COMMENTO DELLA LETTERA AI ROMANI

PAOLO DI TARSO E LA SPOLITICIZZAZIONE DEL CRISTO - LA QUESTIONE DELLO SCHIAVISMO -
EXOUSIAI E TEOLOGIA POLITICA

[I]

Nella Lettera ai Romani, che è il documento fondamentale di tutta la dogmatica cristiana, Paolo esprime molto bene la sua concezione pessimista circa la possibilità che l'uomo ha di realizzare una società veramente democratica. L'uomo -secondo Paolo- è incapace di compiere il bene, cioè non ha alcuna possibilità di recuperare sulla terra l'innocenza perduta. Questo obiettivo potrà realizzarsi solo in una dimensione ultraterrena.

Si può anzi dire, in un certo senso, che per Paolo l'innocenza adamitica, non essendo l'uomo perfetto come Dio, non poteva che andare perduta: era solo questione di tempo. Ciò che più importa, infatti -secondo Paolo-, non è tanto riconoscere questa innata inclinazione al male presente nell'uomo , quanto piuttosto essere disponibili al pentimento quando si cade nella colpa.

Se gli uomini fossero senza colpa, sarebbero immortali. La morte invece è il segno più tangibile che il peccato è connaturato all'essenza dell'uomo (5,12). "Il salario del peccato -dice Paolo- è la morte"(6,23).

In tal senso, la differenza tra l'ebreo e il gentile sta semplicemente in questo, che l'ebreo, in virtù della legge mosaica, aveva molta più "coscienza della caduta"(5,20) di quanta ne potesse avere il gentile, troppo caratterizzato da rapporti di tipo individualistico e quindi poco disposto a considerare le leggi in chiave etica o pedagogica.

Come si può notare, il modo di ragionare di Paolo è sempre di tipo metafisico e mai di tipo storico: per lui tutti gli uomini sono uguali, a prescindere dalle loro condizioni sociali di vita, proprio perché è la morte che li accomuna a un unico destino. Tutta la creazione "è stata sottomessa alla caducità, non per suo volere -dice Paolo-, ma per volere di colui che l'ha sottomessa"(8,20).

Paolo non vede la morte come un processo naturale, che non può di per sé pregiudicare la realizzazione di una società democratica, ma la vede come un processo coerente con la struttura di peccato che alberga nella coscienza umana. Non solo da questo limite l'uomo non può liberarsi, con le proprie forze, ma è proprio questo limite che -secondo Paolo- impedisce qualunque altra liberazione. L'uomo non sa neppure "cosa sia conveniente domandare"(8,26).

La prima parte della Lettera ha, in questo senso, un chiaro contenuto ideologico-politico. Infatti -dice Paolo-, se l'uomo avesse la possibilità di realizzare una società libera e giusta, non avrebbe crocifisso il Cristo, il quale è morto in maniera cruenta perché sapeva, a priori, che l'uomo non l'avrebbe spontaneamente accettato. Cristo è morto appunto per i peccati dell'uomo, ed è risorto per poterlo giustificare agli occhi di Dio.

Paolo aveva capito una cosa di fondamentale importanza: gli ebrei non avevano più il diritto di considerarsi migliori degli altri popoli solo perché possedevano la legge più democratica del mondo, quella appunto mosaica. Se fossero stati veramente migliori, non avrebbero ucciso il Cristo. Poiché invece l'hanno fatto, decade inevitabilmente il primato della elezione divina del popolo ebraico e, con esso, quello della legge mosaica. D'ora in avanti, la legge viene sostituita dalla coscienza (di fede) e l'elezione divina dall'uguaglianza di tutti i popoli di fronte a Dio.

Perché dunque il Cristo s'è lasciato uccidere? Per dimostrare agli uomini -dice Paolo- la loro incapacità di bene, ovvero per togliere agli ebrei (il "popolo eletto") l'orgoglio di credere che per realizzare il bene sia sufficiente conoscere o applicare la legge. "Mosè infatti -dice Paolo- descrive la giustizia che viene dalla legge così: L'uomo che la pratica vivrà per essa. Invece la giustizia che viene dalla fede parla così: Non dire nel tuo cuore: Chi salirà al cielo?"(10,5s.).

Se i più fedeli osservanti delle norme legali (scribi e farisei) non sono stati capaci di riconoscere l'importanza del Cristo, ciò significa che l'applicazione della legge mosaica non può più essere un criterio per stabilire se esiste la possibilità o meno di realizzare il bene comune.

La legge è servita per la conoscenza del peccato - dice Paolo-, ma non ha aiutato, in positivo, a vivere il bene. La realizzazione del bene può essere solo frutto della coscienza, che è patrimonio di tutti, ed essa realizza il bene soltanto quando, credendo nella resurrezione dai morti, ritiene che l'unico "vero bene", sulla terra, l'abbia realizzato Cristo, che ha vinto la morte.

Paolo, in sostanza, ha tolto agli ebrei non solo la falsa pretesa di chi crede di giustificarsi obbedendo semplicemente alla legge, ma ha tolto anche la giusta esigenza di realizzare una società libera e giusta, al di là di quello che la legge prevede. In altre parole, egli non solo ha tolto agli ebrei, giustamente, la possibilità di realizzare per via giuridica la democrazia, ma anche la possibilità di farlo per via politica.

Paolo ha ritenuto, a torto, che gli ebrei avessero ucciso il Cristo non perché volevano una liberazione della Palestina secondo modalità politiche diverse, che il Cristo non poteva accettare, ma perché l'essere umano è fondamentalmente incline al male. Se il Cristo è stato ucciso dagli ebrei, che avevano le leggi più democratiche di quel tempo, sarebbe stato ucciso da qualunque altro popolo.

[II]

La seconda parte della Lettera (5,12ss.) è più di carattere teologico-dogmatico. Paolo infatti cerca di dare una giustificazione religiosa, influenzata dall'Orfismo, di questo suo pessimismo di fondo, chiamando in causa il mito del peccato originale, cui egli dà un'interpretazione alquanto particolare.

A suo giudizio l'uomo, simbolizzato da Adamo ed Eva, è incline al male sin dai tempi della creazione. Se così non fosse, Adamo ed Eva non avrebbero peccato. Avendolo fatto, essi hanno reso sempre più inevitabile tale tendenza al male, poiché le circostanze che influenzano gli esseri umani, diventano, col passare del tempo, sempre più opprimenti.

Il peccato di Adamo ha provocato l'ira di Dio, che ovviamente -secondo Paolo- non poteva essere placata da un altro uomo. Poteva esserlo solo da un altro Dio, assolutamente innocente e perfetto: il figlio di Dio.

Per poter placare quest'ira, occorreva un sacrificio cruento: di qui l'inevitabile crocifissione del Cristo, il quale, in tal modo, ha potuto riconciliare l'uomo peccatore a Dio.

Naturalmente Dio rinuncia all'ira solo nei confronti del "peccatore pentito", che crede in Cristo, ma l'ira permane nei confronti di tutti gli altri, ebrei o gentili che siano, al punto che neppure il sacrificio di Cristo potrà impedire che a causa del "male" di questi "irriducibili" avvenga l'apocalisse dell'umanità (alla fine dei tempi), che inaugurerà il giudizio universale e aprirà le porte dei cieli ai credenti che avranno perseverato nella fede e che erano stati da Dio "predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo"(8,29).

Perché è importante che vi sia questo "giudizio"? Perché secondo Paolo esso è l'unico criterio che permetterà di stabilire definitivamente la vera fede da quella falsa. Non essendo gli uomini in grado di giudicare se stessi, stabilendo in che modo il bene va concretamente realizzato, essi -secondo Paolo- hanno bisogno che un essere onnipotente e onnisciente lo faccia al posto loro, dall'esterno. D'altra parte -dice Paolo- Dio è anche l'unico in grado di conoscere "i segreti degli uomini"(2,16).

Si badi, non è che Paolo voglia predicare la teoria secondo cui il bene nasce dal male (come gli rimproverano i suoi oppositori). Paolo, è vero, ritiene che l'essere umano sia incapace di bene, ma questo ovviamente non lo porta a sostenere che l'uomo sia autorizzato a compiere il male. Il male va sopportato come un limite strutturale all'esser-ci, per dirla con Heidegger. L'uomo "nasce male", cioè contraddittorio, incoerente, e rischia continuamente -secondo Paolo- di "finire peggio", se non accetta di credere nella redenzione del Cristo, il cui definitivo compimento avverrà solo nel momento della parusia. Essendo incapace di bene, l'uomo può soltanto sperare, comportandosi senza fare "troppo male", d'essere perdonato da Dio.

Nel pensiero di Paolo, Adamo non è che "figura di Cristo"(5,14): il suo peccato era previsto dalla scienza divina, così come l'espiazione del Cristo, per la giustificazione degli uomini. "Dio aveva prestabilito Cristo a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza"(3,25). Cioè a dire, Dio -secondo Paolo- non ha distrutto l'umanità intera, semplicemente perché attendeva che il Cristo, col proprio sacrificio, la riscattasse dall'ira che incombeva su di lei a causa dei peccati commessi.

Dio -dice Paolo- "ha sopportato con grande pazienza vasi di collera (leggi: i predestinati al male), già pronti per la perdizione, per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso vasi di misericordia, da lui predisposti alla gloria, chiamati non solo tra i Giudei ma anche tra i pagani"(9,22ss.).

Cristo è morto per tutti, ma soprattutto per coloro ai quali era stato promesso, affinché non disperassero nel vedere tanto male nel mondo. Nessun altro avrebbe potuto sacrificarsi al suo posto, poiché ogni uomo, di fronte a Dio, ha sempre torto.

In questo senso, è bene precisare che per Paolo, se esiste una "predestinazione" da parte di Dio, nei confronti degli uomini, tale predestinazione (nel bene o nel male) può anche essere "revocata", poiché Dio può fare dell'uomo ciò che vuole. "Se tu [pagano] sei stato reciso dall'oleastro che eri secondo la tua natura e contro natura sei stato innestato su un olivo buono [il cristianesimo], quanto più essi [gli ebrei], che sono della medesima natura [del cristianesimo], potranno venire di nuovo innestati sul proprio olivo"(11,24).

Naturalmente il tempo e le modalità della revoca restano sconosciuti agli uomini, che devono limitarsi a un atteggiamento di "timore e tremore" al cospetto di Dio, il quale -dice Paolo- "ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia"(11,32).

E, in ogni caso, anche se si fosse trovato qualcuno "disposto a morire per un giusto"(5,7), dimostrando così che gli uomini non avessero bisogno di alcuna predestinazione, secondo Paolo non si sarebbe mai potuto trovare nessuno disposto a morire "per gli empi"(5,6), come appunto ha fatto il Cristo col suo amore infinito e incondizionato per gli uomini. Questo per dire che la redenzione-liberazione ci viene offerta in maniera assolutamente gratuita, "per grazia"(4,16) -dice Paolo-, a prescindere da qualunque nostro merito, cioè come una manna piovuta dal cielo, con la differenza però -rispetto alla "manna del deserto"- ch'essa deve indurci a rinunciare per sempre al sogno di costruire, con mezzi umani, la "terra promessa".

I cristiani non devono cercare la giustizia sulla terra, ma devono lasciar fare "all'ira divina"(12,19); devono "benedire" chi li "perseguita"(12,14); devono sì vincere "con il bene il male"(12,21), ma il loro "bene" non deve andare al di là della mera sopportazione.

"Ciascuno, infatti, deve stare sottomesso alle autorità costituite, poiché non c'è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all'autorità, si oppone all'ordine stabilito da Dio... I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male... Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. Per questo dovete pagare i tributi..."(13,1ss.). Il cristiano deve difendere la sua fede in Cristo, anche attraverso la predicazione e il martirio, ma per tutto il resto deve lasciar fare a chi detiene il potere.

In pratica, la resurrezione di Cristo è servita -secondo Paolo- a capire che Dio non vuole distruggere l'umanità intera, a causa dei peccati ch'essa continuamente commette, ma vuole soltanto "giudicarla": cosa che appunto farà alla fine dei tempi.

Nell'attesa del "giorno del giudizio", l'uomo -dice Paolo- non deve ovviamente "restare nel peccato affinché abbondi la grazia"(6,1) - questa sarebbe un'interpretazione di comodo, opportunistica della sua Lettera.

In effetti, leggendo questa Lettera, viene abbastanza spontaneo chiedersi perché l'uomo debba fare di tutto per vincere il male, quando, di fatto, l'unico in grado di vincerlo è Dio (o Gesù Cristo). Se la liberazione dal male può essere solo il frutto di una "grazia ricevuta", non si capisce perché l'uomo debba tormentarsi più del dovuto circa la sua incapacità di bene. Se l'uomo è nato "male", la responsabilità è di chi l'ha creato.

Paolo, tuttavia, non è disposto a concedere nulla a una morale lassista e relativista. Qui è l'influenza della filosofia stoica che gli impedisce di trarre dai suoi ragionamenti le conseguenze più estreme. Ecco perché egli è costretto ad affermare che i credenti devono considerarsi "viventi per Dio, in Cristo Gesù"(6,11).

Il cristiano cioè deve cercare, per quanto può, di vincere il peccato e le sue inclinazioni al male: nel far questo, però, egli non si affiderà tanto alla volontà umana, quanto alla fede nella grazia divina.

Con ciò Paolo apre le porte all'autoritarismo ecclesiastico, solo in virtù del quale, di fatto, si può decidere quando esiste la grazia divina e quando no e in che modo può essere elargita. Poiché delle due l'una: o il cristiano decide per conto proprio il modo in cui affidarsi alla grazia divina, oppure l'istituzione lo decide per lui. In entrambi i casi si deve porre una delega di responsabilità.

[III]

L'ipocrisia di Paolo dove sta? Nel fatto che da un lato egli considera la morte fisica come un ostacolo insormontabile alla realizzazione della giustizia sulla terra; dall'altro invece egli sollecita a ricercare la giustizia della fede, nonostante la presenza della morte. Tra le due tesi vi è un elemento che qui non appare, ma che è assolutamente indispensabile perché entrambe le tesi possano coesistere senza contraddirsi: questo elemento è appunto la Chiesa.

Se Paolo si rivolgesse al singolo cristiano, la sua Lettera porterebbe ad assumere una posizione di tipo protestantico. Siccome invece la Lettera si rivolge alla comunità cristiana di Roma, con essa egli chiede implicitamente che l'istituzione ecclesiastica venga rafforzata al massimo, al fine d'impedire che l'uomo s'illuda di poter costruire il bene comune in virtù delle proprie leggi.

Paolo, come si può notare, ha una concezione alquanto bizzarra della legge. Egli infatti la considera come un oggetto a se stante, completamente avulso dalla società ch'essa rappresenta. Paolo ragiona da metafisico e, come tale, vede nella legge non una semplice espressione della libertà umana, ma una vera e propria incarnazione del male, o meglio un oggetto di tentazione che il male (il peccato) può utilizzare in qualunque momento contro la volontà di bene che l'uomo può avere.

E' incredibilmente limitato Paolo quando sostiene di non aver "conosciuto il peccato se non per la legge"(7,7). "Prendendo occasione da questo comandamento (Non desiderare), il peccato -egli afferma- scatenò in me ogni sorta di desideri"(7,8). E' lo stesso ragionamento che certi pedagogisti fanno rivolgendosi ai bambini o agli adolescenti, quando dicono che per essi niente è più desiderabile di ciò che viene vietato.

E' singolare che una persona intellettualmente dotata come Paolo non sia riuscita ad accorgersi che la legge, di per sé, non può indurre al male più di quanto non possa indurre al bene.

La legge è sempre e solo un riflesso della realtà sociale, e se un uomo si lascia dominare dalle tentazioni, non può certo la legge essere considerata più responsabile della realtà sociale ch'essa riflette.

Le leggi degli ebrei erano più democratiche di quelle pagane, poiché -dice Paolo- "ricercavano la giustizia"(9,31). Le tribù infatti erano meno caratterizzate dai rapporti di tipo schiavistico, anche se al tempo di Paolo questa caratteristica era sempre meno vera. In ogni caso solo uno sciocco avrebbe potuto attribuire alla legge mosaica il progressivo consolidarsi dei rapporti di tipo schiavistico, ovvero il fallimento della ricomposizione delle antiche usanze comunitarie.

Paolo qui, in maniera rovesciata, compie lo stesso errore degli scribi e dei farisei, allorché erano convinti che, per conservare l'originale spirito comunitario d'Israele, fosse sufficiente rispettare fedelmente la legge e tutte le tradizioni, orali e scritte, che ad essa si erano sovrapposte nel corso dei secoli.

La realtà è che gli uomini non hanno bisogno delle leggi per capire cosa è "bene" e cosa è "male". Quando ciò avviene, è perché sul piano sociale si è già persa questa capacità di discernimento. A quel punto si può anche istituire una legge che ristabilisca l'ordine, ma sarebbe ridicolo farlo con lo scopo di assegnarle un potere magico risolutivo. Questo era stato il limite della cultura religiosa mosaica, ma nel tempo in cui essa nacque e si sviluppò quel limite era stato in realtà un "progresso", in quanto l'esigenza di una "legge" veniva a regolamentare dei rapporti la cui conflittualità appariva socialmente irrisolvibile.

Viceversa, Paolo si ostina a contestare il valore della legge mosaica, perché non vuole scendere sul terreno concreto delle contraddizioni di tipo sociale. Le poche volte che, indirettamente, cerca di farlo, il risultato è sempre lo stesso: il male non sta nei rapporti sociali, ma nella coscienza dell'uomo, per cui non esiste legge che non possa essere strumentalizzata dal peccato.

Qui Paolo cade in contraddizioni difficilmente comprensibili: da un lato infatti afferma che la coscienza umana è dominata dal peccato; dall'altro sostiene che la Legge mosaica permetteva all'uomo di avere maggiore "coscienza" di questo peccato.

Così dicendo, Paolo fa dell'uomo un mostro inspiegabile. Non a caso, egli, ad un certo punto, arriva a dire, con un'analisi psicologica di grande forza emotiva, che l'uomo non fa ciò che vuole ma ciò che detesta (7,15). Con ciò ammettendo che nell'uomo risiedono due forze contrapposte, di cui quella "malvagia" risulta, alla fine, dominante, salvo, beninteso, l'intervento salvifico di uno Dio misericordioso.

Paolo non avrebbe mai ammesso che una tale lacerazione interiore potesse essere il riflesso di rapporti sociali antagonistici. Anzi, egli avrebbe sostenuto sempre il contrario, e cioè che l'antagonismo sociale è il prodotto di un "corpo votato alla morte"(7,24).

Non è in questo senso paradossale che, nella teologia paolina, Dio-padre, nella sua infinità bontà, abbia creato un essere umano in grado di fare non il bene che vuole ma il male che non vuole(7,19), in grado di avere "il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo"(7,18)?

Tutte le idee politiche, teologiche, sociali e culturali della Lettera ai Romani poggiano su un'errata concezione della natura umana e dei rapporti sociali ch'essa dovrebbe naturalmente vivere. Paolo ha esteso all'essenza dell'uomo in generale quelle contraddizioni che in realtà sono frutto di rapporti sociali storicamente determinati, cioè non ha fatto altro, in ultima istanza, che legittimare il sistema sociale schiavistico.

Quando poi, a partire dal capitolo 8, Paolo inizia a parlare della "vita nello spirito", se è chiaro ciò ch'egli intende per "spirito" (tutto ciò che è contrario alle debolezze della "carne"), molto meno chiaro è ciò che egli intende per "vita". Infatti, i valori dello "spirito" -a giudizio di Paolo- non devono tanto servire a cambiare "vita" sulla terra, quanto a ottenere la "vita" nell'aldilà (8,11).

Certo, se il cristiano, prima di diventare credente, era un "disonesto", ora dovrà cercare di diventare "onesto", ma ciò -secondo Paolo- non potrà mai comportare una lotta politica e sociale contro la disonestà altrui. Il cristiano deve sopportare la disonestà altrui cercando di essere il più possibile onesto e lasciando a Dio il giudizio finale. D'altra parte -dice ancora Paolo- "le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere ricevuta in noi"(8,18). Quindi consoliamoci! [Da notare che anche la "gloria nei cieli" non va considerata -secondo Paolo- come un processo autonomo di costruzione positiva della personalità, ma come una "grazia" che gli "eletti" ricevono da Dio (8,33). La giustizia, la libertà, la verità... non dipendono "dalla volontà né dagli sforzi dell'uomo, ma da Dio che usa misericordia"(9,16)].

IN SINTESI

Paolo parte da una propria constatazione della realtà: gli uomini non sono in grado di costruire una società giusta, democratica; non ne sono capaci gli ebrei e tanto meno i pagani.

Nel complesso infatti gli uomini sono degli incapaci o perché non credono nel vero Dio (pagani) o perché vi credono in modo inadeguato (ebrei). Nessuno può essere giustificato sulla base delle proprie opere, né i pagani, che peccano sia nel metodo (in quanto si abbandonano a ogni sorta di vizi), sia nel contenuto (in quanto sono idolatri), né gli ebrei, che peccano solo nel metodo (in quanto sono incoerenti con le verità di fede in cui credono). Il giudeo viene qui considerato più importante del greco, ma a causa di tale incoerenza Paolo ora si sente costretto a metterlo sullo stesso piano.

"I pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge, perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere"(9,30ss.).

Il circolo vizioso in cui Paolo è caduto è stato il seguente: da un lato egli ha attribuito alla mancanza di fede in Dio la causa delle umane contraddizioni; dall'altro però appare evidente che l'esigenza di credere in Dio nasce proprio dalla convinzione dell'impossibilità di poter risolvere, con mezzi umani, le contraddizioni della società.

Stando le cose in questi termini, l'uomo di Paolo diventa semplicemente un burattino nelle mani di Dio. O, per meglio dire, l'uomo non è che un giocattolo imperfetto voluto dal figlio di Dio, il quale, per riparare a un proprio capriccio, ha accettato di sacrificarsi, risparmiando all'uomo l'ira distruttiva del padre.

PAOLO DI TARSO E LA SPOLITICIZZAZIONE DEL CRISTO

Paolo di Tarso, elaborando la teoria secondo cui il Cristo doveva morire per essere annunciato ai Gentili, in modo tale che il nazionalismo politico-religioso degli ebrei fosse sostituito dall'universalismo pagano della salvezza religiosa, contribuì fortemente a spoliticizzare la figura del Cristo, trasformandolo da "liberatore" a "redentore".

L'idea della necessità della morte violenta di Cristo fa da pendant all'idea che il suo messaggio politico di liberazione non poteva essere realizzato nell'ambito della nazione israelitica.

Ora, poiché questa si poneva come semplice considerazione negativa (sul ruolo politico del Messia), in virtù della quale sarebbe stato impossibile formulare un progetto alternativo a quello classico del nazionalismo ebraico, Paolo ritenne necessario portare tale considerazione a conseguenze metafisiche, che le masse popolari avrebbe dovuto passivamente accettare.

E la conseguenza principale -secondo il "vangelo" di Paolo- fu questa: il Cristo morì di morte violenta perché così doveva essere.

La ragione di questa necessità metastorica viene motivata, nelle sue Lettere, da un fatto indubitabile: la conversione religiosa dei Gentili; in maniera aprioristica invece essa viene fatta dipendere esclusivamente dalla imperscrutabile volontà divina.

Ovviamente Paolo non si è mai chiesto se, una volta realizzata la liberazione politica d'Israele, sarebbe stato possibile per i Gentili recepire positivamente il messaggio politico di Gesù. Un'eventualità del genere s'era incaricata la stessa storia a renderla irrilevante.

Paolo insomma non accettando l'idea che il messaggio del Cristo potesse avere ancora un valore politico-nazionale per i suoi seguaci e che potesse essere universalistico proprio nella sua politicità, ha preferito ridurre le esigenze politiche a esigenze religiose e abbinare l'universalismo a una spiritualizzazione astratta del Cristo.

LA QUESTIONE DELLO SCHIAVISMO

Perché Paolo non predicò mai nelle sue Lettere la liberazione degli schiavi? Semplicemente perché la riteneva inutile ai fini della salvezza personale, ch'egli intendeva in chiave etico-religiosa.

Il ragionamento di Paolo in sostanza si riduceva in questi termini: la liberazione della Palestina dai romani non è possibile perché non ci sono le condizioni; se la civiltà ebraica vuole sussistere in maniera originale deve trasformarsi profondamente, il che significa che deve cercare un'integrazione con la civiltà ellenistica, che è nettamente dominante; la principale integrazione è quella di spostare l'attenzione dalla salvezza politico-nazionale a quella etico-personale; la salvezza dunque dipende non da ciò che si fa contro il sistema, ma dalla fede in ciò che supera il sistema in un'altra dimensione: il regno dei cieli. Ora, se la salvezza dipende dalla fede in questo regno dei cieli, frutto della volontà di dio (cosa che secondo Paolo è stato dimostrato una volta per tutte dalla resurrezione di Cristo), la salvezza può essere acquisita in qualunque condizione o formazione sociale, poiché la fede è un atto di coscienza, il frutto di una libertà interiore, che chiunque può avere. Si tratta semplicemente di credere che solo dio può salvare o liberare.

Paolo non solo rifiuta di considerare il problema della salvezza-liberazione in termini socio-politici (il che poteva far comodo ai regimi autoritari), ma relativizza anche qualunque pretesa umana di realizzare questo obiettivo sulla terra (il che può risultare scomodo alla demagogia degli stessi regimi autoritari).

Paolo aveva a disposizione alcuni modi per convincere gli schiavi e gli oppressi ad accettare il cristianesimo: 1) dimostrare che con l'aiuto reciproco interno alle comunità cristiane, i ceti marginali avrebbe potuto affrontare meglio le contraddizioni del sistema; 2) garantire che tra gli appartenenti non ci sarebbero state discriminazioni di sorta sul piano culturale; 3) invitarli a combattere il regime autoritario attraverso lo strumento della "resistenza passiva", il cui principio fondamentale era questo: "solo Cristo è dio, solo in lui c'è la salvezza".

Ovviamente Paolo chiedeva anche agli schiavisti divenuti cristiani di trattare bene i loro subordinati, specie se cristiani come loro, nella consapevolezza che "non c'è preferenze di persona presso dio"(Ef. 6,9).

Da parte dei cristiani avversi al paolinismo era difficile contestare una simile ideologia, in quanto di fatto il potere romano, che si trovava nella fase di dover gestire con la massima durezza un impero vastissimo, la perseguitava non meno delle ideologie rivoluzionarie.

L'ideologia di Paolo comincerà ad avere un vero successo popolare solo quando, sotto Costantino, il potere si vedrà costretto, pur di salvare l'impero dalla forza d'urto delle etnie barbariche, a cercare compromessi d'ogni sorta.

EXOUSIAI E TEOLOGIA POLITICA (Rm 13,1-7)

[1]Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c'è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. [2]Quindi chi si oppone all'autorità, si oppone all'ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna. [3]I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver da temere l'autorità? Fa' il bene e ne avrai lode, [4]poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male. [5]Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. [6]Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio. [7]Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto, il rispetto.

Il problema principale che solleva Rm 13,1-7 e che ha coinvolto decine di esegeti, non è se col temine "exousìai" (o exusiai, come spesso s'incontra nelle translitterazioni) si devono intendere le autorità costituite pagane o cristiane, poiché l'autore anonimo della pericope è così conservatore, sul piano politico, che ovviamente intendeva riferirsi alle autorità qua talis, cioè quelle che portano la "spada"(v. 4), in quanto esse devono far rispettare l'ordine pubblico, e che sono altresì autorizzate a esigere "tasse" e "tributi"(v. 7).

E' chiaro che, essendo la pericope del II sec., l'autore aveva in mente le autorità romane; tuttavia essa è così esplicita nel suo significato di subordinazione politica che potrebbe benissimo essere utilizzata anche in una societas christiana.

Meno ancora il problema è di sapere se col termine "exousiai" andavano intese le autorità politiche vere e proprie, dell'orbe romano, oppure i "principati e le potestà spirituali". Quando si ha a che fare con un testo dal contenuto teologico-politico (il quale afferma, già nel primo versetto, che "non c'è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio"), i termini "autorità politiche" e "potenze spirituali" sono ovviamente intercambiabili: le une giustificano o supportano le altre, secondo le necessità particolari di una determinata teologia politica, sia che essa pretenda di essere "rivoluzionaria" (come p.es. la teologia della liberazione, di matrice latinoamericana, fortemente influenzata dal marxismo) o che di fatto si ponga in maniera reazionaria (come p.es. la teologia dell'Opus Dei, di Comunione e Liberazione, dei Gesuiti ecc.).

Una teologia politica che professi un Cristo "liberatore" dirà che le "potenze spirituali" esigono delle "autorità politiche" più giuste e democratiche; viceversa, una teologia politica che professi un Cristo semplicemente "redentore", dirà che per amare dio occorre rispettare l'ordine costituito, proprio come vuole l'ignoto autore di questa pericope.

Il problema principale che l'exousiai solleva è in sostanza il seguente: fino a che punto il cristiano deve obbedire alle autorità costituite? Qual è il limite oltre il quale egli rischia di non potersi più definire "cristiano"?

Ecco, sotto questo aspetto, la pericope è gravemente lacunosa. Essa non prevede affatto la possibilità di uno Stato ideologico, confessionale, che obblighi i cittadini a una particolare professione di fede, e neppure prevede la possibilità di uno Stato autoritario, che abusi dei suoi poteri per discriminare e sottomettere i propri cittadini.

La pericope sembra dare per scontata la presenza di una sorta di Stato "laico e aconfessionale", tollerante nei confronti di qualunque religione; e soprattutto sembra dare per scontato che lo Stato, le sue leggi, i suoi governi, siano fondamentalmente giusti, equi, sufficientemente democratici per poter permettere al cristiano, o comunque all'uomo religioso, di vivere in tutta tranquillità l'esperienza della propria fede. Cosa che nell'antichità, ove tutti gli Stati, e soprattutto quello romano, erano espressione di società basate sullo schiavismo come sistema produttivo e quindi su concezioni di vita intolleranti, non s'è mai verificata.

Il concetto di "Stato laico" è, come noto, relativamente recente, ed è sempre stato un concetto più "giuridico" che "storico", in quanto sul piano pratico dei rapporti socio-politici con le varie religioni, gli Stati borghesi generalmente non riescono a rispettare in maniera coerente la laicità professata in sede giuridica.

Uno Stato veramente "laico" dovrebbe anche essere "democratico", ma uno "Stato democratico" è una contraddizione in termini, una contraddizione che il nostro anonimo interpolatore non sarebbe mai stato disposto ad ammettere, facendo egli parte, ovviamente, di un ceto possidente o comunque benestante.

L'autore, col suo linguaggio che tradisce "un'origine profana" (1) o molto probabilmente gnostica, sembra aver ridotto il cristianesimo a una sorta di comportamento etico-sociale conformista, del tutto ligio ai doveri del cittadino imposti dallo Stato romano. In tal senso la pericope sembra essere un'interpolazione di origine non cristiana, ma pagana, o se vogliamo di origine molto più pagano-cristiana che ebraico-cristiana.

L'autore infatti sembra aver di mira quei cristiani che vogliono opporsi, in qualche modo, alle exousiai, o non obbedendo a determinate leggi (p.es. quelle che obbligavano a fare sacrifici agli imperatori); o rifiutandosi di pagare delle tasse ritenute inique.

Sia come sia l'autore sembra invitare i cristiani, con fare perentorio se non minaccioso, a rientrare nei ranghi, al fine di dimostrare la loro fedeltà ai principi religiosi che professano e per evitare, ovviamente, l'inevitabile ritorsione da parte delle autorità costituite, la cui legittimità non viene neanche ipoteticamente messa in discussione.

La pericope non s'interessa dei cristiani in quanto cristiani ma solo in quanto cittadini. L'autore sembra escludere a priori l'eventualità che i cristiani possano essere perseguitati per motivi ideologici, ed esclude altresì la possibilità che i cristiani, in quanto cittadini, possano disobbedire alle leggi o non pagare le tasse, a motivo di uno Stato politicamente oppressivo o fiscalmente esoso.

A differenza di come s'è comportato il cristianesimo primitivo sino alla svolta costantiniana, l'autore della pericope, in sostanza, non sembra essere disposto ad ammettere la possibilità che un cristiano, pur essendo leale, come cittadino, allo Stato, abbia il diritto di dissentire sul piano ideologico, proprio in quanto cristiano.

L'autore cioè sembra rifiutare di credere che il cristianesimo possa costituire un pericolo per lo Stato romano anche solo dal punto di vista ideologico. Egli è convinto che se il cristiano obbedisce alle leggi e paga le tasse, può essere considerato come un qualunque altro credente, tenuto a considerare qualunque autorità politica come una sorta di "funzionario divino"(v. 6).

L'autore ha la pretesa di voler far credere ai cristiani che lo Stato, essendo un'istituzione divina (o comunque voluta da dio), non può che promulgare giuste leggi e imporre tasse eque. Non a caso chiede di ubbidire non tanto per "timore della punizione" quanto per "ragioni di coscienza"(v. 5), poiché di fronte a uno Stato del genere, qualunque forma di ribellione è priva di senso, è preclusa a priori. Quindi non solo il cristianesimo non è pericolo per lo Stato romano, ma neppure questo è pericoloso per il cristianesimo.

Una pericope del genere non può essere maturata in un ambiente ebraico e neppure in un ambiente pagano di origine sociale umile. Il cristiano di origine pagana che ha formulato tale pericope doveva per forza essere una persona facoltosa, di alto rango, che non aveva propriamente capito come il modo migliore di sfruttare il cristianesimo a fini politici era quello di accettarlo come tale, cioè con la sua idea di formale separazione tra Stato e chiesa, e non di confonderlo con una qualunque altra religione pagana.

Per l'ingenuo, perché schematico, autore di questa pericope la possibilità per un cristiano di vivere una vita serena e tranquilla è strettamente subordinata alla capacità di non farsi valere come "cristiano" (tanto meno come "cittadino democratico"), cioè è correlata alla capacità di mescolarsi coi "cittadini anonimi" che obbediscono alle leggi, qualunque esse siano, e pagano le tasse senza discutere, nella convinzione che se le autorità sono volute da dio, non è un problema degli uomini quello di sostituirle.

Quanto sia lontano questo autore dai vangeli è facile intuirlo. "Coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere", dice il Cristo agli apostoli in Mc 10,42.

Persino l'espressione politicamente innocua, ma ideologicamente eversiva, nei confronti dello Stato integralista romano, di Mc 12,17, e cioè "Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio", risulta essere in stridente contraddizione con la pericope apocrifa in oggetto.

Per il cristianesimo primitivo Dio e Cesare erano considerate realtà diverse, che non si potevano confondere o identificare. Nell'Apocalisse di Giovanni lo Stato è addirittura considerato come "la bestia che sale dall'abisso"(13,1ss.).

In sintesi la filosofia politica di questo falsificatore assomiglia molto di più al confucianesimo che non al cristianesimo. Essa è un chiaro invito alle classi marginali di tenersi entro i limiti della legalità istituzionale. E non è un caso che un termine come quello di exousiai si ritrovi ampiamente in quella che viene chiamata la "scienza esoterica cristiana".(2)

Gli esegeti progressisti si sono limitati a considerare apocrifa la pericope e a respingerne il contenuto, sulla base in verità di motivazioni più di forma che di sostanza.

Viceversa, gli esegeti conservatori, pur non potendo negare l'inautenticità del testo, hanno preferito sostenere che dietro il termine exousiai si celano non le autorità terrene, bensì le "potenze celesti", nei confronti delle quali è più facilmente comprensibile la richiesta di una abnegazione così assoluta, di una devozione così totale (3).


(1) cfr A. Moda, Il problema dell'autorità politica secondo Romani XIII, 1-17, in "Nicolaus", n. 2/1973, p. 278

(2) C'è addirittura chi ha visto, alle spalle della logica oggettiva dell’essenza, delineata da Hegel, la realtà spirituale della seconda Gerarchia (Kyriotetes, Dynameis ed Exusiai)! (clicca qui)

(3) Se ne cita uno per tutti, tra i più noti: O. Cullmann, La regalità di Cristo e la chiesa, A.V.E., Roma 1973, e Studi di teologia biblica, A.V.E., Roma 1968 (il cap. "Dio e Cesare").

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Il tradimento del cristianesimo primitivo. Dal Gesù storico al Cristo della fede
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Aggiornamento: 23/04/2015