delle petecchie,1576

(ampia Antologia)

Peste e letteratura nei secoli di Nicola Corbelli

FABIO QUINTILIANO ERMACORA

Biobibliografia

De antiquitatibus Carneae, post 1584

(alcuni passi latini con traduzione in italiano)

FRANCESCO JANIS

Biobibliografia

Viaggio in Spagna del 1520-21

Nota su Ermes Dorigo

Ermes Dorigo ha svolto un’intensa attività di critica e letteraria e artistica, oltre che di giornalismo culturale su quotidiani e settimanali ( vedi: La felicità mentale: www.tuoblog.it/5S1949).

Ha pubblicato su prestigiose riviste in Italia, USA Canada: «Problemi» di Giuseppe Petronio: Carlo Sgorlon, la ragnatela del solipsismo; «Alfabeta», direttori Eco, Volponi, Corti, Leonetti, Spinella, Porta, Calabrese…: Per Maria Zef, I due poliziotti: Colombo e Derrick, partecipando a Milano a diverse riunioni di redazione; «Allegoria» direttore Romano Luperini: Dal sarcasmo all’antifrasi ironica: Il risorgimento di Leopardi; «ZETA» editore Campanotto, Udine: Un viaggio tra inferno e purgatorio; Con gli occhi di Medea…; «La Panarie», Udine: Siro Angeli: un poeta vero; «Tam Tam» di Adriano Spatola & Giulia Niccolai: Poesie visive; «Poliscritture» di Ennio Abate, Scrittura da solitarietà; «Dalla parte del torto» Parma: Etimologia dell’Esistenza ovvero del Tempo e della Morte; «Forum Italicum», University Stony Brook, New York: L’amicizia tra Pietro Metastasio e il conte udinese Daniele Florio attraverso l’epistolario del “poeta cesareo”; la canadese «Rivista di Studi Italiani», diretta da Anthony Verna dell’Università di Toronto: Giovanni Artico di Porcia e il Progetto ai Letterati d’Italia d’iscrivere le loro Vite; sempre su questa rivista: La polimorfia della luna nei Canti di Giacomo Leopardi e La novella di Madonna Dianora, Decameron (X,5) di Boccaccio; un ampio saggio su I codici della Divina Commedia in Friuli lo ha pubblicato su «Dante Studies», rivista ufficiale della The Dante Society of America.

In prosa ha pubblicato Neuterio della lontra, con prefazione di Claudio Magris (premio Casentino 1987); Nello specchio incrinato. Paolo Volponi e Pier Paolo Pasolini (piéce teatrale), 1996; e il romanzo Il finimento del paese, Kappa Vu 2006, con postfazione di Mario Rigoni Stern, la più approfondita analisi del Friuli e della Carnia in dimensione internazionale – Carnia metafora del mondo contemporaneo. In poesia Esistere! dal compromesso, Urbino 1978; Quadropoesie, 100 copie serigrafate, Urbino 1980; Le ceneri di Pasolini, 1993, Lo sguardo anacronico, 2000. Ha curato criticamente le pubblicazioni di ANONIMO DA TULMEGIO, Canzoniere petrarchesco del XVI secolo, 1988; SIRO ANGELI Anthologica. Il teatro. La poesia. La critica, 1997 (finalista al premio Marino Moretti); SIRO ANGELI, Solevento (Poesie 1928-1931), 2008. Tra scienza e invenzione, Campanotto.

E’ autore della biografia Michele Gortani, Studio Tesi, 1993. (Salvo indicazioni contrarie tutti i libri sono editi da Campanotto); Umanisti a Tolmezzo nel 1500, Andrea Moro Editore, Tolmezzo, Udine 2014.

Ha creato e dirige la rivista culturale on line GLOCK (GlobaLocale): www.globalocale.net/index.php.

Sito personale: xoomer.virgilio.it/ermesdor/clubnet/ermesdor/ 

Per circa un decennio (1987-1999 con un’interruzione tra il 1994/95) Direttore della Biblioteca Civica e per diversi anni delle Attività espositive a Palazzo Frisacco di Tolmezzo.

Ha collaborato con 9 schede su umanisti tolmezzini del 1500 al Nuovo Liruti. Dizionario biografico dei Friulani, vol. II, tomi 3, Udine: Forum, 2009.

Didattica

Docente nelle scuole superiori dall’AA 1999-2000 all’AA 2008-2009 è stato Supervisore e Docente nei laboratori di didattica della Lingua e della Letteratura italiana alla SSIS dell’Università di Udine. In questo ambito ha pubblicato:

Profilo professionale del docente, in AA.VV., Formazione iniziale degli insegnanti di scuola secondaria a Udine, Primi contributi, Udine:Forum, 2004.

La poesia dal manierismo al barocco. Un percorso didattico tra letteratura nazionale e letteratura regionale, in AA.VV., Formazione iniziale degli insegnanti…, cit.

Sulla Commedia di Dante. La tradizione del testo, i commenti e le illustrazioni con particolare riferimento ai codici del Poema in Friuli e al ‘Dante’ del pittore Anzil, in AA.VV, Incontri di discipline per la didattica, a cura di C. Griggio, Milano, Franco Angeli, 2006.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019