PREDICATO VERBALE E NOMINALE

CONTRO LA GRAMMATICA ITALIANA


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PREDICATO VERBALE E NOMINALE

"Predicatio" vuol dire in latino "reso noto", "esplicitato", nel senso che attraverso un verbo si può capire cosa stia facendo un soggetto, quale sia la sua condizione in un determinato momento e luogo (che poi, come sappiamo, la grammatica italiana non ha alcun interesse a contestualizzare l'azione, cioè a sapere se la mela che mangio sia cruda o cotta, avvelenata o biologica, di stagione o di frigo: il verbo di senso compiuto è "mangiare").

Il predicato nominale non è per questa grammatica che una particolare valorizzazione del fatto che un soggetto può anche non fare nulla, né subire qualcosa, ma avere soltanto uno stato d'animo, oppure vivere una certa condizione sociale o professionale, insomma trovarsi in una situazione che non indica un'azione precisa. P.es. "il cielo è nuvoloso" non è frase che faccia capire con certezza che pioverà.

Se ci si fosse limitati a dire che col verbo essere il predicato verbale può, a certe, limitate, condizioni, diventare anche nominale, forse sarebbe stata oziosa qualunque critica del predicato verbale. Il fatto è purtroppo che non vi è in gioco soltanto il verbo essere, ma anche tutta una serie di verbi detti "copulativi", che gli fanno il paio: parere, diventare, risultare, riuscire...

E per complicare ulteriormente le cose ci si è messi anche a distinguere tra i "verbi servili" quelli che generano o un predicato verbale: "Tra poco potrebbe piovere", o un predicato nominale: "Il cielo sta diventando grigio". Nonché a precisare che lo stesso verbo essere può anche diventare predicato verbale quando è seguito da un complemento indiretto e assume un significato proprio: "I fiori sono per Jenny, moglie di Marx"; o anche quando è preceduto dagli avverbi di luogo (ci, vi): "Prima della rivoluzione vi saranno delle insurrezioni".

Distinguere il predicato nominale da quello verbale è ormai diventata un'impresa tanto titanica quanto inutile, non foss'altro perché non è affatto vero che il verbo sia l'elemento essenziale della frase. In moltissime frasi manca del tutto, eppure nessuno se ne accorge: p.es. nel linguaggio colloquiale, quando si risponde a una domanda; nelle frasi esclamative; nei titoli di articoli, di libri, di film, di canzoni ecc.

Ciò che più conta infatti non il verbo in sé o il soggetto in sé o il complemento in sé, ma l'in sé e per sé della frase, il suo significato complessivo, globale, che va necessariamente contestualizzato. In tal senso bisognerebbe scrivere delle regole grammaticali in rapporto al grado di difficoltà di comprensione delle proposizioni. Più il grado è alto e più bisognerebbe far capire allo studente che deve precisare il contenuto di una proposizione con altre proposizioni.

La differenza tra predicato verbale e predicato nominale non è, in ultima istanza, che un sofisma. Lo dimostra il fatto stesso che quando si dice che un predicato verbale è costituito da un verbo fornito di senso compiuto, si avverte il bisogno di aggiungere la regola del predicato nominale, proprio pensando al fatto che di "compiuto" nella vita non c'è proprio nulla.

Il predicato nominale, anche se appare come un di più, è in realtà un di meno del predicato verbale, tant'è che viene spiegato in un secondo momento, come qualcosa di particolare o di aggiuntivo. Ma se è un di meno dovrebbe valere la regola hegeliana della sussunzione: quando una cosa è già inclusa in un'altra, ciò che vale per la cosa principale, vale anche per la secondaria. E' del tutto naturale ereditare dei diritti quando sono giusti, anche se il predicato nominale può confonderli per dei privilegi.

A noi interessa stabilire una qualche concordanza o relazione tra il soggetto e il suo predicato verbale, che è quel verbo che indica un'azione, sia essa attiva, passiva o riflessiva: il resto conta poco (si badi che anche uno stato d'animo è un'azione, e forse anche il processore di un pc capisce quando ha di fronte a sé un estraneo o il suo padrone).

Da notare che la definizione, sempre rigorosa, della grammatica italiana dice che il predicato verbale indica per lo più un'azione compiuta o subita dal soggetto, oppure un suo stato d'animo o condizione esistenziale, fisica. Ma questa è la stessa definizione che si usa per spiegare il senso del predicato nominale, con la sola differenza che in quest'ultimo si possono usare anche degli aggettivi: p.es. "La grammatica è noiosa"; dei pronomi: "Il capitale è tuo"; degli avverbi: "Sfruttare è male"; dei verbi all'infinito: "Lottare è rivendicare"..., mentre nell'altro caso ci si imbatte con una sfilza interminabile di complementi, che ormai vengono elaborati in funzione del verbo cui si riferiscono.

E' un brutto modo di spiegare le cose, perché induce a confusione. Sarebbe stato sufficiente dire che in questo caso si tratta di un predicato verbale aggettivato o avverbizzato o pronomizzato...; mentre nel caso di "Sensini è un grammatico" si poteva dire "predicato verbale sostantivato". Sempre che la cosa fosse stata davvero indispensabile, poiché quello che più importa, in definitiva, è saper scrivere o sapersi esprimere.

In tal modo comunque si sarebbe evitato di assegnare al verbo essere un primato che in sé non può avere, un peso che non è in grado di portare. Nessun verbo in sé può essere più importante di un altro. Essere senza Fare o senza Avere che valore ha? Perché dobbiamo sempre scontrarci con queste tendenze idealistiche astratte?

Se la frase "Sensini è un grammatico" mon contiene un predicato verbale ma solo uno nominale, è come se si volesse dire che questo campione dell'astrazione sintattica e morfologica lo è dalla nascita, come il figlio del re sarà re alla morte del padre.

"Sensini è (diventato) un grammatico", esattamente come la Zordan, che lo segue a ruota: probabilmente con non poca fatica e nel corso di non poco tempo. Il suo essere "grammatico" indica una condizione, che in realtà è il frutto di un processo, di un movimento, e non c'è nulla di statico nella copula "è" (il verbo "diventare" andrebbe considerato come minimo "sottinteso"). Meglio ancora sarebbe stato abolire il concetto di "copula", limitandosi a individuare il predicato verbale che dà senso alla presenza di un soggetto.

Spesso diciamo che un predicato verbale indica per lo più un'azione fatta o subita dal soggetto, mentre il predicato nominale punta di più su degli stati d'animo o condizioni esistenziali, essendo favorito, in questo, dalla particolarità del verbo essere. Come se Ungaretti quando scrisse "Sto / come d'autunno / sugli alberi / le foglie", voleva indicare che sugli alberi ci stava seduto in senso proprio!

L'esempio non è ovviamente scelto a caso, poiché la grammatica dice espressamente che se il verbo essere si può trasformare nel verbo "stare" o "trovarsi" (nella condizione di), o "vivere", "risiedere", "essere costituito", "appartenere", "nascere", "provenire" ecc. ecc., esprime sempre un predicato verbale. (Il doppio eccetera è stato messo proprio per far capire che un classico della grammatica italiana è quello di stabilire delle regole per poi inventarsi mille eccezioni con cui non applicarle. Esattamente come nelle legislazioni borghesi, che dicono una cosa "democratica" e ne fanno cento truffaldine).

Son cose da spaccare il capello in quattro. Se io ho un cane che "sta sul letto", senza far nulla, perché mai sono costretto a dire che il verbo "stare" indica un predicato verbale? Forse perché quello è un cane e non nutre particolari sentimenti umani da meritarsi il privilegio del predicato nominale?

A guardar bene le cose è davvero strano pensare di dover attribuire dei predicati a uno che non stia facendo assolutamente nulla, né in senso attivo né in senso passivo o riflessivo. Una statua non fa nulla (anche se può comunque trasmettere delle emozioni, come p.es. la Paolina Bonaparte del Canova), ma chi si sognerebbe di attribuirle un predicato verbale legittimato da uno stato d'animo o da una condizione di vita?

Un essere umano fa sempre qualcosa, anche quando apparentemente sembra non far nulla. Come minimo infatti dorme, oppure pensa, desidera... Pascal diceva addirittura, forse esagerando un po', che la dignità dell'uomo sta nel pensiero; cosa peraltro che sosteneva anche il suo rivale Cartesio, con la celebre formula "Cogito, ergo sum".

Il "cogito" in tal caso dovrebbe essere detto predicato nominale, poiché non c'è nessun altro soggetto che l'io, nessuna azione propriamente detta, esterna all'io; ci sono inoltre due stati d'animo o condizioni esistenziali strettamente connesse; l'avverbio "dunque" ha la piena funzione della "copula", poiché è come se si fosse detto "Pensare è esistere", nel senso che la percezione di esistere o di esserci è data dalla facoltà individuale, soggettivistica, solipsistica di "pensare". Cosa si vuole di più per fruire di un predicato nominale?

La grammatica a questo punto esce di testa, poiché se io dico che sto pensando di esistere, allora il verbo "pensare" è transitivo; se invece non penso a niente, diventa intransitivo, benché proprio in una condizione intransitiva del genere il filosofo francese riuscisse a dedurre niente di meno che la propria esistenza in vita!

In entrambi i casi dovrebbe trattarsi di un predicato verbale, anche se Cartesio rifiuterebbe l'idea di un soggetto sottinteso, in quanto la definizione di soggetto è una conseguenza logica del "pensare".

E' vero, qualcuno deve pur pensare, ma quest'io che pensa è un nulla se non ha la consapevolezza di farlo; quindi l'io diventa se stesso solo quando prende coscienza che sta pensando autonomamente. Come se l'io vivesse in un'isola deserta, assolutamente solo, senza alcun passato da ricordare, senza amici o parenti che pensino per lui quando lui non ha niente a cui pensare.

Vediamo bene da questi ragionamenti come la grammatica italiana abbia le proprie origini nell'astratto razionalismo filosofico moderno. E le astrazioni, si sa, cadono sempre nel ridicolo, perché la legge è fatta per l'uomo e non il contrario. Se io dico "Ho una moglie, è mia", nel primo caso esprimo per la grammatica un predicato verbale, nel secondo invece un predicato nominale, ma nella realtà lei è sempre lei, e per lei, purtroppo, io sono sempre io; quanto poi ad "averla" è tutto opinabile: non mi ci provo neanche a chiederle se si sente un mio "complemento oggetto"...

* * *

E' la semantica che deve determinare la grammatica. In modo particolare bisogna rinunciare all'idea che esistano verbi che abbiano un significato in sé compiuto, esaustivo. Anche perché è assurdo sostenere che il predicato verbale si basa essenzialmente su questa tipologia di verbi. Infatti, se così fosse, i grammatici dovrebbero tirare la conclusione che il verbo principale dell'esistenza umana, e cioè "essere", è privo di senso definito.

Ma a questo punto, se davvero l'essere in sé non ha senso, sarebbe stato meglio dire che l'essere coincide col divenire, e siccome l'essere è il divenire, si è quel che si diventa, e tutti i verbi, nessuno escluso, sottostanno a questa regola, per cui una qualunque distinzione tra i predicati, che non tenga conto di questa regola fondamentale, non ha senso.

Un predicato verbale, che può essere esplicito o implicito, può dunque essere sufficientemente chiaro, ma anche molto oscuro, ecc. Detto questo, che si lasci pure la comprensione del suo senso al "consenso" di altre parti del discorso, precedenti o susseguenti.

Quindi, per concludere, il predicato nominale, come pretesa di indicare qualcosa di interiore o qualcosa che vada al di là dell'azione, è una pura illusione. Se io dico che "il profitto è il movente dello sfruttamento", sarebbe bastato precisare che "il movente dello sfruttamento" è un attributo del soggetto, oppure, ancora più semplicemente, che è un complemento oggetto, in quanto risponde alla domanda "che cosa".

Se io dico "libertà è lottare contro le ingiustizie", "è" non dovrebbe essere considerato una copula e "lottare" un predicato nominale, ma semplicemente un attributo del soggetto o un complemento oggetto, cioè in sostanza un contenuto che dà senso a un soggetto che altrimenti rischierebbe di rimanere astratto.

Se si preferisce la formula "contenuto predicativo del soggetto" va bene lo stesso, a condizione però che si elimini la differenza tra predicato verbale e nominale. Sicché se io dico: "E' stato eletto delegato sindacale della sua scuola", l'espressione "è stato eletto delegato sindacale" non è che un complemento predicativo di un soggetto sottinteso, in cui elementi come "delegato sindacale" ed "eletto" sono attributi del soggetto, anche se in questo caso l'espressione "è stato eletto" è il trapassato prossimo del verbo "eleggere".

Siccome è più importante individuare un attributo del soggetto, un complemento che ne qualifichi l'importanza, l'identità, il ruolo, la funzione ecc., posso soprassedere tranquillamente al fatto che le parole "è stato eletto" sono in realtà un trapassato prossimo.

Il lato paradossale di tutta la spiegazione relativa alla differenza tra le varie tipologie di predicati è che, ai fini della costruzione sintattica della frase, se si dicesse che tutti i predicati sono verbali non cambierebbe assolutamente nulla. Il fatto cioè che in astratto si voglia porre una questione di principio, non determina sul piano concreto alcuna conseguenza logica.

Se io dico: "Un suo difetto è l'astruseria", è del tutto inutile che io stia a dire che "è" è copula di un predicato nominale ("un suo difetto"). Sarebbe meglio dire che il verbo essere è un predicato verbale e il resto è un complemento.

Per quale ragione dobbiamo complicarci la vita col verbo essere quando poi il risultato finale non cambia, che è quello in sostanza di capire che "l'astruseria" in questo caso è soggetto.

Abbiamo voluto costruire complicati predicati nominali, intorno ad una serie di verbi, quando ciò che più conta è capire chi fa l'azione (o chi la subisce) e in che modo la fa, in che luogo e in che tempo. Gli stati d'animo, i sentimenti, le forme dell'interiorità non possono essere oggettivati in alcun modo, ma solo dedotti, immaginati, percepiti, intuiti dal contesto della frase.

Non voglio più pormi il dilemma di dover scegliere se "morire di tristezza", in nome del predicato verbale, o se "morire poverissimo", schiacciato dal predicato nominale.


Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Linguaggi
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Aggiornamento: 27/08/2015