LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE: LA QUESTIONE DELLA PRECOMPRENSIONE

LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE


LA QUESTIONE DELLA PRECOMPRENSIONE

Interventi fatti nella mailing list lascuola@pc.fr.flashnet.it lascuola@pc.eurolink.it (1997)

At 09.46 03/04/97 +0200, guidopia@ wrote: (Si tratta di Guido Piangatello)

>Proprio per poter comunicare l'uomo ha inventato una procedura per accordarsi sulle parole. Quando tale accordo è fatto nasce un gruppo, all'interno del quale tutte le persone condividono il significato di alcune parole chiave (che sono poi i valori fondanti di quel gruppo).

Caro guidopia@, provo a risponderti a punti, per facilitare il discorso:

1. le parole, secondo me, non esprimono mai tutto ciò che noi siamo, semplicemente perché sono inadeguate, sono un mezzo parziale.
Io non mi sogno neanche lontanamente di farmi un'opinione sulla personalità (o la psicologia) dei colleghi di lista sulla base delle lettere che scrivono. Anche perché a forza di mandarci cordialmente a quel paese, riusciamo alla fine (perché siamo persone di buona volontà) ad accettarci per quello che siamo, proprio come in tanti rapporti di coppia, dove si è capaci di andare al di là delle parole...
E comunque tu sai meglio di me che molte volte il silenzio, uno sguardo, un contatto fisico sono più eloquenti di mille parole... (altrimenti i muti sarebbero i disabili più disgraziati di questo mondo), e ognuno di noi, in tal senso, non credo riservi a INFERNET un'importanza più grande di quella che ha (cicuta e champagne li lasciamo agli americani).

2. Quando ho cominciato a scrivere in questa lista (che è sicuramente una delle più interessanti) ho dato per scontato che la comunicazione sarebbe stata facile; poi ho dato per scontato un certo tasso d'incomprensione, ma ho avuto fiducia che, continuando, ci saremmo capiti (anche nella diversità delle opinioni). Ho avuto fiducia nel "cuore" degli iscritti, non nel "cervello", perché se avessi dato più peso al "cervello" avrei fatto ciò che tu proponi: una discussione preliminare sul significato delle parole. Una discussione che non avrebbe mai avuto termine... e che, peraltro, implica un interesse abbastanza settoriale, nonché una disposizione d'animo disposta al sacrificio.
Tu infatti non hai chiesto di raccogliere tutte le possibili interpretazioni di determinati termini, per farci magari una risata sopra (considerando quanto gli italiani siano specialisti nello spirito di contraddizione), ma, come un novello seguace del "Socing-pensiero" (la Neolingua di Orwell), hai addirittura chiesto di ridurre all'osso quelle interpretazioni. Prova, se ci riesci, a coinvolgere nel tuo progetto un napoletano, che è sofista di natura...
In questa lista comunque urge la Riforma della scuola e non possiamo soffermarci più di tanto sulle nostre "lagune concettuali". Le colmeremo strada facendo...

3. Tu dici che "le parole fondano i valori di un gruppo". Io invece dico che le parole hanno senso se esprimono dei valori (almeno elementari) che il gruppo già vive. Poi naturalmente le parole (quelle giuste) possono aiutare a migliorare le relazioni tra le persone.
In tal senso mi chiedo: il nostro gruppo virtuale è veramente un "gruppo"? cioè il mezzo che in questo momento stiamo usando può aiutarci a trovare dei valori comuni o dobbiamo rassegnarci a non pretendere troppo?

4. Infine un problemino cui vorrei tu rispondessi: con la tua ricerca semantica di parole condivise o condivisibili, vuoi forse creare una conventicola? Un gruppo di valore è un gruppo che continua a discutere, a litigare anche dopo aver trovato una bella intesa semantica, perché è un gruppo dinamico, che progetta cose che vanno ben al di là del linguaggio... E' un gruppo che tutto sommato guarda al di fuori di sé, per potersi arricchire di continuo... E' questo che vuoi?


Caro guidopia@,

mi sono andato a leggere il tuo doc. welcome.htm, che è diciamo metodologico-introduttivo.
Ti dico subito che mettersi d'accordo sul significato delle parole, secondo me è la cosa più difficile di questo mondo, se siamo al punto da dovercelo porre come problema preliminare per potersi capire.
Quando la cultura era condivisa da masse piuttosto ampie, poiché l'esperienza ch'esse vivevano era tutto sommato abbastanza comune, il problema neppure si poneva. Ce lo poniamo oggi con tutti i mezzi che abbiamo per comunicare: non è incredibile?

Quand'è che sorge il problema del linguaggio? O meglio, quand'è che il linguaggio diventa "problema"?
Normalmente quando esistono persone che non condividono più un'esperienza comune (buona o cattiva che sia non stiamo a discuterlo) e cominciano a dare alle parole di sempre un significato diverso.
Pensa solo a quali sconvolgimenti interpretativi fu oggetto, a cavallo del Mille, una semplice parola come "povertà", che fino a quel momento era stata considerata come un male inevitabile e il patrimonium paupertatis come un rimedio necessario.
Di colpo i neonati ceti borghesi cominciarono a dire che la povertà era un difetto della persona, un vizio della volontà... e il patrimonium un privilegio ingiustificato, una legittimazione dell'inedia.
Appena questo nuovo concetto di povertà si fece strada, vennero fuori i movimenti ereticali che, inaspettatamente, cominciarono a fare della povertà una virtù, una scelta volontaria, in opposizione alla ricchezza mercantile e a imitazione del Cristo nudo... Questo era troppo, e giù con roghi e persecuzioni...
Ora, se questo tuo progetto l'avesse proposto un tuo avo di mille anni fa, quale definizione avrebbe dovuto mettere per spiegare il concetto di "povertà"? Io e te lo sappiamo: avrebbe messo quella condivisa dai ceti dominanti.
E mille anni dopo, io e te che ci mettiamo a leggere, in un dizionario rilegato a mano e con caratteri in oro fino, quella definizione (unica perché dominante), cosa riusciremo a capire di quel periodo? Un fico secco. Come diceva Althusser: dovremmo metterci a lavorare sui "fantasmi".

Ho l'impressione quindi che il tuo progetto: accordarsi preliminarmente sul significato delle parole, trovare delle definizioni da tutti condivise, sia non solo tecnicamente irrealizzabile, ma anche culturalmente pericoloso, perché se non esistesse la possibilità di dare alle medesime parole un significato diverso da quello più comune, non ci sarebbe progresso umano.

Ti faccio un altro esempio, più prosaico. La parola "birro" nella riviera romagnola ha, come nell'entroterra contadino, il significato di "ragazzo che si dà molte arie e che si veste in maniera eccentrica", ma mentre in riviera, avvezza da tempo al turismo, questa parola ha una connotazione positiva (vedi: playboy, ragazzo di mondo esperto in ogni campo...), nell'entroterra invece ha una connotazione negativa (il birro è il cuntaden che vuole a tutti i costi apparire borghese e pertanto è un ragazzo privo di vera personalità, volubile, tutta apparenza e niente sostanza, insomma uno sfigato).
Il bello è che quando io chiedo ai miei ragazzi come fanno a intendersi con quelli della riviera, loro mi rispondono che ciò che li affascina è proprio la diversità dei significati che si attribuiscono alle parole, nel senso che per loro la diversità costituisce una forma di "appartenenza geografica". :-?

Ti faccio un altro esempio, un po' più aulico. La parola "bizantino" in Europa occidentale (basta prendersi un qualunque dizionario) ha un significato culturale negativo (i bizantini - si dice - erano "sofisti, sottili, pedanti, legati alle quisquilie"; i latini invece sì che erano razionali, concreti, pratici ecc.).
Ebbene, se per curiosità ti vai a leggere tutta la teologia bizantina dei primi 7 secoli della nostra era (tutta??), ti accorgerai che è di una profondità assolutamente incomparabile con quella prodotta dai padri latini dell'epoca, i quali sono debitori dei colleghi bizantini per almeno il 90% delle espressioni teologiche.
Questo per dirti che dietro le parole vi sono esperienze sedimentate nel tempo, dalle quali non si può assolutamente prescindere.

Tu dici che abbiamo "abbastanza conoscenze per trovare un accordo" e che, in sostanza, si può trovare un'intesa semantica sui "termini psicologici", se si parte da una loro interpretazione fisica o fisiologica (alla Secenov?).
Io invece ritengo che gli accordi sulle parole non dipendano dalla quantità di nozioni che si possiedono, ma dalla condivisione di esperienze comuni.
Detto altrimenti: il fatto di partire da un'interpretazione di tipo fisiologico di per sé non garantisce minimamente maggiori possibilità di accordo.
L'accordo per me è un "sentire comune", che può andare al di là delle parole.
E se tu intendi dire che attraverso Internet è difficile questo "sentire comune" (almeno finché restiamo virtuali, senza mai vederci de visu, senza progettare qualcosa insieme, senza condividere le nostre comuni esigenze, di persone, di lavoratori, di cittadini...), allora non posso che darti ragione.

Per concludere. Secondo me avresti fatto meglio a raccogliere tutte le possibili interpretazioni che si danno a determinate (rilevanti) parole-espressioni e poi sulla base di quella diversità scatenare il dibattito (cosa peraltro possibile solo in rete)
L'unità del sapere è sicuramente un obiettivo molto importante che dobbiamo perseguire, ma questa unità, se e quando avverrà, sarà solo la conseguenza di un confronto reciproco sui bisogni comuni.
I quali bisogni mutano di continuo e così le parole con cui li esprimiamo.


Le immagini sono state prese dal sito Foto Mulazzani

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Linguaggi
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Aggiornamento: 11/12/2018