STUDI LAICI SUL NUOVO TESTAMENTO


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MIKOS TARSIS

ATEO E SOVVERSIVO

I LATI OSCURI DELLA MISTIFICAZIONE CRISTOLOGICA

1) Premessa - 2) Sull'umanità del Cristo - 3) È possibile un Cristo ateo? - 4) Quid est veritatis? - 5) L'ateismo del Cristo: motivi di condanna - 6) L'ateismo nell'incarnazione del Cristo - 7) Ateismo e mistificazione nel IV vangelo - 8) Le due insurrezioni del Cristo - 9) Cristo ateo e politico - 9.1) Il Prologo - 9.2) Il vangelo di Giovanni Battista - 9.3) L'incontro col fariseo Nicodemo - 9.4) Il dialogo coi Samaritani e l'arrivo in Galilea - 9.5) La questione del sabato - 9.6) La defezione del Tabor - 9.7) La festa delle Capanne e l'identità del messia - 9.8) Il racconto del cieconato e la parabola del buon pastore - 9.9) La festa della Dedicazione e la professione di ateismo - 9.10) La morte di Lazzaro - 9.11) Addendum. La delibera del Sinedrio contro Gesù - 9.12) L'ingresso messianico - 9.13) L'arresto e il processo - 9.14) Addendum. L'autoconsegna del Cristo - 9.15) Il ruolo dei militari romani - 9.16) L'esecuzione capitale - 10) Israele e la catastrofe di duemila anni fa - 11) Il riscatto nazionale. Giovanni ritrovato - 11.1) La separazione dal Battista - 11.2) L'epurazione del Tempio - 11.3) L'esilio in Galilea - 11.4) Il ritorno in Giudea - 11.5) L'insurrezione fallita - 11.6) L'interrogatorio e il processo - 11.7) La scoperta della tomba vuota - 12) L'idea di ateismo nel cristianesimo - 13) Conclusione - 14) Appendici. Cristo tra massa ed energia - 15) Il tradimento di Giuda - 16) Dialogo sul suicidio del Cristo - 17) Cristo "doveva" essere tradito?

1) Premessa

L'esordio politico del Cristo avvenne in Giudea ed era correlato alla rottura col movimento di Giovanni il Precursore, da cui provenivano inizialmente i suoi discepoli più significativi.

L'epurazione del Tempio di Gerusalemme fu accettata solo da una parte del movimento battista (che a sua volta si era staccato da quello esseno), e vi trovò consenziente, seppur non in maniera ufficiale, una minoranza progressista del partito farisaico (rappresentato, nel IV vangelo, da Nicodemo) e forse di altri partiti non citati nei vangeli.

I Sinottici l'han ridotta a un evento meramente morale (al massimo di politica-religiosa contro la classe sacerdotale, i sadducei e gli anziani, che svolgevano funzioni politiche ed economiche), collocandola non all'inizio ma alla fine della vita di Gesù, per dimostrare ch'era lui il nuovo "tempio" da adorare.

In realtà l'epurazione fu una mezza rivoluzione, posta come precondizione per la più generale liberazione nazionale contro i Romani, e che però non trovò sufficienti consensi per realizzarsi in maniera adeguata. Per questa ragione Gesù fu costretto ad andarsene dalla Giudea, come un esiliato. Passando per la Samaria, egli rivelò a quelle popolazioni, entusiasmandole, che per lui il primato del Tempio e quindi del giudaismo era finito e che sul piano religioso egli non faceva più alcuna differenza tra Giudei, Galilei e Samaritani, anche perché la cosa essenziale era di liberarsi dell'oppressore straniero e di chi lo appoggiava internamente.

In Galilea organizza il suo movimento per l'insurrezione nazionale, accettando sia gli ex-militanti di quel partito zelota (così odiato da Giuseppe Flavio) che negli anni precedenti era stato sconfitto dai Romani, sia gli elementi collaborazionisti pentiti (come p. es. l'apostolo Levi-Matteo). Ma quando i Galilei gli fecero capire che erano pronti (in cinquemila) per marciare su Gerusalemme e liberarsi sia dei Romani che del Tempio corrotto, anche senza l'aiuto dei Giudei, egli vi rinunciò, suscitando grandi delusioni e defezioni.

Tuttavia il Cristo riprese i contatti coi Giudei propagandando un progetto politico di liberazione che sostanzialmente si basava su una visione laica (non religiosa) della vita e che sul piano sociale prevedeva la proprietà comune dei mezzi produttivi, da realizzarsi col contributo di tutte le etnie della nazione ebraica, ivi inclusi gli ebrei di origine ellenistica e i pagani intenzionati ad affrancarsi dallo sfruttamento schiavistico.

*

Nel movimento zelota, come in quello farisaico ed essenico, vi erano aspetti d'integralismo religioso che difficilmente un Cristo ateo avrebbe potuto accettare. Da un lato, infatti, egli, come i suddetti movimenti, condivideva l'idea di compiere un'insurrezione anti-romana; dall'altro però, a rivoluzione compiuta, difficilmente avrebbe potuto caratterizzarla in chiave teologica o nazionalistica, come invece gli altri volevano fare. Questo perché era lontanissima da lui l'intenzione di escludere il diritto alla libertà di coscienza in materia di religione (come dimostra nel dialogo con la samaritana) o l'uguaglianza con altre nazioni sottomesse all'impero romano (come p.es. dimostra la volontà di alcuni Greci di parlamentare con lui in occasione dell'ingresso messianico).

Una qualunque caratterizzazione in senso religioso del progetto insurrezionale avrebbe comportato, inevitabilmente, una chiusura politica nei confronti di chi non credeva nel medesimo Dio degli ebrei o non seguiva le medesime pratiche con cui i Giudei lo veneravano. La fede religiosa unisce sì i seguaci di una comunità, ma li divide da tutti gli altri. È solo sulla base dei bisogni che occorre cercare delle intese.

In tal senso è da escludere che Gesù volesse realizzare una sorta di "socialismo religioso". Il fatto che i farisei l'abbiano denunciato ai Romani e che gli zeloti non l'abbiano appoggiato nei suoi tentativi insurrezionali (il primo contro il Tempio, il secondo contro la Fortezza Antonia), lascia pensare ch'essi non condividessero affatto la sua indifferenza nei confronti delle questioni religiose, ovvero l'irrilevanza ch'egli attribuiva, ai fini dell'insurrezione, all'atteggiamento che si poteva tenere nei confronti di una qualsivoglia fede.

Il messaggio di Gesù era rivolto all'uomo in generale e, in particolare, a quelli che più subivano l'oppressione romana e sadducea. Egli non poneva alcuna distinzione di principio tra Galilei, Giudei e Samaritani e, per certi aspetti, neppure tra ebrei e pagani. Il fatto che volesse espellere i Romani dalla Palestina ed eliminare il potere della casta sacerdotale non va visto nell'ottica di una restaurazione delle caratteristiche salienti del passato regno davidico. Gesù non organizzò l'ingresso messianico chiedendo a qualche sacerdote di venirlo a "ungere" come messia, né chiese l'autorizzazione del Sinedrio per muoversi contro i Romani.

*

La riprovazione dei Giudei è stata forte sino alla disfatta del movimento di Lazzaro. Con la parte superstite di questo movimento e coi Galilei che gli erano rimasti fedeli Gesù entrò a Gerusalemme con grande clamore, una settimana prima della Pasqua. Tutta la città era in subbuglio, poiché ci si aspettava l'insurrezione da un momento all'altro. Sadducei, anziani, sommi sacerdoti, farisei conservatori e naturalmente la guarnigione romana sapevano di non avere scampo se il movimento di Gesù avesse trionfato.

La notte stessa in cui si sarebbe dovuta realizzare l'insurrezione, il movimento venne inaspettatamente tradito da uno dei suoi leader, che probabilmente temeva l'insuccesso dell'impresa.

La grande popolarità del Cristo obbligò le autorità costituite a imbastire un processo farsa, in cui formalmente risultasse che la decisione di condannarlo a morte non era stata presa da qualche partito o gruppo particolare, bensì da tutta la collettività, la quale, in luogo della liberazione di Gesù, preferì quella di Barabba, leader del partito estremista zelota. E così Gesù venne condannato a morte da Pilato, insieme ad altri due zeloti.

Dopo la crocifissione e l'improvvisata sepoltura, il corpo di Gesù risultò introvabile. I discepoli di origine galilaica, capeggiati da Pietro, s'inventarono ch'era risorto e rinunciarono a qualunque rivoluzione, in attesa del suo ritorno imminente. A ciò si opposero i fratelli Zebedeo e altri apostoli, le cui opinioni però risultarono minoritarie.

Con Paolo di Tarso, in un primo momento, si cominciò addirittura a sostenere che il ritorno in Israele sarebbe stato con sicurezza trionfale, in quanto il Cristo era "figlio unigenito di dio".

Successivamente la mancata parusia demoralizzò il movimento, che da nazareno prese a chiamarsi "cristiano". Dopo aver constatato l'impossibilità di cacciare i Romani dalla Palestina, si rinunciò definitivamente a qualunque speranza di liberazione nazionale e, sulla scia di Paolo, si cominciò a elaborare, a livello redazionale, la figura di un Cristo redentore morale, dotato di poteri straordinari (taumaturgici e miracolistici); un redentore che s'era lasciato immolare per redimere le colpe dell'umanità, la quale, a causa del peccato d'origine, non era più in grado di compiere il bene. Alla fine dei tempi il Cristo sarebbe tornato per compiere il giudizio universale.

Sulla primitiva tesi mitologica petrina, relativa alla resurrezione di Cristo, s'era innestata la teologia spiritualistica di Paolo, e su questa il mito esplose letteralmente.

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2) Sull'umanità del Cristo

I

A distanza di duemila anni di storia restano ancora da precisare due questioni fondamentali su Gesù Cristo, di cui la prima, negli ambienti laici dell'esegesi, è stata forse sufficientemente chiarita, anche se vi è ancora chi si ostina a sostenere che il Cristo dei vangeli non sia mai esistito, essendo inverosimili certi suoi comportamenti e troppo evidenti e numerose le incongruenze e contraddizioni dei vangeli canonizzati dalla chiesa.

Il che, a dir il vero, non può essere considerato un ragionamento del tutto sbagliato. L'errore sta semmai nel fatto che ci si vuole fermare a questa conclusione, senza rendersi conto che così, in ultima istanza, si fa il gioco dei clericali, i quali, di fronte a chi sostiene che tutta la religione si basa su delle falsificazioni, soprattutto su quelle di coloro che detengono il potere, non hanno difficoltà a ribattere che nessuna religione riuscirebbe a reggersi in piedi sulla base di una falsificazione totale.

Sarebbe infatti meglio che l'esegesi laica parlasse non tanto di "falsificazione" quanto piuttosto di "mistificazione", cioè di una falsificazione basata su cose realmente accadute, su cose che si sono volute tramandare, in alcuni aspetti essenziali, in maniera distorta, al fine di giustificare delle scelte di campo, delle operazioni culturali, ideologiche, politiche del tutto incoerenti col messaggio originario del Cristo.

Insomma le due questioni su cui vale ancora la pena discutere sono una di carattere politico, l'altra di natura fenomenologica.

Vediamo la prima e chiediamoci: Gesù era un avventuriero o un rivoluzionario di professione? S'è fatto catturare come un dilettante o aveva un certo senso della strategia? Il comportamento tenuto nei confronti del tradimento di Giuda, come va giudicato? È stato ineccepibile o ingenuo?

A queste domande le risposte più convincenti sono quelle che vedono il Cristo come leader politico accorto, prudente, aperto a larghe intese, ma anche risoluto, decisionista, ideologicamente laico, umanista, politicamente democratico, favorevole alla comunione dei beni.

Dopo la morte di Lazzaro egli, pur non senza dubbi interiori, si convinse che quella tragedia poteva anche essere utilizzata per compiere l'insurrezione anti-romana, sempre che ci fosse stato l'appoggio significativo di molti Giudei, e infatti l'ingresso messianico glielo confermerà. In occasione della cacciata dei mercanti dal Tempio (una sorta di mezza rivoluzione contro le autorità religiose, compiuta qualche anno prima) aveva rotto i rapporti sia coi farisei che coi battisti, allacciandone di nuovi sia coi Samaritani che coi Galilei. Tuttavia, pur essendo egli in Galilea incredibilmente popolare, rifiutò di scendere a Gerusalemme per fare la rivolta, proprio perché voleva anche l'appoggio dei Giudei.

Insomma a volte si nascondeva e addirittura sceglieva l'esilio, altre volte si manifestava, a seconda delle circostanze. La Giudea era la sua patria d'origine, ma fu costretto a scegliere la Galilea come patria adottiva, dopo il fallimento della sua prima rivoluzione.

L'insurrezione finale era stata curata nei minimi particolari e sarebbe dovuta avvenire di notte, durante la Pasqua. Il tradimento colse tutti alla sprovvista, proprio perché si era convinti che contro la guarnigione romana non si sarebbero dovuti avere particolari problemi. Purtroppo, nonostante il tentativo di fuga presso il Getsemani, non si poté evitare la cattura di Gesù, anzi lui stesso la favorì pur di assicurare ai suoi la salvezza.

Poi, proprio sul termine "salvezza" i redattori dei vangeli elaborarono interpretazioni del tutto fantasiose, come p. es. che non si trattava di salvezza "fisica" ma "spirituale", non del "corpo" ma dell'"anima", salvezza non dalla "schiavitù" ma dal "peccato", proprio perché il Cristo non doveva apparire come un leader politico ma religioso. E così via.

La seconda questione da affrontare riguarda proprio l'argo-mento che ha fatto scatenare la falsità di queste interpretazioni religiose, ed è la presunta "resurrezione" del Cristo.

Il concetto di "risorto" è stato inventato da Pietro (che parla di "ridestato") e fatto proprio largamente da Paolo. Esso era già noto al mondo pagano e politeistico, ma veniva usato in senso simbolico-metaforico. Quando Paolo lo usa all'Areopago, in riferimento a una persona reale, gli ridono in faccia.

Gli ebrei però non risero a Pietro quando lui sosteneva che il corpo di Gesù era scomparso dalla tomba e che, siccome nessuno l'aveva trafugato, doveva per forza essersi "risvegliato", e quindi quell'uomo non poteva essere considerato esattamente come gli altri, e che se aveva avuto il potere di ridestarsi dalla morte, allora avrebbe anche potuto evitarla, volendo, e che se invece l'aveva accettata, allora voleva dire che la sua morte andava interpretata come un evento "necessario", un evento voluto misteriosamente da dio, probabilmente per insegnare agli uomini la loro iniquità, la loro incapacità di liberarsi dalla schiavitù, dall'oppressione, per cui non restava che attendere con ansia il suo imminente ritorno glorioso, in quanto non avrebbe avuto senso una "resurrezione" senza una "parusia".

L'apostolo Giovanni si staccherà da Pietro quando si renderà conto che, in assenza di una parusia imminente del Cristo, il discorso di Pietro sulla resurrezione diventava rinunciatario rispetto all'esigenza di una insurrezione anti-romana. Paolo poi dirà, vedendo i ritardi insostenibili della parusia, che la schiavitù da cui ci si doveva liberare non era per nulla quella politica ma solo quella religiosa, quella dal peccato originale, per cui i "nemici" dei cristiani non erano i Romani (la carne e il sangue), ma i demoni (le potenze dell'aria, i principati e le potestà dei cieli).

Pietro all'inizio rimarrà interdetto per questa svolta spiritualistica, ma poi sarà costretto dagli eventi (e dal successo di Paolo) ad accettare la nuova interpretazione mistica della figura di Gesù Cristo quale figlio unigenito di dio-padre.

II

Ora cerchiamo di capire una cosa di capitale importanza: perché Paolo volle rischiare, nei suoi viaggi missionari, il sarcasmo dei Greci, parlando di resurrezione di Gesù Cristo, quando in fondo ne avrebbe potuto fare a meno predicando ugualmente l'esistenza di un aldilà risolutivo per le contraddizioni terrene, in cui il mondo pagano bene o male già credeva? La differenza tra cristiani e pagani non poteva stare in altre cose? P. es. nel fatto che l'aldilà avrebbe potuto essere guadagnato da chiunque avesse compiuto il bene sulla Terra.

Se il cristianesimo petro-paolino si fosse limitato a predicare il rispetto della persona, l'assistenza dei malati, degli orfani, delle vedove e dei bisognosi in genere, l'uguaglianza di genere e altre cose analoghe, non avrebbe avuto ugualmente successo in una società basata sull'individualismo, sui traffici commerciali, sulla violenza militare, sul maschilismo, sull'oppressione dei deboli...? Perché dare così tanto peso alle questioni ultraterrene? Probabilmente il motivo sta nel fatto che quando Pietro predicava il concetto di "resurrezione", lo associava a un'imminente parusia politica del Cristo. Inizialmente anche Paolo si comportò nella stessa maniera, poi fu costretto a procrastinare il momento decisivo alla fine dei tempi e a beneficio di tutto il genere umano, non solo di Israele, il cui primato storico-politico andava considerato finito per sempre. Paolo lo diceva ancor prima della catastrofe del 70, per questo gli ebrei lo odiavano a morte.

Questo in sostanza per dire che per i primi cristiani il concetto di "resurrezione", elaborato da Pietro e sostenuto da Paolo e da altri leader del movimento nazareno, aveva un ruolo molto più centrale che nel mondo pagano (con i vari Attis, Dioniso, Osiride ecc.). E ciò è oltremodo significativo, in quanto i primi cristiani erano tutti di origine ebraica, cioè appartenenti a una cultura che non tollerava i miti astrusi dei pagani, tanto meno quelli riferiti a divinità che muoiono e risorgono.

Beninteso anche gli ebrei conoscevano il concetto di "resurrezione" (basta leggersi il racconto di Ezechiele al cap. 37) e anche l'idea di "aldilà" (ne parla p. es. il profeta Daniele, là dove associa la resurrezione del popolo ebraico a una retribuzione ultraterrena; ed erano altresì noti i diverbi tra farisei e sadducei (quest'ultimi non credevano in alcun aldilà), che Paolo utilizzerà per salvarsi dal linciaggio.

Ma queste erano teorie e posizioni molto marginali nel giudaismo ortodosso, che al massimo potevano essere accettate come ipotesi poetiche, come simbologie profetiche: credere con certezza nella resurrezione fisica di un corpo morto sarebbe apparso un'assurdità insostenibile, ai limiti della bestemmia.

Per quale motivo dunque i cristiani hanno voluto scontrarsi su una questione del genere, che sicuramente ostacolava non poco i rapporti con la cultura ebraica? Avrebbero potuto parlare lo stesso di un aldilà di giustizia e di uguaglianza e quindi di una resurrezione finale dei sofferenti e dei martiri. Cosa sarebbe cambiato? Perché insistere su una resurrezione specifica, fisica, miracolosa e soprattutto individuale e storicamente irripetibile?

Vien da pensare che qualcosa di vero ci deve essere stato nella primissima predicazione apostolica (kerygma), benché il concetto di "resurrezione" sia stato usato in maniera falsificante, per negare la politicità rivoluzionaria del Cristo.

Nel vangelo di Marco, che ha fatto da prototipo a tutti gli altri, la figura del giovane seduto sul sepolcro vuoto rappresenta in un certo senso la posizione petrina, secondo cui il Cristo non era più nella tomba non tanto perché "scomparso" quanto perché "risorto". L'interpretazione non offre soltanto la spiegazione del fatto ma addirittura lo crea, rendendolo diverso da come in realtà appariva.

"Sepolcro vuoto" non voleva necessariamente dire "resurrezione", ma semplicemente "scomparsa misteriosa del cadavere". Per parlare di "resurrezione" vera e propria, bisognava parlare di "riapparizione di un corpo vivente", ma nel vangelo di Marco l'ultimo racconto (16,9-20) è stato aggiunto successivamente alla prima stesura.

Il vangelo si conclude col giovane che dice alle donne che il Cristo attende di nuovo gli apostoli in Galilea (per ricominciare da dove il tradimento e la croce avevano interrotto le cose). Cioè qui la resurrezione viene presentata come se avesse per finalità la parusia del Cristo, più o meno immediata e sicuramente trionfante.

Il fatto che le donne, temendo di essere considerate pazze, non dicano nulla di quel che avevano visto, indica un primo ingenuo tentativo di discolparsi della mancata insurrezione dopo la morte del Cristo, e permette anche di rinunciare all'autocritica da parte degli apostoli, che non avevano saputo impedire la morte del loro leader.

III

Una cosa apparentemente molto strana, nella ricostruzione marciana dei fatti, è che nei vangeli non si usa mai la Sindone, ch'era un reperto concreto, per dimostrare la fondatezza di un'interpretazione astratta come quella della resurrezione (la principale tesi petrina): perché non rendere quel lenzuolo di dominio pubblico?

Pietro, che evidentemente non era uno sprovveduto, doveva aver pensato che se avesse esibito la Sindone, qualcuno gli avrebbe potuto obiettare ch'essa non dimostrava nulla con sicurezza. Al massimo si poteva parlare di "strana scomparsa del corpo", di "strano effetto sul lenzuolo", ma certamente non si sarebbe potuto parlare di "morte necessaria", voluta da dio, di resurrezione voluta anch'essa da dio, di attesa passiva di una parusia trionfante, sicura e imminente.

Noi oggi ci opponiamo alla mistificazione operata da Pietro. Tuttavia il ragionamento che fece non era così peregrino, tant'è che la maggioranza degli apostoli lo condivise. Se il corpo di Cristo non è stato trafugato da qualcuno ma è misteriosamente scomparso e la Sindone l'attesta, allora quell'uomo – Pietro deve essersi detto e deve averlo detto agli altri – era più che un uomo comune, per quanto, quand'era in vita, nessuno s'era mai accorto di nulla. Dunque, se aveva qualcosa di più, non si capisce perché non abbia voluto dimostrarlo quand'era in vita (probabilmente lo voleva fare da morto - si sarà detto - per farci capire che da soli non possiamo far nulla, visto che è stato crocifisso come leader che avrebbe potuto liberare Israele dai Romani) e, in ogni caso, ora non si capisce perché non si possa credere all'idea ch'egli ritorni in maniera trionfale. Se non torna subito e da vincitore, tutto quello che ha fatto resta inspiegabile. Per che cosa si sarebbe fatto crocifiggere, pur potendolo tranquillamente evitare? Se gli ebrei non sono capaci di liberarsi da soli di Roma, e lui non ritorna, tutto quanto lui in vita ha fatto a cosa è servito? Una volta che lui ha dimostrato, con la sua morte, fin dove noi umani siamo in grado di arrivare, a noi cosa resta da fare se non attenderlo con ansia? Il tentativo insurrezionale non può essere stato una presa in giro; semplicemente noi dobbiamo arrivare ad ammettere che aveva tempi e modi diversi da quelli che avevamo immaginato. Noi non possiamo credere che lui si sia lasciato ammazzare perché tanto sapeva che sarebbe risorto, lasciando noi in balia di noi stessi.

Tutte queste considerazioni di Pietro (ovviamente qui ipotetiche) erano, rispetto alle posizioni originarie del Cristo, di tipo politico-religioso e quindi anti-rivoluzionarie, erano tesi revisioniste, per le quali si prevedevano, in attesa della parusia trionfale del messia, dei compromessi anche con quella parte del giudaismo che avesse ammesso il proprio errore nei confronti del Cristo e che fosse disposta a credere nella sua messianicità e quindi nelle idee di resurrezione e di parusia imminente. Dicendo queste cose, Pietro vedeva la Sindone come una cosa inutile, anzi come un'interferenza.1

IV

È per questa ragione che occorre sostenere con forza che se la Sindone è vera, i vangeli mentono, e almeno tre volte.

Anzitutto perché il Cristo che descrivono è del tutto spoliticizzato, mentre quello della Sindone è un leader politico torturato, flagellato e crocifisso. Un trattamento, per uno schiavo ribelle, del tutto inconsueto, spiegabile solo in virtù del fatto che si stava compiendo un'imminente insurrezione, in cui la guarnigione romana – data la popolarità del movimento nazareno – sarebbe stata facilmente sopraffatta.

In secondo luogo se la Sindone può essere usata per sostenere una scomparsa poco chiara dal sepolcro, non può essere usata per affermare con certezza una resurrezione, proprio perché nessuno ha mai visto il Cristo redivivo e nessuno è in grado di negare con sicurezza che tutti i racconti che ne parlano possono essere stati inventati (d'altra parte chiunque si rende conto che se Cristo fosse davvero riapparso, non si sarebbe predicata la "fede" nella resurrezione, e siccome ci si rendeva conto che sarebbe stata una pretesa eccessiva chiedere di aver fede in un corpo da tutti visto morto e poi visibilmente risorto, si fu costretti a dichiarare che molti effettivamente avevano assistito alle sue apparizioni, anche se poi non si smetterà mai di dire che beati sono quelli che credono senza vedere).

In terzo luogo perché anche nel caso in cui si possa affermare con certezza l'evento di una resurrezione, ciò non può essere considerato sufficiente per sostenere l'esistenza di un dio, nel senso che nulla autorizza a pensare ch'esista un dio che l'abbia voluta, tanto meno dopo aver voluto la morte del proprio unigenito figlio.

Insomma anche se la Sindone fosse un reperto autentico che attesta una scomparsa misteriosa, in nessuna maniera ciò può implicare la necessità di credere nell'esistenza di un dio assoluto e onnipotente, che ha deciso, previo libero consenso, il destino del figlio ("se puoi, allontana da me questo calice, ma sia fatta la tua volontà").

Se anche si volesse ipotizzare qualsivoglia rapporto tra Cristo e la divinità, qualunque considerazione resterebbe inopportuna, anche perché del tutto infondata, assolutamente indimostrabile, anzi pericolosamente avversa a una vera istanza umana di liberazione, come in effetti storicamente è stato prima con Pietro, con la sua idea di "morte necessaria", voluta da dio nella sua prescienza, poi con Paolo, con la sua idea di figliolanza unigenita, consustanziale al padre.

Se anche si ammettesse, in via del tutto ipotetica, che dopo la morte del Cristo vi è stato un evento straordinario, non spiegabile razionalmente, ciò non può significare che tale evento sia stato provocato da un'entità esterna chiamata "dio", che altro non è se non la "parola" usata in una determinata cultura per indicare qualcosa di "assoluto". C'è differenza tra "constatazione" di un fatto e sua "interpretazione".

La chiesa ha usato l'interpretazione soggettiva di un apostolo (Pietro) per spiegare un evento umanamente inspiegabile, e ha chiesto di credere per fede in quella interpretazione, in virtù della quale s'è fatto credere che quell'evento fosse avvenuto in una determinata maniera: di qui la necessità di elaborare dei racconti di apparizione del risorto. Piuttosto che usare quel lenzuolo si è preferito inventarsi cose inesistenti. Ma che cos'è meglio: non credere in una cosa che si ritiene inesistente o credere in ciò che non può essere dimostrato?

All'origine di tutti i racconti di apparizione vi è necessariamente la teologia di derivazione paolina, spregiudicata quanto mai. Continuamente nelle sue lettere egli parla di un Cristo risorto che appare in modo chiaro e distinto a lui, a Pietro, agli apostoli, ai discepoli... Predicare agli ebrei, che certo ingenui come i pagani non erano, l'idea che bisognava credere per fede in un corpo morto e risorto, probabilmente era diventato troppo difficile anche per un uomo scaltro come Paolo: di qui l'idea geniale di diffondere la notizia secondo cui Gesù era apparso a più persone in luoghi e momenti diversi.

Bisognava però specificare che queste apparizioni non avevano nulla di politico (come avrebbe voluto Pietro, almeno in un primo momento), ma solo un significato di tipo religioso. Era riapparso per assicurare che tutto sarebbe proseguito al meglio nell'aldilà e che sulla Terra i discepoli avrebbero soltanto dovuto resistere con pazienza al male, amandosi vicendevolmente e, in caso di necessità, considerando il martirio una prova da superare per la gloria della fede.

Un'esegesi laica oggi invece dovrebbe sostenere che anche nel caso in cui la Sindone fosse lì a dimostrare che Gesù Cristo è in qualche modo riuscito a sfuggire alla morte, ciò non può essere considerato sufficiente ad avallare l'esistenza di alcun dio. La Sindone non è incompatibile con l'ateismo, nel senso che se anche il Cristo dovessimo considerarlo "più che umano", non dovremmo comunque pensare che la parte "in più" della sua umanità non ci appartenga.

Di sicuro l'esistenza umana del Cristo non ebbe mai nulla di sovrannaturale, finché egli restò in vita, nulla che l'uomo non potesse capire e ripetere. Quel che va "oltre" l'umano, resta comunque alla portata della nostra umanità, altrimenti ci resterebbe incomprensibile il messaggio del Cristo anche nel caso in cui l'avessimo depurato di tutte le mistificazioni che gli hanno voluto aggiungere.

Questo significa che nella vita terrena, umana, storica del Cristo si racchiude tutto il messaggio per gli uomini, utile alla loro liberazione dalla schiavitù sociale (sia essa fisica, personale o contrattuale). Qualunque tendenza a sottovalutare gli aspetti terreni, interpretandoli in senso mistico, è, ipso facto, un tradimento del suo messaggio. Qualunque tentativo d'interpretare la tomba vuota in senso religioso è un abuso ermeneutico. Di fronte ad essa l'unico atteggiamento adeguato è il silenzio.

Quando Giovanni scrisse, nel suo vangelo, che di fronte alla Sindone "vide e credette", non specifica a cosa "credette". Infatti il suo manipolatore se ne accorse e decise di aggiungere il versetto in cui è detto che gli apostoli ancora non avevano capito che doveva risorgere. Ma Giovanni in realtà voleva semplicemente dire che il corpo non era stato trafugato (la Sindone ripiegata lo dimostrava), cioè ch'era scomparso in maniera strana, non spiegabile dal punto di vista umano.

E tutto però doveva anche finire lì, poiché l'insurrezione era stata voluta e preparata quando il Cristo era ancora vivo, e le sue motivazioni restavano identiche anche nel momento in cui era morto e scomparso. Iniziare a credere che lui dovesse ritornare per portarla a compimento, era una pretesa ingiustificata. Ecco perché Giovanni decise di lasciare Pietro a se stesso.

Gli uomini devono superare gli antagonismi sociali qui ed ora, devono abituarsi all'idea che tutto dipende da loro e che quello che di umano non avranno fatto su questa Terra, sarà soltanto un'occasione perduta per lo sviluppo della loro umanità.

Nota a margine

L'idea di periodizzare su tempi molto brevi il passaggio dalla tomba vuota alla predicazione petro-paolina, usata dalla chiesa per mostrare una significativa continuità tra il Cristo storico e quello della fede, in realtà si ritorce contro questa pretesa, in quanto evidenzia, al contrario, che la volontà di tradire il Cristo non solo aveva anticipato (in Giuda) la decisione di fare l'insurrezione, ma la posticipò anche subito dopo la crocifissione. Il tradimento di Pietro non va considerato meno grave di quello di Giuda, tant'è che tutta la grande mistificazione di Paolo poté innestarsi proprio su quel tradimento e non su quello di Giuda, che rimase circoscritto entro un orizzonte etico-politico.

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3) È possibile un Cristo ateo?

Da un pezzo l'esegesi laica ha capito che il titolo di "figlio dell'uomo" veniva usato dal Cristo contro il titolo pagano di "figlio di dio", che gli antichi sovrani, specie quelli orientali delle prime civiltà schiavistiche (ma anche i faraoni egizi e gli imperatori romani), attribuivano a se stessi.2

Ma da questa constatazione non si sono tratte le debite conseguenze. L'esegesi confessionale ritiene addirittura ch'egli usasse il titolo di "figlio dell'uomo" (che poi, tradotto, vuol semplicemente dire "uomo") non in maniera da escludere l'altro, ben più impegnativo, di "figlio di dio". Cristo cioè sapeva bene d'essere l'unico vero figlio di dio, ma preferiva, in genere, usare l'altro titolo in segno di umiltà, essendosi incarnato non per dominare ma per servire.

Inutile chiedere a questo tipo di esegesi qualcosa di più. Noi dovremmo piuttosto dare per scontato che tra quel titolo ("figlio dell'uomo") e la vita pratica del Cristo ci fosse piena corrispondenza, in quanto che egli non si comportò mai come una sorta di "divinità", cioè non fece mai nulla che non fosse alla portata dell'uomo.

Anzi, siccome questo ragionamento potrebbe riferirsi anche a un "buon credente", bisognerebbe arrivare a dire che non solo Gesù non fu mai un "cristiano", ma neppure un "ebreo osservante". Infatti, tutto quanto di "religioso" gli viene attribuito nei vangeli (per non parlare delle lettere paoline, che sono alla base degli stessi vangeli), o è una falsificazione di un evento reale (p. es. la resurrezione non fu del "corpo" di Lazzaro ma delle sue "idee" eversive), o è addirittura una pura e semplice invenzione (p. es. il suo battesimo ad opera del Battista).

Cristo non lo si vede mai pregare (alla scena lucana che pregando sudava sangue nessun apostolo poté assistere, in quanto dormivano tutti), né offrire sacrifici o fare offerte al Tempio (il cui potere sacerdotale cercò di abbattere nel corso della sua prima insurrezione), e neppure amministrare sacramenti (il IV vangelo dice chiaramente che si rifiutava di battezzare e dai rotoli di Qumrân abbiamo capito che l'eucaristia è di origine essenica), né svolge riti e funzioni sacerdotali di alcun tipo, neppure mentre guarisce le malattie psico-somatiche, e quando cercava di frequentare le sinagoghe, appena lo sentivano parlare immancabilmente lo cacciavano.

Per tutto il corso della sua vita, così come risulta dai vangeli, Gesù ha dovuto continuamente spostarsi da un luogo all'altro perché volevano farlo fuori. Dunque per lui cosa voleva dire "figlio dell'uomo"? Come mai un titolo del genere risultava così offensivo per gli ebrei?

Stando ai vangeli, i Giudei hanno condannato il Cristo perché si fregiava non del titolo di "figlio dell'uomo", bensì di quello di "figlio di dio". Indubbiamente vi è una bella differenza. Gli ebrei sarebbero stati un popolo "deicida" proprio perché hanno voluto uccidere chi, consapevolmente, diceva d'essere "figlio unigenito di dio-padre".

Ancora oggi per un ebreo chiunque dica d'essere di natura divina o sovrumana, viene considerato o ateo o pazzo o entrambe le cose. Nei vangeli infatti non sopportano assolutamente che Gesù si faccia "figlio di dio" in maniera esclusiva. Per loro o lo si era tutti (in maniera traslata, figurata), o nessuno. Anzi, per non offendere Jahvè, dicevano d'essere "figli di Abramo", il loro vero padre ancestrale.

E tutte le volte che, sempre stando ai vangeli (che sono, come noto, testi antisemiti), sentivano Gesù qualificarsi in via esclusiva come "unigenito figlio di dio", prendevano le pietre per lapidarlo: in casi del genere non c'era neppure bisogno di denunciarlo e processarlo. Caifa stesso, nei Sinottici, ebbe a dire, mentre lo interrogava: "Che bisogno abbiamo di altre testimonianze? È lui stesso che si autocondanna!".

Ma i redattori cristiani non sono attendibili, lo sappiamo, anche questo da un pezzo. Sono stati loro, sulla scia di Pietro e soprattutto di Paolo, a trasformare il Cristo da liberatore nazionale a redentore universale, da messia storico-politico ad agnello sacrificale, consustanziale a dio. Han voluto farlo per ingraziarsi il favore dei Romani, i quali però ci misero tre secoli prima di accettare tale mistificazione.

Dunque come possono essere andate le cose? Il Cristo non ha mai usato il titolo di "figlio di dio" (tanto meno in via esclusiva), ma al massimo quello, più generico, di "figlio dell'uomo". Davvero quando usava questo titolo i gruppi fanatici dell'ebraismo cercavano immancabilmente di lapidarlo? Sì, lo facevano lo stesso, ma non perché appariva ateo in quanto privilegiato "figlio di dio".

Gesù in realtà si dichiarava ateo proprio quando diceva che non esiste alcun dio, ma solo l'uomo. Lui era arrivato a dire che dio nessuno l'ha mai visto, non perché l'uomo, peccatore com'è, non è in grado di vederlo, ma proprio perché non esiste. L'unico dio dell'universo è l'uomo stesso.

La frase che segue venne detta in maniera esplicita nel IV vangelo: "Non è forse scritto nella vostra Legge: Io ho detto: voi siete dèi?" (10,33). Ecco, questa forma di assoluto umanismo mandava in bestia gli ebrei più ortodossi e, da duemila anni, vi ci manda pure i cristiani.

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4) Quid est veritatis?

La domanda di Pilato è destinata a restare senza risposta?

"Che cos'è la verità?", chiese il cinico Pilato in un improbabile dialogo con un messia che nello stesso vangelo di Giovanni, autodefinendosi "figlio di dio", non aveva difficoltà ad affermare ch'era proprio lui la "verità".

Se si dovessero prendere alla lettera i vangeli (canonici o apocrifi non importa), la comprensione della verità sarebbe al di là di qualunque capacità umana. Il fatto tuttavia che Gesù pretendesse d'essere considerato un dio, non ha impedito alla gente di crederci e di farlo da ben duemila anni.

Dunque a chi dare ragione? Agli ebrei che, sentendo un leader politico qualificarsi come "figlio di dio" e vedendo che aveva molto seguito, lo uccisero perché temevano che avrebbe scardinato le loro verità (la prima delle quali era appunto che nessuno poteva fregiarsi di un titolo divino), oppure ai cristiani che hanno odiato gli ebrei proprio per aver ucciso il "figlio unigenito di dio-padre", facendoli così diventare un "popolo deicida" per antonomasia?

I vangeli ci hanno costretti a ragionare in termini a dir poco assurdi, quando essi stessi sono stati un'opera di mistificazione. Come possiamo trovare la verità se sono false o mal poste persino le domande di partenza? Sarà mai possibile trovare una verità sulla vicenda dell'uomo-Gesù quando gli unici testi che ce lo presentano ne fanno una sorta di extraterrestre? quando cioè il genere letterario in cui collocare quelle fonti più che "storico" è "fantastico"?

Come si può parlare di "verità storica" quando chi doveva trasmettercela, ha manipolato così abilmente tutte le fonti da impedirci di fare un minimo di chiarezza? Per settecento anni s'è creduta vera la Donazione di Costantino, e sulla base di essa il papato ha potuto legittimare la propria aspirazione al potere temporale. E quando finalmente si è arrivati a capirlo, era già troppo tardi. Da tempo quel falso aveva raggiunto il suo obiettivo.

Che fare di fronte a situazioni del genere? La storia non ha un tribunale come quello di Norimberga: il massimo che si può fare è affidarsi alla libertà di coscienza.

Tra tanti falsi documentali l'unica verità sembra appunto essere quella relativa al loro carattere tendenzioso, apologetico, ideologico. Siamo persuasi ch'esiste una "verità" proprio perché s'è fatto di tutto per negarla. Al momento non possiamo fare affermazioni in positivo, ma solo in negativo, mettendo in dubbio le pretese certezze.

Vien da chiedersi cosa succederà alla chiesa quando le masse saranno sufficientemente persuase che Cristo si equiparava a dio non per affermare una propria esclusiva divinità, ma, al contrario, per affermare la divinità dell'uomo in quanto tale. Cioè l'identificazione non era per sostenere un'entità separata dall'essenza umana, ma proprio per negarla!

Sicché i titoli "figlio dell'uomo" e "figlio di dio" sarebbero in realtà equivalenti, estensibili a ogni essere umano (ammesso e non concesso che Cristo abbia mai usato un titolo così "religioso" come "figlio di dio", che gli stessi imperatori romani usavano, passando per blasfemi agli occhi degli ebrei).

Da due secoli e mezzo, a partire cioè da Reimarus, si va dicendo che il Cristo era un politico che voleva cacciare i Romani dalla Palestina, quindi tutt'altro che un pacifico predicatore di un regno ultraterreno di verità e giustizia.

Ovviamente la chiesa ha sempre ritenuto falsa questa tesi, nonostante la fondatezza di molte sue argomentazioni. E probabilmente non esiterebbe, ancora oggi, a lanciare scomuniche e anatemi contro quanti volessero sostenerla. Questo però è un segno che alla comprensione adeguata della verità ci si sta progressivamente avvicinando. Cristo non solo era un politico rivoluzionario, ma, fondamentalmente, era anche ateo.

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5) L'ateismo del Cristo: motivi di condanna

Nel vangelo di Marco l'ateismo del Cristo è presente in almeno due pericopi fondamentali, di cui una riguarda l'inizio della sua attività politica, l'altra la fine.

La guarigione del paralitico di Cafarnao (2,1-12)

[1] Ed entrò di nuovo a Cafarnao dopo alcuni giorni. Si seppe che era in casa [2] e si radunarono tante persone, da non esserci più posto neanche davanti alla porta, ed egli annunziava loro la parola. [3] Si recarono da lui con un paralitico portato da quattro persone. [4] Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dov'egli si trovava e, fatta un'apertura, calarono il lettuccio su cui giaceva il paralitico. [5] Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: "Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati". [6] Seduti là erano alcuni scribi che pensavano in cuor loro: [7] "Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?". [8] Ma Gesù, avendo subito conosciuto nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: "Perché pensate così nei vostri cuori? [9] Che cosa è più facile: dire al paralitico: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina? [10] Ora, perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, [11] ti ordino - disse al paralitico - alzati, prendi il tuo lettuccio e va' a casa tua". [12] Quegli si alzò, prese il suo lettuccio e se ne andò in presenza di tutti e tutti si meravigliarono e lodavano Dio dicendo: "Non abbiamo mai visto nulla di simile!".

Gesù davanti al Sinedrio (14,53-65)

[53] Allora condussero Gesù dal sommo sacerdote, e là si riunirono tutti i capi dei sacerdoti, gli anziani e gli scribi. [54] Pietro lo aveva seguito da lontano, fin dentro il cortile del sommo sacerdote; e se ne stava seduto tra i servi, scaldandosi al fuoco. [55] Intanto i capi dei sacerdoti e tutto il Sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per metterlo a morte, ma non la trovavano. [56] Molti infatti attestavano il falso contro di lui e così le loro testimonianze non erano concordi. [57] Ma alcuni si alzarono per testimoniare il falso contro di lui, dicendo: [58] "Noi lo abbiamo udito mentre diceva: Io distruggerò questo Tempio fatto da mani d'uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d'uomo". [59] Ma nemmeno su questo punto la loro testimonianza era concorde. [60] Allora il sommo sacerdote, levatosi in mezzo all'assemblea, interrogò Gesù dicendo: "Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?". [61] Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: "Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?". [62] Gesù rispose: "Io lo sono! E vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo". [63] Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: "Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? [64] Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?". Tutti sentenziarono che era reo di morte. [65] Allora alcuni cominciarono a sputargli addosso, a coprirgli il volto, a schiaffeggiarlo e a dirgli: "Indovina". I servi intanto lo percuotevano.

Nella prima pericope il miracolo mistifica la professione di ateismo, in quanto il protagonista è il popolo. Nella seconda è la presunta "figliolanza divina", fatta passare come "autodichiarazione della propria messianicità", che mistifica l'ateismo e insieme la democrazia.

Detto altrimenti: nel primo episodio il redattore permette al Cristo di fare professione di ateismo (giudicare in proprio il bene e il male, senza intermediazione religiosa) solo a condizione che guarisca miracolosamente il paralitico, nel senso che, non potendo completamente censurare quella professione, il redattore ha preferito mistificarla inventandosi il miracolo; in tale maniera, cioè proprio compiendo il miracolo, Gesù passa per persona sovrumana, sicché il suo ateismo storico-naturale viene mistificato dal teismo in senso stretto, ovvero dalla tesi ch'egli fosse "figlio di dio". Egli non è più un ateo che giudica in maniera autonoma ciò che è bene e ciò che è male (questione etica), ma è un dio che fa la stessa cosa in nome di se stesso (questione religiosa) e per dimostrare che ne ha il potere guarisce miracolosamente. Il popolo credente in dio, che pur si scandalizza pensando ch'egli bestemmi, finisce coll'accettarlo a motivo della guarigione miracolosa, e a partire da questa guarigione finisce col credere anche nella sua divinità. Il redattore mistifica le cose, impedendo al lettore di capire che Gesù stava invitando la sua gente a non credere in alcun dio e ad affrontare i propri problemi autonomamente, senza aspettarsi alcun intervento dall'alto.

Nel secondo racconto il Cristo professa il proprio ateismo autoproclamandosi esplicitamente non "figlio dell'uomo" ma "figlio di dio". In tal modo l'ateismo appare solo agli occhi degli ebrei, per i quali nessuno poteva dirsi "figlio di dio", se non in maniera molto traslata e di sicuro non in via esclusiva. I cristiani, invece, possono opporre al teismo degli ebrei il loro proprio teismo, una menzogna contro un'altra menzogna.

Facciamo più attenzione a questo secondo episodio. Il Sinedrio vuole condannare Cristo per il reato di "bestemmia", che equivale a quello di "ateismo". Pietro è testimone dell'episodio e lo racconta falsificandolo. L'accusa che gli rivolgono è quella di aver voluto distruggere il valore religioso del Tempio: è un'accusa tipicamente indirizzata a un atteggiamento ateistico, all'interno di un evidente sfondo politico. Tale accusa si riferisce alla famosa cacciata dei mercanti dal Tempio, che il Cristo operò - come dice Giovanni - all'inizio della propria attività politica.

Gli esegeti cristiani ritengono che quando Gesù parlava di far "risorgere" il Tempio in tre giorni (Gv 2,19) si riferisse al proprio corpo, ma ciò è del tutto fuorviante. La contrapposizione non era tra tempio materiale e tempio spirituale, o tra tempio architettonico e tempio somatico, tra tempio come edificio di culto in cui si pratica la corruzione economico-religiosa delle classi clerico-mercantili e il tempio del corpo di Cristo che dopo tre giorni risorge.

La contrapposizione era tra potere politico-religioso e potere popolare-democratico. L'intenzione di Gesù era appunto quella di voler minare l'autorità delle istituzioni o del potere ufficiale, che nella fattispecie era clericale, in quanto quello strettamente politico veniva esercitato dai Romani o comunque doveva essere condiviso con gli occupanti. Quindi qui il reato di ateismo non ha semplicemente un connotato "etico", come nel racconto del paralitico, ma ne acquista uno marcatamente "politico" (seppure di politica religiosa). Là dove era il popolo credente a scandalizzarsi, qui invece è il potere clericale.

Il senso dell'accusa è molto chiaro e riguarda la posizione ufficiale del Cristo nei confronti dell'autorità sacerdotale costituita, che rappresenta la volontà di dio in terra. È qui che interviene pesantemente la manipolazione interpretativa di Pietro.

I sinedriti chiedono a Gesù se lui sia il "figlio di dio", facendo coincidere questo titolo con quello di "messia": cosa che un ebreo in realtà non avrebbe mai fatto, temendo d'apparire sfrontato se non pazzo. Chiunque può rendersi facilmente conto che non gli chiesero affatto se era "figlio di dio" (la domanda sarebbe stata un non senso), ma, al massimo, se si autoproclamava "messia politico" (cosa che però, in quel frangente, sapevano già).

Questa accusa si trova anche in Giovanni 18,19 ss., ma senza riferimenti mistici.

[19] Allora il sommo sacerdote interrogò Gesù riguardo ai suoi discepoli e alla sua dottrina. [20] Gesù gli rispose: "Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel Tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto. [21] Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto".

Un messia politico-religioso non poteva "autoproclamarsi" né poteva sostenere di rappresentare la volontà popolare o di essere stato mandato o eletto dal popolo. Il messia d'Israele aveva bisogno dell'investitura religiosa da parte del potere costituito: cosa che Cristo ha sempre rifiutato, sia perché non riconosceva il valore politico di un potere che collaborava con quello romano, sia perché rifiutava il nesso di politica e religione. Egli bestemmiava non tanto perché si faceva uguale a "dio" ma, al contrario, perché si poneva come "uomo". Questo "porsi da sé", in sintonia con le istanze popolari, veniva considerato alla stregua di una "bestemmia", politica e religiosa insieme. Gesù appare agli ebrei eretico e sovversivo, in quanto usa il proprio ateismo in maniera destabilizzante.

Ora si legga quanto scritto in Gv 10,33: "Non vogliamo ucciderti per un'opera buona ma perché tu bestemmi. Infatti sei soltanto un uomo e pretendi di essere Dio". Ecco una possibile traduzione letteraria del testo: "Non vogliamo ucciderti per quello che fai ma per la pretesa con cui lo fai, che è quella di fare le cose non in nome di dio ma in nome proprio. Tu sei un ateo, un senzadio, non ti riconosci nelle strutture della nostra società, nelle sue istituzioni politico-religiose".

Risposta del Cristo: "Nella vostra legge c'è scritto questo: Io vi ho detto che siete dèi. La Torah dunque chiama dèi coloro ai quali fu rivolta la parola di dio, e la Torah non può essere annullata" (Gv 10,35).3

Traduzione "politica" della risposta: "Il mio ateismo non è mio, ma, se volete, è previsto dalla nostra stessa legge, che ci paragona agli dèi, in grado di decidere la differenza tra giusto e ingiusto, tra vero e falso. Non abbiamo bisogno che sia il potere politico-religioso a dircelo".

Ogniqualvolta sosteneva il proprio ateismo, rischiava il linciaggio: Gv 10,39 ss.; 7,30.44; 8,20.59; Lc 4,29-30. Non solo, ma quanto più egli afferma il proprio ateismo, tanto più i redattori cristiani mistificano il suo messaggio chiamando il causa un presunto rapporto diretto con dio-padre. Cristo passa per un impostore, agli occhi degli ebrei, perché non può dare una prova di questo rapporto diretto, personale con dio-padre, e gli ebrei vengono condannati dai redattori cristiani proprio per non aver avuto fede in questa esclusiva figliolanza divina.

Tutti i riferimenti metafisici al rapporto diretto con dio-padre, inclusi quelli simbolico-eucaristici al corpo da mangiare e al sangue da bere sono una traduzione mistificata delle sue idee ateistiche e, necessariamente, seppur in maniera indiretta, anche di quelle comunistiche. Cristo predicava l'ateismo perché la gestione politica della religione era, a livello istituzionale, fortemente lesiva degli interessi della nazione: il clero, pur di conservare i propri privilegi, era disposto a patteggiare con l'invasore romano.

La necessità di una liberazione nazionale, dall'oppressione straniera e dal collaborazionismo interno dei sommi sacerdoti, trovava le sue motivazioni di fondo sia nelle idee del comunismo primordiale (antecedente alla nascita delle civiltà schiavistiche, già predicato dal Battista), che in quelle, correlate, dell'ateismo storico-naturale, che avrebbero assicurato a quella liberazione la sua connotazione umana e democratica.

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6) L'ateismo nell'incarnazione del Cristo

I

Il racconto evangelico (poi divenuto dogma) dell'incarnazione del Cristo presenta elementi che non si addicono alle teogonie pagane. Non a caso infatti esiste una progressiva tendenza all'ateizzazione in ambito religioso (il monoteismo ebraico è stato una forma di ateismo nei confronti del politeismo pagano, così come il cristianesimo, con la sua dottrina dell'incarnazione, è stato una forma di ateismo nei confronti dell'ebraismo), e questa linea di tendenza oggi viene sviluppata al di fuori delle stesse religioni.

In nome del cristianesimo si sono considerati i miti pagani come del tutto leggendari, frutto di mere fantasie umane, di varie speculazioni filosofiche prive di ogni fondamento storico. Successivamente, grazie agli studi scientifici, s'è invece capito che dietro quelle leggende si nascondevano conflitti di classe, rivalità etnico-tribali e quant'altro. Attraverso i miti, i ceti dominanti erano riusciti a far passare le loro ideologie, i loro interessi di parte. Nei miti possono essere riflessi gli stili di vita, i valori di determinate categorie sociali, per cui anch'essi possono servire per comprendere un'epoca storica, una civiltà o semplicemente una società.

Tutto può servire per interpretare la storia, anche le cose che apparentemente sembrano le più banali. Fra un millennio gli storici potrebbero interpretarci semplicemente utilizzando i nostri film cinematografici. Lo storico dovrà soltanto fare attenzione a considerarli dei "sogni", all'interno dei quali la verità storica può essere colta solo in maniera molto approssimata e indiretta. D'altra parte nessuna verità storica può mai essere colta per quello che è. Il 99 per cento delle fonti a nostra disposizione è stato elaborato da intellettuali al servizio dei potenti di turno.

Ma non è di questo che si vuol parlare. Abbiamo esordito dicendo che il cristianesimo (che, non dimentichiamolo, era di origine ebraica) aveva condannato a morte la mitologia pagana. Ebbene, oggi sappiamo che in realtà buona parte di quella mitologia, che era vastissima e molto sentita dalle popolazioni delle civiltà schiavistiche (specie quelle di origine rurale), venne assorbita e rielaborata cristianamente (i santi, p. es., sostituirono molti dèi).

Oggi, in nome dell'ateismo, siamo soliti squalificare in partenza tutti i cosiddetti aspetti "sovrannaturali" del cristianesimo. Abbiamo per così dire "laicizzato" la religione, dicendo che essa, se vuole continuare a sussistere, deve stare entro i limiti della ragione. Gli stessi credenti, pur continuando ad aver fede nei dogmi della chiesa, si comportano nella vita sociale secondo i criteri della laicità.

In quei dogmi essi credono non per convinzione, ma appunto perché sono credenti. Se a un credente oggi venisse chiesto di studiarsi tutto il controverso percorso che portò la chiesa nel passato alla loro formulazione, non ne capirebbe il motivo. Oggi il credente è in genere la persona che meno riflette su di sé, poiché, se davvero lo facesse, smetterebbe di credere.

Non resta quindi che alla laicità il compito di reinterpretare i dogmi della chiesa. Dunque partiamo da quello dell'incarnazione, che sicuramente nella teologia cristiana risulta centrale, come testimoniano le lunghe e spesso dolorose controversie cristologiche che trovarono nei primi sette concili ecumenici una loro definitiva sistemazione dottrinale.

A quel tempo qualunque teologo, ortodosso o eretico che fosse, dava per scontata l'esistenza di dio, per cui tutta la diatriba verteva sulla figura di Gesù Cristo. Si discuteva cioè su quale tipo di "divinità" attribuirgli.

Oggi all'ateismo scientifico quei dibattiti pubblici non suscitano alcun interesse, e per almeno due ragioni: si escludono a priori l'esistenza di dio e la divinità del Cristo. Rebus sic stantibus, è impensabile e neppure auspicabile che il laicismo possa dire qualcosa di nuovo su quegli argomenti cristologici o trinitari.

Qui tuttavia si vuole dimostrare che il dogma dell'incarnazione può essere letto non per affermare una qualche "divinità", ma proprio per negarla. La scienza oggi è arrivata alla conclusione che materia ed energia sono elementi costitutivi dell'universo, il quale è infinito nello spazio ed eterno nel tempo.

Si è anche arrivati a dire che la coscienza è un'espressione, di grado superiore, della materia. Abbiamo appreso le leggi della perenne trasformazione delle cose, abbiamo capito che queste leggi riguardano lo stesso essere umano, la cui libertà di coscienza è al vertice della complessità della materia e del suo movimento.

Supponiamo ora che a capo dell'universo vi sia non un'essenza umana ma un'essenza divina, la cui caratteristica umana sia soltanto un attributo. Supponiamo che questa essenza avesse deciso di intervenire direttamente nelle vicende umane, per sbloccare una situazione le cui contraddizioni apparivano irrisolvibili. Tale essenza, dovendo rispettare la libertà di coscienza, si è limitata a fare la sua proposta, lasciando poi liberi gli umani di accettarla o meno. Ed essi, come noto, la rifiutarono, salvo poi pentirsene amaramente.

Ebbene, per quale ragione, in tutto ciò, noi dovremmo pensare che esista davvero un "dio"? Se esistesse davvero un dio, indipendente dalle caratteristiche umane, noi non avremmo avuto una "incarnazione", ma una semplice "apparizione". Dio sarebbe potuto improvvisamente "apparire" in forma umana, chiedendo agli uomini di tornare liberamente a credere in lui (da notare, en passant, che spesso nelle mitologie pagane, quando gli dèi si comportano così, il bene in qualche maniera lo impongono).

Se un'essenza è davvero onnipotente, non ha bisogno, per apparire, del corpo di una donna. Nessun dio ha mai avuto bisogno di "nascere in forma umana", e in ogni caso, nelle passate mitologie, non ha mai avuto bisogno di "rinascere", a meno che la sua rinascita non fosse parte costitutiva della propria simbologia (come Osiride, Attis, Dioniso ecc.): bastava presentarsi in forme che gli umani potessero accettare. Un atteggiamento del genere può essere constatato mille volte nella mitologia pagana.

Nei vangeli invece si parla di "incarnazione", e non nel senso della reincarnazione induista o della periodica rinascita del dio pagano, correlata spesso a eventi di tipo rurale. Se ci pensiamo, non ha alcun senso logico che un dio assoluto, per potersi manifestare, abbia bisogno di sottostare alle regole della procreazione umana. Nel caso del Cristo, se si è dovuto farlo, evidentemente è stato perché in realtà non esisteva una qualità "divina" superiore a quella "umana".

Se dunque vogliamo ammettere che l'incarnazione del Cristo sia stata un fenomeno reale, dobbiamo anche ammettere che non esiste un'essenza divina separata da quella umana e che la natura divina del Cristo non può andare oltre le leggi "umane" che la caratterizzano. Cristo cioè non sarebbe che il modello della nostra divino-umanità.

Come abbia potuto incarnarsi senza sottostare alle regole dell'umana riproduzione, noi non lo sappiamo, anche se possiamo immaginare che esista tra materia ed energia un rapporto di reciprocità, per cui nell'universo è possibile passare indistintamente dall'una all'altra. Quel che di sicuro sappiamo è che l'incarnazione andrebbe riletta in chiave ateistica, proprio per elevare l'essenza umana a quella divina.

A riprova di quanto detto è sufficiente pensare a cosa sarebbe successo se gli uomini avessero aderito alla proposta del Cristo di tornare al comunismo primordiale. Il Cristo sarebbe morto di vecchiaia e se davvero fosse stato quell'extraterrestre che pensiamo, avrebbe dovuto scomparire misteriosamente dalla tomba, ritrasformandosi in energia. Gli uomini non si sarebbero inventati alcuna leggenda su di lui, non lo avrebbero associato ad alcuna divinità, poiché per tutta la sua esistenza egli stesso aveva detto che non esiste alcun dio diverso dall'uomo. Sicché essi avrebbero finalmente capito che il loro destino era quello di continuare a vivere nell'universo eterno ed infinito, secondo i criteri di libertà e di uguaglianza che sin dalle origini avevano appreso e che per colpa di un uso sbagliato della libertà avevano dimenticato.

II

L'incarnazione del Cristo (se proprio si vuole usare questo termine di origine ecclesiale) è difficile da spiegare in termini laici, non foss'altro che per una ragione: i suoi discepoli han cominciato a intuirla solo dopo la constatazione della scomparsa misteriosa del suo corpo dalla tomba. Prima di quell'evento solo la madre di Gesù poteva aver sospettato qualcosa, ma senza avere alcuna cognizione di causa.4

Tutto quanto i discepoli e i teologi post-pasquali han detto sul tema dell'incarnazione è falso, in quanto han messo in relazione Gesù con un'entità astratta, mai vista da nessuno, che han chiamato col nome di "Dio-padre". Si sono inventati delle relazioni infratrinitarie a imitazione di quelle familiari dell'essere umano, senza considerare che quando Gesù diceva d'essere "dio", non escludeva che lo fossero anche tutti gli uomini. L'esclusività della divinità appartiene al genere umano, non a lui solo.

Quando parliamo di "Cristo ateo", noi diamo per scontato che non esiste alcun "Dio-padre" da cui il Cristo dipenda, anzi non esiste alcun dio che non sia umano. Il fatto che Gesù, nel corso della sua esistenza, si sia comportato, in tutto e per tutto, come un essere umano, deve farci capire che l'essenza umana è primordiale ad ogni cosa.

Gli apostoli han pensato che in lui vi fosse qualcosa di più dell'essenza umana quando hanno visto la tomba vuota, ma non avevano modo di dimostrarlo, se non attraverso la Sindone, la quale però non "dimostra" nulla: essa è soltanto in grado di "mostrare" qualcosa di strano.

Questo perché l'uomo non è più in grado di percepire la propria natura divina (che è immortale per definizione), vivendo un'esistenza semplicemente terrena. Ci manca qualcosa che ci dia una certezza; o meglio, tale certezza, a tutt'oggi, può esserci data, purtroppo, solo dalla morte personale.

Ciò probabilmente è dovuto al fatto che viviamo l'esistenza su questa Terra come se fosse del tutto separata dalle condizioni più generali dell'universo. Cerchiamo di conquistare lo spazio cosmico attraverso la scienza e la tecnica, quando in realtà dovremmo conquistarlo con la coscienza, cioè con la consapevolezza che tra noi e la materia non vi sono differenze sostanziali. Noi siamo l'autoconsapevolezza della materia, pur restando sottoposti alle sue stesse leggi, in quanto la materia è eterna come noi.

Ecco, in tal senso dovremmo dire che l'incarnazione doveva servire per farci comprendere questa identità di uomo e natura, di coscienza e materia, che l'essere umano ha vissuto per milioni di anni prima che nascesse lo schiavismo.

Il "Cristo ateo" dovremmo considerarlo come il nostro prototipo: lui e la parte femminile che lo accompagna, poiché la dualità, nella relazione umana, è all'origine di tutto, come in natura lo è la coincidenza degli opposti che si attraggono e si respingono.

Per quale motivo è necessario negare l'esistenza di un dio che non sia umano? Semplicemente perché un dio del genere, che si presume essere onnipotente, onnisciente, onniveggente, ecc., violerebbe, ipso facto, la libertà di coscienza dell'essere umano, che è il valore più grande che possiede, l'unico che gli permette d'essere se stesso, senza coercizioni di sorta.

Il fatto stesso che l'uomo sia dotato di coscienza implica che nessuno sia in grado di leggergliela. Nessuno è in grado di prevedere cosa la coscienza umana è disposta concretamente fare. Di fronte ad essa si possono fare soltanto delle congetture astratte; al massimo si possono prevedere delle conseguenze se le azioni che si compiono non sono compatibili con le leggi universali.

L'incarnazione doveva servire per far recuperare all'uomo un'identità che stava progressivamente perdendo. Il fatto che tale proposta sia stata rifiutata, non significa nulla. L'uomo non può rinunciare ad essere se stesso. È nella sua natura cercare di esserlo. Diciamo che il rifiuto della proposta ha comportato soltanto una perdita di tempo e il patimento di sofferenze che avrebbero potuto essere evitate.

Nessun valore umano può essere imposto con la forza, poiché ciò lo negherebbe nella sua essenza. I valori possono solo essere proposti, mostrati democraticamente sulla base di un'esperienza concreta.

La grandezza del Cristo sta appunto in questo, ch'egli non si è opposto al rifiuto degli uomini di accettare la sua proposta, la quale prevedeva la liberazione nazionale di un popolo oppresso da una potenza straniera, appoggiata da collaborazionisti interni allo stesso posto. Il fatto che questa liberazione non sia riuscita, non sta a indicare che la strategia eversiva del Cristo fosse sbagliata, ma semplicemente ch'essa prevedeva una partecipazione popolare, che, in quel frangente, s'è rivelata insufficiente per realizzarla, benché vi fossero tutti i presupposti concreti per riuscirvi.

Tuttavia, che ogni popolo necessiti di una propria "liberazione nazionale" dalle contraddizioni che gli impediscono d'essere se stesso, resta assolutamente pacifico. Non ha alcun senso pensare che, siccome gli uomini han rifiutato la proposta del Cristo, han perso definitivamente la possibilità di diventare liberi, come in genere pensano i credenti. La sua era soltanto "una" proposta, non l'unica possibile. Man mano che nella storia sono mutate le forme degli antagonismi sociali, altre proposte sono state fatte (e altre ancora dovranno esserlo), sempre contestuali allo spazio e al tempo di quegli antagonismi da superare.

La storia è diventata il teatro di scontri epocali tra forze opposte, quelle che vogliono la libertà per tutti e quelle che la vogliono solo per pochi. È evidente, visto il livello di distruzione delle armi attualmente in nostro possesso, che gli scontri bellici saranno sempre più catastrofici e dalle conseguenze sempre più irreversibili e su scala planetaria. Il timore di questa eventualità non può certo impedirci dal desiderare una piena liberazione su questa Terra. Semmai sono i credenti che devono smetterla di affidarsi alla misericordia o alla grazia o comunque alla volontà divina per risolvere i problemi dell'umanità.

Una domanda a cui bisognerebbe trovare una risposta è la seguente: perché l'incarnazione di Gesù è avvenuta proprio all'interno del popolo ebraico? La risposta è molto semplice: perché di tutti i popoli della storia è stato quello che ha lottato di più per riportare l'uomo schiavizzato alla sua condizione originaria, quella del comunismo primitivo.

Che poi sia stato proprio questo popolo a rifiutare la proposta di Gesù, ciò rientra nelle possibilità della libertà umana di scelta. Di sicuro non esiste alcun misterioso disegno salvifico di Dio. Ritenere che il popolo ebraico "doveva" rifiutare la proposta di liberazione affinché questa potesse essere rivolta preferibilmente alle popolazioni pagane, facendo così capire agli ebrei di fronte a Dio avevano perso qualunque "primato storico", significa fare dell'antisemitismo. Di fatto tutte le popolazioni della Terra sono tenute a essere se stesse, in maniera conforme alle leggi umane e naturali, ciascuna nelle condizioni ambientali in cui materialmente vive.

Qualunque riferimento a Dio, fosse anche il più ingenuo o spontaneo, nega la libertà umana, per cui solo l'ateismo è la pre-condizione per diventare liberi e l'obiettivo di questa libertà è l'edificazione del socialismo democratico, recuperando l'essenza del comunismo primitivo.

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7) Ateismo e mistificazione nel IV vangelo

Quando, nel IV vangelo, il redattore scrive: "Nessuno ha mai visto Dio" (Gv 1,18), viene sconfessato il rapporto diretto tra i progenitori Adamo ed Eva e il Dio che camminava tranquillamente con loro nell'Eden, tra Abramo e il Dio che gli chiedeva, personalmente, di sacrificare il figlio Isacco, e tra Mosè e il Dio che, brevi manu, gli consegnava sul Sinai le tavole della legge.

Quindi in pratica è come se l'evangelista avesse negato qualunque valore alla teologia ebraica, probabilmente a motivo del fatto che poco prima aveva scritto che gli ebrei, "popolo eletto" per definizione, avevano giustiziato Gesù Cristo, il messia liberatore: cosa che non avrebbero fatto se davvero l'avessero accettato per la sua divino-umanità.

"Nessuno ha mai visto Dio" è tuttavia un'affermazione così categorica che qui non sembra essere stata formulata in stretta dipendenza da una constatazione storica, quella appunto per cui il popolo prediletto aveva ucciso il figlio unigenito della divinità. Anche perché, se davvero una dipendenza del genere vi fosse stata, si sarebbe dovuto concludere che l'unico dio è il Cristo, il quale diceva d'essere un "figlio d'uomo", sicché ogni uomo lo è.

Non è da escludere che quella definizione avesse la pretesa di porsi in maniera filosofico-universale, cioè come se si volesse escludere a priori anche la più remota possibilità che un uomo, su questa terra, possa fare esperienza diretta della divinità. Pertanto chi, fino alla crocifissione, aveva sostenuto il contrario, andava considerato un mentitore.

Questa è senza dubbio una posizione ateistica, in quanto tende a negare validità non solo a qualunque racconto religioso del passato, in cui in maniera allegorica o simbolica o metaforica si delineava la possibilità di un'esperienza diretta della divinità, ma anche a qualunque dimostrazione logica o ontologica, presente e futura, relativa all'esistenza di un dio assoluto.

Vengono quindi respinte tutte le metafisiche greche (platoniche e aristoteliche), ma anche, senza ovviamente volerlo, tutte le metafisiche cristiane (della Patristica e soprattutto della Scolastica) che, per reagire alla crisi dell'esperienza della fede, s'inventeranno svariate prove ontologiche, le quali, per la loro tautologia, non dimostrano se non i dubbi e le illusioni di chi le aveva formulate.

L'autore del IV vangelo apparirebbe tassativo anche se lo si leggesse in chiave religiosa stricto sensu: solo il "figlio" ha fatto conoscere all'uomo il "padre" ("suo padre" e "padre di tutti"). Quindi la conoscenza della divinità può essere soltanto un vero e proprio atto di fede: per credere nel padre bisogna credere nel figlio.

In quel vangelo la stessa cosa verrà più volte ribadita, soprattutto al cap. 14, laddove un Tommaso smarrito chiede al Gesù in procinto di morire: "Non sappiamo dove vai; come possiamo sapere la via?" (v. 5). Gli mettono in bocca queste parole perché, evidentemente, Tommaso non aveva accettato l'interpretazione mistica della tomba vuota, che Pietro aveva elaborato.

Al discepolo, notoriamente famoso per il suo scetticismo, un Gesù clericalizzato al massimo risponde: "Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me" (14,6). Quindi qualunque frettolosa anticipazione della realizzazione in terra del regno dei cieli, va esclusa a priori. Se e quando ciò accadrà, non potranno certo deciderlo gli uomini.

E qui il redattore fa intervenire un altro discepolo che, molto probabilmente, aveva mostrato le stesse perplessità di Tommaso sul misticismo politicamente rassegnato di Pietro. "Mostraci il Padre e ci basta" (14,8), pretende Filippo, come se avesse voluto dire: "Se non possiamo sapere quando verrà la liberazione terrena, almeno dacci un anticipo, facendoci vedere personalmente la fonte ultima di questa liberazione, visto che tu non hai potuto darcela su questa terra, avendocela promessa solo nei cieli".

Ma Gesù gli risponde serafico: "Chi ha visto me, ha visto il Padre" (14,9). Il che in pratica voleva dire: "La liberazione sulla terra non è possibile e dio non lo potete vedere se non attraverso di me. In attesa che si compia il giudizio, continuate ad aver fede. Chiederò anzi al Padre di mandarvi lo Spirito di verità a titolo di consolazione. Dovete solo avere pazienza e tutto si sistemerà alla fine dei tempi. Non vi lascerò orfani".

I redattori di questo vangelo, sicuramente di origine ebraica, avevano capito che qualunque rappresentazione di dio o dimostrazione della sua esistenza non lo rende più grande dell'uomo che lo pensa. La loro posizione aveva indubbiamente fatto dei passi avanti in direzione dell'ateismo, rispetto alle precedenti religioni pagane ed ebraica.

Tuttavia dietro questa radicalizzazione dell'idea religiosa si è potuto mistificare un tradimento di tipo politico del messaggio originario del Cristo. Cioè proprio nel momento in cui si arrivava dire che non si può avere alcuna percezione della divinità se non avendo fede in un uomo e quindi nei seguaci, a lui contemporanei, che gli avevano creduto, si rinunciava definitivamente a credere nella possibilità di una giustizia terrena, facendo di quell'uomo un'entità divino-umana che invitava gli uomini a sperare in una vera liberazione solo nel regno dei cieli.

*

Secondo l'esegesi confessionale quando Cristo nel IV vangelo si paragona espressamente a dio, lo fa per affermare una realtà esterna a sé, diversa (nella facoltà del generare) da sé, da cui egli dipende, come un figlio dal padre. In realtà egli voleva semplicemente dichiarare che l'uomo stesso è dio, cioè l'uomo in generale e non soltanto lui in particolare. Argomentiamo ora questa tesi.

Nel vangelo di Marco, il primo ad essere stato scritto, il rapporto tra Gesù e il concetto di "dio" o non viene preso in considerazione, in quanto Gesù si presenta come un semplice "figlio dell'uomo" o come "Gesù Nazareno", oppure viene espresso in forma mistica, per sottolineare che Gesù, per quello che diceva e faceva e soprattutto per come era morto, era l'unigenito figlio di dio (in tal caso anche l'appellativo "figlio dell'uomo" viene stravolto nel suo significato originario). Quindi in questo vangelo una certa teologia, abbastanza primitiva, si sovrappone a un ateismo spontaneo e naturalistico professato dal Cristo.

Nel IV vangelo invece l'ateismo appare con un carattere cosmico-metafisico, nel senso che il Cristo sembra avere una consapevolezza molto forte non solo dell'inesistenza di un qualunque dio diverso dall'uomo, ma anche che l'uomo, nell'universo, rappresenta un qualcosa di speciale, paragonabile a una divinità.

Cioè là dove, nel vangelo attribuito a Giovanni, si parla di dio o di dio-padre, non andrebbe vista un'entità separata dal Cristo, ma piuttosto una sua intrinseca qualità, un attributo dello stesso Cristo, il quale è "figlio" nel senso che appartiene a una caratteristica universale, quella appunto della "paternità cosmica" o, se si preferisce, della "pro-creazione naturale della materia energetica". In quanto "figlio", Cristo, come ogni essere umano, mostra di avere in sé la qualità del generare e, insieme, dell'essere generato, dall'eterno, ovvero del creare, dell'essere creato e del ricreare, del produrre, dell'essere prodotto e del riprodurre, che è parte integrante della materia in movimento e dell'energia perenne, priva di confini spazio-temporali. Essendo di genere maschile, lui si sentiva figlio di una caratteristica "paterna", ma è evidente che questo ragionamento poteva valere anche per una donna, figlia di una caratteristica "materna", che, non a caso, nel IV vangelo viene chiamata "paraclito", cioè "pneuma", l'originale e femminile "ruah" ebraico, il "soffio vitale".

Sicché quando si dichiara "dio" o "figlio di dio", egli vuol semplicemente dire che non c'è nessun dio che gli sia estraneo o separato e che questo va naturalmente considerato vero per ogni essere umano, alla cui specie egli appartiene completamente. Insomma il Cristo dà l'impressione di sapere con esattezza che cosa di essenziale vi sia nell'universo. Una qualunque separazione dei concetti di "dio" e di "Cristo" comporta una mistificazione del concetto di "ateismo", che qui dovrebbe essere usato proprio per indicare che nel Cristo i due concetti venivano tenuti uniti dal punto di vista dell'uomo.

Gesù professava in un certo senso l'ateismo proprio in quanto subordinava il concetto di dio a quello di uomo, intendendo la divinità come connaturata all'umanità, una umanità non solo sua, ma di qualunque essere umano. Gli ebrei ortodossi lo volevano lapidare proprio per questa ragione, perché negava che esistesse un'entità perfetta separata dall'uomo, ovvero perché attribuiva a un'entità imperfetta, quale appunto l'uomo, una caratteristica che non gli poteva appartenere a causa delle sue colpe, risalenti al peccato originale.

Quando gli dicevano: "ti lapidiamo perché ti fai come Dio" (Gv 10,33), ciò che non volevano e non potevano accettare era proprio l'idea che ogni uomo potesse considerarsi paragonabile alla divinità, unica e irripetibile per definizione. Ovverosia non lo volevano anzitutto lapidare perché voleva farsi dio in via esclusiva, negando questa possibilità agli altri esseri umani, ma proprio perché egli pretendeva che ogni uomo si considerasse alla stregua di dio, assumendosi quindi la responsabilità di negare l'esistenza a una entità totalmente diversa da quella umana, perfetta di natura e mai soggetta a corruzione.

È stata l'interpretazione della chiesa cristiana che ha mistificato le cose, facendo credere che Gesù intendesse riferirsi a una propria esclusiva priorità extra-umana, e che gli ebrei lo volessero morto proprio per questo, cioè perché non volevano accettare che lui dicesse di essere l'unico figlio di dio: cosa che se veramente avesse detto, avrebbe in realtà, se non legittimato, certamente resa comprensibile la forte disapprovazione nei suoi confronti, in quanto un uomo che si considera dio in via esclusiva, può anche esser folle, e se pretende di avere dei seguaci, può essere anche pericoloso.

Gli evangelisti hanno poi calcato la mano, facendo vedere che i Giudei rifiutavano di credere ch'egli fosse un dio nonostante avessero visto i suoi enormi prodigi (le guarigioni miracolose, ecc.). Non a caso fanno dire al Cristo: "Accettatemi almeno per le opere che faccio" (Gv 10,38), se non proprio per l'autodichiarazione di figliolanza divina, che pur mi sento legittimato a fare, come dovreste esserlo voi. Ma quelli, fatti passare dagli evangelisti come accecati dal loro orgoglio, non potevano fare distinzioni del genere, che sarebbero parse quanto meno sofistiche.

Che però la teologia cristiana non possa mistificare le cose in maniera assoluta, è dimostrato anche dal Prologo del IV vangelo, laddove si scrive che "Nessuno ha mai visto Dio; l'unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l'ha fatto conoscere" (v. 18). Qui è evidente che si vuol fare di dio una realtà separata dal Cristo, ma se questo versetto venisse portato alle sue estreme e più logiche conseguenze, difficilmente si potrebbe contestare chi ritenesse che, in definitiva, dio e Cristo sono la stessa persona; sicché la diversità fondamentale tra Cristo e gli uomini starebbe non tanto in questa natura ontologica, quanto piuttosto nella consapevolezza di una identità esistenziale, avente valore universale: lui sapeva di essere "dio"; invece noi, di noi stessi, ancora non lo sappiamo, anche se ora sappiamo che se lui ha avuto questa pretesa, nulla può impedire a noi di fare lo stesso. Infatti - dice ancora l'autore del Prologo - "a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio" (v. 12), cioè di essere come lui, consapevoli che l'unico dio è l'uomo.

Quelli che hanno la sua stessa consapevolezza riescono a superare quell'ateismo volgare di chi dice d'essere nato dal "sangue", dalla "carne", dalla "volontà umana" (v. 13), approdando finalmente a quell'ateismo scientifico di chi, essendo "nato da dio", è consapevole della propria vera origine. Non c'è colpa che possa sminuire questa divinoumanità intrinseca a ogni essere umano.

L'autore di questo Prologo non se l'è sentita, pur essendo cristiano, di fare del Cristo un'entità ontologica diversa o separata dall'uomo, più simile a dio che all'uomo; anzi, è stato costretto ad ammettere che all'uomo, per diventare dio, è sufficiente credere in colui che ha avuto il coraggio d'esserlo sino in fondo, dimostrandolo nei fatti (la grazia) e nelle parole (la verità) (v. 17). Non c'è colpa che non possa essere perdonata, proprio perché non esiste una divinità separata dall'umanità.

Il massimo che si può concedere all'esegesi cristiana è quello di considerare il Cristo come una sorta di "prototipo dell'umanità", specie là dove viene detto, nel Prologo, che "per suo mezzo fu fatto il mondo che viviamo" (v. 10). Ma in tal caso il Cristo non sarebbe stato altro che un messaggero extra-terrestre, venuto sulla terra a ricordare agli uomini, umani come lui, che hanno un'origine divina come la sua e che solo per causa loro se la sono dimenticata: l'unica vera condanna quindi può essere solo un'autocondanna. Quindi nessun dio esterno a noi ci attende nel cosiddetto "aldilà", ma solo una diversa esperienza umana e naturale, proprio perché - e qui Cristo lo dice esplicitamente, sfuggendo per miracolo alle manipolazioni dei redattori -: "È scritto nella vostra legge: Io ho detto: voi siete dèi" (Gv 10,34).

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8) Le due insurrezioni del Cristo (fonti)

I

Mettendo a confronto i Sinottici col IV vangelo appare sufficientemente chiaro il motivo per cui i Sinottici abbiano collocato la cosiddetta "purificazione del Tempio" non all'inizio ma alla fine della carriera politica del Cristo.

Anzi le motivazioni dovettero essere più di una, poiché, se fosse stata una sola, non ci si sarebbe arrischiati a compiere una mistificazione di tale portata su un avvenimento così significativo. E, in ogni caso, il fatto di aver potuto collocare la pericope in un contesto così errato, sta ad indicare con certezza che al momento della stesura del vangelo di Marco (il primo dei Sinottici) i discepoli della prima ora, provenienti dalla Giudea, o erano scomparsi o non erano in grado di smentire la versione dei fatti.

Quella, stando al vangelo di Giovanni (che non era nato mistificato ma che lo divenne in seguito alle mille manipolazioni), fu la prima insurrezione del Cristo ateo e politico, quando ancora risiedeva in Giudea. E, anche se tutti i vangeli dicono il contrario, egli non poté certo cacciare da solo i mercanti dal Tempio, altrimenti le guardie giudaiche l'avrebbero immediatamente arrestato e probabilmente giustiziato seduta stante. Di sicuro egli aveva con sé una parte significativa del movimento essenico, poiché proprio a partire da quell'evento Cristo tronca i rapporti col Battista, il quale, pur essendo uscito dall'autoisolamento essenico del deserto, non aveva saputo andare oltre una predicazione riformista di tipo etico-religioso, il cui aspetto più significativo era il simbolo purificatorio del battesimo nel Giordano, ch'egli usava come forma di riconciliazione tra i potenti e gli umili del mondo ebraico, in quanto tutti, per dimostrare la loro buona volontà, avrebbero dovuto sottoporvisi (cosa che le autorità si guardarono bene dal fare).

Il Precursore non riuscì a trasformare il suo simbolo etico in una iniziativa politica e i suoi discepoli migliori lo lasciarono per seguire Gesù; tra questi vi era Giovanni Zebedeo, che nel suo vangelo dà una versione molto diversa dei fatti, contraddicendo quella enucleata da Marco e ripetuta da Luca e Matteo: cosa che, per questa ragione, dovette suscitare molta preoccupazione nelle comunità cristiane costruite da Pietro e da Paolo, i cui discepoli-redattori ebbero bisogno di manipolare sapientemente il IV vangelo. Infatti, se i Sinottici sono nati contro i Giudei, il vangelo di Giovanni lo divenne solo dopo ampie interpolazioni.

Insieme ai battisti probabilmente vi furono, al momento della prima insurrezione, anche dei farisei progressisti, una minoranza poco significativa del loro movimento, rappresentata ufficiosamente da Nicodemo, che chiese di parlare privatamente col Cristo. Tra questi farisei probabilmente va annoverato lo stesso Giuda Iscariota, che non proveniva dall'ambiente essenico o battista (semmai, stando ad alcuni esegeti, che hanno disquisito sul suo appellativo, Iscariota, dall'area estremista dello zelotismo).

E poi non potevano mancare delle frange zelote, cui è noto appartenesse almeno un discepolo del Cristo (Simone il Cananeo), e forse lo stesso Simon Pietro, che non aderì mai al movimento battista, sia perché questo era "giudaico", sia perché egli era abituato a guardare le cose in maniera prevalentemente politica e militare. D'altra parte lo stesso Gesù - stando a Gv 4,2 - non fu "discepolo" del Battista, in quanto non battezzò mai nessuno.

E non è da escludere che tra gli elementi della prima insurrezione vi fosse anche una parte del gruppo politico capeggiato da Lazzaro (o Eleazaro), in quanto risulta molto strano - come si evince sempre dal IV vangelo - che lui e Gesù si conoscessero benissimo (cosa del tutto ignorata dai Sinottici) e che Gesù decidesse di compiere la seconda insurrezione (quella fatale dell'ultima Pasqua) solo dopo la morte di Lazzaro, che evidentemente era tenuto in grande considerazione presso i Giudei progressisti. Non è sfuggito a nessun esegeta il fatto che quando Gesù, nascosto in Transgiordania perché ricercato dalla polizia, prese la decisione non solo di andare a trovare i parenti di Lazzaro morto, ma anche di compiere la seconda insurrezione - questa volta contro la guarnigione romana -, egli era già in grado di avvalersi di un'ampia rete di collaboratori dentro la Giudea.

Il suo ingresso a Gerusalemme, che la chiesa cristiana ha ribattezzato col nome di "Domenica delle Palme", non avviene in maniera clandestina ma pubblicamente, il che sarebbe stato impossibile senza l'appoggio di una considerevole folla. Di notte ovviamente restava nascosto, ma a tutti appariva chiaro che quell'ingresso trionfale aveva come obiettivo l'insurrezione armata. Il momento della Pasqua era il più indicato. Anche i Romani lo sapevano e sicuramente erano convinti che non ce l'avrebbero fatta a resistere di fronte a una città che, nel corso della sua festa più importante, avesse deciso di insorgere.

Durante l'ingresso messianico, che nel suo clamoroso successo apparve del tutto inaspettato al potere giudaico, quest'ultimo esclamò che tutto il mondo gli era andato dietro (Gv 12,19). All'insurrezione anti-romana volevano partecipare persino alcuni elementi del mondo ellenistico (Gv 12,21).

II

Gesù Cristo aveva vissuto trent'anni in Giudea e quando decise di compiere l'insurrezione contro il Tempio (che i vangeli han voluto chiamare eufemisticamente "purificazione"), nessuno ebbe il coraggio d'intervenire per fermarlo. Questo perché aveva saputo cogliere il momento giusto per mostrare che il potere politico-religioso dei sommi sacerdoti, dei sadducei, degli anziani e degli scribi era profondamente corrotto (anche perché colluso con Roma) e andava definitivamente abbattuto.

L'insurrezione fallì perché non si riuscì ad andare sino in fondo, non ci fu sufficiente consenso non per farla ma per gestirla. I leader politici (farisei, battisti, zeloti...) erano ancora troppo immaturi, troppo indietro rispetto alle esigenze delle masse, poco avvezzi ad amministrare la politica in maniera laica e democratica, escludendone la retriva classe sacerdotale.

Insieme ad alcuni discepoli, Gesù fu costretto ad espatriare, a rifugiarsi in Galilea, al seguito di Pietro e Andrea, dopo aver cercato il consenso dei Samaritani. Non meno di quest'ultimi, i Galilei lo accolsero molto favorevolmente, proprio perché avevano visto in lui un coraggio da rivoluzionario e soprattutto, per la prima volta, avevano visto che un politico di provenienza giudaica non poneva alcuna pregiudiziale di tipo etnico o di pratica religiosa per organizzare l'insurrezione nazionale. In nome della libertà di coscienza ognuno avrebbe potuto pregare il suo dio dove e come voleva: questo messaggio i Samaritani l'accolsero con molto entusiasmo.

I dissensi etnici (o di provenienza geografica) erano sempre stati forti in Israele, anche nei confronti del Cristo. Giovanni lo dice a più riprese: "Il Cristo viene forse dalla Galilea? Non dice forse la Scrittura che il Cristo verrà dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide?" (7,40 ss.). A Nicodemo i farisei risposero: "Sei forse anche tu della Galilea? Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea" (Gv 7,52). Non a caso il vangelo di Marco termina con delle parole che indicavano bene i contrasti tra Galilei e Giudei: "Dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea" (16,7).

Dunque i Sinottici non potevano mettere il racconto della prima insurrezione secondo la giusta temporizzazione giovannea: sarebbe stato come fare una concessione alla superiorità politica dei Giudei. Nel IV vangelo risulta chiarissimo invece che quella epurazione, avvenuta sempre durante una festività pasquale, era stata organizzata in ambito giudaico, usando soprattutto la forza di una parte del movimento battista, anche se, proprio a partire dal suo fallimento, iniziò la collaborazione del Cristo coi Samaritani e soprattutto coi Galilei, i quali avevano capito non solo ch'egli era dotato di capacità tattica e organizzativa, ma anche di apertura mentale.

I Sinottici sono vangeli non solo filo-romani ma anche antigiudaici, essendo di derivazione galilaico-ellenistica. Non avrebbero potuto ammettere che il Cristo era già stato un grande leader giudaico prima di metter piede in Galilea, da esiliato. Nei Sinottici Gesù inizia proprio in Galilea la sua predicazione politica, fatta poi passare per etico-religiosa, e la inizia dopo che il Battista fu arrestato. Marco presenta il Precursore come il meglio che i Giudei avessero dato, sicché dopo il suo arresto il meglio avrebbero potuto darlo solo i Galilei col Cristo.

I Sinottici possono utilizzare il Battista come anticipatore del Cristo proprio perché questi è stato del tutto spoliticizzato. Anzi nel vangelo di Marco i primi quindici versetti sono tutti favorevoli al Battista, mentre nel IV vangelo i versetti a lui favorevoli sono interpolati, in quanto l'evangelista Giovanni fa capire benissimo che sul piano politico non ci poteva essere una vera intesa tra il Cristo e il Battista.

Risulta quindi evidente che non solo durante la prima insurrezione, ma anche dopo la morte del Cristo, una parte del movimento battista confluì in quello cristiano, ma mentre nel primo caso i motivi furono politici, nel secondo furono religiosi. Nel primo caso si trattò di legittimare l'esigenza di un'insurrezione armata, nel secondo si trattò di negarla. Infatti il compromesso voluto da Pietro e Paolo (o comunque dai loro discepoli) fu molto chiaro: i cristiani accettavano il valore rituale del battesimo (prendendo dagli esseni anche il rito dell'eucaristia) e lo mettevano nelle loro pratiche religiose, a condizione che i battisti accettassero la superiorità teologica di Gesù rispetto a Giovanni (poi insieme le due comunità hanno elaborato un falso secondo cui Giovanni battezzò il Cristo, riconoscendogli per primo la sua natura divina), come risulta evidente nell'ultima versione del vangelo di Marco.5

Ecco perché nei Sinottici l'episodio della cacciata dei mercanti appare come un semplice gesto simbolico, evocativo della purezza ancestrale che un tempo aveva avuto il principale luogo del culto divino d'Israele. Non vuole essere un gesto politico volto a destabilizzare il potere sacerdotale. Le guardie del Tempio non intervengono proprio perché quel gesto appariva loro politicamente irrilevante, essendo più che altro dimostrativo, per di più fatto da un individuo isolato, non supportato da alcuna strategia eversiva.

Nel IV vangelo invece si ha l'impressione che esse non siano intervenute perché assolutamente prese alla sprovvista da un gruppo consistente di persone armate, che avrebbe potuto impedire loro qualunque reazione. Solo che mentre nei Sinottici il gesto è simbolico anche nel senso che vuole profetizzare la fine irreversibile del Tempio e del primato d'Israele, nel IV vangelo invece l'insurrezione doveva servire per realizzare un Israele libero, indipendente e soprattutto più democratico. Ma spieghiamo meglio questo punto.

Nel corso della prima insurrezione Gesù in sostanza era intenzionato a far capire che in presenza di una gestione politica della fede religiosa, un qualunque gesto eversivo compiuto contro il potere dei sommi sacerdoti doveva essere interpretato non solo come un rifiuto del collaborazionismo con Roma, ma anche come un rifiuto dell'uso strumentale della religione, cioè un rifiuto del nesso organico di Chiesa e Stato (sia che questo Stato fosse giudaico o romano o filo-romano).

Il Cristo politico qui si poneva non solo in maniera rivoluzionaria (come altri messia del tempo), ma anche in maniera chiaramente laica, e anzi deve essere stato proprio in forza di questa radicale laicità che i battisti, i farisei progressisti e altri ancora si sono rifiutati di seguirlo o di appoggiarlo sino in fondo. Insorgere contro la classe dirigente poteva andar bene, ma insorgere contro le istituzioni ch'esse amministravano era un'altra cosa. Si rischiava di perdere il consenso delle masse religiose. Il Tempio doveva restare un luogo di culto privilegiato (così come le sinagoghe sparse per tutta Israele), il simbolo dell'identità nazionale e della resistenza anti-romana.

Poste queste premesse, al Cristo dovette apparire quanto meno avventata l'idea di affrontare vittoriosamente l'inevitabile ritorsione della guarnigione romana, che non avrebbe potuto abbandonare a se stesso il governo clericale collaborazionista. Di qui la decisione di espatriare.

La Giudea non avrebbe mai potuto vincere finché non avesse rinunciato a sentirsi la migliore regione d'Israele, la più combattiva dell'intero impero romano. Ecco perché se la prima insurrezione di Cristo venne compiuta per insegnare che i Giudei non avrebbero mai potuto liberarsi dell'imperialismo di Roma senza prima liberarsi dei sommi sacerdoti al potere, nominati dagli stessi procuratori romani; la seconda insurrezione invece doveva far capire che senza il concorso di tutte le forze sane della Palestina non ci si sarebbe liberati né dei nemici interni né di quelli esterni.

Quando nel corso della preliminare udienza a carico di Gesù, si cercarono accuse contro di lui, una di queste riguardava proprio il fatto ch'egli aveva dichiarato che in tre giorni avrebbe ricostruito un Tempio distrutto dalla corruzione. Ma quel racconto sinottico del processo giudaico è stato inventato a bella posta per far vedere (usando i "tre giorni" in un significato mistico, relativo alla resurrezione) che i principali responsabili della morte di Gesù furono i sommi sacerdoti e i sadducei, incapaci di vedere nel Cristo il lato "divino".

Viceversa, nel racconto giovanneo della samaritana al pozzo di Giacobbe appare chiaro che già dopo la prima insurrezione fallita, il Tempio non aveva più alcun valore etico, essendo il luogo principale della corruzione politica ed economica, e che non per questo si doveva disperare sulla salvezza politica di Israele. Alla samaritana Gesù fa capire che se gli israeliti (Giudei, Samaritani o Galilei) vogliono restare credenti, possono esserlo liberamente dove e come vogliono, in quanto tutte le espressioni umane della fede sono legittime, se non interferiscono con le esigenze politiche della liberazione nazionale dai nemici interni ed esterni.

Insomma come il Tempio di Gerusalemme non rendeva i Giudei migliori dei Samaritani, così il monte Garizim non poteva rendere quest'ultimi migliori dei Giudei. A un Cristo ateo non poteva interessare dove i credenti pregassero il loro dio, cioè a quale luogo geografico convenisse concedere un certo primato religioso; semmai il problema era quello di come costruire una società democratica, in grado di porre fine al governo aristocratico e integralista dei sommi sacerdoti, dei sadducei e degli anziani, e in grado di resistere alla controffensiva degli imperatori romani.

Il Tempio non andava soltanto ricostruito "eticamente", ma anche e soprattutto distrutto "politicamente". Solo che mentre nei Sinottici la ricostruzione etica risulta impossibilitata dalla malvagità giudaica qua talis, che viene punita con la distruzione fisica del Tempio operata dai Romani; nel IV vangelo invece la distruzione politica non avviene in quanto una parte del movimento nazareno (in cui erano confluiti elementi provenienti da tutte le etnie e militanze politiche) non fu abbastanza risoluta nel compiere la rivoluzione. Anzi, il movimento nazareno, guidato probabilmente, dopo l'arresto di Gesù, dalla triade Pietro, Giacomo e Giovanni, non fu mai in grado di compiere alcun tentativo eversivo.

III

Nel vangelo di Marco (11,12 ss.), che fa testo rispetto a quelli di Luca e Matteo, subito dopo l'ingresso messianico nella capitale giudaica viene messa una pericope che contraddice il significato politico del medesimo ingresso: quella del fico maledetto. Dopo che Gesù ha ottenuto il consenso più ampio da parte della popolazione israelitica (giudaica, galilaica ecc.), l'evangelista Marco (che riflette la posizione petro-paolina) scrive che i Giudei, che pur pretendevano d'essere migliori degli altri, non erano più in grado di dare alcun frutto e, poiché invece in quel momento Gesù aveva "fame", questi si sentì in obbligo di maledire il fico rinsecchito che li rappresentava ed esso morì istantaneamente.

Col che il lettore ha la netta impressione che il Cristo entri a Gerusalemme non per vincere ma per perdere e, perdendo, per dimostrare che i Giudei non potevano che farlo perdere. Cioè in sostanza egli avrebbe dimostrato d'essere eticamente e religiosamente migliore dei Giudei proprio nel momento in cui accettava consapevolmente il martirio, senza opporvisi in alcun modo, facendo altresì capire che i Giudei non potevano considerarsi migliori degli altri popoli; anzi, uccidendo un uomo giusto, che avrebbe potuto essere il loro liberatore, essi dimostravano d'essere il peggior popolo della storia, i principali responsabili (ma questo nei vangeli non poteva essere detto) della riduzione del Cristo da "liberatore" a "redentore".

Ecco perché i Sinottici sono antisemiti. E l'antisemitismo, nel vangelo di Marco, viene riconfermato subito dopo il racconto della purificazione del Tempio, allorché si riprende la precedente pericope del fico, dicendo che dai Giudei non bisogna aspettarsi nulla di positivo, neppure sul piano religioso. Il che in pratica voleva dire (considerando il fatto che la stesura di questo vangelo è posteriore al 70) che non occorreva aspettare la distruzione fisica del Tempio da parte dei Romani: i Giudei, col loro comportamento cinico e ipocrita, l'avevano già moralmente distrutto.

Marco 11,28 ss. lo fa capire in maniera inequivoca quando alla domanda dei capi religiosi: "Con quale autorità fai queste cose?" (in riferimento alla cacciata dei mercanti), Gesù risponde: "Prima ditemi se il battesimo di Giovanni veniva dal cielo o dagli uomini". Il che, in pratica, era come se avesse detto: "Il battesimo di Giovanni era religiosamente ispirato o era un simbolo di poco conto? Se era un rito insignificante, voi non rappresentate il popolo giudaico, poiché moltissimi seguivano Giovanni. Se invece era un simbolo religioso, a maggior ragione non rappresentate il popolo, che vedeva in Giovanni un grande profeta religioso. Se l'aveste accettato sul piano religioso, avreste accettato anche me, che sono politicamente più grande di lui".

Marco in sostanza fa capire che avendo lasciato che il Battista venisse ucciso, i Giudei non avrebbero potuto non fare la stessa cosa anche nei confronti del Cristo.

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9) Cristo ateo e politico. Esegesi critica del IV vangelo

Premessa - 9.1) Il Prologo - 9.2) Il vangelo di Giovanni Battista - 9.3) L'incontro col fariseo Nicodemo - 9.4) Il dialogo coi Samaritani e l'arrivo in Galilea - 9.5) La questione del sabato - 9.6) La defezione del Tabor - 9.7) La festa delle Capanne e l'identità del messia - 9.8) Il racconto del cieconato e la parabola del buon pastore - 9.9) La festa della Dedicazione e la professione di ateismo - 9.10) La morte di Lazzaro - 9.11) Addendum. La delibera del Sinedrio contro Gesù - 9.12) L'ingresso messianico - 9.13) L'arresto e il processo - 9.14) Addendum. L'autoconsegna del Cristo - 9.15) Il ruolo dei militari romani - 9.16) L'esecuzione capitale

Premessa

Dei quattro vangeli canonici solo due meritano d'essere esaminati, quello di Marco, che è fonte principale di quelli di Matteo e di Luca, e quello di Giovanni, il cosiddetto IV vangelo, fonte autonoma per eccellenza, per quanto manipolata da redattori seguaci del cristianesimo paolino.

La madre delle falsificazioni più sofisticate della chiesa cristiana non sta però nel vangelo di Marco, portavoce di Pietro e soprattutto di Paolo, ma nel vangelo attribuito a Giovanni. Che tale attribuzione sia controversa è da tempo noto, essendo evidenti, e non da oggi, le interpolazioni e manomissioni di varia natura operate su questo testo, benché resti non meno certo che alcune sue parti siano state scritte effettivamente da qualcuno molto vicino all'evangelista e forse da lui stesso.

Marco, discepolo di Pietro, scrisse forse in aramaico un vangelo originario (detto Ur-Markus), poi soggetto a numerose revisioni. Giovanni, dopo aver letto il suo vangelo, scritto sicuramente, nella versione greca definitiva, dopo la catastrofe del 70, si sentì in dovere di scriverne uno che andasse controcorrente, evidentemente perché non voleva far passare l'idea che l'interpretazione data da Pietro agli avvenimenti di Gesù Cristo fosse l'unica possibile.

Se questa spiegazione è vera, allora bisogna dare per scontato che Giovanni non abbia tanto voluto "riscrivere" la storia della vita di Gesù, quanto piuttosto fare delle precisazioni su quegli episodi che necessitavano, secondo lui, di rettifiche interpretative. Questo spiega il motivo per cui, mentre Marco s'è concentrato, al novanta per cento, sull'attività di Gesù in Galilea, Giovanni invece ha preferito dedicare la sua attenzione all'apostolato svolto in Giudea.6

Senonché, quando Giovanni Zebedeo scrisse il proprio vangelo, nella comunità cristiana dominava l'interpretazione di Pietro, anzi quella di Paolo di Tarso, che, pur partendo dalla versione petrina dei fatti, l'aveva svolta in maniera tale da renderla totalmente indipendente dalle radici semitiche che aveva. Paolo infatti, quando predicava, si rivolgeva prevalentemente ai pagani o "gentili", e dopo la sua morte non ci sarà più nessun cristiano che si rivolgerà agli ebrei.

Questo per dire che il vangelo di Giovanni non può essere considerato identico a quello ch'egli scrisse: doveva per forza essere "revisionato" da redattori il cui "cristianesimo" fosse conforme a quello petro-paolino (quindi si può star sicuri che le revisioni che ha subìto Marco sono state infinitamente meno gravi di quelle subìte da Giovanni).

In via generale e in riferimento a tutti i vangeli canonici, si può sostenere che le interpolazioni sono tanto più spiritualistiche quanto più ai fatti riguardanti la vicenda del Cristo veniva data, in origine, un'interpretazione di tipo politico.

Possiamo comunque considerarci fortunati se dell'apostolo Giovanni, nonostante le censure e le manipolazioni "cristiane" (senza dimenticare la totale devastazione della Palestina compiuta dai Romani, che per quasi duemila anni, p. es., ci ha impedito di leggere i rotoli di Qumrân), siano riusciti a sopravvivere sia l'Apocalisse che il suddetto vangelo. Totalmente estranee invece dobbiamo ritenere le tre lettere che gli vengono attribuite, in quanto molto vicine all'ideologia dei suoi falsificatori (Papia di Gerapoli, p. es., parla di un certo Giovanni l'Anziano, come di uno che, intorno al 140 d.C., in Asia Minore, era capace di narrare le cose dette e fatte da Gesù; nella sua Storia ecclesiastica Eusebio sostiene che a Efeso vi erano le tombe di due Giovanni). In tal senso non è da escludere che in Turchia si possa ritrovare il vangelo originario di Giovanni.

Detto questo, vediamo ora le differenze principali che rendono il vangelo di Giovanni un'alternativa esegetica a quello di Marco (o di Pietro).

In particolare dobbiamo cercare di capire in che modo il IV vangelo, invece di censurare del tutto l'ateismo del Cristo, giudicandolo assolutamente inconciliabile con le tesi mistiche di Pietro e Paolo - così come hanno fatto gli altri tre vangeli canonici -, abbia preferito intraprendere, su questo aspetto spinoso, la difficile strada della mistificazione teologica vera e propria, trasformando il Cristo in un fautore del teismo anti-ebraico più sublime.

Bisognerà, a tale scopo, rintracciare, in questo testo, tutti gli episodi o racconti o dialoghi in cui il Cristo sembra negare l'ateismo proprio mentre afferma d'essere il "figlio di dio". Il problema tuttavia non sarà quello di come dimostrare che esiste un ateismo mistificato là dove il Cristo parla di dio-padre e di sé come di dio-figlio; e neppure quello di come dimostrare che, nell'ambito del teismo, l'identificazione personale del Cristo con dio era comunque una forma di ateismo superiore a quella ebraica che negava a dio un qualunque aspetto umano. Entrambe queste cose, con un po' di esercizio, oggi si possono agevolmente risolvere.

Molto più difficile invece è cercare di scoprire cosa può aver detto di "ateistico" il Cristo là dove sostiene posizioni teistiche avanzate. È infatti evidente che il teismo del IV vangelo è tanto più accentuato quanto più doveva esserlo l'ateismo originario, e che se i manipolatori di questo testo non fossero riusciti a mistificare con grande maestria le parole del Cristo, il rischio sarebbe stato molto grave: quello di essere facilmente smascherati. Meglio dunque si sarebbe fatto a censurare del tutto il vangelo di Giovanni, impedendone qualunque diffusione: i mezzi e i modi per poterlo fare probabilmente non mancavano. Anche perché, in definitiva, per poter creare il cristianesimo petro-paolino, i Sinottici e le lettere di Paolo erano più che sufficienti.

Questo spiega il motivo per cui il IV vangelo ha avuto una lunga evoluzione redazionale: si voleva essere assolutamente sicuri che la falsificazione altamente spiritualistica (che dovette essere elaborate da un'équipe di intellettuali avvezzi alla filosofia gnostico-idealistica, con l'avallo delle autorità ecclesiastiche al potere) non mostrasse crepe di sorta. Il lavoro doveva essere non solo di tipo "teologico" ma anche "linguistico", sfruttando l'ambiguità insita nelle parole umane, la cui interpretazione non è mai univoca e che invece si volle rendere tale. Si pensi solo alla parola "spirito": usata dal Cristo poteva voler dire semplicemente "coscienza"; usata dai redattori ha sempre un riferimento ultraterreno.

Non a caso comunque questo vangelo per moltissimi secoli è stato considerato un best-seller mondiale della religiosità cristiana, la punta avanzata di tutto il Nuovo Testamento. E si può quindi presumere che il giorno in cui questo testo verrà completamente demistificato, con prove alla mano, la chiesa cristiana non avrà più ragione di esistere (ammesso e non concesso che si possano trovare "prove cartacee", poiché la demistificazione potrebbe anche risolversi in una dimostrazione di fatto, quella che avremo quando il cristianesimo sarà superato da una nuova concezione di vita, che renderà possibile già sulla terra la liberazione umana).

9.1) Il Prologo

I

Il Prologo non fu scritto per primo ma per ultimo. È infatti una sintesi di tutto il vangelo, benché appaia come una sintesi di tutto il cristianesimo petro-paolino, che è il riferimento ideologico dei manipolatori di questo vangelo.

Esso è suddiviso in due parti, scritte in periodi successivi e da mani diverse: la prima si conclude al v. 13 ed è la più filosofica, la seconda invece è più teologica. Nella prima parte (dove s'intravedono redattori di origine più ellenistica che giudaica) si parla di dio in senso astratto e di Cristo come "logos"; nella seconda invece si parla di dio-padre e di Cristo come di suo figlio unigenito: sembra più concreta dell'altra, ma solo per affermare un clericalismo ancora più stretto.

Questa seconda parte vuole essere una sintesi di tutti i racconti in cui, in tale vangelo, il Cristo sostiene di essere "figlio di dio". L'ultimo versetto è addirittura una sintesi estrema: "Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato". Se si riesce a capire il significato di questo versetto, si saranno poste le basi per comprendere tutte le parti ateistiche originarie di questo vangelo, che i redattori han voluto trasformare in teologiche.

Negli anni della sua predicazione pubblica, che cosa poteva aver detto il Cristo ai suoi discepoli in merito alla questione religiosa, che poi in sostanza si riduceva al rapporto con la tradizione mosaica, di cui nel Discorso sulla montagna si può rintracciare qualche elemento?

Semplicemente che il popolo ebraico era stato molto coraggioso a sostenere che se esiste un dio, non ne possiamo sapere nulla, essendo impossibile a un uomo il poterlo vedere. Ovvero ch'erano stati molto intelligenti nel descriverlo in maniera simbolica e indiretta (p. es. come "roveto ardente"). Gli ebrei erano stati saggi nell'affermare una posizione così ateistica in mezzo a tante civiltà che invece, col loro politeismo, si raffiguravano i loro dèi in tutte le maniere possibili.

Ma Cristo era nato circa 1200 anni dopo Mosè: non poteva bastargli un ateismo del genere. E infatti egli arrivò a dire che se gli uomini non possono pensare né vivere qualcosa di reale che sia superiore a loro (in quanto dio nessuno l'ha mai visto, ma soltanto immaginato), allora possono anche credere che non esiste altro dio nell'universo che non sia l'uomo stesso. Dio non è altro che l'uomo come dovrebbe essere, e cioè umano. Chi cerca un dio superiore all'uomo, lo fa perché non crede che l'uomo possa diventare se stesso, cioè non crede alla possibilità che una modificazione della realtà possa rendere l'uomo dio di se stesso.

Chi non crede che l'uomo sia dio e che esista un dio la cui divinità sia assolutamente irraggiungibile per l'umanità dell'uomo, lo fa perché detiene una posizione di comando e vuole illudere i propri subordinati o a credere che solo nell'aldilà risolveranno i loro problemi, oppure a credere che rassegnandosi soffriranno di meno.

Il Cristo dunque collegava il proprio ateismo al progetto di creare una società democratica, egualitaria, com'era stata prima della nascita delle civiltà e quindi dello schiavismo. È dunque evidente che se si nega a questo progetto un qualunque aspetto politico-rivoluzionario, occorre poi negargli qualunque aspetto favorevole all'umanesimo laico. Ora, siccome questa cosa era già stata fatta, a chiare lettere, nei Sinottici, non si poteva certo permettere al IV vangelo di comportarsi diversamente.

La domanda che a questo punto ci si pone è però la seguente: perché la chiesa non è riuscita a eliminare del tutto questo vangelo? ovvero perché è stato chiesto a dei redattori particolarmente intellettuali di compiere un'operazione così complessa e rischiosa? perché non limitarsi a scartarlo tra i documenti accettati nel Canone, permettendogli una diffusione autonoma tra gli apocrifi? Giovanni era forse un'autorità politica di così grande spicco da rendere impossibile una semplice censura del suo operato come politico e come intellettuale?

Al momento non abbiamo elementi sufficienti per rispondere a queste domande. Possiamo soltanto ipotizzare che il Giovanni dell'Apocalisse era ancora un politico-rivoluzionario e che, per questa ragione, egli scomparve ben presto dalla trattazione lucana degli Atti degli apostoli. E possiamo anche ipotizzare che il Giovanni del IV vangelo sia stato lo storico anziano, testimone oculare del Cristo, che voleva dare delle vicende di quest'ultimo una versione più obiettiva di quella sinottica (in cui le due idee fondamentali, di "morte necessaria" e di "resurrezione", erano state elaborate da Pietro).

Più di così però non possiamo ipotizzare, poiché sia sull'Apocalisse che sul suo vangelo sono intervenute pesantemente varie mani redazionali, al punto che la figura stessa dell'apostolo preferito dal Cristo (che doveva succedergli alla sua morte) fu del tutto mistificata, attribuendogli la paternità di tre lettere che non aveva mai scritto. Noi sappiamo soltanto che i redattori di quelle lettere appartengono agli stessi ambienti che hanno manipolato il IV vangelo; ambienti non coincidenti con quelli che hanno manomesso l'Apocalisse, essendo la versione originaria di quest'ultima antecedente a tutti gli altri documenti del Nuovo Testamento o comunque coeva alle prime lettere paoline.

Insomma qui bisogna dimostrare che ogniqualvolta il Cristo rischiava, in questo vangelo, la lapidazione non era per il suo teismo esclusivo ma per il suo ateismo umanistico.

II

Quando il IV vangelo esordisce dicendo "In principio era il logos", l'autore intende riferirsi, necessariamente, a un'identità specifica, che coincide con l'intelligenza delle cose, con la loro ragione ultima.

Poiché fino a quel momento si attribuiva a dio (sia nel mondo pagano che in quello ebraico) tale intelligenza, l'autore è stato costretto a paragonare questo logos alla suprema divinità. Gli stessi filosofi greci usavano la parola "logos" per indicare un "archè" astratto, originario d'ogni cosa (astratto perché indeterminato, irrappresentabile).

Ma il logos di cui questo vangelo parla è umano, come dimostra tutto il Prologo. Non si fa mai riferimento a una divinità o a un'entità metafisica, come appunto facevano i greci (o come facevano gli stessi ebrei in maniera negativa o apofatica, cioè evitando che se ne parlasse).

Dire "presso dio" non vuol dire che il logos e dio sono due entità diverse. "Presso" non indica un rapporto di vicinanza (di prossimità fisica), ma di collateralità, nel senso che un'entità concreta (umana) è prossima a un'idea astratta. L'astrazione qui non va intesa in senso filosofico o teologico, ma in senso antropologico, anzi antropologico-culturale, poiché in questo Prologo siamo in presenza di una certa concezione dell'essere umano e della vita in generale.

Il logos era simile a un dio, in quanto si comportava in maniera giusta (cioè era dotato di lungimiranza, di avvedutezza, di realismo, ecc.). Anzi, stando a quanto lui stesso diceva di sé, egli era proprio un dio, si paragonava a un dio; e siccome diceva che questa caratteristica non era una sua peculiarità, ma una specificità, una facoltà tipicamente umana (in antitesi alle filosofie religiose del mondo pagano e persino alla teologia nazionalistica delle autorità giudaiche), vien lecito pensare, nonostante non sia stato riconosciuto come logos, che ogni uomo sia un dio e nessun dio esista al di fuori dell'uomo.

Ogni uomo è logos, anche se l'uso sbagliato della sua libertà può dimostrare il contrario. Il massimo che possiamo concedere al misticismo è che, poiché in ogni cosa deve esistere un inizio, di questo inizio, cioè del momento della sua nascita, si può non avere una percezione esatta. Del suo sorgere dal nulla non abbiamo chiara consapevolezza.

Il nulla infatti è un'entità metafisica, al pari dell'essere. Non è vero che là dove c'è l'essere non c'è il nulla. Essere e Nulla, in un certo senso, coincidono. Questo inevitabilmente comporta due cose: 1) l'essere umano ha un'origine che necessariamente ci resta ignota, poiché non ha senso (non è possibile) stabilire con esattezza il momento della nascita di qualcosa che è eterno e infinito; 2) non comporta alcuna difficoltà sul piano ateistico attribuire al logos in oggetto una valenza prototipica del genere umano (il logos può benissimo essere l'essenza universale da cui l'intero genere umano proviene).

Se le cose stanno in questi termini, vi sono altre conseguenze di cui tener conto:

  1. nessuna religione ha senso, poiché nessuna (essendo appunto una religione, cioè una forma di alienazione) può presumere d'avere l'interpretazione esatta del logos;

  2. se dio è un essere umano e ogni essere umano è dio, allora il concetto di "dio", come lo si è inteso sino ad oggi, non ha senso;

  3. poiché l'essere umano è distinto per genere sessuale, allora deve per forza esistere un equivalente femminile del logos (che i cristiani hanno chiamato coi termini di "paraclito", "consolatore", "spirito di verità", e che gli ebrei chiamarono coi termini di "ruah" o "sapienza"). Quindi non esiste alcun dio-padre, ma soltanto una divino-umanità che, da sempre, è distinta per genere, in cui tutti gli esseri umani possono facilmente riconoscersi;

  4. se l'essere umano è "dio", inevitabilmente non è mai nato (nel senso in cui, di regola, intendiamo questo verbo) ed è destinato a durare in eterno. Ma allora il luogo adeguato alla sua esistenza non può che essere l'universo o, per meglio dire, i pluriversi, che sono eterni e infiniti, privi di un centro fisico e di una periferia o di un qualsivoglia confine;

  5. la natura non è qualcosa di "creato": anch'essa è eterna e infinita. Quando si parla di "creazione", si deve intendere soltanto qualcosa in relazione al nostro sistema solare. Se quindi l'universo non ha mai avuto origine né mai avrà alcuna fine, non ha senso parlare di "dio creatore": la materia e il logos sono coeterni;

  6. quando si parla di "giudizio universale", si deve intendere soltanto la fine della storia umana sul nostro pianeta (com'è naturale che sia), ma non può intendersi la fine della storia in generale, poiché questa non avrà mai fine. L'essere umano è figlio dell'universo: il compito che ha è di essere se stesso ovunque si trovi. Non può esistere nessuno che, con un "giudizio universale" (cioè definito o definitivo, unilaterale) possa obbligare l'uomo a essere quel che deve essere. Il "giudizio universale" è semplicemente la presa di coscienza di quel che si deve essere. Non si potrà mai arrivare a una consapevolezza del genere se non in maniera libera, autonoma. Purtroppo la storia degli ultimi 6000 anni, caratterizzata da varie tipologie di civiltà conflittuali, ci chiede di trovare la giusta strada solo dopo aver sperimentato le conseguenze di tutte le scelte sbagliate che si sono compiute. In tal senso dovremo rendere conto al "giudizio universale" di ciò che abbiamo fatto per invertire la tendenza, cioè per impedire che questa venga percepita come una inevitabile condanna.

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9.2) Il vangelo di Giovanni Battista

La prima grande differenza tra i Sinottici e il IV vangelo riguarda i rapporti tra Gesù Cristo e Giovanni Battista. Se dovessimo basarci soltanto sui Sinottici, dovremmo essere indotti a considerare l'attività di Gesù come un prosieguo di quella del Precursore, il quale, al momento del battesimo di Gesù, era già in grado di riconoscerlo come "figlio di dio" e quindi di considerare la sua "divinità" molto più importante della sua "messianicità". In virtù di tale riconoscimento, Gesù ovviamente non poteva avere difficoltà a farsi "battezzare" da lui, per quanto questo rito, in relazione a una persona divina, fosse insensato anche dal punto di vista teologico (cosa che non mancheranno di osservare i manipolatori del IV vangelo).

Ciò fa supporre che, dopo la crocifissione del messia e dopo l'affermazione dell'ideologia petrina, battisti e cristiani dovevano aver realizzato un'intesa che soddisfaceva entrambi i movimenti: ai primi infatti veniva chiesto di credere nella resurrezione e quindi nella divinità del Cristo; in cambio i secondi avrebbero adottato il loro rito di purificazione morale, riveduto e corretto secondo la nuova impostazione religiosa.

Tutto il lungo racconto giovanneo del rapporto del Cristo col Battista è servito unicamente a far credere che tra i due non solo non vi fu alcun dissenso politico, ma neppure alcun rapporto di tipo politico; anzi l'uno arrivò persino a riconoscere, prima di tutti gli altri, l'origine divina dell'altro.

In realtà il racconto va interpretato in maniera molto diversa. Il Cristo non poté compiere insieme al Battista la cacciata dei mercanti dal Tempio e quindi l'estromissione dei sacerdoti corrotti che lo gestivano, per la semplice ragione che il Battista non voleva rompere politicamente (ma solo eticamente) con le tradizioni religiose del suo paese, sfruttate dai sacerdoti per fini di potere (economico e politico).

Quando Gesù incontra Giovanni non è per farsi battezzare, ma per compiere un atto eversivo: dimostrare con un gesto plateale che il Tempio di Gerusalemme era gestito da una casta sacerdotale completamente corrotta, o comunque totalmente incapace di aiutare la Palestina a liberarsi dei Romani. Una casta che avrebbe fatto di tutto anche per impedire al Battista di diventare troppo popolare e tanto meno di poter usare la propria popolarità per avanzare rivendicazioni di tipo politico.

L'incontro col Battista è finalizzato al progetto di cacciare i mercanti dal Tempio, dimostrando alla popolazione della città che le tradizioni religiose gestite dai sadducei e dai sommi sacerdoti risultavano non solo inutili per la resistenza anti-romana, ma anzi ampiamente nocive.

Il Battista, che pur predicava moralmente contro la casta sacerdotale, fu colto politicamente impreparato. Pur avendo già molta popolarità, con cui cominciava ad essere temuto (non dimentichiamo che la sua comunità di riferimento era quella essena di Qumrân), il suo messaggio pareva più etico che politico, più rivolto alle coscienze individuali che non alle masse popolari. E nei confronti delle tradizioni religiose non era così risoluto a giudicarle negativamente come il Cristo.

Non se la sentiva di compiere un'azione che, pur essendo giusta nei confronti della casta sacerdotale, che svolgeva funzioni sia politiche che religiose, rischiava di apparire esagerata agli occhi dei semplici fedeli, quelli che credevano in buona fede nelle antiche tradizioni d'Israele, a dispetto della corruzione con cui esse venivano gestite. E così declinò l'offerta.

Il Cristo invece, in occasione del massimo afflusso di gente nella città santa, cioè durante la Pasqua, con quella parte di discepoli che aveva lasciato le fila del Battista e probabilmente con l'aiuto di quel Lazzaro che nel IV vangelo risulta essere suo grande amico, decise di dimostrare che il Tempio non dava alcuna garanzia contro i Romani, essendo gestito da amministratori corrotti (colti in quell'occasione del tutto impreparati), e ne cacciò a frustate tutti i mercanti, senza che nessuno avesse il coraggio d'impedirglielo.

Tuttavia, non ottenendo un pieno consenso da parte del partito farisaico (la corrente progressista guidata da Nicodemo approvò l'iniziativa solo privatamente), Gesù e i suoi primi collaboratori politici furono costretti ad espatriare dalla Giudea e a rifugiarsi in Galilea (sua seconda patria), dove trovò grande accoglienza.

Da allora non ci fu più modo di riprendere i contatti col movimento battista per un'azione politica comune, neppure dopo la morte violenta del leader Giovanni, il quale, quand'era incarcerato presso la fortezza del Macheronte, si chiedeva perché Gesù tardasse così tanto a imporsi come messia.

Chi aveva reagito positivamente all'epurazione del Tempio era però stata la popolazione giudaica, che cominciò a considerare i discepoli di Gesù più importanti di quelli di Giovanni: non a caso quest'ultimi si lamentavano che quelli battezzavano di più (Gv 3,26).

Si dovrà attendere anche la morte del Cristo prima che i cristiani possano reimpostare coi battisti un nuovo accordo, su basi questa volta esclusivamente religiose: gli uni avrebbero accettato il battesimo di penitenza, mentre gli altri avrebbero riconosciuto la divinità del Cristo (anche se la parte più giudaica dei battisti continuerà ad opporsi ai cristiani).

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9.3) L'incontro col fariseo Nicodemo

Anche i farisei rimasero stupiti dall'ardire di quel gesto, tanto che uno di loro, Nicodemo, volle incontrare Gesù di nascosto, per fargli capire che una parte del suo partito, seppure molto minoritaria, l'aveva apprezzato (a meno che la pericope non sia stata messa per fare un favore alla conversione di Nicodemo alla teologia paolina).

Al tempo di Cristo, infatti, i farisei, a differenza dei cinici sadducei e degli opportunisti sommi sacerdoti, credevano ancora nella possibilità di una liberazione della Palestina, solo ch'erano incapaci di organizzare un vero movimento di massa con cui realizzare i loro sogni.

I farisei erano molto attaccati alle tradizioni del passato, in quanto erano convinti che solo affermando una precisa identità culturale e religiosa si sarebbe potuto tenere unito il popolo e farlo sentire diverso dagli altri. Anteponevano, in sostanza, alle questioni pragmatiche di una politica di liberazione, quelle ideologiche di una politica di conservazione del meglio di Israele.

Nel dialogo con Nicodemo appare invece chiaro come, per il Cristo, i valori e le tradizioni religiose avessero perso molto del loro peso, a fronte della crescente oppressione esercitata in patria dallo straniero. Era quindi ora di compiere un'inversione di rotta.

Il colloquio di Cristo con Nicodemo è tutto incentrato su questioni di carattere etico-politico. In sostanza il Cristo fa capire a Nicodemo che i farisei non avrebbero mai potuto essere conseguenti o comunque coerenti con le loro teorie riformatrici fino a quando avessero fatto così ampie concessioni all'uso strumentale della religione. Essi infatti s'illudevano di poter migliorare le cose sostituendo un modo corrotto di vivere la religione con un altro più rigoroso, continuando nel contempo a considerare le tradizioni religiose della Giudea superiori a quelle di qualunque altra etnia ebraica.

Tuttavia se è vero che Nicodemo rifiuta l'idea di poter risolvere il problema della corruzione del potere politico senza l'aiuto della religione, i manipolatori di questo racconto hanno invece voluto far credere che tra Cristo e Nicodemo non poteva esserci alcuna intesa, proprio perché i farisei non avevano intenzione di sostituire la fede in dio che passava attraverso il Tempio (o comunque attraverso le loro sinagoghe) con quella rivolta direttamente al Cristo, nuovo tempio di dio.

Il partito fariseo, che pur non aveva appoggiato Gesù al momento dell'espulsione dei mercanti, vedendo questa improvvisa popolarità, cercò di contattarlo, come in precedenza aveva fatto col Battista, per vedere come strumentalizzarlo. Ma Gesù, per mettere alla prova la loro buona fede e vedere sino a che punto erano disposti a seguirlo, se ne andò a vivere in Galilea, passando per la Samaria. I Samaritani erano odiati dai farisei, in quanto giudicati eretici (credevano solo nel Pentateuco e rigettavano il culto del Tempio di Gerusalemme): i farisei, che guardavano con un senso di superiorità persino i Galilei, non l'avrebbero mai seguito entrando in quella regione. E infatti non lo fecero.

Dunque quella prima rivoluzione, compiuta a Gerusalemme, s'era risolta in un successo a metà, in quanto se da un lato l'aristocrazia sacerdotale era rimasta al proprio posto, ancora scossa per non essere stata capace di reagire in tempo, dall'altro i due partiti, fariseo ed esseno, avevano capito che con Gesù s'era formato un nuovo interlocutore politico. Le masse avevano potuto constatare che qualcuno aveva ancora il coraggio di mostrare pubblicamente che le istituzioni giudaiche erano corrotte e che dal loro collaborazionismo nei confronti dei Romani, non sarebbe emerso alcunché di positivo per le sorti del paese.

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9.4) Il dialogo coi Samaritani e l'arrivo in Galilea

È nel racconto dedicato all'incontro del Cristo coi Samaritani, subito dopo la mezza rivoluzione contro i sacerdoti del Tempio, che veniamo a sapere che l'etnia samaritana (considerata eretica dai Giudei) sarebbe stata disposta, se l'obiettivo era quello di abolire il primato politico del culto del Tempio e di organizzarsi militarmente per cacciare i Romani, a rinunciare a fare del loro culto sul monte Garizim un motivo fondamentale di distinzione o di appartenenza etnico-tribale.

Al vedere entrare dei Giudei e dei Galilei nel loro territorio, l'accoglienza fu festosa: i Samaritani non potevano credere ai loro occhi e soprattutto alle loro orecchie quando Gesù diceva loro che il primato del Tempio era finito e che, per liberare la Palestina, non serviva pregare dio né a Gerusalemme né sul loro monte Garizim (dove peraltro già Giovanni Ircano nel 128 a. C. aveva distrutto il loro santuario). Le differenze etnico-ideologiche dovute a motivi religiosi andavano messe in secondo piano rispetto all'esigenza di unirsi tutti politicamente e militarmente contro Roma.7

I redattori invece sostengono che Cristo era entrato in quel territorio per insegnare loro una nuova modalità di vivere la fede religiosa: quella di amare e pregare dio "in spirito e verità". Solo che se essi si fossero limitati a dire questo, avrebbero fatto della "filosofia religiosa"; siccome invece bisognava fare della "teologia" vera e propria, ecco la necessità di dipingere il Cristo che legge nei pensieri della samaritana e che viene considerato dai compaesani di lei non tanto come il "messia di Israele", quanto piuttosto come il "salvatore del mondo".

Quando, dopo essere stati in Samaria, entrarono in Galilea, l'accoglienza fu addirittura trionfale, poiché finalmente un "giudeo" aveva fatto capire ai Giudei, con l'episodio eversivo del Tempio, che l'esigenza di liberarsi dei Romani doveva essere portata avanti da tutto il popolo d'Israele, indipendentemente dalla volontà delle autorità politiche e religiose della capitale giudaica. Se l'intero popolo palestinese andava considerato più importante delle autorità che lo governavano, a maggior ragione non si potevano porre differenze di principio tra Giudei, Galilei e Samaritani.

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9.5) La questione del sabato

Quando Gesù, insieme ai suoi discepoli, tornò a Gerusalemme, in occasione di una nuova festività, la polemica, questa volta, non fu di tipo politico, ma di tipo ideologico, sulla questione del sabato, che non riguardava la sola Giudea, ma l'intera Palestina. Una questione che, dal punto di vista culturale e religioso, era cruciale, poiché si venivano a toccare gli interessi di quanti, nel mondo "ecclesiastico", avevano fatto del sabato un motivo per affermare un determinato potere politico.

Il sabato infatti era un giorno sacro, andava interamente consacrato alla divinità, al punto che si era arrivati a sostenere, contro ogni buon senso, che durante questa festività l'ebreo devoto non dovesse fare assolutamente nulla di non religioso, neppure compiere un'opera di bene a favore di qualcuno. Qualunque tipo di "bene" compiuto poteva apparire sospetto, dettato da esigenze del tutto soggettive. Il sabato era diventato una sorta di idolo da adorare, poiché dava agli ebrei la percezione di sentirsi assolutamente "puri" almeno un giorno alla settimana e completamente "diversi" da tutti gli altri popoli.

La prima manifestazione esplicita di ateismo il Cristo la diede quando, dopo un periodo (qui indeterminato) di esilio in Galilea, salì a Gerusalemme per una festa imprecisata (e già questo dovrebbe far sospettare sull'autenticità del racconto, visto che Giovanni, quando non viene censurato, è sempre molto circostanziato). L'ingresso in città fu privato, talmente privato che in 47 versetti del cap. 5 non viene citato alcun discepolo (e anche questo rende sospetto il racconto).

L'intero cap. 5 del vangelo giovanneo è dedicato all'idea di come rendere la legge al servizio dell'uomo, senza trasformare l'uomo in uno schiavo della legge.

Il vangelo affronta questo argomento parlando di un miracolo: la guarigione di un infermo cronico presso la piscina di Betesda (o Betzaetà), che gli archeologi dicono di aver rinvenuto presso la Porta delle Pecore. Si comporta così perché, in occasione di quella disputa, il Cristo manifestò il proprio umanesimo integrale, nel senso che per dimostrare che bisognava farla finita con la schiavitù del sabato, egli si era servito di argomentazioni "laiche", non "religiose".

Secondo gli esegeti confessionali invece, in quel racconto per la prima volta Gesù parla di sé come del figlio unigenito di dio-padre, al punto che il sottotitolo del racconto non poteva che essere questo: "Primo rifiuto della rivelazione". Cioè, siccome la posizione ateistica del Cristo non poteva apparire nel vangelo, i redattori cristiani han preferito far vedere ch'egli si sentiva autorizzato a trasgredire il sabato, in quanto, essendo "figlio di dio", poteva compiere un miracolo (in questo caso una guarigione) che agli altri uomini, ovviamente, sarebbe stato impossibile.

Quando s'incontrano manipolazione del genere, le strade per un esegeta laico possono essere soltanto due: o il racconto è stato completamente inventato (descrivendo p. es. un miracolo incredibile proprio allo scopo di dimostrare che tra Gesù e dio non vi era alcuna differenza), oppure la rivelazione originaria ch'era stata fatta non era di tipo teistico, bensì ateistico e il racconto è appunto servito per mistificarla.

Ogniqualvolta s'incontra un racconto evangelico miracoloso, dobbiamo pensare che nel racconto o nell'episodio originario vi sarà stata, molto probabilmente, una discussione in cui il Cristo manifestava apertamente la propria capacità di emettere giudizi autonomi, in quanto "libero pensatore", senza doversi necessariamente rifare a un'ortodossia di tipo religioso, la cui credibilità, peraltro, in quel momento, era ridotta a zero.

Il che non sta a significare che Gesù non abbia potuto sanare qualche malattia psico-somatica, ma semplicemente che nessuna guarigione venne fatta per dimostrare che lui era "dio". Per giustificare l'esigenza di spezzare le catene del sabato non c'era bisogno di compiere alcun miracolo, e gli ebrei, dal canto loro, non devono oggi sentirsi più colpevoli di non aver capito la "divinità" del messia a motivo del fatto che i loro antenati quella volta impedivano a lui di compiere guarigioni miracolose.

Da tempo è noto che i redattori cristiani si sono serviti dell'escamotage dei miracoli non solo per dimostrare la "divinità" del Cristo, ma anche per dimostrare la "sotto-umanità" dei Giudei.

Supponendo ora che vi sia stata una qualche guarigione, come possono essere andate le cose? Gesù e i suoi discepoli avranno prestato assistenza a quel povero disgraziato e, siccome era sabato, saranno stati accusati di violare la legge; al che il Cristo avrà risposto che di fronte a un caso del genere non c'è legge che tenga.

Sentendo questa motivazione, i Giudei fanatici l'avranno accusato di farsi come dio, padrone e signore di ogni legge, e lui avrà risposto che, se il bisogno è legittimo e la legge impedisce di soddisfarlo, non c'è alcuna necessità di aspettare dio per cambiare la legge: può farlo anche l'uomo. Quella volta la violazione del sabato era motivo sufficiente per essere condannati. Non dimentichiamo che per il mondo ebraico (come oggi per quello islamico) la differenza tra violazione religiosa e violazione civile era così sottile da essere impercettibile.

Si noti ora come interviene la mano redazionale. Al v. 18 è scritto: "cercavano di ucciderlo perché non soltanto violava il sabato, ma anche perché chiamava dio suo padre, facendosi uguale a lui". Per i Giudei uno che si comportava così era reo di bestemmia in quanto ateo, e andava lapidato. Dio - per gli ebrei - era padre di tutti e non di uno solo, anzi era riduttivo, minimalista, chiamarlo "padre", poiché dio era signore e creatore del cielo e della terra: "padre" degli ebrei poteva semmai essere considerato Abramo, poi vi erano i patriarchi e Mosè era il supremo legislatore, come Davide e Salomone erano i modelli della monarchia israelitica. I sacerdoti di dio non avrebbero mai permesso a nessuno di violare il precetto del sabato (anche se poi loro stessi lo facevano di fronte all'altro precetto della circoncisione), poiché veniva fatto risalire addirittura ai tempi della creazione (al settimo giorno dio "fece sabato", cioè riposò), anche se di fatto era stato imposto da Mosè per impedire che gli ebrei, non potendo compiere, in quel giorno, alcuna azione, agissero negativamente (nei confronti dei propri correligionari).

Si faccia ora attenzione alla mistificazione, poiché se si comprende bene questo versetto, tutti gli altri, sino alla fine del capitolo, saranno facilmente decodificabili. I redattori dovevano essere ben consapevoli che Cristo predicava l'ateismo, ma per loro questo argomento era tabù, in quanto del tutto contraddittorio al cristianesimo petro-paolino. E tuttavia se nei Sinottici era stato abbastanza facile censurarlo (fu sufficiente far credere che Gesù era un guaritore eccezionale), nel IV vangelo invece l'operazione doveva essere diversa, più sofisticata.

Infatti, qui i Giudei lo accusano sì di ateismo, ma non tanto perché il Cristo stava negando l'esistenza di un dio assolutamente superiore all'uomo (in realtà faceva anche questo), quanto perché egli aveva la pretesa di identificarsi in maniera esclusiva a questa entità, e giustificava il proprio esclusivismo sostenendo addirittura che dio era suo padre, l'unico suo vero padre.

In altre parole, mentre nella versione originaria di questo vangelo è possibile ipotizzare che Cristo apparisse ateo dicendo che ogni uomo è dio di se stesso e che non esiste alcun dio superiore all'essere umano, i redattori invece han voluto far credere che Cristo appariva ateo soltanto ai Giudei che non credevano nella sua figliolanza divina, da lui dimostrata a più riprese (in vita) compiendo miracoli eccezionali (sovrumani), per i quali aveva tutte le ragioni (divine) a non fare alcuna differenza tra sabato e giorno feriale.

Chiunque può accorgersi che c'è una certa differenza tra queste due concezioni di ateismo. Se quella che vogliono far passare i redattori cristiani fosse la più veritiera, i Giudei non avrebbero forse avuto tutte le ragioni a non credere nel Cristo? Come si poteva credere a un messia politico che quando faceva miracoli eccezionali si paragonava direttamente a dio, sentendosi quindi autorizzato a fare delle leggi quello che voleva? Quanti malati di mente o megalomani, che apparentemente sembrano normali, credono in coscienza d'essere superiori a qualunque altro essere umano?

Insomma perché Cristo insegnava l'ateismo? cioè a non credere in alcun dio del tutto superiore agli esseri umani, un dio di cui i sacerdoti si consideravano i soli interpreti e custodi? Per la semplice ragione che per poter compiere un'insurrezione nazionale contro i Romani, bisognava prima aver chiare almeno due cose fondamentali: 1. che tale insurrezione non poteva essere gestita o guidata dal clero di Gerusalemme, geloso del proprio potere e persino della propria etnicità, legatissimo alle proprie, per lo più, false tradizioni, visibilmente corrotto e, nei suoi strati più autorevoli, persino connivente col nemico straniero; 2. che la soluzione all'oppressione sociale, una volta ottenuta la liberazione nazionale, non poteva essere affidata in alcun modo alla casta sacerdotale, che fruiva di ricchezze e privilegi inammissibili, e neppure a chi si sentiva in dovere di sponsorizzare un affronto "religioso" delle contraddizioni sociali.

Senza cittadini autonomamente pensanti, in grado di organizzarsi da soli, rinunciando alla tutela da parte delle gerarchie ecclesiastiche, sarebbe stata impossibile non solo la realizzazione di una società democratica, ma anche la stessa lotta di liberazione, essendo l'alto clero abbondantemente compromesso col potere romano.

Tutto quello che appare dopo, dal v. 19 alla fine del cap. 5, è stato messo per spiegare il significato del v. 18, là dove viene detto che Cristo si faceva uguale a dio. Non è neanche il caso di pensare che in questa seconda parte vi sia stato un testo originario da manipolare.

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9.6) La defezione del Tabor

Espunto da quella improponibile moltiplicazione dei pani e dei pesci, il cap. 6 del IV vangelo è particolarmente chiarificativo di ciò che avvenne quel giorno sul monte galilaico del Tabor.

Giovanni fa capire bene che la popolarità di Gesù in Galilea era diventata enorme. Tutti i vangeli, dovendo mistificare il Cristo politico con la figura del Gesù redentore, sono costretti a motivare quella popolarità, inventandosi delle spettacolari azioni miracolose, in grado di sovvertire non solo le diagnosi mediche ma anche le leggi della natura.

Purtroppo in questo brano non viene scritta una sola riga riguardo a ciò che Gesù disse alle folle su quel monte, ma possiamo facilmente immaginarcelo. I Galilei infatti erano pronti per partire in massa per Gerusalemme, dove avrebbero estromesso i sacerdoti dalle loro cariche politiche e disarmate le guardie del Tempio e soprattutto la guarnigione romana, preparandosi così a organizzare l'insurrezione armata nazionale.

Nel vangelo di Marco non si comprende assolutamente nulla di questo episodio: tutto viene ridotto a un gioco di prestigio, confermato da una plastica camminata sulle acque, con cui Gesù consola i Dodici "perché non avevano capito il fatto dei pani, essendo il loro cuore indurito" (6,52).

La cosiddetta "moltiplicazione dei pani" (che può coincidere, almeno in parte, col Discorso sulla montagna) è un testo politico per eccellenza. I Sinottici si limitarono a trasformare l'evento politico in un evento religioso (un uomo non può moltiplicare i pani e i pesci se non è di natura divina); probabilmente avrebbero voluto censurarlo del tutto, ma essendo stato un evento troppo noto, non poterono farlo; anzi, per non rischiare interpretazioni divergenti da quella ufficiale, rincararono, in un secondo momento, la dose mistica, sostenendo che il Cristo non solo moltiplicava i pani, ma camminava anche sulle acque del lago di Galilea.

In Giovanni invece si ha l'impressione che l'episodio fosse di natura squisitamente politica. I Galilei non volevano sono un "monarca" d'Israele, che s'imponesse sui rivali con tutta la forza possibile, mettendo al bando le regole della democrazia o comunque posponendole a liberazione avvenuta; volevano anche far vedere ai Giudei che il vero "messia" d'Israele proveniva dalla loro terra, tanto disprezzata dai puristi dell'ortodossia religiosa. Volevano qualcuno che ripristinasse gli antichi splendori d'Israele, riscattando, nel contempo, la loro terra agli occhi degli orgogliosi Giudei, per i quali non sorgeva profeta dalla Galilea (Gv 7,52) e il Cristo doveva venire dalla stirpe di Davide e da Betlemme, la città di Davide (Gv 7,42).

La vera natura politica di quell'evento fu dunque narrata da Giovanni e proprio su questa versione i redattori dovettero intervenire con forza. Il racconto originario, che non doveva essere tanto di tipo ateistico quanto di tipo politico-rivoluzionario, è stato mistificato proponendo un'immagine del tutto spoliticizzata del Cristo, che per i redattori cristiani non poteva non coincidere con una di tipo religioso.

I cinquemila Galilei lì presenti volevano salire a Gerusalemme per compiere la rivoluzione. Volevano che lui diventasse "re d'Israele" alla stregua di un novello Davide. Il consenso c'era, le armi si sarebbero facilmente trovate. Dunque cosa aspettare?

Cristo glielo impedì sostenendo che una insurrezione nazionale anti-romana difficilmente avrebbe avuto un buon esito senza l'apporto dei Giudei. Tra Galilei e Giudei l'odio era reciproco, ma il Cristo volle sottrarsi a una controversia di tipo etnico, per rivendicarne invece una di tipo più generale e nazionale: l'affronto del nemico comune avrebbe potuto essere convincente se la Palestina fosse stata unita, almeno in tutte le sue forze progressiste, che anche in Giudea, indubbiamente, erano presenti.

I Galilei e i Samaritani erano stati già guadagnati alla causa dei nazareni: ora non restava che persuadere la parte migliore dei Giudei, e siccome su questo punto i Galilei consideravano il Cristo un illuso, in quel frangente lo abbandonarono: per loro non era abbastanza deciso in senso rivoluzionario. Viceversa, per i manipolatori del IV vangelo la defezione dipese dal fatto che, pur seguendo Gesù per motivi religiosi, i Galilei non si dimostravano alla sua altezza, in quanto chiedevano che diventasse un re politico-religioso dopo averlo visto moltiplicare i pani. Volevano una monarchia teocratica in stile davidico, senza rendersi conto che il suo regno non era di questo mondo.

Su questo i Sinottici sono ancora più reticenti: infatti i Galilei sfamati sulla montagna non immaginano neppure che il Cristo possa essere un leader politico-religioso; per loro era piuttosto un operatore di miracoli strabilianti, e quando, di lì a poco, lo vedono avviarsi con decisione a Gerusalemme, nessuno pensa che voglia fare l'insurrezione, ma, al contrario, che voglia andare a morire in croce, per realizzare il disegno divino su di lui, che solo lui conosceva.

Dunque nei Sinottici Gesù è dio in quanto compie prodigi straordinari e vuole autoimmolarsi per riconciliare gli uomini peccatori col loro dio, quegli uomini che - dirà Paolo - sono incapaci di compiere il bene a causa del peccato d'origine. Il Cristo, religioso e taumaturgo, sarebbe diventato politico solo dopo la resurrezione, cioè soltanto il giorno in cui sarebbe ritornato in pompa magna con le sue schiere armate di angeli. Di qui l'attesa della parusia imminente, poi posticipata alla fine dei tempi.

Nel IV vangelo invece, in versione originaria, il Cristo doveva apparire ateo e rivoluzionario: ecco perché, nel prodotto derivato che abbiamo, appare come un mistico convinto d'essere l'unigenito figlio di dio e che in nessun modo può essere adeguatamente compreso dai Giudei, i quali, decidendo la sua morte, non s'accorgono di fare in realtà il suo volere, quello appunto di mostrare che la liberazione, umana e politica, è possibile solo in chiave religiosa e quindi in una dimensione ultraterrena.

Sia il discorso nella sinagoga di Cafarnao che la confessione di Pietro sono stati messi per spiegare il motivo per cui Cristo rifiutò di diventare "re" (6,15). Nel IV vangelo nessuno capisce mai nulla del Cristo, proprio perché tutti vorrebbero vederlo come leader politico, mentre lui ostinatamente si presenta come leader religioso: è un dialogo tra sordi; cosa che nella realtà può anche essere avvenuta, ma certo non in maniera così sistematica e soprattutto non nei termini in cui i manipolatori di questo vangelo han voluto presentarcela.

I Galilei, sul Tabor, non avevano ancora capito il senso della democrazia nazional-popolare (quella che va oltre le differenze etnico-tribali) e si scandalizzarono al vedere che, pur in presenza di un consenso così grande, il messia volesse porre delle condizioni con cui tutelare la libertà di scelta. Di fronte a quella massa istintiva ("pecore senza pastore", la chiama Mc 6,34), che lo avrebbe indotto a prendere decisioni affrettate, impopolari, indebolendo alla fine la futura compagine governativa che avrebbe dovuto fronteggiare la controffensiva romana, preferì dire di no, suscitando grande imbarazzo persino tra i suoi più fidati collaboratori, che, essendosi impegnati personalmente, con grande fatica, a organizzare quel movimento, quasi erano intenzionati a lasciarlo.

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9.7) La festa delle Capanne e l'identità del messia

Al cap. 7 del IV vangelo si scopre subito una cosa che lascia interdetti, perché grave e senza precedenti nel IV vangelo: "i Giudei volevano ucciderlo" (v. 1). E, per questa ragione, egli preferiva restare in Galilea.

Quali potevano esserne i motivi non è dato sapere, ma, stando a quanto abbiamo già detto e, considerando l'aumento notevole della sua popolarità in Galilea, possiamo ipotizzare fossero i seguenti:

- aveva minacciato l'autorità del Tempio e della classe sacerdotale;

- minava le tradizioni consolidate, violando esplicitamente il precetto del riposo assoluto del sabato.

Quindi, nel contempo, appariva eretico ed eversivo, tanto per i farisei quanto per i sommi sacerdoti. I Galilei però erano fieri di questo, anzi, in occasione di una festa molto importante, quella delle Capanne, lo invitarono ad approfittarne per pubblicizzare il suo messaggio di liberazione nazionale nella capitale, nella convinzione che le autorità non avrebbero avuto il coraggio, in quel momento, di arrestarlo.

Gesù invece non aveva la stessa sicurezza e preferì restare in Galilea. Poi qualcosa gli fece cambiare idea (forse il timore di non apparire sufficientemente coraggioso), per cui decise di andarci lo stesso, ma quasi in incognito, con pochi discepoli. Da un lato doveva stare molto attento a come muoversi, dall'altro non poteva deludere le aspettative di chi aveva già ascoltato i suoi discorsi e visto di cosa era capace di fare. Ormai era già un personaggio "pubblico": doveva soltanto servirsi di questa prerogativa come scudo per ripararsi dagli attacchi delle istituzioni.

Tutto il cap. 7 è un collage di brani aventi come unico tema l'identità del messia, cioè il dibattito sulla sua origine sociale, professionale, geografica... I Giudei infatti si aspettavano un leader della loro etnia, intellettuale, guerriero, di stirpe nobile, non uno qualunque. E si chiedevano stupiti: "Come mai costui conosce le Scritture senza avere studiato?" (7,15), cioè senza aver fatto corsi regolari di studi avanzati negli istituti che licenziavano i "dottori in legge". La famiglia era forse così ricca da potersi permettere un precettore privato? Ma suo padre non era forse un carpentiere? (Mc 6,3)

Gesù non era un rabbino, non era iscritto a nessun "partito di dio", non frequentava le sinagoghe, se non quella di Cafarnao, da cui però era stato subito espulso: anzi i farisei minacciavano di scomunicare chiunque lo riconoscesse come "messia" (9,22). Di "religioso", in sostanza, non aveva nulla. Il fatto che conoscesse bene le Scritture appariva come un'anomalia, non solo perché chiedeva di violare il sabato, ch'era uno dei precetti fondamentali della Torah, ma anche perché l'interpretazione ufficiale, rigorosa, dei sacri testi era riservata a un personale specializzato, che aveva dovuto subire esami su esami per poter svolgere il proprio ruolo.

Gesù invece, pur conoscendo le Scritture (e nella fattispecie lo dimostra sottolineando l'incongruenza di esigere da un lato il riposo assoluto in giorno di sabato e dall'altro di trasgredirlo per rispettare il precetto della circoncisione o per salvare un animale in pericolo di vita), chiedeva ai discepoli di giudicare "rettamente", cioè in maniera autonoma, confrontandosi liberamente con le interpretazioni ufficiali. Avrebbero, in tal senso, dovuto facilmente intuire che la sua violazione del sabato non si basava sull'affermazione di un arbitrio personale, ma per compiere oggettivamente un'opera di bene; non dipendeva dall'esigenza di contestare delle istituzioni autoritarie o delle tradizioni obsolete, ma per soddisfare un bisogno sociale. Come potevano i farisei non capire, dall'alto della loro cultura, la differenza sostanziale tra rispetto rigoroso della legge e condivisione del bisogno?

In effetti, alcuni di loro ammettevano questa possibilità, solo che la vincolavano a garanzie istituzionali circa la liceità della trasgressione. Parafrasando il testo giovanneo, è come se avessero detto: "Quando ci si dirà esplicitamente che, poste determinate condizioni, la regola può essere trasgredita, bene, potremo farlo tutti, ma tu non puoi farlo prima degli altri, prima che esista un permesso ufficiale".

In sostanza lo accusavano di essere un illustre sconosciuto, di non avere alcuna autorità per comportarsi in quella maniera: i capi non l'avevano ancora riconosciuto come "messia" (7,26). Cos'era, questo, se non un modo legalistico o burocratico di affrontare il problema di come rendere le regole al servizio del bisogno?

Altri ancora, più possibilisti e meno schematici, si chiedevano se non fosse il caso di transigere su queste violazioni, in considerazione del fatto ch'egli aveva avuto il coraggio di opporsi apertamente alla corruzione della casta sacerdotale.

Al sentire però queste ammissioni di favore, "i farisei e i sommi sacerdoti mandarono delle guardie per arrestarlo" (7,32). Ma non vi riuscirono, poiché la folla era pronta a reagire se l'avessero fatto. In fondo stavano soltanto ascoltando delle parole, e persino i soldati del Tempio dovettero ammettere che non erano parole meritevoli di condanna: "Mai un uomo ha parlato come parla quest'uomo". Ma i farisei replicarono loro: "Forse vi siete lasciati ingannare anche voi? Forse gli ha creduto qualcuno fra i capi o fra i farisei? Ma questa gente, che non conosce la legge, è maledetta!" (7,46 ss.).

Di fronte a tanta intolleranza e prevenzione persino il fariseo Nicodemo, con tatto e diplomazia, si sentì indotto a chiedere, ai suoi colleghi di partito, se non fosse il caso di ascoltarlo e di sapere personalmente ciò che faceva (7,51). Ma, forti del loro rigorismo ideologico, gli risposero senza mezzi termini: "Sei forse anche tu della Galilea? Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea" (7,52).

Era la chiusura preconcetta del potere arrogante, che dominava gli ambiti delle sinagoghe, cioè del giudaismo di base. In questo i farisei non erano molto diversi dai sadducei e dai sommi sacerdoti, che governavano invece i vertici delle istituzioni giudaiche. Era l'ipocrisia di chi voleva una liberazione della Palestina secondo rigidi schemi mentali, coi quali però difficilmente si sarebbe potuto ottenere un consenso di massa a livello nazionale.

Anche per il Cristo sarebbe stato impossibile organizzare una insurrezione armata fin quando i dissensi tra Giudei e Galilei fossero rimasti così acuti. Bisognava prima convincere i Giudei che sarebbe stato nel loro interesse avere i Galilei e persino i Samaritani dalla loro parte in una battaglia comune.

Ma non era ancora giunto quel momento, e fu costretto a nascondersi sul Monte degli Ulivi (8,1). Era la prima volta che lo faceva e non sarebbe stata l'ultima.

La parte di verità del cap. 7 riguarda senza dubbio la rivalità etnica tra Giudei e Galilei. È probabile che Giovanni avesse voluto mettere in evidenza le difficoltà di conciliare politicamente due etnie così diverse per la realizzazione di un importante obiettivo comune: liberare Israele dai Romani e dal clero politicizzato e corrotto.

Tra i Giudei progressisti vi era chi voleva l'accordo politico coi nazareni; altri però erano decisamente contrari, specie perché avrebbero dovuto riconoscere un leader proveniente dalla Galilea, benché la sua vera origine, come d'altra parte quella di Giovanni, Giacomo, Giuda e di altri ancora fosse proprio della Giudea: si anteponevano questioni ideologiche a questioni politiche e sarà questo l'errore fondamentale dei farisei.

I redattori però, rifiutando di analizzare la rivalità interetnica sul piano politico (i Galilei p. es. si sentivano più rivoluzionari dei Giudei), hanno preferito sostenere che nessuno riusciva a capire che l'origine del Cristo non era affatto terrena bensì divina.

Giovanni Zebedeo per fortuna non cade nella patetica falsificazione di Luca e Matteo di far nascere Gesù a Betlemme, anche se il Cristo del suo vangelo è chiaramente di origine giudaica, essendo stata scelta la Galilea come luogo di rifugio dopo la prima insurrezione fallita. La frase detta da Natanaele va in tal senso considerata spuria ("Può forse venir qualcosa di buono da Nazareth?", Gv 1,46), a meno che egli non l'abbia pronunciata quand'era in Galilea e senza riferimento al luogo d'origine del Cristo.

Il realtà il cap. 7 mostra che anche tra i Giudei stava aumentando il consenso nei confronti del Cristo, al punto che nessuno ebbe il coraggio di arrestarlo. Dunque la sua strategia sembrava apparire giusta: l'ala progressista dei farisei, anche se enormemente ostacolata da quella conservatrice, era possibilista su un'intesa politica anti-romana coi Galilei.

Tutto il cap. 8 è stato invece scritto per dimostrare che nessuna intesa era possibile, neppure con l'ala progressista dei farisei (Nicodemo, Gamaliele, Giairo e anche Giuseppe d'Arimatea, che poté andare tranquillamente da Pilato a richiedere il cadavere del crocifisso, e non è da escludere che anche Giuda avesse militato per qualche tempo tra i farisei).

Da un lato infatti si ha l'impressione che Cristo voglia accettare l'intesa coi farisei progressisti, dall'altro però i risultati del dialogo sono assolutamente sconfortanti: non vi è intesa su nulla. Lo stesso Cristo sembra continuamente anteporre alle questioni di natura politica quelle di natura ideologica, la principale delle quali è la sua figliolanza divina, cui si deve credere in via preliminare.

Cioè mentre nel cap. 7 sono i Giudei che antepongono le loro ideologie religioso-messianiche a una pragmatica intesa politica, ora invece questo ruolo, ben presente nel dialogo sulla figura di Abramo, viene fatto svolgere, dai redattori, allo stesso Cristo. Il che è assurdo, in quanto un leader in cerca di consensi popolari, indispensabili per qualunque insurrezione nazionale, non avrebbe mai subordinato le questioni politico-programmatiche a quelle relative alle opzioni in materia di fede. I manipolatori di questo vangelo qui si sono comportati esattamente come i farisei conservatori.

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9.8) Il racconto del cieconato e la parabola del buon pastore

Il cap. 9 presenta il lungo racconto dell'uomo cieco fin dalla nascita, rielaborato in grandissima parte dai redattori con motivazioni ampiamente polemiche nei confronti dei farisei, ai quali, in tutti questi capitoli fortemente teologizzati, non è più possibile applicare la distinzione politica tra progressisti e conservatori. Il Cristo sembra voler fare cose straordinarie proprio per rimarcare l'abisso che lo separa anche dagli elementi migliori del giudaismo. Molte volte peraltro la parola "Giudei" nel IV vangelo viene usata in senso spregiativo, a sfondo razzistico, senza fare differenze di sorta tra i vari gruppi politici.

Strettamente connesso a questo capitolo è quello successivo, detto "la parabola del buon pastore", che probabilmente, in origine, voleva mostrare l'handicap di non poter parlare esplicitamente, in maniera critica, del proprio nemico, cioè il tentativo di dover usare un linguaggio più sfumato e indiretto quando l'autoritarismo non permetteva di comportarsi diversamente.

Infatti con questa parabola (detta in Giudea) il Cristo si pone come leader politico anche dei Giudei e senza chieder loro di esprimersi su questioni religiose o ideologiche. Quindi si può pensare che il cap. 9 sia stato scritto proprio per sconfessare il valore politico di questa parabola.

In ogni caso anche su questa parabola è intervenuta pesantemente la mano redazionale di qualche manipolatore. È evidentissimo là dove si mostra che una parte dei Giudei era disposta a credergli soltanto perché aveva guarito un uomo cieco dalla nascita.

Dobbiamo quindi pensare che al tempo in cui venne pronunciata detta parabola, il Cristo doveva aver acquisito un certo consenso da parte dei Giudei: si trattava soltanto di aspettare il momento propizio per incrementarlo in maniera decisiva. Nel frattempo però, poiché l'avversione della parte più reazionaria dei Giudei andava aumentando, egli, coi suoi discepoli più fidati, aveva deciso di nascondersi nella Transgiordania, là dove un tempo aveva agito Giovanni il Battista.

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9.9) La festa della Dedicazione e la professione di ateismo

Ora, prima di passare al cap. 11, che segna una svolta decisiva nella vita politica del Cristo, è bene soffermarsi sul racconto relativo alla festa della Dedicazione (10, 22-39).

In quella festa infatti Gesù ebbe un dialogo molto importante con quella parte di Giudei che gli era favorevole. Si può anzi dire che se fino alla festa delle Capanne era stato chiaro che chi voleva eliminarlo, per la violazione del sabato, erano le autorità giudaiche (del Tempio: sadducei e sommi sacerdoti, e delle sinagoghe: i farisei), ora, con la festa della Dedicazione, Gesù aveva deciso di fare un passo avanti e di tastare il polso della gente comune.

Va anzitutto premesso che anche questo racconto è stato ampiamente interpolato, e tuttavia vi è un punto che può in qualche modo aiutarci a comprendere i contenuti della predicazione ateistica del Cristo.

Parlando direttamente con quelli che, la volta precedente, avevano mostrato in qualche modo di credergli, voleva verificare fino a che punto sarebbero stati disposti a rinunciare a fare del loro atteggiamento nei confronti della religione un motivo per decidere se e come aderire alla rivoluzione anti-romana. Voleva cioè toccare con mano quanto le convinzioni religiose avrebbero potuto condizionare il successo dell'insurrezione armata. Doveva infatti sapere prima se esistevano per il suo popolo delle questioni di principio, cui non si sarebbe mai voluto rinunciare.

Lo scoprì subito, anche perché i Giudei, quando erano in gioco i princìpi, non andavano a cercare vie traverse. Quelli che sarebbero stati disposti a credergli, gli chiesero: "Fino a quando terrai l'animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente" (10,24).

Alla domanda insistente, da parte dei Giudei, di dire loro apertamente s'egli era il messia tanto atteso, egli risponde dicendo di esserlo non per motivi politici ma per motivi religiosi. Questa sappiamo essere una palese mistificazione, anche perché il dialogo si sposta continuamente su temi ideologici.

Si faccia però attenzione a come i redattori hanno agito. Qui è meraviglioso vedere come sul significato delle parole si possa equivocare al punto da poter sostenere tesi del tutto opposte. D'altra parte l'ambiguità del linguaggio umano non va considerata come un limite ma come una ricchezza, poiché la comprensione delle parole non è mai un fatto semplicemente lessicale, ma esistenziale, dipendente da dinamiche interiori, spirituali e culturali, come soltanto all'essere umano riesce.

I Giudei chiedono al Cristo se sia il messia, ma non si aspettano una risposta di tipo religioso; il Cristo invece dà proprio questo tipo di risposta, dicendo ch'egli è messia in quanto "figlio di dio". Al che i Giudei riaffermano che sta bestemmiando (il copione sembra essere il solito), poiché nessuno può esserlo in via esclusiva: o tutti sono "figli di dio" o non lo è nessuno. Lui però insiste sulla sua esclusività e quelli tentano di lapidarlo.

Precisiamo meglio questo punto. Quando Gesù afferma: "Io e il Padre siamo una cosa sola" (10,30), i redattori cristiani erano convinti che il lettore avrebbe capito che si trattava di una professione evidente di teismo (ammesso e non concesso ch'egli abbia usato un'equivalenza così esplicita). Viceversa i Giudei non potevano non cogliere in quella frase una professione inequivocabile di ateismo. Se infatti l'uomo si sente come dio, dio non può essere più grande di chi lo pensa.

È vero che i redattori cristiani danno qui per scontata la divinità di Gesù, ma poteva farlo Gesù prima della propria "resurrezione"? Si rendono conto i cristiani che questa scontatezza ha un valore argomentativo equivalente a quello delle famose "prove dell'esistenza di dio", cioè zero? Se dovessimo usare la tautologia per ipotizzare un tipo di dialogo tra due interlocutori, di cui uno vuole convincere l'altro della propria verità, rischieremmo di allestire un teatrino dell'assurdo:

- Voi non mi credete come messia perché non mi accettate come dio.

- E che prova ci dai che lo sei?

- Il fatto che lo sono.

- Dimostra di esserlo diventando messia!

A questo punto il coro o una voce fuori campo avrebbe potuto aggiungere:

- Anche se diventa messia non può dimostrare di essere dio.

Ma i Giudei, attaccati come sono alla loro terra, avrebbero insistito:

- Che ci liberi prima dai Romani, a dio penseremo dopo.

Naturalmente stiamo scherzando. In quel momento infatti, al sentire uno che si paragonava a dio, qualcun altro avrà cominciato a raccogliere da terra delle pietre. Per il reato di bestemmia non c'era neanche bisogno di denunciare il colpevole, lo si poteva lapidare seduta stante e, di fronte a vari testimoni oculari, nessuno avrebbe avuto nulla da ridire.

Fin qui comunque nulla di nuovo: sappiamo bene che un dialogo del genere è completamente inventato. Eppure in esso vi è un aspetto su cui si può pensare che il Cristo abbia detto qualcosa di autentico. Al v. 34, rispondendo all'accusa di volersi fare come dio, egli risponde: "Non è forse scritto nella vostra legge [da notare, en passant, la stranezza dell'aggettivo possessivo, usato come se il Cristo venisse da un altro pianeta]: ‘Io ho detto: voi siete dèi'?". Tale citazione è stata usata dai redattori per dimostrare che Gesù era titolato a qualificarsi come "figlio di dio". In realtà, s'egli l'ha davvero detta, lo scopo era proprio quello di negare il privilegio dell'esclusività che i redattori sin dall'inizio del vangelo avevano voluto attribuirgli. Quel "voi" voleva appunto dire "uomini". Era in sostanza un invito di tipo ateistico, a considerarsi tutti degli dèi, esattamente come faceva lui. Nessuna esclusività quindi, nessun privilegio.

Precisiamo meglio questo aspetto, essendo decisivo per comprendere non solo l'ateismo del Cristo ma anche la mistificazione redazionale.

Noi escludiamo a priori qualunque professione di teismo, in quanto sarebbe condivisa dai redattori cristiani, che in merito hanno un conflitto d'interesse. Tuttavia non è neppure possibile accettare che Gesù abbia fatto una professione di ateismo in termini così esclusivi.

Un uomo che si considera uguale a dio può anche essere un folle. Senza poi considerare che un uomo del genere gli ebrei l'avevano già: era l'odiatissimo imperatore romano (il "divino" Cesare, il "divino" Augusto...), la "bestia che veniva dal mare", come lo chiamava Giovanni nell'Apocalisse, scritta prima del suo vangelo.

Se il Cristo aveva bisogno di un'attestazione di fiducia di questo tipo, per poter governare come un dittatore, avrebbe aspettato un pezzo, anzi, avrebbe fatto meglio a espatriare, perché chiunque sarebbe stato disposto a denunciarlo. "Non ti lapidiamo per un'opera buona, ma per la bestemmia e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio" (Gv 10,33).

Ma Gesù non aveva rivendicato un titolo esclusivo, riservato a lui solo, non aveva posto un'identità privilegiata con la divinità. "Non è forse scritto nella vostra legge: Io ho detto: voi siete dèi?" (10,34).

Dunque i Giudei avevano capito bene: Gesù voleva affermare un'identità tra umano e divino, e forse avevano intuito che se si fosse socialmente generalizzata questa convinzione, in modo che ogni uomo avesse di sé la medesima percezione, il popolo avrebbe potuto fare a meno dei sacerdoti.

Temevano da un lato la presenza di un messia dittatore, quale avrebbe potuto essere nel caso si fosse dovuta accettare la sua presunta divinità; ma nel contempo rifiutavano l'idea di un messia democratico, che mettesse in discussione le basi aristocratiche e classiste della loro società.

Non avevano capito che il modo migliore, dal punto di vista politico, di combattere il teismo dittatoriale degli imperatori romani non era quello di opporre un teismo alternativo, a cui pochi alleati avrebbero potuto credere (per quanto apparisse condivisibile l'idea di negare a ogni essere umano il diritto di equipararsi a dio), ma era quello di opporre un integrale ateismo, in virtù del quale si sarebbe potuto meglio agevolare lo sviluppo della democrazia.8

Insomma, non essendoci alcun dio diverso dall'essere umano, chiunque avrebbe potuto legittimamente ritenersi un dio. Naturalmente, di fronte a un'affermazione del genere, le pietre avrebbero potuto ugualmente tirargliele, rendendo inevitabile la fuga in Transgiordania, ma le motivazioni sarebbero state ben diverse.

Se tutti gli uomini sono "dèi", non ha più senso alcun "dio", non hanno più senso i sacerdoti e il Tempio, e nei confronti del potere e delle istituzioni il popolo si sentirà meno intimorito, più disposto ad agire in autonomia. L'ateismo non viene qui rivendicato per affermare un arbitrio personale, ma per alimentare la partecipazione popolare al governo diretto del paese.

Per tutta risposta, "cercavano allora di prenderlo di nuovo, ma egli sfuggì dalle loro mani" (10,39). Questa volta però non poté salire sul Getsemani, perché probabilmente l'avrebbero ritrovato. "Ritornò quindi al di là del Giordano, nel luogo dove prima Giovanni battezzava" (10,40). Era una sorta di esilio forzato. Tuttavia - dice ancora l'evangelista - "molti andarono da lui... e in quel luogo molti credettero in lui" (10,41 s.).

Quello era il luogo del Battista, che a quel tempo era già morto, giustiziato da Erode. Molti discepoli del Precursore avevano deciso di diventare nazareni.

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9.10) La morte di Lazzaro

L'evento che indusse Gesù a rientrare in Giudea, contro il parere dei propri discepoli, almeno di quelli più prudenti, che temevano un immediato arresto, fu la sconfitta politica (anche militare?) di un importante alleato giudeo dei nazareni: Lazzaro (o Eleazar) di Betania (da non confondere con quello che guidò la resistenza anti-romana nella fortezza di Masada). La situazione si sblocca improvvisamente, ma se dovessimo limitarci ai Sinottici, non ne capiremmo in alcun modo le ragioni.

Noi non sappiamo assolutamente chi fosse Lazzaro di Betania: Giovanni ne parla qui per la prima volta, dedicandogli tanti di quei versetti da lasciare stupito il lettore, anche in considerazione del fatto che nei Sinottici non c'è neanche una riga di questo episodio, anzi il nome stesso di Lazzaro non viene mai citato, se non in una parabola allegorica di Luca.

A differenza comunque dei Sinottici, che hanno censurato del tutto un evento così politicamente scomodo, il IV vangelo non solo lo riporta in maniera mistificata, descrivendolo come il miracolo più sensazionale del Cristo, ma gli dedica ben 54 versetti, mostrando così che quell'episodio costituì un vero spartiacque nella vicenda politica del Cristo.

Infatti fu proprio dopo la sconfitta e la morte di Lazzaro che il Cristo decise di compiere l'insurrezione armata. Questo perché aveva capito che se ai Giudei egli si fosse presentato come continuatore dell'iniziativa del giudeo Lazzaro, si sarebbe evitato lo sconforto dei seguaci di quest'ultimo e i consensi sarebbero aumentati considerevolmente. E così fu, al punto che una maggioranza non ben identificata del Sinedrio (ma si può facilmente presumere il partito sadduceo e i sommi sacerdoti) chiese che lo si eliminasse senza neppure discutere con lui sulla fattibilità dell'idea di realizzare qualcosa di significativo contro Roma. Il che lo costrinse di nuovo a mettersi in clandestinità (a Efraim), in attesa che arrivasse tutto il movimento nazareno a Gerusalemme, messo in stato d'allerta dai suoi discepoli, affinché si approfittasse della festa di Pasqua. Paradossalmente erano più pericolosi i Giudei conservatori degli stessi Romani.

Da notare inoltre che il IV evangelista descrive una delle due sorelle di Lazzaro, Maria, come se il lettore del suo vangelo l'avesse già conosciuta prima: "quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi coi suoi capelli" (11,2). Questa cosa, Maria, la farà più avanti, all'inizio del cap. 12: perché anticiparla adesso, quando non ci sarebbe stato alcun motivo di confondere lei con un'altra donna avente lo stesso nome? Se un redattore ha voluto interpolare il passo facendo credere che questa Maria era la stessa prostituta descritta in Lc 7,37, ha sicuramente compiuto un'opera di disinformazione che a dir indegna è poco.

Maria infatti, per quanto tutta la pericope giovannea sia stata ampiamente e abilmente manipolata, allo scopo di censurare un evento di chiara matrice politica, appare qui come una seguace diretta del messia, in grado addirittura di sapere dove egli, coi suoi discepoli, se ne stesse nascosto.

Lazzaro doveva essere stato un leader messianico, che probabilmente - non essendo qui detto - aveva subito una grave sconfitta militare in uno scontro coi Romani. Gesù doveva conoscerlo molto bene, e certamente era uno dei suoi alleati.

Quando le sorelle di lui dicono a Gesù: "Se tu fossi stato qui non sarebbe morto" (Gv 11,21.32), intendono forse riferirsi al fatto ch'egli l'avrebbe difeso con successo sul piano militare, non perché in quel momento avesse più seguaci di lui (essendo coi suoi discepoli nascosto a Efraim), ma perché l'avrebbe probabilmente dissuaso dal compiere un'operazione azzardata.

È difficile tuttavia pensare che Gesù non fosse stato informato in tempo della decisione che Lazzaro aveva preso di tentare un'azione di guerriglia o una qualche forma di insurrezione. Perché quindi non uscire subito dal nascondiglio e andarlo ad aiutare? La ragione la si capisce dalle obiezioni che gli muovono i suoi stessi discepoli: "poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?" (11,8).

Non avrebbe dunque avuto senso soccorrerlo da solo, senza l'aiuto di molti discepoli, e quando alla fine la maggioranza dei Dodici decise di seguirlo, c'è ancora qualcuno, tra loro (Tommaso), che pensava che sarebbero andati là a morire tutti (11,16).

La situazione era indubbiamente pericolosa, non solo per l'ostilità manifesta dei capi giudei, ma anche perché il paese era sempre più controllato dai Romani e dai loro collaborazionisti. Dai tempi del censimento romano (6 d.C.), i procuratori mandati da Roma a governare, più o meno direttamente, la Palestina erano stati uno peggio dell'altro, quanto ad avidità e prepotenza. Pilato non faceva eccezione.

Tuttavia Gesù comprende che la morte di Lazzaro poteva essere trasformata in un'occasione per riproporre alle folle giudaiche il tema di un'insurrezione armata nazionale, guidata dal movimento nazareno, che al proprio interno non faceva differenze di principio tra Giudei, Galilei e Samaritani, e che non avrebbe permesso che le questioni ideologiche risultassero più importanti di quelle politiche e militari. Sui principi si sarebbe potuto discutere solo dopo essersi assicurati che i Romani avrebbero lasciata libera la Palestina.

Il racconto di questa pseudo-resurrezione è interessante non solo perché costituisce uno spartiacque tra l'esilio forzato in Trans-giordania e la decisione di rientrare a Gerusalemme con intenti rivoluzionari, ma anche perché, con grande maestria letteraria, Giovanni, mettendo in risalto le differenze tra le due sorelle, riesce a farci capire, nonostante le manipolazioni redazionali, che il progetto di liberazione del movimento nazareno era molto noto in Giudea, fruiva di significativi appoggi (anche logistici) e soprattutto possedeva elementi di caratterizzazione non solo sul piano politico ma anche su quello umano.

Al sentire che Gesù stava arrivando, la prima a corrergli subito incontro fu Marta, che gli disse: "Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto. Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, te la concederà" (11,21 s.).

La prima frase è autentica, la seconda è manomessa. Il redattore, con furbizia, ha voluto qui anticipare una cosa la cui interpretazione sarebbe dovuta andare nel senso da lui voluto, quello mistico.

Ma se il testo è interpolato, doveva essercene un altro originario, e quale poteva essere? Proviamo a immaginarcelo con un piccolo sforzo di fantasia. Marta, con enfasi politica, può forse aver detto le seguenti parole: "Mi rendo conto che non sei potuto arrivare in tempo perché Israele è più importante di mio fratello. Ora però che sei uscito dall'esilio non puoi tirarti indietro: la causa che vi univa era la stessa".

Dunque, Cristo, per esigenze politiche superiori non aveva potuto esporsi, ma ora che il suo alleato più fidato era stato eliminato e che Betania distava solo due miglia da Gerusalemme, poteva forse avere dei ripensamenti?

Gesù però le rispose (ipoteticamente) che Lazzaro non avrebbe dovuto agire di sua iniziativa, senza concordare con lui le operazioni. Saper scegliere i migliori mezzi e metodi di lotta politica, è un'arte, il cui esito non può essere assicurato semplicemente dalla legittimità dell'obiettivo che ci si prefigge. Era una lezione di strategia politica, che Gesù diede a Marta. Non era questione di "volontà personale" fare o non fare la rivoluzione: era questione di saper leggere la realtà in maniera obiettiva, vagliando con cura il peso delle forze in campo.

Con Maria però non poteva fare o dire le stesse cose. Della famiglia di Lazzaro, Maria rappresentava il lato umano non quello politico (quello che in Lc 10,41 viene molto esaltato, facendo invece passare Marta, intenta nelle faccende domestiche, per una sempliciotta casalinga).

Dopo avergli detto la stessa frase della sorella: "Se tu fossi stato qui, lui non sarebbe morto" (Gv 11,32), e avergliela detta in ginocchio, piangendo, non aggiunse altro. E neppure Gesù disse una sola parola, anzi, vedendola così prostrata ai suoi piedi, si commosse e pianse con lei, suscitando una generale commozione tra tutti i presenti. Doveva per forza essere un'amicizia di vecchia data.

Il dolore personale aveva raggiunto il culmine, aveva toccato gli affetti: a Betania Gesù decise che sarebbe entrato a Gerusalemme per compiere la rivoluzione. Bisognava soltanto preparare accuratamente l'ingresso, in modo tale che sia le autorità giudaiche sia quelle romane si spaventassero al vedere l'enorme popolarità del suo seguito e rinunciassero a compiere in pubblico qualunque azione ostile.

I seguaci di Lazzaro si unirono ai nazareni nell'organizzare la cosa nel miglior modo possibile, attendendo il momento più favorevole: la Pasqua.

Intanto i farisei e i sommi sacerdoti, avvisati dalle loro spie, convocarono, con molta preoccupazione, il Sinedrio, deliberando che il Cristo doveva assolutamente essere arrestato, con la motivazione che se l'avessero lasciato fare, i Romani avrebbero distrutto il Tempio e l'intera nazione (11,48).

Invece di allearsi con loro, in funzione anti-romana, li percepivano come pericolosi nemici interni, alla stregua di terroristi. Volevano anch'essi la liberazione d'Israele, ma salvaguardando i privilegi acquisiti. Guardando il popolo dall'alto in basso, erano persuasi che contro il colosso romano, ne sarebbero usciti sconfitti.

Fu proprio Caifa, il sommo sacerdote allora in carica, a farli decidere in maniera univoca e definitiva: "è meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera" (Gv 11,50). Il che voleva dire, in altre parole: "anche se ritenete che nei confronti del Cristo possano valere simpatie personali, cercate di guardare le cose oggettivamente, pensando alle conseguenze per l'intero popolo. E se anche temete che molti si ribelleranno alla morte del loro messia, sarà sempre meglio che vedere distrutta l'intera nazione. È vero che dobbiamo liberarci dei Romani, ma non potremo certo farlo fare a uno che non riconosce a noi alcuna autorità".9

Il Sinedrio approvò, spiccando un mandato di cattura. "Gesù pertanto non si faceva più vedere in pubblico tra i Giudei, ma si ritirò coi suoi discepoli a Efraim, in una regione desertica" (11,54), in attesa della Pasqua.

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9.11) Addendum. La delibera del Sinedrio contro Gesù

La manipolazione dei vv. 47-57 del cap. 11 del vangelo di Giovanni presenta aspetti piuttosto interessanti, anche perché l'autore originario di questa pericope sembra potersi avvalere di fonti del tutto sconosciute ai redattori dei Sinottici, il che rendeva necessario un successivo intervento redazionale abbastanza sofisticato. Che sia una manipolazione volta a ridimensionare la valenza politico-rivoluzionaria del messaggio di Gesù appare soltanto oggi piuttosto evidente.

Si noti anzitutto che tipo di reazione si ebbe dopo la sconfitta del movimento politico di Lazzaro di Betania. Siccome a questo movimento molti farisei avevano aderito, furono questi a prendere l'iniziativa di convocare il Sinedrio. Lo fecero non tanto perché Lazzaro era stato sconfitto, quanto perché Gesù, proprio in seguito a quella sconfitta, non aveva scartato l'intenzione di entrare a Gerusalemme, durante la festività della Pasqua, al fine di verificare se vi erano le condizioni per compiere l'insurrezione nazionale.

La "resurrezione" di Lazzaro non è altro che una metafora della volontà di far rivivere l'idea dell'insurrezione: ovviamente nel testo la metafora viene descritta in maniera mistificata, in quanto i vangeli vogliono mostrare un Cristo spoliticizzato, di natura divina, sicché anche Lazzaro non appare come un politico ma come un cittadino comune morto a causa di un male fisico (il che però non spiega perché Gesù avesse accettato di uscire allo scoperto e di compiere pochi giorni dopo l'ingresso trionfale nella capitale).

In altre parole proprio in quel tragico frangente Gesù si convince di poter ottenere un ampio consenso da parte dei Giudei progressisti contro gli occupanti Romani e i loro collaborazionisti sadducei (come puntualmente avverrà durante l'ingresso messianico). In particolare contava sull'appoggio dei farisei, di fronte ai quali non ha paura di mostrarsi quando va a piangere sulla tomba dell'amico Lazzaro, uscendo dalla clandestinità, contro il parere degli apostoli, che temevano seriamente per la loro incolumità.

Il soggetto che parla ai vv. 47-48 non sembrano essere i farisei progressisti, ma quelli conservatori, oppure i sadducei o i sommi sacerdoti. L'aggiunta del v. 47b è evidente: l'autore ha voluto far credere che si temeva la grande popolarità di Gesù a motivo dei suoi straordinari prodigi, dei quali il maggiore, in quella occasione, era appunto la "resurrezione fisica" di un morto!

In realtà il Sinedrio era venuto a conoscenza che Gesù, a Betania, aveva ventilato l'ipotesi di compiere l'insurrezione durante la Pasqua. Qui le parole dei vv. 47-48 sembrano essere conclusive di un racconto fatto dai farisei testimoni di quanto Gesù aveva detto in occasione della morte di Lazzaro. Si era preso atto di una eventualità molto fattibile e ci si stava chiedendo come reagire.

La domanda viene posta da chi detiene il potere e non vuole perderlo. Costoro sanno benissimo che i Romani sono il loro principale nemico, ma sanno anche che non possono mettersi esplicitamente dalla parte di questo nemico, se non vogliono perdere l'ultima credibilità rimasta agli occhi del popolo. Devono cercare quindi di giustificare, di fronte al popolo, la decisione di opporsi all'insurrezione armata, facendo leva esclusivamente sul fatto che i tempi non erano ancora sufficientemente maturi.

Ecco quindi la motivazione scelta: i Romani son troppo forti; un qualunque tentativo insurrezionale comporterebbe, in quel momento, la fine d'Israele e la distruzione di Gerusalemme. Questo partito conservatore non chiede di allearsi con Roma, ma non crede neppure nel valore democratico del popolo, ed è convinto che il progetto del Cristo sia non solo del tutto irrealizzabile, ma anche particolarmente pericoloso per i destini della loro nazione, in quanto sanno benissimo che le ritorsioni dei Romani non perdonano.

Ora si faccia attenzione al v. 49. Anzitutto si dice che interviene Caifa, un esponente del medesimo partito conservatore di quei parlamentari che erano intervenuti poco prima. Caifa - come viene detto subito dopo - era il sommo sacerdote di quell'anno, cioè la massima carica del Sinedrio. Qui probabilmente interviene per ultimo, dopo aver ascoltato tutti gli altri.

Ai vv. 49-50 dice una cosa che apparentemente sembra non avere alcun senso. Se la prende, infatti, con chi ha sostenuto che se Gesù viene lasciato fare, otterrà molti consensi e per Israele sarà la fine. Egli, in realtà, sta dicendo la stessa cosa. Perché quindi accusare i suoi colleghi di partito di "non capire nulla"? Qui è evidente che è stato tolto o manipolato qualcosa. Se davvero si sta rivolgendo ai suoi colleghi di partito, deve averlo fatto per convincerli che, anche se Gesù poteva ottenere molti consensi, l'unico modo d'impedirlo era quello di arrestarlo immediatamente, prima ancora che lo facessero i Romani. In questa maniera si sarebbe fatta vedere la buona volontà da parte delle istituzioni di non creare pericolose quanto inutili tensioni col nemico. Anzi, comportandosi così si potevano addirittura ottenere da Roma ulteriori vantaggi e spazi di manovra.

In altre parole, l'intervento di Caifa era solo un invito a non aver dubbi sulla necessità del mandato di cattura, anche se, da come si esprime, sembra che ci sia stato dell'altro. Ci si chiede infatti come potesse sostenere una posizione del genere di fronte ai farisei progressisti, per i quali non poteva non apparire strano che non si cercasse neppure di parlamentare col Cristo. Era infatti impossibile non chiedersi quante possibilità effettive vi fossero perché l'insurrezione riuscisse vittoriosa. Perché escluderla a priori?

Dunque, o i farisei progressisti non erano presenti nel Sinedrio, oppure Caifa deve aver detto qualcosa per convincere anche loro. Solo che da questa breve e molto manomessa pericope non lo si capisce. L'unica cosa che si avverte è il timore dei conservatori di fronte alla popolarità di Gesù: hanno cioè paura che, arrestandolo, il popolo si ribelli. Caifa invece fa la parte del decisionista e li pone di fronte a un'alternativa: se non lo arrestano e il popolo fa l'insurrezione nazionale, Israele è perduta, perché Roma, in quel momento, è troppo forte; se invece lo arrestano, rischiando che il popolo si ribelli contro il Sinedrio, la nazione non sarà perduta, perché i Romani capiranno la differenza tra Giudei eversivi e collaborazionisti.

Era un discorso squisitamente politico, dai toni nient'affatto realistici e diplomatici bensì opportunistici, che il redattore ha voluto trasformare in un qualcosa di mistico. Infatti ai vv. 51-52 scrive che Caifa aveva "profetizzato" una cosa che noi oggi consideriamo incredibile: "Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire in uno i figli di Dio dispersi". Cioè aveva detto questo a sua insaputa, proprio perché era "sommo sacerdote"! Ecco un classico esempio di come si può trasformare una motivazione politica, con cui si è voluta la morte di Gesù, con una di tipo religioso, con cui si è voluto giustificare che quella decisione rientrava comunque in un misterioso progetto divino, che si sarebbe rivelato, nella sua essenza, solo a cose fatte, cioè dopo la "resurrezione" del Cristo.

L'ultima cosa riguarda la delibera del Sinedrio di arrestare Gesù con l'intenzione di farlo fuori. Il fatto che Gesù venga immediatamente a conoscenza di una decisione del genere, lascia pensare ch'egli avesse degli alleati all'interno dello stesso Sinedrio. E questi alleati non potevano essere che i farisei progressisti. Egli quindi ritornò nella clandestinità e si nascose in una contrada vicina al deserto coi suoi discepoli più fidati.

All'ultimo versetto però viene detto che non furono solo i capi dei sacerdoti a volerlo arrestare, ma anche i farisei, generalmente intesi, senza fare distinzione tra conservatori e progressisti. Ciò rientra nella tendenza antigiudaica di tale vangelo, il quale, pur essendo il più politico dei quattro canonici, tende a usare la parola "giudeo" o "fariseo" in chiave metafisica, come una sorta di entità negativa nei confronti del cristianesimo.

Qui i redattori danno per scontato che tutti i sadducei e tutti i farisei volessero la sua morte. D'altra parte, quanto ad antisemitismo, i sinottici non sono da meno. In questi vangeli, in sostanza, si sostiene che Gesù non aveva alcuna intenzione di compiere un'insurrezione armata per la liberazione nazionale della Palestina; che l'odio nei suoi confronti era unicamente di tipo religioso; che la distruzione di Israele è avvenuta perché Dio ha voluto punirla per non aver creduto nella resurrezione di Gesù (e quindi nella sua natura divina) e per aver continuato ad affermare un primato storico ingiustificato della nazione israelitica, e quindi che la fine d'Israele ha aperto le porte alla cristianizzazione del mondo pagando, cioè alla universalizzazione del messaggio "religioso" del Cristo.

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9.12) L'ingresso messianico

E la Pasqua venne e fu l'ultima. Pesava sulla testa di Gesù il mandato di cattura e i simpatizzanti della capitale si chiedevano se, per questa ragione, sarebbe venuto lo stesso.

Una settimana prima s'era recato di nuovo a Betania, dalle sorelle di Lazzaro, per rassicurarle della sua intenzione "messianica" e per mettere a punto gli ultimi preparativi.

Maria fu talmente convinta ch'egli avrebbe trionfato sui suoi avversari che prese a ungerlo come se avesse già vinto, usando un profumo così costoso da destare la riprovazione dell'apostolo Giuda, ferrato economista, il quale, evidentemente, non era del tutto convinto della riuscita dell'impresa e che in ogni caso avrebbe preferito devolvere il ricavato dell'unguento ai poveri. Al che Gesù gli obiettò che quel profumo gli era già stato assegnato da Maria per il giorno della propria sepoltura.

Nonostante lo scetticismo di Giuda, il giorno dell'ingresso messianico fu davvero trionfale. Le premesse c'erano tutte per zittire le autorità politico-religiose e disarmare la guarnigione romana. Stante il livello dell'ovazione popolare, non ci sarebbe stato bisogno di alcun bagno di sangue, anche perché non pochi dovettero apprezzare la scelta strategica, democratica e pacifista, di entrare in groppa non a un cavallo ma a un asinello.

Nessuno degli oppositori, stranieri o nazionali, poté far nulla, anzi tremarono. Gli stessi farisei se ne resero conto: "Vedete che non concludete nulla? Ecco che il mondo gli è andato dietro!" (12,19). Resta un mistero con chi ce l'avessero: sembra più in realtà un rimprovero da parte dei partiti conservatori nei confronti dell'ala progressista dei farisei. Persino alcuni esponenti del mondo pagano erano disposti a scendere in guerra al suo fianco contro Roma (12,20), a testimonianza che la sua fama aveva oltrepassato i confini e che esisteva persino la possibilità di un'intesa anti-romana con alcune popolazioni ellenistiche, oppresse non meno di quelle ebraiche.

Noi non sappiamo se in quel momento il partito fariseo si stesse spaccando in favorevoli e contrari all'insurrezione; sappiamo soltanto - perché è lo stesso Giovanni a scriverlo - che "anche tra i capi molti credettero in lui, ma non lo riconoscevano apertamente a causa dei farisei, per non essere espulsi dalle sinagoghe" (12,42).

Galilei e Giudei insieme, appoggiati dai Samaritani, da vari gruppi politici e persino da alcune compagini di origine greca o giudaico-ellenistica, se avessero eliminato la presenza ostile dei Romani, avrebbero contemporaneamente estromesso dal potere politico i loro collaborazionisti e ridimensionato di molto il potere del clero corrotto e autoritario.

La cosa che più stupisce è che, nonostante questo incredibile successo, che sicuramente galvanizzò non solo i nazareni, ma l'intera città, facendo sperare in una rivoluzione imminente, Giovanni ad un certo punto scriva che, dopo aver fatto i suoi discorsi, Gesù "se ne andò e si nascose da loro" (12,36).

Che cosa sarebbe dovuto accadere perché egli non avvertisse la necessità di nascondersi? E perché viene detto che, nonostante quella grandiosa ovazione, "non credevano in lui" (12,37)? Prima di decidersi, Gesù aveva forse dato un ultimatum ai poteri costituiti ed essi l'avevano sdegnosamente rifiutato?

Nessuno ebbe il coraggio di arrestarlo, anzi, vien da pensare che in quel momento la guarnigione romana temesse seriamente la propria fine. Al cospetto di un'intera città in rivolta, le possibilità di un'efficace resistenza erano praticamente nulle; senza il soccorso di varie legioni, provenienti da Roma, non restava che arrendersi, sperando in cambio d'aver salva la vita.

Qui possiamo immaginarci quanta fatica debbono aver fatto i manipolatori di questo vangelo per togliere agli ultimi giorni del Cristo qualunque indizio potesse far sospettare che in quella vicenda vi fosse qualcosa di politico. I Sinottici addirittura avevano deciso di mettere l'epurazione del Tempio subito dopo l'ingresso messianico, come per dire che se proprio vi fu qualcosa di politico, al massimo si trattò di una semplice azione "purificatrice", per la quale non occorreva certo un esercito di cinquemila o addirittura diecimila persone!

Sbagliando completamente e volutamente la cronologia dei fatti, gli autori dei Sinottici (che poi il principale è Marco, portavoce di Pietro), miravano a togliere a quell'ingresso trionfale l'espressa motivazione insurrezionale anti-romana (ricordiamo che Pietro era armato nel Getsemani, e come lui tutti gli altri apostoli, proprio perché l'aveva chiesto Gesù: "chi non ha una spada venda il mantello", Lc 22,36 ss.).

I redattori del IV vangelo cercarono in tutti i modi di dimostrare che il Cristo era entrato a Gerusalemme non per vincere politicamente ma per perdere e quindi per vincere religiosamente. Era entrato lì per morire, e siccome questo suo desiderio non poteva essere capito, tutti i dialoghi vengono costruiti in modo che, non potendo egli essere capito, non poteva che essere ucciso. Sono dialoghi della follia religiosa, sono in realtà monologhi di chi crede di poter trovare nel sacrificio volontario di sé il significato della propria missione di vita, che poi coincide col fallimento politico-rivoluzionario del cristianesimo petrino.

I redattori, cristiani politicamente sconfitti, presentano un Cristo che vuole consapevolmente suicidarsi; solo che per dimostrare al suo dio che era nel giusto, che non era un folle senza speranza, fa in modo che siano gli altri a ucciderlo, dispone cioè le cose in cui risulti che tutta la responsabilità ricade sui perfidi Giudei, che si servirono degli ignari Romani come loro strumento di morte.

La principale mistificazione della storia fu costruita sfruttando abilmente l'ambiguità del linguaggio umano, come solo dei grandi intellettuali di origine ebraica avrebbero saputo fare.

Sapendo come poi andarono a finire le cose e dovendo far valere un'affermazione non politica ma "mistica" del messia, i manipolatori han preferito accentuare gli aspetti del dissenso interno, attribuendo interamente le ragioni della crocifissione alla volontà oppositiva dei capi giudei e dei farisei.

A ben guardare infatti, non si ha l'impressione, proseguendo la lettura al cap. 13, che Gesù e i Dodici si stessero nascondendo (il Cenacolo era dentro le mura). Presso il Monte degli Ulivi si recheranno soltanto dopo aver cominciato a sospettare la possibilità di un tradimento o comunque di una manovra pericolosa del nemico.

Possiamo però ipotizzare che il Cenacolo fosse diventato il loro quartier generale, da cui sarebbero dovute partire tutte le indicazioni tattiche per la riuscita dell'impresa. Quindi era un luogo da tenere segreto: Luca dice espressamente che venne allestito solo da Pietro e Giovanni (22,8 ss.). La tradizione vuole che il Cenacolo appartenesse al padre o a un parente dell'evangelista Marco, che allora era un ragazzino.

In quella stessa notte si doveva compiere la rivoluzione. L'ordine che Gesù diede a Giuda, di avvisare qualcuno, in maniera ultimativa, per sapere, dalla risposta che avrebbe dato, come ci si sarebbe dovuti regolare, era perentorio: "Quello che devi fare, fallo presto" (13,27). I Dodici e tutti gli altri discepoli attendevano con impazienza l'ultimo segnale prima della rivolta. Dal tempo che Giuda avrebbe impiegato per eseguire la consegna, si poteva finalmente avere un quadro generale della situazione, sapere esattamente su chi si poteva contare e chi no.

Giuda, tuttavia, non eseguì l'ordine o almeno non lo fece come gli era stato chiesto. Preferì lasciarsi condizionare dalle persone che doveva contattare, illudendosi di poter gestire la situazione autonomamente. Probabilmente anche lui, come i farisei, riteneva sì necessario liberarsi dei Romani, ma prematuro il momento di farlo, temendo conseguenze catastrofiche per il suo paese.

Purtroppo però non solo non eseguì l'ordine alla lettera, ma rivelò anche al nemico dove si trovava il quartier generale dei rivoltosi e, quando la coorte romana della Fortezza Antonia e le guardie del Tempio non vi trovarono nessuno, peggiorò ulteriormente la situazione accompagnando quella turba armata presso il Getsemani, dove altre volte i discepoli si erano nascosti.

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9.13) L'arresto e il processo (fonti)

Che il Cristo fosse una persona democratica lo si comprende anche dal modo in cui volle gestire il proprio arresto.

Essendosi reso conto della grande sproporzione di forze in campo, propose agli avversari un patto: di consegnarsi spontaneamente, senza reagire, a condizione che i suoi potessero andarsene; in questa maniera non vi sarebbe stato spargimento di sangue, nessuno avrebbe rischiato la vita.

Quelli accettarono, e i discepoli ne approfittarono per mettersi in salvo. Pietro, che prima aveva cercato di reagire impulsivamente all'arresto, colpendo di spada Malco, un servo del sommo sacerdote Anna (Anano ben Seth), suocero di Caifa, decise, insieme a Giovanni, di non fuggire ma di seguirli da lontano.

Gesù non venne portato subito da Caifa ma da Anna, che aveva tenuto la carica del sommo sacerdozio dal 6 al 15 d.C. e che al tempo di Caifa continuava ad essere una persona molto influente (ben sei sommi sacerdoti successivi saranno suoi figli o appartenenti alla sua famiglia: una cosa senza precedenti). Proprio con lui però era iniziata la serie di sommi sacerdoti la cui carica doveva sottostare al placet dei governatori romani. Non si sa perché e come, ma Giovanni era conosciuto da Anna, perché, a differenza di Pietro, poté assistere al primo interrogatorio, molto breve, che gli accusatori fecero a Gesù.

Grazie alle sue conoscenze, Giovanni fece entrare nel cortile della casa di Anna anche Pietro, che poi si mise, insieme alle guardie che avevano catturato Gesù, attorno a un fuoco per scaldarsi.

Anna trattò Gesù come fosse un terrorista, chiedendogli di rivelare i nomi dei suoi collaboratori, e Gesù si difese dicendo d'aver agito sempre in pubblico, quando ciò gli era possibile. Al soldato che lo colpì al volto, per non aver risposto come Anna avrebbe voluto, egli disse, dando una lezione di democrazia alle forze dell'ordine: "Se ho parlato male, dimostrami dov'è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?" (18,23). Parole del tutto opposte a quelle di quei militari che di fronte a chi li accusa, a guerra finita, di aver compiuto massacri orrendi, si giustificano dicendo d'aver semplicemente eseguito degli ordini.

Vedendo che non si otteneva nulla, Anna lo mandò subito da Caifa. Mentre uscivano dal cortile, Pietro, temendo di essere stato scoperto da un parente di quello cui aveva cercato di spaccare la testa, negò di essere un discepolo di Gesù.

Giovanni non nega l'udienza presso Caifa, ma, non riportando neanche una parola, è da presumere o che di essa non vi siano stati testimoni oculari al seguito di Gesù, oppure che il suo svolgimento fosse stato analogo a quello precedente. In entrambi i casi vi è una discrepanza notevole coi Sinottici, nei quali l'udienza fu particolarmente drammatica, al punto che Caifa e tutto il Sinedrio, dopo aver constatato l'ateismo di Gesù, che diceva d'essere il figlio di dio, lo giudicarono reo di morte; solo che, invece di eseguire la sentenza (cosa che avrebbero tranquillamente potuto fare, come anche vari anni dopo faranno con Giacomo Zebedeo, con Giacomo fratello di Gesù, con Stefano...), decisero di consegnarlo a Pilato, per farlo condannare come sedizioso politico.

Secondo Pietro, che scrive attraverso Marco, il motivo ufficiale per cui i sacerdoti consegnarono Gesù a Pilato era stato perché, contro la loro stessa volontà, voleva diventare "re d'Israele". Ma Gesù - secondo la versione di Pietro - non voleva affatto diventare "messia politico", sicché alla resa dei conti l'accusa era del tutto falsa e pretestuosa: la vera motivazione dell'arresto, stando a Mc 15,10, fu l'invidia del fatto ch'egli aveva più popolarità di loro, maggiore autorevolezza e credibilità. Di conseguenza Pilato, per accontentarli ed evitare fastidi al proprio potere (Mc 15,15), accettò, obtorto collo, di crocifiggerlo. Agli occhi dei sacerdoti egli appariva come un sovrano legittimo o comunque come un dato di fatto imprescindibile.10

Nel vangelo di Giovanni le cose risultano invece capovolte, nonostante le molteplici manipolazioni redazionali. Pilato appare pienamente corresponsabile della morte di Gesù: al momento della cattura sul Getsemani era infatti presente una "coorte romana" (18,3), e quando i Giudei portarono Gesù al pretorio, Pilato li stava aspettando.

I sacerdoti danno l'impressione di voler consegnare Gesù per ricevere da Pilato dei trattamenti di favore. Anzi, gli fanno addirittura capire che se non lo condannerà, andranno a riferirlo all'imperatore (19,12). Glielo consegnano perché sanno di non avere la sufficiente autorità (non legale ma istituzionale) per condannarlo alla lapidazione. Temono una reazione popolare.

Pilato recita la parte dell'ingenuo, del giudice equidistante, che vorrebbe processare Gesù secondo le procedure romane. Anche lui teme di non avere sufficienti consensi per condannare un leader la cui popolarità in quel momento era enorme. Sa di dover trovare degli escamotage per convincere la folla anti-romana a fare la scelta sbagliata.

Il primo è quello di far credere al pubblico di poter decidere chi salvare e chi condannare. È disposto a rischiare che, mettendo alla pari un pericoloso sovversivo come Barabba e uno che lo stava diventando, la folla scelga di liberare Gesù. Ma la folla scelse Barabba, e Pilato ne approfittò immediatamente per far flagellare il Cristo.

Pilato era stato obbligato al processo-farsa perché sapeva bene che non avrebbe potuto eseguire immediatamente la sentenza capitale ponendo Gesù sullo stesso piano di Barabba. Doveva compiacersi il favore di chi lo odiava in quanto occupante straniero.

Il secondo escamotage fu quello di presentare alla folla il Cristo orrendamente flagellato e di sostenere che se anche lo avesse liberato, il presunto messia non sarebbe stato in grado di fare alcunché. Era un modo per screditarlo, rendendo quasi inevitabile la decisione di condannarlo. Anche questa volta il procuratore non sbagliò.

Ci volle un'intera mattinata prima che Pilato potesse decidere la sentenza di morte. E per gli altri due rivoltosi, che decise di far crocifiggere insieme a Gesù, non si spese una sola parola.

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9.14) Addendum. L'autoconsegna del Cristo

Il fatto che Gesù Cristo abbia accettato di consegnarsi spontaneamente ai suoi carnefici è parso così inconsueto ai suoi discepoli da indurli, soprattutto dopo la scoperta della tomba vuota, a divinizzarlo. In sostanza il ragionamento che dovevano aver fatto non poteva che essere il seguente: se Gesù era davvero risorto, aveva tutte le possibilità per sottrarsi a una fine così ingloriosa, quindi, se non l'aveva fatto, era stato perché o non poteva farlo (e questa è la versione dei Sinottici) o non voleva farlo (e questa è la versione del IV vangelo).

La sua scelta di non farlo venne interpretata in maniera del tutto mistica, in un primo momento come una forma di obbedienza a una volontà superiore, quella del Dio-padre, che aveva bisogno del sacrificio del Figlio per riconciliarsi col genere umano, che lo stesso Figlio aveva generato; in un secondo momento invece come una forma di esaltazione, in quanto nel IV vangelo manipolato i redattori arrivano addirittura a sostenere che proprio nel momento in cui Gesù accetta di morire per i propri discepoli, è in grado di dimostrare la sua perfetta identificazione col Dio-padre, nel senso che l'idea di morire non gli era stata imposta da una volontà superiore, ma partiva dalla sua stessa volontà, e il Padre l'aveva condivisa, sicché il Cristo trionfa proprio quando sale sulla croce. Di qui quella che può essere definita "la mistica della morte".

Tale ricostruzione evangelica dei fatti è mistificante o no? Indubbiamente lo è, sia nel caso dei Sinottici che nel IV vangelo. Infatti per un esegeta è sufficiente esaminarla sul piano storico per comprendere che la decisione di autoconsegnarsi, da parte di Gesù, era conseguente al tradimento da parte di un proprio importante discepolo, e soprattutto era conseguente alla constatazione che, al momento della cattura, la disparità delle forze in campo sarebbe stata deleteria per i propri seguaci.

Tuttavia, siccome l'autoconsegna fu la condizione per ottenere la libertà dei discepoli, sarebbe sciocco non pensare ch'egli abbia sperato, sino all'ultimo, che i suoi lo liberassero. I discepoli avrebbero dovuto, anche a prescindere dalla cattura del loro leader, organizzare la prevista insurrezione armata con cui neutralizzare la guarnigione romana stanziata nella Fortezza Antonia, nonché le guardie giudaiche a tutela della sicurezza del Tempio. Il non averlo fatto sta a indicare una certa mancanza di coraggio o di strategia organizzativa. La guida operativa del movimento nazareno si era irrimediabilmente sfaldata nel momento stesso in cui era stato catturato il suo principale leader. Difficile, in tal senso, ritenere che l'unico traditore sia stato l'apostolo Giuda.

Solo dopo la sua morte avverrà una certa ricomposizione, ma non su basi eversive anti-romane. La contrapposizione sarà soltanto nei confronti della classe sacerdotale giudaica. Per il resto ci si limitò ad attendere una parusia immediata e trionfale del Cristo risorto, così come andava predicando Pietro.

La principale mistificazione dei vangeli sta proprio nel fatto che nei confronti di questa mancanza di coraggio e di strategia rivoluzionaria, in senso politico, non è stata fatta alcuna autocritica. Quando Paolo di Tarso, in quanto esponente di quel partito farisaico che aveva consegnato Gesù nelle mani dei Romani, inizia a fare il "mea culpa", l'intenzione non è più quella di compiere un'insurrezione nazionale anti-romana, ma soltanto quella di rompere col giudaismo tradizionale.

In altre parole, mentre Paolo, quand'era fariseo, rappresentava coloro che non avrebbero potuto appoggiare l'idea di Gesù di compiere l'insurrezione, proprio perché lo vedevano troppo critico nei confronti del giudaismo ortodosso, viceversa, quando diventa cristiano usa la critica nei confronti del giudaismo per rinunciare all'idea insurrezionale.

In un primo momento Paolo può anche aver accettato l'idea petrina secondo cui sarebbe stato insensato non collegare la resurrezione a una parusia imminente e trionfale del Cristo; ma ben presto egli si convinse che, in assenza di tale parusia, la strategia del movimento nazareno andava completamente cambiata: dall'inutile dialogo con le autorità giudaiche si doveva passare a una proposta religiosa alle popolazioni pagane, in cui la politica rivoluzionaria venisse decisamente messa in subordine a favore di una redenzione etico-religiosa.

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9.15) Il ruolo dei militari romani

1. Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. 2. E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora; quindi gli venivano davanti e gli dicevano: 3. "Salve, re dei Giudei!". E gli davano schiaffi. 4. Pilato intanto uscì di nuovo e disse loro: "Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui nessuna colpa". 5. Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: "Ecco l'uomo!".

Così inizia il cap. 19 del vangelo di Giovanni. Questa versione è sostanzialmente confermata da Marco al cap. 15,16-20, con la precisazione che la fustigazione e le angherie correlate avvennero nel cortile del pretorio, alla presenza di tutta la coorte, e che gli percuotevano il capo, su cui era intrecciata una corona di spine, con una canna.

Quello che Marco aveva precedentemente scritto al cap. 14,65 (Allora alcuni cominciarono a sputargli addosso, a coprirgli il volto, a schiaffeggiarlo e a dirgli: "Indovina". I servi intanto lo percuotevano.) è del tutto inventato, in quanto nessun discepolo è stato testimone dell'udienza di Gesù davanti al sommo sacerdote Caifa (ammesso che vi sia stata). Tali sevizie sono inventate sulla base del forte anti-giudaismo del suo vangelo, ma anche perché si vuole far passare Gesù per uno che, a dispetto del volto coperto, sarebbe stato in grado d'individuare chi lo percuoteva, proprio perché egli era un dio.

Ma concentriamoci sul ruolo dei militari romani. Qui appare evidente ch'essi han potuto schernirlo, sbeffeggiarlo e sottoporlo a varie vessazioni subito dopo che Pilato aveva ordinato la fustigazione e prima ancora che avesse ordinato la crocifissione. La cosa appare strana: evidentemente il fatto d'essersi presi delle libertà che andavano oltre quanto richiesto dal procuratore, va interpretato come un segno di particolare avversione per il soggetto in causa. Pilato non aveva ancora dichiarato di volerlo morto: che bisogno c'era di aggiungere alla pesantissima fustigazione tutte quelle sevizie?11

La suddetta avversione per Gesù doveva essere stata motivata dal rischio ch'essi avevano corso di finire uccisi nel caso in cui il tentativo insurrezionale, da compiersi la notte stessa in cui venne tradito e catturato, avesse avuto buon esito. Non c'è altra spiegazione. Per colpa sua avevano temuto per la loro incolumità.

Il trattamento umiliante, correlato alla flagellazione, non poteva non essere stato autorizzato, quanto meno tacitamente, dalle autorità superiori. La decisione di farlo fustigare non lo implicava, ma, nel suo caso particolare, neppure lo escludeva. Peraltro, essendo da tempo abituati a casi del genere, soprattutto nella Palestina riottosa di allora, i soldati sanno già che Gesù è un condannato a morte: non hanno bisogno di aspettare la sentenza definitiva. Per loro è impensabile che venga rilasciato: quanto meno, infatti, se anche non fosse stato crocifisso, l'avrebbero sicuramente imprigionato, dopodiché, con un pretesto ad hoc, sarebbe stato facilmente eliminato, così come Erode Antipa aveva fatto col Battista.

Qui stupisce il particolare accanimento su di lui. Una cosa infatti è eseguire un ordine (la flagellazione) in maniera impersonale, come un dovere indiscutibile; un'altra è farlo precedere da una serie di umiliazioni poco spiegabili dal punto di vista della professionalità militare. Viene giocoforza pensare che tutta la coorte sapesse benissimo che l'insurrezione era imminente e che, di fronte ad essa, non avrebbe avuto scampo se non si fosse immediatamente arresa. Di qui il particolare odio e disprezzo da parte dei militari, i quali sperano soltanto che il procuratore trovi il modo di eliminare questo pericoloso sovversivo.

Tuttavia il compito di Pilato appare alquanto arduo. Egli aveva autorizzato la flagellazione proprio perché non era sicuro di poter comminare la sentenza capitale. In genere la fustigazione era un'alternativa alla crocifissione, o comunque non veniva inferta in maniera così pesante, proprio perché il condannato al patibolo non doveva morire subito, ma soffrire il più possibile. In questo caso però viene usata come test per verificare la disponibilità della popolazione ad accettare il passo successivo. È una sorta di "prova generale" prima della sentenza finale. A ciò Pilato si sentì indotto proprio a motivo della particolare pericolosità del soggetto in questione. Infatti gli altri due crocifissi non furono flagellati (quando decisero di toglierli dalla croce, su richiesta dei capi giudei, a causa dell'imminenza della pasqua, spezzando loro le gambe con cui potevano reggersi, Gesù era già morto proprio a causa della pesante flagellazione subita).

Nel caso di Gesù Pilato doveva essere sicuro che, se anche non avesse potuto condannarlo a morte, doveva comunque renderlo del tutto inoffensivo, e la flagellazione serviva allo scopo: un uomo ridotto in quello stato non avrebbe potuto fare alcuna insurrezione, e in ogni caso non sarebbe uscito da un carcere di massima sicurezza.

La differenza tra Gesù e gli altri terroristi (zeloti o di altri gruppi politici) giustiziati sul Golghota era che lui non aveva compiuto alcun delitto per motivi politici, per cui non sarebbe stato così facile condannarlo a morte. Il processo s'era reso necessario proprio per rispondere a una realtà di fatto incontestabile: Gesù rappresentava una minaccia eversiva per i poteri costituiti, giudaici o romani che fossero, ma non risultava essere un criminale.

Gli altri due condannati a morte non subirono alcun processo, in quanto la loro colpa era evidente: avevano ucciso dei soldati romani. Ciò era ovviamente una "colpa" per i Romani, non per i Giudei progressisti; ma era comunque una colpa che per i Romani non meritava il fastidio di alcun processo pubblico, essendo scontata la pena.

Viceversa con Gesù la pena non appariva affatto scontata e Pilato lo sapeva benissimo, tant'è che, astutamente, escogitò (o improvvisò) lo scambio col terrorista Barabba (che probabilmente era un altro che in quel momento doveva essere crocifisso). Avendo ucciso uno o più soldati, Barabba dava maggiore affidamento a quella parte di popolazione più estremista, più anti-romana. Cioè, proprio mentre propone di liberare Barabba, Pilato sapeva bene che il nemico più difficile da eliminare era Gesù, il quale aveva ottenuto il consenso per l'insurrezione senza aver avuto bisogno di uccidere alcun romano, semplicemente usando lo strumento della persuasione ragionata, del consenso democratico.

La situazione era molto delicata, anche perché i Romani avevano già ucciso, in uno scontro armato, il politico insurrezionalista Lazzaro, su cui persino i farisei progressisti riponevano molte speranze, come risulta dal vangelo di Giovanni.

La crocifissione veniva data solo per gravissimi motivi, tra cui agli schiavi politicamente ribelli, macchiatisi di delitti contro i militari romani (famosa fu quella dei seimila seguaci di Spartaco). Aveva un carattere pubblico; i corpi dovevano rimanere esposti per alcuni giorni; lo strumento di morte, particolarmente doloroso e umiliante (i corpi restavano nudi), doveva incutere molta paura agli astanti.

Nel caso di Gesù però Pilato la deve usare non per dimostrare ch'era un pericoloso capo politico anti-romano (in tal caso la popolazione non gliel'avrebbe permesso, anche a costo di opporsi alle proprie autorità religiose, generalmente colluse o collaborazioniste con Roma), ma piuttosto per dimostrare che come capo politico non valeva nulla. Egli cioè, nel corso del processo, si preoccupa di portare la folla alla convinzione che, in ultima istanza, sarebbe stata essa stessa a decidere quale leader riteneva più adatto all'insurrezione. Pilato insomma doveva far vedere di temere la volontà popolare. Per questo fa liberare Barabba: questo terrorista zelota, avendo già ucciso dei Romani, dava più affidamento alle frange estremiste della popolazione.

Quando però fa crocifiggere Gesù, avendo ottenuto il consenso esplicito per farlo, fa apporre sulla croce il vero motivo della condanna, e cioè il fatto che Gesù andava considerato come "il re dei Giudei", contro la volontà di Roma. E quando i capi religiosi gli fanno notare che quella motivazione era sbagliata, in quanto avrebbe dovuto scrivere semplicemente che Gesù si "riteneva" il re dei Giudei ma che non lo era affatto, egli si rifiuta di cambiarla. Non lo fa anche perché per un governatore romano sarebbe stato assurdo mandare a morte uno che si "riteneva" liberatore della Palestina, senza averlo dimostrato politicamente. In tal caso sarebbe stato sufficiente frustarlo o imprigionarlo. La crocifissione era una sentenza capitale che si usava solo in casi estremi, di cui gli stessi Romani avevano orrore, e aveva lo scopo non solo d'incutere terrore ai sovversivi, ma anche di far capire alla popolazione comune che l'autorità dello Stato romano era molto forte.

I soldati romani, infatti, erano considerati praticamente come una casta intoccabile. Chi li uccideva subiva le più pesanti ritorsioni. Non a caso saranno loro, nel corso di buona parte dell'impero, a decidere la massima carica dello Stato; e l'imperatore, per riconoscenza, li favoriva in tutte le maniere.

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9.16) L'esecuzione capitale

S'è molto discusso sul significato della parola "nazareno": una località? un appellativo? Il titulum crucis voluto da Pilato parlava chiaro: "Gesù il Nazareno, il re dei Giudei" (19,19), posto per far vedere il potere dissuasivo dell'occupante straniero, in grado di eliminare qualunque autonomo pretendente ebreo al trono della Palestina, o comunque qualunque aspirante non gradito all'imperatore.

I sommi sacerdoti, onde far credere ai Romani e agli stessi Giudei che Gesù non era che un impostore e che il vero messia andava ancora atteso, fecero però notare a Pilato che avrebbe dovuto scrivere: "Io sono il re dei Giudei" (19,21). Ma lui si oppose a modificare l'iscrizione.

Da questo atteggiamento dei sacerdoti si evince di quale perfidia fossero capaci: al momento del processo, pur di vederlo morire, avevano addirittura proferito lodi sperticate a favore di Cesare, ma, subito dopo l'esecuzione della sentenza, fecero capire al governatore ch'egli non doveva illudersi sulle loro intenzioni filo-romane.

Ai piedi della croce gli esecutori materiali della condanna si divisero gli ultimi beni del Cristo, giocandosi ai dadi la pregiata tunica senza cuciture. Poi, prima di morire, il Cristo chiese a Giovanni, che con coraggio se ne stava nei pressi (ma la cosa è dubbia, anche se quando di corsa andrà a vedere se il sepolcro era davvero vuoto, mostrerà di conoscerlo molto bene), di prendere con sé sua madre: una decisione molto strana, visto che Maria aveva avuto altri figli.

I Giudei, così attaccati alle loro tradizioni, essendo quella la vigilia della Pasqua, chiesero a Pilato di affrettare la morte dei tre giustiziati, perché potessero essere tolti dal patibolo. Ai primi due quindi spezzarono le gambe, perché non potessero più sostenersi sulla predella, ma a Gesù, vedendo ch'era già morto (a causa della pesantissima fustigazione), si limitarono a sincerarsene trafiggendogli il costato, e quindi il cuore, con una lancia.

Fatto questo, si permise a Giuseppe d'Arimatea (altro discepolo occulto come Nicodemo) di toglierlo dalla croce e di metterlo, invece che in una fossa comune (come generalmente si faceva coi crocifissi), in un "sepolcro nuovo" (20,41), nei pressi del Golghota. Lo avvolsero in un lenzuolo, in tutta fretta, così com'era.

I passi 39 e 40 del cap. 20 di Giovanni sono stati aggiunti successivamente da chi voleva far vedere che il fariseo Nicodemo, partecipando all'inumazione, non l'aveva mai tradito e che la sepoltura era avvenuta secondo la prassi giudaica: cosa però smentita dalla Sindone, ove si nota un corpo ancora sporco di sangue. È infatti da presumere che, essendo la vigilia della Pasqua, se avessero proceduto a regolari esequie, avrebbero sforato i tempi previsti e si sarebbero inevitabilmente "contaminati": e questo sarebbe stato rischioso nei confronti dei farisei!

Poi i Sinottici cercarono di rimediare a questa viltà, mostrando che le donne ai piedi della croce volevano procedere a una regolare sepoltura il mattino dopo, con tanto di unguenti e profumi; solo che non fecero in tempo, in quanto... era già "risorto"!

Giovanni, più sobrio, evita di cadere in queste ridicolaggini e si limita a dire che di buon mattino, quando ancora era buio, Maria Maddalena e una sua amica si recarono al sepolcro perché affrante dal dolore, e vi trovarono ribaltata la pietra che ostruiva l'ingresso. Una volta entrate, poterono constatare ch'esso era vuoto, sicché andarono a riferire a Pietro e Giovanni, rimasti in città, che qualcuno aveva trafugato il cadavere.

I due apostoli corsero immediatamente per verificare quanto dicevano, ed effettivamente notarono che le bende, con cui era stato avvolto il lenzuolo, erano sparse per terra, mentre il lenzuolo stesso (sindon, in greco) era piegato e riposto da un lato.

Restarono perplessi, poiché non avrebbe avuto senso rubare un corpo nudo e sporco di sangue, quando lo si sarebbe potuto fare lasciandolo avvolto nella Sindone.

Tornando in città cominciarono a chiedersi cosa avrebbero potuto raccontare ai discepoli. E fu a questo punto che a Pietro venne in mente un'idea che segnerà l'inizio del "nuovo cristianesimo", diverso da quello di Cristo e che Giovanni rifiuterà di accettare (come documenta l'improvvisa scomparsa di scena dell'apostolo all'inizio degli Atti degli apostoli, salvo la ricomparsa, a fianco di Pietro, in episodi del tutto inventati).

Temendo che il movimento si sfaldasse e non sentendosi all'altezza di proseguire politicamente il messaggio del Nazareno, Pietro interpretò la tomba vuota come "resurrezione", trasformando un fatto privato in un evento pubblico, un evento per il quale si sarebbe necessariamente dovuto credere a una tesi politicamente insostenibile, e cioè che il messia "doveva morire" (Mc 8,31).

La necessità di questa fine apparentemente ingloriosa doveva in realtà servire a far credere a tutto il popolo palestinese e soprattutto ai Giudei che contro Roma, da soli, senza il messia morto e risorto, non ce l'avrebbero mai fatta, e che quindi bisognava attendere con ansia il suo imminente e trionfale ritorno. Ancora Pietro non aveva parlato, come farà poi Paolo, di una liberazione solo ed esclusivamente nell'aldilà.

Una "morte necessaria" (Mc 9,31) anche per dimostrare - essendo stata, quella, non "naturale" ma "violenta", voluta dal Sinedrio - che la Giudea aveva perso qualunque primato sulla Galilea, per cui o le autorità giudaiche diventavano "cristiane", accettando la tesi della "resurrezione" (che implicava anche l'altra, quella secondo cui Gesù era il vero messia da attendere), oppure la rottura "religiosa" tra cristianesimo ed ebraismo sarebbe stata definitiva.

In tutto questo ragionamento non esisteva una sola parola contro gli invasori romani. A chi gli chiedeva, con insistenza, quando la Palestina sarebbe stata indipendente, Pietro lasciava capire che se non vi era riuscito Cristo, ch'era risorto, non vi sarebbe riuscito nessun altro, e che in ogni caso, se proprio non si voleva rinunciare alla liberazione nazionale, si poteva sperare in un ritorno imminente del messia, questa volta in pompa magna, non in groppa a un asino! Ma i tempi di questo ritorno chi li poteva decidere? "Davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo" (2Pt 3,8).

Il principale discepolo di Pietro non fu ovviamente Marco ma Saulo di Tarso, che, dopo aver perseguitato i cristiani (che, con la loro idea di resurrezione, distoglievano gli ebrei dal combattere i Romani), ebbe un improvviso ripensamento, arrivando a dire cose ancora più sconvolgenti di quelle petrine: non solo andava considerato finito il primato della Giudea sulla Galilea, ma era addirittura finito quello di Israele nei confronti di tutto il mondo pagano; Gesù era risorto perché unigenito figlio di dio, ed era morto perché dio-padre aveva bisogno del suo sacrificio per riconciliarsi con l'umanità caduta nella dannazione dai tempi del peccato d'origine; quando il Cristo tornerà, lo farà unicamente per compiere un giudizio universale, che coinciderà con la fine della storia, in un momento che solo dio-padre potrà decidere. Insomma la tesi ufficiale doveva essere questa: Cristo non ha mai voluto essere un liberatore politico-nazionale ma piuttosto un redentore morale-universale.

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10) Israele e la catastrofe di duemila anni fa

Chi scrisse i vangeli cristiani ebbe netta la percezione che con l'esecuzione capitale del leader del movimento nazareno si era compiuto un delitto le cui conseguenze sarebbero state nefaste. E siccome quei testi furono scritti dopo l'occupazione di Gerusalemme da parte delle legioni di Vespasiano, nel 70, gli autori di quei testi ritennero che quell'evento catastrofico fosse una diretta conseguenza di quella crocifissione. Sicché essi attribuirono alla "giustizia divina" la punizione degli ebrei colpevoli, inaugurando così l'antisemitismo come arma ideologica contro l'ebraismo in generale, considerato in sé e per sé.

Oggi è forse venuto il momento di dire che la vera catastrofe fu in realtà compiuta dagli stessi cristiani, cioè da quella parte di ebrei seguaci di Cristo, appartenenti al movimento nazareno. Essa è consistita in una serie di operazioni ideologiche e politiche che sono state fatte passare come del tutto naturali e legittime. Vediamo quali.

1. Anzitutto si è attribuita al leader politico Gesù una unigenita, cioè esclusiva, "figliolanza divina", trasformando l'insolita scomparsa del suo cadavere dal sepolcro in una sicura "prova" della "resurrezione", in cui però si deve credere esclusivamente per fede (di qui l'inutilità di esibire la sindone). Nel proto-vangelo di Marco dice l'angelo alle donne in visita al sepolcro: "È risorto, non è qui" (Mc 16,6). Cosa che, in altre parole, voleva dire non solo che la misteriosa scomparsa si poteva interpretare come un ridestamento miracoloso del cadavere voluto da dio o dal suo spirito, ma anche che il Cristo sarebbe risorto anche senza che le donne e gli apostoli trovassero una tomba vuota.

In particolare è al centurione romano ai piedi della croce che viene attribuita espressamente la testimonianza di fede circa la figliolanza divina del Cristo (Mc 15,39). Con essa i cristiani potevano far capire all'impero romano che sarebbero stati disposti a un compromesso: avrebbero rinunciato a qualunque rivendicazione politica, se in cambio si fosse riconosciuta la natura divina del Cristo. Il che, in sostanza, era come chiedere di accettare una diarchia di poteri istituzionali tra Stato e Chiesa (cosa che però avverrà soltanto con Costantino, poiché fino a lui i cristiani verranno sempre considerati sleali o inaffidabili nei confronti degli interessi superiori dello Stato).

Negli altri vangeli e negli Atti degli apostoli la testimonianza di fede viene agevolata dai racconti, del tutto inventati, di apparizione del Cristo risorto e della sua ascensione in cielo. Si tratta ovviamente di racconti elaborati dopo aver rinunciato definitivamente a credere in una parusia più o meno imminente del Cristo.

In questo modo si è fatta passare la decisione ebraica di condannare Gesù come un gesto altamente sacrilego e quindi - in assenza di un pentimento da parte delle istituzioni e di una pronta conversione al cristianesimo - del tutto imperdonabile. Il che ha reso l'antisemitismo ancora più legittimato.

2. Dopo aver detto che Gesù aveva caratteristiche divine, lo si è trasformato in un superuomo in grado di compiere qualunque prodigio, rendendo così ancora più inspiegabile la decisione ebraica di condannarlo.

Paradossalmente però proprio il tentativo di rendere ancora più colpevole l'incredulità degli ebrei al cospetto dei tanti (presunti) miracoli del Cristo, si ritorce contro gli stessi cristiani, in quanto rende tale incredulità del tutto giustificata: infatti non per il fatto di apparire uno straordinario taumaturgo, Gesù poteva essere considerato il messia politico liberatore della Palestina e tanto meno l'unigenito figlio di dio.

3. Oltre a ciò gli autori dei vangeli hanno deciso di spoliticizzare Gesù al massimo. Infatti il tipo umano che hanno creato è lontanissimo non solo dai modelli ebraici tradizionali di leader politico-religiosi-nazionalistici, ma anche da qualunque tipologia di leader politico-rivoluzionario, che a quel tempo era necessariamente anti-romano. In questa destoricizzazione della figura di Gesù il ruolo di san Paolo è stato determinante.

L'unica immagine "politica" che si dà del Cristo è quella di un sacerdote che vuole opporsi alla classe sacerdotale ebraica dominante, la quale non lo riconosce nella sua autoaffermazione divina e neppure nel suo tentativo di superare l'ideologia mosaica. Di qui la necessità, espressa dai Sinottici, di collocare l'epurazione del Tempio non all'inizio della carriera politica di Gesù (come fece giustamente Giovanni), bensì alla fine.

4. L'altra immagine politica che si dà di lui è quella relativa al rapporto con le istituzioni romane. L'episodio del tributo a Cesare (Mc 12,13 ss.) è emblematico: Gesù accetta di pagare le tasse allo Stato romano, riconoscendo quindi il dominio già effettivo delle legioni sulla Palestina, a condizione però che lo Stato, rappresentato dall'imperatore, accetti di non considerarsi di natura "divina", cioè di non porsi in maniera ideologica, in quanto esiste già un unico figlio di dio.

Gesù in sostanza viene fatto passare per un credente favorevole a un regime di separazione tra Chiesa (cristiana) e Stato (pagano). In questa maniera la comunità cristiana potrà far vedere che lo Stato era oppressivo, nei suoi confronti, senza una vera ragione, semplicemente perché non accettava il suddetto regime di separazione, quindi non perché aveva da temere politicamente qualcosa da parte dei cristiani, per i quali il vero regno di pace, libertà e giustizia da desiderare non appartiene a questo mondo, bensì a quello ultraterreno della fine dei tempi. In tal senso i vangeli sono stati scritti per essere accettati dai Romani. Significativo è appunto - come già detto - l'episodio marciano del centurione che, dopo aver tecnicamente preparato il momento dell'esecuzione capitale, riconosce che Gesù era veramente "figlio di dio". Un'attestazione del genere non viene fatta neppure dalle donne al cospetto della tomba vuota, le quali anzi - nella prima chiusa di Marco - fuggono spaventate, a riprova che la fede nella divinità del Cristo va al di là persino della tomba vuota. Infatti nell'ideologia paolina (che Pietro, ad un certo punto, farà propria) Cristo non è risorto perché la tomba era vuota, ma perché non poteva morire come un uomo, cioè finendo in putrefazione, essendo figlio di dio.

5. Il governatore Pilato quindi viene fatto passare per un politico poco intelligente, debole di carattere, il quale, pur avendo capito che Gesù non era politicamente meritevole di morte, preferì lasciarsi strumentalizzare dalle intenzioni omicide della classe sacerdotale, mosse dall'"invidia" (Mc 15,10) per la grande popolarità del Nazareno e dalla preoccupazione con cui scardinava talune interpretazioni della legge mosaica. Pilato sarebbe stato vittima delle circostanze e avrebbe agito per opportunismo, non per convinzione.

6. L'interpretazione totalmente mistificata degli eventi accaduti al leader del movimento nazareno, e persino al suo stesso movimento, di cui p. es. nulla viene detto se abbia partecipato o no alla resistenza anti-romana successiva alla crocifissione di Gesù, ha ottenuto due risultati sconvolgenti, che perdurano a tutt'oggi:

a) si è tolta alla politica del Cristo qualunque carattere di eversione nei confronti dell'imperialismo romano, e quindi si è tolta all'intera vicenda del processo-farsa organizzato da Pilato l'intenzione di eliminare un personaggio politicamente molto scomodo, il quale infatti era pronto a compiere un'insurrezione armata nei giorni immediatamente precedenti alla cattura, che non a caso erano stati scelti in concomitanza alla festività pasquale, quella più idonea a compiere azioni eversive;

b) si è tolta all'ideologia politica del Cristo qualunque riferimento alla prassi sociale pre-schiavistica, cioè al recupero dell'esperienza del comunismo primitivo. L'unica possibile "comunione" che nell'ambito del cristianesimo è possibile vivere è quella di tipo sacramentale-eucaristico (cioè di tipo mistico), mentre, per quanto riguarda gli aspetti più propriamente sociali, si rimanda al passo degli Atti degli apostoli (2,42 ss.), in cui Luca parla di condivisione del bisogno reciproco, di equa distribuzione dei beni. Non si fa mai alcun cenno, in questo passo o altrove, alla necessità di eliminare la proprietà privata dei fondamentali mezzi produttivi che assicurano la sussistenza alla comunità; anzi, si dà per scontato che la povertà, nell'orizzonte terreno, non potrà mai essere definitivamente superata.

Particolarmente significativo è l'episodio (riportato in Gv 12,4 ss.) in cui si fa dire a Gesù, rivolto a Giuda, dopo che questi aveva protestato per lo spreco del profumo costoso usato dalla sorella di Lazzaro, che i poveri li avrebbero sempre avuti con loro, per cui non sarebbe stato con la vendita di quel profumo che avrebbero risolto il problema della povertà.

Un altro episodio significativo è quello di Pietro che, di fronte ai poveri che gli chiedono la carità, nei pressi del Tempio, viene trasformato da Luca, negli Atti degli apostoli (3,6), in un nuovo Cristo dai poteri divini, il quale, volendo far capire che più importante della vittoria sulla povertà è l'acquisizione della fede nella figliolanza divina del Cristo, decide di compiere un miracolo di guarigione.

7. Oltre all'interpretazione mistificante operata ai danni dell'ideologia politico-rivoluzionaria del Cristo, se n'è operata un'altra nei confronti del tradimento di Giuda. Infatti questo tradimento è stato visto in rapporto alla cosiddetta "economia salvifica" che dio-padre voleva realizzare, con la mediazione del proprio figlio, a vantaggio degli uomini, impossibilitati a liberarsi delle loro colpe a causa del peccato originale. Il tradimento è stato appunto utilizzato per dimostrare che gli uomini, da soli, non sono in grado di ritornare al paradiso perduto, all'eden originario.

Se Cristo, infatti, viene fatto passare per l'agnello sacrificale che dio-padre (dal comportamento, in tal senso, molto veterotestamentario) avrebbe preteso per riconciliarsi col genere umano (quell'umanità voluta dallo stesso figlio), è evidente che il tradimento di Giuda non poteva avere in sé alcunché di sconvolgente: esso era del tutto previsto dalla "prescienza divina" (come la chiama Pietro in At 2,23) e il Cristo non poteva che accettarlo passivamente, essendo convinto che dio-padre ha sempre ragione e che la sua volontà non può mai essere messa in discussione.

Poste le cose in questi termini, è evidente che per gli apostoli rimasti in vita, dopo la crocifissione del loro leader, non si poneva neppure il problema se continuare o meno il suo messaggio politicamente eversivo. La scelta fu quella di rinunciare alla rivoluzione anti-romana. Alcuni dubbi vi possono essere soltanto sulla figura dell'apostolo Giovanni, che nel IV vangelo (il più politicizzato di quelli canonici e, per questa ragione, il più manipolato) appare in antitesi a Pietro e che nell'Apocalisse appare in antitesi a Paolo.

8. Questa scelta a favore della rassegnazione venne particolarmente motivata dal fatto che si era trovata vuota la tomba in cui era stato deposto il corpo di Gesù. Interpretando quella strana scomparsa come una sicura resurrezione, gli apostoli (in particolare Pietro) ritennero che la scelta migliore fosse quella di attendere passivamente il ritorno del Cristo, che avrebbe necessariamente dovuto "trionfare" sia contro i sacerdoti che contro Roma.

Dopo che nell'immediato ci si accorse che non era avvenuta alcuna parusia eclatante, si decise di accettare l'idea di Paolo di Tarso di posticiparla alla fine dei tempi, facendola coincidere con il cosiddetto "giudizio universale". Poi s'inventarono tutti i racconti di apparizione di Gesù risorto e di ascensione al cielo.

Paolo fu il principale protagonista della netta spiritualizzazione del Cristo, il principale ideatore della sua totale divinizzazione e dell'idea di dover rinunciare definitivamente a una liberazione nazionale della Palestina.

9. L'ultima interpretazione mistificante - anche questa dalle conseguenze devastanti - fu quella di far passare il Cristo come l'artefice di una nuova religione, tutta ruotante attorno a un cardine fondamentale: Gesù Cristo è l'unigenito figlio di dio ed egli sapeva di esserlo, sapeva a cosa sarebbe andato incontro rivelando agli uomini la propria identità, ma non per questo poteva impedire a se stesso di fare quel che doveva fare per il bene dell'umanità; anche perché, comportandosi così, mostrava di adempiere alla volontà del dio-padre.

Dove sta la mistificazione in questa versione dei fatti? Sta nell'idea di far credere, da un lato, che la figliolanza divina fosse una esclusiva prerogativa del Cristo; e, dall'altro, ch'egli fosse un credente in dio, cioè in un'entità astratta, superiore ed esterna all'uomo.

Quando nei vangeli viene detto che gli ebrei volevano lapidarlo perché "si faceva come Dio" (Gv 10,33), in realtà volevano farlo perché negava l'esistenza di un dio onnipotente e onnisciente, creatore e signore del cielo e della terra. Cristo era sostanzialmente un ateo, come Buddha, Socrate, Confucio e non pochi filosofi del mondo greco-romano a lui coevo o precedente. Che fosse un ateo lo dimostra nell'episodio del vangelo di Giovanni in cui ricorda agli ebrei, intenzionati a lapidarlo, che anche in un salmo è scritto: "Voi siete tutti dèi" (10,34).

10. In conclusione: perché la crocifissione del Cristo può essere definita un evento catastrofico? Per due ragioni fondamentali:

a) stando ai vangeli egli ha tolto definitivamente agli uomini la possibilità di credere in un superamento effettivo dello schiavismo o del servaggio su questa Terra in favore di un recupero della prassi del comunismo primitivo; cioè in sostanza i cristiani hanno illuso il genere umano di poter essere interiormente liberi anche vivendo in una condizione schiavile o servile;

b) di conseguenza egli ha tolto agli uomini la convinzione d'essere gli unici artefici del loro destino, ovvero li ha indotti a credere che senza la cosiddetta "grazia divina" la loro volontà è del tutto impotente.

Se il Cristo dei vangeli fosse davvero stato quello effettivamente esistito, gli ebrei non avrebbero avuto tutti i torti a farlo fuori. Egli infatti, col proprio atteggiamento politicamente rassegnato, si rendeva responsabile della soggezione della Palestina nei confronti di Roma.

Oggi quindi vanno considerati superati o comunque totalmente da rivedere non solo religioni come l'ebraismo e il cristianesimo, non solo atteggiamenti pregiudizievoli come l'antisemitismo o l'anticlericalismo fine a se stesso, non solo la ricerca di religioni opposte all'ebraismo e al cristianesimo, non solo l'esigenza di fare dell'ateismo una bandiera politica. Va considerato superato anche l'atteggiamento di chi, di fronte agli antagonismi sociali, si attende dall'alto una loro soluzione.

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11) Il riscatto nazionale. Giovanni ritrovato

11.1) La separazione dal Battista - 11.2) L'epurazione del Tempio - 11.3) L'esilio in Galilea - 11.4) Il ritorno in Giudea - 11.5) L'insurrezione fallita - 11.6) L'interrogatorio e il processo - 11.7) La scoperta della tomba vuota

Premessa

I vangeli sono una storia romanzata in cui hanno creduto, da quando sono apparsi, miliardi di persone. Non solo i loro autori hanno inventato una certa sequenza dei fatti, che videro il Cristo come protagonista, ma anche su quelli verosimili hanno dato le interpretazioni più fantasiose.

Eppure, chiunque provi a contestarli, senza esibire sommi criteri di scientificità esegetica, passa per un volgare esibizionista, per un mitomane.

Ebbene, noi abbiamo rinunciato in partenza alla pretesa di voler dimostrare qualcosa a qualcuno. Noi offriamo soltanto una nuova suggestione interpretativa, lasciando al lettore il diritto di giudicarla se attendibile o meno. Altri si periteranno con maggior cognizione di causa. Aspiriamo soltanto a impostare un nuovo discorso per riattualizzare una cosa vecchia, il cui significato viene eccessivamente dato per scontato.

Non vogliamo offendere il credente: vogliamo soltanto dare all'umano ciò che gli compete e che però non gli viene riconosciuto in maniera adeguata. L'umano non dipende dal religioso più di quanto non dipenda da se stesso. Il credente intellettualmente onesto e di buona volontà non ha nulla da temere da un'operazione del genere.

L'intera vicenda del Cristo qui viene presentata come se si fosse ritrovato il vero vangelo di Giovanni, che la chiesa primitiva volle tenere nascosto (è una supposizione naturalmente) perché ritenuto non conforme alla versione dei fatti presentata nel vangelo di Marco, e ripresa dagli altri due.

Il IV vangelo che oggi leggiamo è stato elaborato da redattori che si ispiravano ai Sinottici e che in più avevano conoscenze specialistiche in campo filosofico. Hanno pubblicato qualcosa in forma riveduta e corretta, in modo che i suoi contenuti fossero in linea con quelli ufficiali, almeno negli aspetti più essenziali.

In questo capitolo si può quindi leggere un'ipotetica ricostruzione di un ipotetico ritrovamento dell'autentico vangelo di Giovanni.

Sin da adesso s'accettano scommesse sulla sua attendibilità. Naturalmente fin quando non vi sarà alcuna prova archeologica, non potranno esserci né vinti né vincitori.

Se però facciamo un ragionamento alla Pascal, le cose cambiano: chi punta sulla veridicità e vince, vince per l'umanità intera; chi invece punta sulla veridicità e perde, vince lo stesso, perché ha comunque aiutato il genere umano a pensare.

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11.1) La separazione dal Battista

In quel tempo quasi tutta la Palestina era dominata dai Romani, se non in maniera diretta, come nel caso di Pilato, quinto governatore di Giudea, Samaria e Idumea, almeno indirettamente, come nel caso sia di Erode Antipa, tetrarca della Galilea e della Perea, che dei sommi sacerdoti del Tempio di Gerusalemme, i quali, pur predicando un riscatto nazionale, di fatto non facevano nulla per realizzarlo, anche perché la loro nomina dipendeva dalla volontà dei procuratori romani.

Vi erano vari movimenti e partiti che cercavano di opporsi a quello stato di cose, ma su uno in particolare s'era concentrata la nostra attenzione, quello giudeo di Giovanni, figlio di Zaccaria, detto il Battezzatore.

Anche lui era destinato alla carriera ecclesiastica, ma, vedendo la corruzione del Tempio, aveva preferito ritirarsi nel deserto, là dove agiva la comunità degli Esseni, a Qumrân, che viveva secondo il principio della comunione dei beni.

Vedendo però peggiorare la situazione della Giudea, Giovanni decise di uscire dal deserto e di andare a predicare il regno di liberazione lungo il fiume Giordano. E lì s'era messo a chiamare tutti gli uomini di buona volontà, invitandoli a guardare con ottimismo la possibilità di un riscatto nazionale. Ciò che più stupiva del suo messaggio era ch'egli metteva tutti sullo stesso piano, non facendo differenze tra potenti e umili e spesso anzi lo si sentiva dire: "Perfino da queste pietre possono sorgere dei figli di Abramo".

Il suo programma era semplice e radicale: comunione dei beni, rispetto della legge, no alla violenza. Molti lo seguivano perché volevano che diventasse il messia liberatore, ma Giovanni si limitava a criticare i sacerdoti corrotti, gli orgogliosi farisei e soprattutto il cinico Erode Antipa, che fingeva di tutelare le tradizioni ebraiche, ma che in realtà pensava solo ai suoi interessi.

Sul piano pratico Giovanni, con un battesimo di penitenza, chiedeva a tutti di purificarsi nelle acque del Giordano, tenendosi pronti a cacciare i Romani e quanti collaboravano attivamente con loro. Era diventato così famoso che i potenti cominciavano a temerlo.

Il successo era dovuto al fatto che agiva allo scoperto, disarmato, con molto coraggio e umiltà, come gli antichi profeti. Si serviva solo della sua parola e di uno stile di vita molto austero, rigoroso. Molti di noi, prima di iniziare a seguire Joshua, figlio di Giuseppe, appartenevano al suo ambiente.

Joshua era suo parente e apprezzava il suo operato, ma non riteneva sufficiente la critica della corruzione dei sacerdoti e di Erode, né la semplice pratica del battesimo. Sicché un giorno s'incontrarono e glielo disse.

- Ascolta Giovanni, secondo me dobbiamo fare qualcosa contro il Tempio.

- E cosa vuoi fare più di quello che stiamo facendo?

- Il consenso ce l'hai, ora possiamo compiere un atto dimostrativo, giusto per far capire a quella spelonca di ladri che alle parole seguono i fatti.

- Ma di preciso cosa vorresti fare?

- Lo capisci da solo: con quei sacerdoti al potere non ci libereremo mai dei Romani. Nessuno di loro s'è convinto delle tue parole, nessuno ti ha preso sul serio, neppure i farisei, che pur odiano i sadducei.

- Lo vedo, ma in questa maniera rischiamo uno scontro armato e noi non siamo pronti. Le loro guardie avrebbero sicuramente la meglio e in ogni caso chiederebbero aiuto alla guarnigione romana.

- Io invece ti dico che dobbiamo dimostrare al potere che non stiamo scherzando. Tu non sei una canna che si agita al vento. Se non accettano le tue proposte con le buone, li metteremo alle strette con un gesto esemplare. Non possono far finta che tu non esista.

- Un attacco contro la principale istituzione del paese scandalizzerà le masse, poiché nessun giudeo ha mai avuto il coraggio di farlo.

- La corruzione ha raggiunto livelli assolutamente insopportabili. Si è trasformata in tradimento. Chi non capirà subito il significato di questa insurrezione, lo capirà strada facendo. Io so solo che più tardiamo a compierla, più la situazione peggiora; il popolo si demoralizzerà sempre di più, finirà col credere che a questa tragedia nazionale non vi sia alcuna via d'uscita.

- Se agiamo armati, rischiamo di passare per un gruppo terroristico, come i sicarii, o comunque estremistico, come gli zeloti. È troppo rischioso. Se partiamo, non possiamo più tornare indietro. Non credo che abbiamo forze sufficienti per compiere una cosa del genere.

- Non dimenticare l'effetto sorpresa. Le guardie del Tempio non se l'aspettano di sicuro e quelle romane della fortezza Antonia non s'arrischieranno a intervenire, perché penseranno di poterlo fare a loro comodo in un secondo momento. In fondo non sarà un attacco contro di loro, ma solo contro i grandi sacerdoti, partendo dalla forma più evidente della loro corruzione: i mercanti del Tempio. Prima di fare una liberazione nazionale bisogna togliere il potere a chi collabora col nemico.

- Non ha senso cambiare politicamente le cose se prima non cambiano le persone.

- E tu pensi davvero ch'esista un prima e un dopo? L'umano e il politico son come i tuoi piedi quando cammini. Tu rischi di farlo con uno solo.

- Non me la sento di agire in maniera così risoluta. Temo di scandalizzare le anime semplici, quelle che credono nel Tempio in buona fede, a prescindere da chi lo governa. Fino adesso ho svolto la critica morale contro il clero e legale contro Erode, a causa del suo matrimonio illecito. Se accetto di epurare il Tempio, poi mi chiederanno di diventare messia contro i Romani, e questo va oltre il mio mandato.

- Come vuoi, ma lascia che i tuoi discepoli decidano da soli.

E fu così che molti di noi se ne andarono da Giovanni, per seguire definitivamente Joshua, il quale era molto amico anche di un altro leader politico giudeo, chiamato Eleazar.

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11.2) L'epurazione del Tempio

Quando entrammo a Gerusalemme per ripulire il Tempio dagli elementi corrotti, cadevano le festività pasquali. Eravamo in tanti, ma non abbastanza per compiere un rivolgimento istituzionale. Volevamo dare un segnale forte e chiaro affinché altri ci aiutassero ad andare avanti. Ma i Giudei, che pur sono sempre stati molto coraggiosi, quella volta non lo furono abbastanza.

Molti approvarono l'iniziativa, ma non il partito che più avrebbe dovuto farlo: quello farisaico.

Quando Joshua cacciò tutti i mercanti a colpi di frusta, noi eravamo pronti a difenderlo e chiedevamo alla gente d'insorgere contro il clero corrotto. Ma se anche molti si misero dalla nostra parte, i farisei non lo fecero, se non una piccola parte e in gran segreto, per non esporsi.

Allora i farisei rappresentavano il partito più importante, essendo stati molto perseguitati nel passato da Erode il Grande, poiché non avevano intenzione di pagare le tasse a Cesare. Uno dei loro capi, chiamato Nicodemo, volle parlare con Joshua e questo è quanto si dissero.

- Abbiamo visto quello che hai fatto e, pur condividendolo nella sostanza, non possiamo accettarlo nella forma.

- Cos'è che vi ha dato più fastidio?

- L'improvvisazione, cioè il fatto che tu non abbia l'autorità per comportarti così. Non basta far vedere che le cose non vanno, bisogna anche dimostrare che si è in grado di farle funzionare diversamente.

- Non sono io che posso fare questo da solo, né possiamo cambiare delle istituzioni corrotte passando attraverso le stesse istituzioni.

- Se tutti facessero come te, sprofonderemmo nel caos e nei confronti dei Romani saremmo ancora più deboli. Non si può prescindere dalle istituzioni, per quanto corrotte esse siano.

- Finché i corrotti restano a capo delle istituzioni, qualsiasi autorevolezza è impossibile. Perché la chiedete a me? Aiutateci a cacciarli e insieme ridaremo alle istituzioni l'importanza che hanno perduto. Voi state facendo un'opposizione solo dentro il Sinedrio e nelle sinagoghe e non vi accorgete del nuovo che avanza, non vi accorgete di quanto il potere sia indietro rispetto alle esigenze del popolo. Rischiate di fare la fine dei vostri avversari corrotti.

Nicodemo però, per quanto giusto fosse, non si convinse, poiché credeva che il valore delle tradizioni avrebbe finito, in ultima istanza, col prevalere sulle contraddizioni del potere. Questo il motivo per cui l'insurrezione fallì e chi di noi s'era più esposto fu costretto a espatriare.

Ora, siccome i Galilei, soprattutto quelli del partito zelota, erano rimasti molto soddisfatti di ciò che noi Giudei avevamo fatto, decidemmo di andare a vivere in Galilea, che in quel momento era meno sottoposta al dominio romano di quanto non lo fosse la Giudea.

Tuttavia, temendo di essere inseguiti lungo il Giordano, preferimmo passare per la Samaria, dove di sicuro la polizia giudaica non ci avrebbe dato alcun fastidio. I Giudei infatti non solo detestavano i Galilei, a motivo delle loro tendenze ellenistiche, ma ancor più detestavano i Samaritani, che col loro monte Garizim avevano costituito un'alternativa al Tempio di Salomone, e anche perché credevano solo nei cinque libri di Mosè, rifiutando tutto il resto.

In Samaria Joshua disse una cosa che suscitò grande entusiasmo. Poiché, cacciando i mercanti dal Tempio, aveva preso una decisione molto importante nei confronti della sua gente, inevitabilmente gli chiesero se riteneva più importante il culto sul loro monte o quello presso il Tempio. E lui così rispose:

- Di fronte al compito che ci attende, quello di rendere la Palestina indipendente e libera da ogni oppressione, interna ed esterna, non è importante stabilire un primato d'onore per il culto religioso. Ognuno va lasciato libero di pregare dove vuole, di credere come vuole, su un piede di parità. Io proclamo come valore assoluto, sul piano religioso, la libertà di coscienza e ritengo che la Giudea non possa più rivendicare alcun primato, né morale né giurisdizionale.

La reazione dei Samaritani fu così entusiastica che quasi non volevano farci partire, anzi molti di loro presero a considerarlo come il messia tanto atteso. Noi però promettemmo loro di rivederci e riprendemmo il cammino verso la Galilea.

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11.3) L'esilio in Galilea

Quando giungemmo in Galilea ci fecero una gran festa, perché i seguaci del partito zelota, che in quella terra era molto forte, dissero ai loro compatrioti quel che Joshua e i suoi discepoli Giudei avevano fatto a Gerusalemme. Non avemmo alcuna difficoltà a essere ospitati come esuli.

Da tempo i Galilei erano abituati a sentirsi dire dai farisei che dalla loro regione non poteva venir fuori alcun messia nazionale. Ora, al vedere che un messia giudaico veniva cacciato dalla stessa Giudea, si sentivano particolarmente felici: avevano un motivo in più per dire ai Giudei che il loro esclusivismo non li avrebbe portati da nessuna parte, e che anzi, senza l'aiuto dei Galilei, sarebbero rimasti ancora più oppressi di loro.

In Galilea restammo più di tre anni, affrontando difficoltà di non poco conto, sia perché Erode Antipa, che aveva già decapitato il Battista, voleva eliminare anche Gesù; sia perché i sommi sacerdoti, di tanto in tanto, mandavano degli scribi, molto competenti, allo scopo di trovare in Joshua degli elementi di eresia.

La fine di Giovanni ci colse di sorpresa, perché pensavamo fosse stato sufficiente rinchiuderlo nella fortezza del Macheronte, una delle due fortezze (l'altra era Masada) fatte costruire da Erode il Grande come luogo di rifugio in caso di insurrezione popolare.

D'altra parte il suo movimento s'era notevolmente indebolito, proprio per la scarsa determinazione politica, e non aveva incontrato significativi appoggi contro Erode Antipa, sicché questi, pur temendolo, non ebbe difficoltà a esaudire una richiesta della moglie, che non sopportava le critiche sul suo matrimonio, per impedirgli definitivamente di parlare.

Avrebbe messo le mani anche su Joshua se alcuni farisei non l'avessero avvisato in tempo, predisponendogli un piano di fuga. Altri farisei invece lo volevano arrestare perché non accettavano di vederlo prestare assistenza, di sabato, alle persone malate. Spesso questi farisei gli dicevano: "I malati che tu curi non sono in pericolo di vita, che è l'unico caso che ti permette di soprassedere al divieto del sabato. Perché dunque non ti comporti così in un qualunque giorno feriale? Nessuno te lo impedisce".

Ma lui rispondeva sempre la stessa cosa: "Il sabato è fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato". Non capivano che la trasgressione della legge, in questo caso, non era per affermare un arbitrio personale ma per compiere un'opera di bene.

La mancanza di rispetto del sabato era, per i farisei, insopportabile tanto quanto la mancanza di rispetto delle regole dietetiche. E quando Joshua diceva: "Non è ciò che entra nella bocca nell'uomo che lo contamina, ma ciò che esce dal suo cuore", diventavano furiosi, perché si sentivano presi in giro. Non erano forse stati i Giudei a formulare il principio Ama il prossimo tuo come te stesso?

Quando frequentava i pubblici peccatori, chiedendo loro di convertirsi e di seguirlo nel suo movimento di liberazione nazionale, lo accusavano di essere privo di moralità. E quando diceva: "Non sono venuto per i sani ma per i malati", i farisei capivano bene chi erano per lui i veri malati.

D'altra parte per i farisei ci voleva poco per essere un "pubblico peccatore": erano tanti i mestieri proibiti. Forse il giorno in cui rimasero più scandalizzati fu in occasione della chiamata all'apostolato del pubblicano Levi, che riscuoteva le tasse in nome di quel potere che loro volevano giustamente abbattere. E si chiedevano come potesse diventare messia uno che frequentava gli impuri. Pensavano di poter essere in diritto di scegliersi gli elementi migliori della Palestina per liberarsi dei Romani.

Erano così furiosi contro di lui che gli impedivano di commentare le Sacre Scritture nelle loro sinagoghe, pur riconoscendogli l'intelligenza di un rabbino. E si chiedevano sempre: "Quali scuole ha fatto costui? Suo padre non è forse il carpentiere Giuseppe?".

Stavano tutto il tempo a disquisire sulle sue origini, gli chiedevano di esibire l'albero genealogico e non capivano che per lui tutto ciò non aveva alcuna importanza. Una volta i farisei della Giudea se la presero con uno dei loro capi, Nicodemo, solo perché aveva detto: "La nostra legge giudica un uomo prima che sia stato ascoltato e che si sappia quel che ha fatto?". Essi gli risposero: "Sei anche tu della Galilea? Studia e vedrai che da quella regione non è mai sorto alcun vero profeta!".

Un'altra volta furono i suoi stessi parenti a venirlo a prendere per riportarlo a casa: non volevano essere coinvolti nelle terribili accuse che dall'alto gli piovevano. Ma lui, come se nulla fosse, reagì dicendo: "Chi è mia madre? Chi sono i miei fratelli e le mie sorelle?". Poi, guardando i suoi discepoli, disse: "Ecco mia madre e i miei fratelli e le mie sorelle".

Ma forse quel che più meravigliava gli scribi e i farisei era la sua indifferenza per le pratiche religiose. Non lo si vedeva mai pregare, rendere grazie a Jahvè, rispettare scrupolosamente i precetti rituali, tanto meno lo si vedeva fare offerte al Tempio. E anche quando frequentava le grandi festività ebraiche, lo faceva solo per incontrare la sua gente, cui spiegava come impegnarsi per il regno di liberazione nazionale.

Ovunque andasse diceva sempre: "Il riscatto è vicino: accogliete la buona notizia". E in molti gli credevano, anche perché quando parlava sapeva essere convincente. Come quella volta sul monte Tabor, dove espose i punti fondamentali del suo programma, sembrando, agli occhi di tutti, un nuovo Mosè.

"Non ho intenzione di abolire, ma di completare", diceva. "Son venuto a portare il fuoco e quanto vorrei fosse acceso!".

Stava preparando i Galilei all'insurrezione contro Roma e quando cominciò a dividerli in gruppi da cinquanta ben armati, molti pensarono che fosse giunto il tempo per marciare su Gerusalemme, cacciando i sacerdoti dal Tempio e i Romani dalla fortezza Antonia, che dominava dall'alto i cortili dello stesso Tempio, poi dal loro quartier generale presso Cesarea e infine da tutta la Palestina.

Quello del monte Tabor fu un momento cruciale, perché quando vi sono migliaia e migliaia di patrioti pronti a combattere per la liberazione nazionale, la vittoria è sicura. Infatti, bastano alcuni significativi successi per vedere poi le fila del movimento allargarsi facilmente di volontari.

Tuttavia voleva esser lui a decidere il momento giusto per l'insurrezione. Sapeva di avere dalla sua molti Samaritani e moltissimi Galilei, ma non riteneva sufficienti le forze giudaiche. Quello che aveva poteva bastare per vincere i Romani stanziati a Cesarea, ma non per resistere ai rinforzi che sicuramente sarebbero arrivati da Roma.

Già al tempo di Pompeo i Giudei avevano sopravvalutato l'imponenza delle mura della loro Città Santa e sottovalutato l'abilità e la forza delle legioni romane. Compiere una seconda volta un errore del genere sarebbe stato fatale.

Ecco perché quando sul Tabor i Galilei pretesero che lui diventasse re e salisse a Gerusalemme con loro, improvvisamente decise di nascondersi, lasciando tutti sconcertati. Persino ai suoi più fidati discepoli fu costretto a dire: "Volete andarvene anche voi?".

Secondo lui i tempi non erano ancora maturi, le forze non erano sufficienti. Pretendeva un'adesione anche da parte giudaica, perché sapeva di poterla ottenere. I Giudei però dovevano convincersi di non poter porre condizioni di sorta agli altri gruppi tribali, né ai Samaritani né ai Galilei, e neppure ai pagani che avessero voluto aderire al movimento di liberazione. Voleva che tutte le tribù fossero unite, sullo stesso piano. Ecco perché decise di riprendere a frequentare i Giudei, facendo bene attenzione a non lasciarsi catturare.

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11.4) Il ritorno in Giudea

Ogni volta che, durante le grandi festività ebraiche, entrava a Gerusalemme rischiava parecchio, perché su di lui pesava un mandato di cattura e spesso doveva nascondersi nel deserto, oltre il Giordano, dalle parti di Efraim.

Un giorno litigò coi suoi parenti, i quali, vedendo la sua enorme popolarità in Galilea, non riuscivano a capire perché non volesse approfittarne e gli dicevano che se per lui era così importante avere il consenso dei Giudei, allora doveva andare a predicare anche in Giudea, costasse quel che costasse.

Lui invece in quell'occasione rispose: "Voi la fate facile, ma il compito che abbiamo da realizzare è troppo importante perché io possa rischiare di comprometterlo con una imprudenza. Non sono così sicuro che in caso di arresto i Giudei mi difenderebbero".

Ma poi alle feste ci andava lo stesso, seppure in forma privata, non al seguito dei suoi parenti e con pochissimi discepoli. Due meritano di essere ricordate: Capanne e Dedicazione, poiché in esse tastò l'effettiva disponibilità dei Giudei a seguirlo come messia nazionale per una insurrezione anti-romana.

E aveva ragione lui, poiché nella prima rischiò di essere arrestato e nella seconda addirittura lapidato. Infatti durante la festa delle Capanne i Giudei non sopportavano assolutamente ch'egli anteponesse le necessità del bisogno al rispetto del sabato, né che lui non vedesse alcun primato d'onore dei Giudei rispetto alle altre nazionalità.

Sul sabato erano categorici: "Quando ci si dirà esplicitamente che, poste determinate condizioni, la regola può essere trasgredita, bene, potremo farlo tutti, ma tu non puoi farlo prima degli altri, prima che esista un permesso ufficiale". Così gli dicevano. Erano soprattutto i capi del partito farisaico a contestarlo e quella volta fu davvero una fortuna che la gente intenta ad ascoltarlo impedisse il suo arresto.

Per Joshua il bisogno e l'uguaglianza erano le basi della verità. E mentre sulla questione del sabato i suoi discepoli s'erano facilmente convinti, a volte rimanevano sconcertati quando arrivava a dire che neppure tra uomo e donna bisognava fare differenze. Ecco perché il suo movimento non era composto di soli uomini, ma anche di molte donne, tra cui la più attiva era sicuramente Maria di Magdala.

Tuttavia lo scandalo più grande i Giudei lo ebbero durante la festa della Dedicazione. Quand'erano in gioco i princìpi, i Giudei non andavano a cercare vie traverse. Quelli che la volta precedente l'avevano protetto e che sarebbero stati disposti a credergli, cioè non i capi dei farisei ma la gente comune, gli chiesero: "Fino a quando terrai l'animo nostro in sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente".

Lui rispose così: "Lo sono, ma non secondo le vostre aspettative. Voi volete un messia religioso. Io invece mi rifaccio a quel passo della legge che dice: Gli uomini sono dèi".

Al sentire tale professione di ateismo cercarono immediatamente di lapidarlo (in casi del genere non serviva neppure denunciarlo), e noi tutti con lui fuggimmo di nuovo a Efraim.

I Giudei avevano dimostrato di non essere ancora pronti a riconoscerlo come messia: avevano bisogno di una lezione più severa per capirlo. E questa venne qualche tempo dopo, mentre eravamo nascosti oltre il Giordano.

Loro erano convinti che, contro i Romani, non avessero bisogno dell'aiuto dei Galilei, proprio perché dicevano di avere già un loro messia, che si chiamava Eleazar e che Joshua aveva conosciuto quando poteva frequentare tranquillamente la Giudea. Poi s'erano persi di vista, poiché Joshua aveva dovuto espatriare in Galilea, rientrando in Giudea solo da clandestino.

Joshua amava molto Eleazar e quando poteva andava a trovarlo, parlando sempre del momento e del modo in cui insorgere. Si rispettavano a vicenda, anche se Eleazar era convinto che i Giudei avessero forze sufficienti per togliere di mezzo i Romani. E in ogni caso, quando s'incontravano in Giudea, Eleazar aveva il suo seguito, mentre Joshua era accompagnato da pochi discepoli, sicché tra i due non poteva esserci una piena collaborazione.

In uno scontro armato con le forze romane Eleazar fu sconfitto e ucciso. Noi venimmo avvisati troppo tardi e non avremmo comunque potuto far nulla, se non dirgli di avere pazienza e di aspettare un momento più favorevole.

Quei giorni furono pieni di angoscia, poiché tutti noi sapevamo che se fossimo usciti dal nostro nascondiglio, saremmo stati un bersaglio molto facile. D'altra parte Joshua non poteva far vedere di restare insensibile ai richiami delle sorelle di Lazzaro, Marta e Maria, che lo supplicavano di dare l'ultimo saluto al suo caro amico.

Quando lo videro, entrambe gli dissero: "Se tu fossi stato vicino a lui, non sarebbe morto". Joshua pianse perché come uomo avrebbe voluto stargli vicino, ma come messia non poteva, perché avrebbe compromesso la sua missione. Quella volta purtroppo pochi Giudei riuscivano a capire che contro i Romani tutta la Palestina doveva restare unita, rinunciando a qualunque considerazione che potesse dividere.

Tuttavia, secondo Joshua quello poteva essere il momento favorevole per far capire ai Giudei che, se davvero volevano liberarsi dei Romani e dei sacerdoti collaborazionisti, dovevano prestargli fiducia, ritenendolo un messia nazionale, di ogni etnia e tribù.

Infatti fu proprio in occasione della morte di Eleazar che nacque l'intesa tra Giudei, Galilei e Samaritani. Si decise che il momento buono per intervenire sarebbe stata la festa della Pasqua, quando l'affluenza dei pellegrini a Gerusalemme era massima. Avevamo una settimana di tempo per insorgere contro Roma.

L'ingresso nella capitale fu trionfale. Joshua volle mostrare subito le sue buone intenzioni scegliendo di salire in groppa a un asino e non a un cavallo. Il popolo apprezzò e capì, tant'è che persino i capi farisei furono costretti ad ammettere: "Ecco, vedete che non combinate nulla? Tutto il mondo gli va dietro!". Ora era davvero impossibile arrestarlo.

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11.5) L'insurrezione fallita

Quando Joshua entrò trionfalmente a Gerusalemme, nessuno tra i suoi seguaci ed estimatori ebbe il dubbio che lui sarebbe diventato il messia nazionale. Persino le autorità religiose e la guarnigione romana paventavano questa possibilità e la temevano. Nessuno però poté intervenire contro il movimento nazareno: il rischio era troppo grande. Noi eravamo tutti armati. Joshua aveva dato un ordine preciso: "Chi ha un mantello, lo venda e si compri una spada".

D'altra parte, una volta entrati nella Città Santa, lui non chiese di procedere con risolutezza contro gli occupanti e i sommi sacerdoti. Voleva prendersi ancora un giorno per parlamentare, per convincere con le buone maniere gli uni a dimettersi e gli altri ad arrendersi, senza spargimento di sangue.

Tuttavia le polemiche ripresero con maggior vigore. A molti farisei non piaceva l'idea che insurrezione contro i Romani volesse dire anche epurazione del Tempio dalle corrotte autorità religiose. Attendevano che dal Sinedrio giungesse una parola autorevole a favore del movimento nazareno, benché il tempo a disposizione fosse molto poco.

In ogni caso dal Sinedrio venne solo una parola di condanna: il sommo sacerdote Caifa (ch'era stato nominato dal procuratore Valerio Grato) e suo suocero Anna (nominato invece da Quirinio, legato della Siria), che, per quanto non fosse ufficialmente in carica, restava ancora molto influente, avendo avuto cinque suoi figli sommi sacerdoti, erano dell'avviso che per salvare Israele dall'inevitabile ritorsione di Roma, in caso di tentata insurrezione, sarebbe stato meglio eliminare Joshua, consegnandolo direttamente nelle mani dell'odiato nemico. E la maggioranza del Sinedrio si mise dalla loro parte.

Molti Giudei, temendo di essere espulsi dalle sinagoghe per aver parteggiato per Joshua, rimasero incerti, obbligando lui e gli apostoli a nascondersi in città. Ormai però non si poteva più tornare indietro: ci si era esposti troppo. L'insurrezione doveva avvenire nei giorni della Pasqua, poiché quello era il momento politicamente migliore, con o senza il consenso delle autorità giudaiche. Noi eravamo tutti in ansia, in quanto consapevoli ch'era in gioco la nostra vita.

Avevamo soltanto bisogno di sapere su quanti effettivi alleati potevamo contare, ovvero se quelli che avevano già dato il loro assenso erano pronti a insorgere durante la notte, quando il nemico è meno pronto per difendersi.

Per sincerarsene definitivamente fu mandato in ambasciata uno dei nostri, Giuda, che aveva conservato agganci significativi coi farisei più democratici. "Quello che devi fare, fallo presto", gli aveva detto Joshua. I tempi per agire erano molto stretti.

Giuda però tradì. Non ne sappiamo le ragioni. Probabilmente anche lui s'era convinto che l'impresa fosse troppo rischiosa e che se la parte migliore dei farisei non avesse dato il proprio consenso, non ci sarebbero state le condizioni per avere successo. Forse gli avevano assicurato l'incolumità di Joshua e lui vi avrà creduto ingenuamente.

Fatto sta che proprio nel momento cruciale dell'insurrezione, Joshua fu arrestato nel Getsemani, ultimo nostro rifugio nei pressi della città, che anche Giuda conosceva bene.

Grazie alla mediazione pacifica di Joshua, che propose di consegnarsi alla coorte romana senza reagire se avessero lasciato andare i propri discepoli, non ci fu alcun combattimento, salvo il tentativo scriteriato di reazione di Simon Pietro, che cercò di spaccare la testa a Malco, un servo del sommo sacerdote Anna. Malco per fortuna si scansò e Pietro poté recidergli solo l'orecchio. Ma Joshua, essendo ben consapevole che in quello scontro armato nessuno di noi ne sarebbe uscito vivo, ordinò a Pietro di riporre la spada nel fodero e si consegnò spontaneamente, dopodiché tutti noi fuggimmo.

Rientrammo in città, di nascosto, solo in due: io e Pietro. E ci mettemmo a seguire la coorte da lontano, senza farci vedere. Era notte fonda.

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11.6) L'interrogatorio e il processo

In mezzo ai soldati romani che catturarono Joshua vi erano anche molte guardie del Tempio e, per rispetto o per salvare le apparenze, il prefetto Pilato aveva concesso che la prima udienza informale si tenesse presso i sommi sacerdoti Anna e Caifa. In fondo senza il concorso dei Giudei traditori, i Romani non avrebbero potuto catturarlo, in ogni caso non così facilmente.

Il primo interrogatorio avvenne in casa di Anna. In qualche modo vi potei assistere, poiché nel passato avevo avuto conoscenze presso quell'ambiente, prima ancora che cominciassi a frequentare il Battista.

L'ingresso nel cortile mi fu aperto da una portinaia che si ricordava di me e, grazie a lei, potei fare entrare anche Pietro, il quale però, quando la vide, chissà perché negò di conoscere Joshua. Lei s'era accorta della parlata galilaica di Pietro, ma, sapendolo mio amico, non l'avrebbe mai denunciato. Invece Pietro pensò subito che volesse farlo.

Lui comunque rimase in cortile, a scaldarsi intorno al fuoco, insieme alle guardie del Tempio. Io invece potei salire al piano superiore, non senza circospezione.

L'interrogatorio da Anna durò molto poco, poiché Joshua non rispondeva come lui avrebbe voluto. E, per questa ragione, si prese anche un pesante ceffone da una delle guardie, che voleva mettersi in mostra agli occhi del sommo sacerdote.

Anna poneva delle domande fingendo di non sapere nulla di Joshua e lui invece gli rispondeva che tutta la popolazione d'Israele lo conosceva bene, perché, proprio come lui, voleva liberarsi dei Romani.

Quando Anna si rese conto che da Joshua non avrebbe ottenuto nulla, lo mandò da Caifa, ben legato. Intanto, nel cortile Pietro ebbe un diverbio con un parente di Malco, il quale sosteneva d'averlo visto nel Getsemani mentre cercava di uccidere il servo del sommo sacerdote. Anche quella volta Pietro, temendo per la sua vita, negò a più riprese di conoscere Gesù, convincendo le guardie coi suoi spergiuri.

Nessuno di noi due poté assistere all'interrogatorio presso l'abitazione di Caifa, ma possiamo supporre che non fu molto diverso da quello precedente, anche se durò tutta la notte. In ogni caso le due udienze non servirono minimamente a far cambiare opinione sul destino da riservare a Joshua. Tutti erano convinti che sarebbe stato meglio per loro consegnarlo nelle mani di Pilato, che in quel momento si trovava a Gerusalemme, come sempre faceva in occasione delle grandi festività.

E così infatti fecero, quando di mattina presto lo portarono nel pretorio. Aspettarono che Pilato uscisse, perché per un giudeo sarebbe stato molto sconveniente entrare in un luogo pagano durante la Pasqua.

Io e Pietro potevamo vedere le cose a una certa distanza e a me parve subito che quando i sacerdoti e le guardie del Tempio glielo portarono, lui li stesse aspettando, anche se fingeva di non sapere nulla di Joshua. Pilato non era solo un prefetto avido, licenzioso e crudele, ma anche molto astuto: non a caso l'imperatore Tiberio, attraverso il suo potente favorito Seiano, l'aveva mandato a governare la turbolenta Giudea.

Si era preparato a recitare la parte del giusto giudice, quello che non si vuole intromettere nelle questioni ebraiche e quello che sul piano puramente legale, del diritto romano, sa emettere la sentenza migliore.

In realtà Pilato aveva paura di Joshua, perché sapeva benissimo che qualche giorno prima l'avevano accolto nella città come liberatore nazionale. Ne aveva così paura che inizialmente disse ai sacerdoti di giudicarlo secondo la loro legge, ma quelli gli risposero che per il reato di sedizione non avevano il potere di mettere a morte nessuno. Pilato lo sapeva, ma voleva che gli riconoscessero le sue prerogative. E i capi giudei pensavano che, facendolo, avrebbero ottenuto da lui un trattamento di favore.

Sicché fu lui a gestire con grande maestria, nell'arco dell'intera mattinata, tutta la procedura di un processo che sin dall'inizio si presentava come politico.

Pilato trattenne Joshua nel pretorio, fingendo di ascoltare la sua testimonianza; poi, quando uscì disse: "Non trovo in lui nessuna colpa. Se volete ve lo rilascio". In effetti Joshua non aveva mai ucciso nessuno.

In quel momento ci parve di sognare. Come sarebbe stato possibile rilasciarlo, dopo che per tanti anni avevano cercato di catturarlo? Pilato voleva forse far vedere che Joshua era un leader totalmente innocuo? Evidentemente dentro il pretorio doveva aver macchinato qualcosa. Siccome sia lui che i sommi sacerdoti temevano la reazione della folla, pensarono d'ingannarla con una proposta rischiosa ma allettante, mai fatta dai Romani: rilasciare lo zelota Barabba in cambio della morte di Joshua.

Insieme ad altri due zeloti, Barabba aveva assassinato alcune guardie romane durante la settimana pasquale. Essendo stati tutti catturati, la loro sorte era segnata.

Quando uscì dal pretorio, Pilato disse ch'era disposto a liberare Joshua per far vedere che non aveva paura che diventasse re d'Israele. Sapeva però che i capi giudei avrebbero fatto in modo che la folla chiedesse, al suo posto, la liberazione di Barabba, che in quel momento sembrava dare più affidamento, in quanto aveva mostrato di non aver paura delle armi romane.

Pilato e i sommi sacerdoti conoscevano bene Joshua e sapevano ch'era molto più pericoloso di Barabba, in quanto aveva saputo far confluire nel suo movimento tutte le etnie e tribù della Palestina, senza fare distinzioni di alcun genere. Sapevano bene che se avessero rilasciato Barabba, l'avrebbero facilmente ripreso.

Al sentire che la folla reclamava la liberazione di Barabba, Pilato non perse tempo e fece subito flagellare pesantemente Joshua, ordinando alle due guardie di trasformarlo in modo tale che la sua credibilità politica fosse ridotta a zero. Il momento più difficile per il prefetto era stato superato.

Dopo aver liberato Barabba, riportò fuori Joshua grondante di sangue: era irriconoscibile. Pilato disse che per lui questa punizione poteva bastare. Ma fu un inganno anche quello. Per quanto pesante fosse stato quel supplizio, Joshua si sarebbe prima o poi ripreso: ecco perché il potere di Roma e di Gerusalemme lo volevano entrambi morto.

Di qui la proposta, che ancora una volta venne dagli avversari del movimento nazareno: "Crocifiggilo! Crocifiggilo!". Era la morte che si dava agli schiavi ribelli, ai sediziosi, ai rivoltosi contro Roma.

Pilato doveva essere sicuro che, mandandolo sul patibolo, avrebbe avuto meno problemi che a lasciarlo andare. Temeva ancora la folla, poiché la sua guarnigione era un nulla rispetto alle forze in campo, e fu solo quando sentì pronunciare delle frasi che per lui erano come oro colato: "Se liberi costui, non sei amico di Cesare. Chiunque si fa re, si oppone a Cesare. Noi non abbiamo altro re che Cesare", che capì di dover agire con risolutezza.

Parole come queste, dette in pubblico e con un tono così solenne, da parte delle autorità religiose, non le aveva mai sentite: erano troppo impegnative per non approfittarne esaudendo quella richiesta. Per qualunque cosa fosse successa contro Roma, dopo quella crocifissione, avrebbe avuto ogni ragione per prendersela con loro. E fu così che verso l'ora sesta emise la sentenza di morte.

Sul Golghota salirono tre condannati, di cui due del partito zelota, quello che riprenderà la guerra contro Roma alcuni decenni più tardi. A tutti e tre inchiodarono i piedi, ma solo a Joshua anche i polsi, poiché durante il percorso era così sfinito per la fustigazione che non riuscì a portare il patibulum, sicché quando fu impalato allo stipes s'infierì ulteriormente.

Gli misero anche il titolo della condanna: "Joshua Nazareno Re dei Giudei", in greco, latino e aramaico. Al vederlo i capi dei sacerdoti pretesero da Pilato che lo modificasse con le parole: "Io sono il Re dei Giudei". Ma Pilato si rifiutò. Non voleva più sentir parlare di candidature al trono d'Israele: era lui lì che comandava e sicuramente ambiva a una carica ancora più prestigiosa.

Ai piedi della croce vi erano varie donne del movimento nazareno, tra cui la madre di Gesù, Maria di Magdala e Maria di Cleopa.

Da quello ch'esse dissero, Joshua visse sino all'ora nona, rifiutandosi di prendere bevande inebrianti che lo stordissero. Stranamente disse a sua madre di venire a vivere con me, pur avendo egli altri fratelli e sorelle. Io interpretai quella volontà come il segno che avrei dovuto sostituirlo alla guida del movimento nazareno.

Siccome gli ebrei non volevano che in occasione della Pasqua si tenessero appesi dei crocifissi, i capi religiosi pretesero che Pilato affrettasse la loro morte e li seppellisse in una fossa comune. Pilato acconsentì, ma, mentre per i due zeloti bastò spezzare le ginocchia, impedendo loro di poggiarsi sulla predella, a Joshua, essendo già morto, fu sufficiente verificarlo con un colpo di lancia al cuore.

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11.7) La scoperta della tomba vuota (fonti)

A impedire che Joshua venisse sepolto in una fossa comune provvide un altro di quei farisei democratici che si pentì amaramente di aver fatto molto poco per aiutare il movimento nazareno a insorgere contro Roma e l'aristocrazia sacerdotale: Giuseppe d'Arimatea.

Fu lui che andò da Pilato a chiedere il corpo di Joshua, seppellendolo nel proprio sepolcro. Volendo rispettare i precetti religiosi, che impedivano di toccare i cadaveri nel sabato santo, Giuseppe impose un'affrettata inumazione, rimandando quella regolare alla fine del giorno dopo. E fu così che lo avvolsero in un lenzuolo, tenuto unito da varie bende, lasciando il corpo così come l'avevano deposto dalla croce.

Senonché il mattino dopo, quando Maria di Magdala e una sua amica s'erano recate presso il sepolcro per andarlo a piangere, disperate com'erano, s'accorsero che la pesante pietra che chiudeva l'uscio era stata rimossa e che dentro il sepolcro non vi era nulla.

Quando vennero a trovarci, io e Pietro restammo senza parole. Sostenevano che il corpo era stato trafugato. Ricordo benissimo che insieme a Pietro corsi a vedere se quello che dicevano corrispondeva al vero.

In effetti, giunti sul luogo, vedemmo anche noi che la pietra era stata spostata e che dentro vi erano delle bende per terra e il lenzuolo ripiegato e posto da una parte, con le tracce del suo martirio.

Io presi il lenzuolo e guardai in faccia Pietro dicendogli: "Se l'avessero trafugato, non avrebbero lasciato il lenzuolo, meno che mai riposto così. Qui è successo qualcosa di strano".

E Pietro mi disse una cosa che in quel momento condivisi, ma che poi mi sembrò controproducente. Mi chiese di credere nell'idea che Joshua s'era ridestato e di non esibire il lenzuolo come prova.

Per quanto ciò mi sembrasse pazzesco, in quanto vi erano stati numerosi testimoni della sua morte, lì per lì gli diedi retta.

Ma poi Pietro cominciò a sostenere che la morte di Joshua era stata "necessaria", voluta da dio, e che sarebbe tornato quanto prima per far giustizia dei propri nemici. Infatti lui aveva fatto questo ragionamento: "Se è risorto, non voleva vincere da vivo ma da morto, per farci capire che senza di lui non possiamo far nulla".

Un'idea del genere avrebbe avuto il suo senso se ci fossero stati riscontri entro pochi giorni dal decesso. Ma così non fu. Noi stavamo lì in attesa, perdendo l'occasione favorevole della Pasqua.

Pietro però, invece di rinunciare alla sua follia, fu costretto, per continuare a sostenerla, a inventarsene una nuova, quella secondo cui i Giudei, prima di poter rivedere Joshua, dovevano convertirsi, dovevano credere che Joshua era stato il vero messia e che non ce ne sarebbero stati altri dopo di lui.

Diceva questo per mettere le autorità religiose con le spalle al muro. Voleva far capire ai Giudei che se non avessero accettato questa versione dei fatti, i nazareni si sarebbero staccati definitivamente dal giudaismo, come già avevano fatto i Samaritani, e non avrebbero più frequentato il Tempio.

Pietro non si rendeva conto che, minacciando di separare le forze galilaiche da quelle giudaiche, eludeva il fondamentale problema che Joshua aveva cercato per tutta la sua vita di risolvere: come fare una liberazione effettivamente "nazionale".

A quel punto l'insurrezione rischiava di diventare impossibile. Avevamo perduto l'occasione propizia. E siccome non pochi erano d'accordo con le idee rinunciatarie di Pietro, io e mio fratello, con altri apostoli e discepoli, decidemmo di andarcene, per prepararci comunque alla rivolta. Avevamo infatti capito che, predicando la parusia di Joshua, per quanto imminente la si sognasse, demoralizzava il movimento, non invogliava a proseguire la sua missione.

Giuda l'aveva tradito da vivo, ma Pietro lo stava tradendo da morto e non a caso alcuni farisei, tra cui Saulo, che pur era stato un nostro avversario, cominciarono a pensare che alle condizioni poste da Pietro ci si poteva anche stare.

Saulo anzi, che poi mutò nome in Paolo, arrivò addirittura a sostenere una cosa che per noi non aveva alcun senso, e cioè che Joshua era "l'unigenito figlio di dio". In realtà Joshua, durante la sua predicazione, non aveva mai parlato di "regno di dio" ma sempre di "regno dell'uomo": lui stesso si definiva "figlio dell'uomo".

Quando Paolo s'accorse che non ci sarebbe stato alcun ritorno imminente di Joshua, cominciò a sostenere che non aveva senso neppure la liberazione della Palestina dai Romani e che Joshua era morto per riscattare gli uomini dal peccato d'origine, quello che impediva loro d'essere se stessi, e che sarebbe ritornato alla fine dei tempi, per giudicare i vivi e i morti.

Quello che noi non riuscivamo a sopportare era la trasformazione di un messia liberatore di Israele in un redentore morale del genere umano. Per Paolo l'unica liberazione possibile era quella dalla morte, considerata come prezzo del peccato. Morire per lui era un guadagno, perché lo faceva uscire dalla condizione terrena.

Pietro non aveva mai pensato a cose così assurde, eppure alla fine dovette cedere. I farisei avevano voluto la morte di Joshua due volte. Paolo non aveva tradito solo il messia, ma tutto l'ebraismo.

Io però ricordo bene, e con me tanti altri, quel che Joshua diceva in vita: "L'unico dio dell'uomo è l'uomo stesso". In questo senso lui intendeva dire che "completava Mosè", il quale infatti, in mezzo ai tanti regni idolatrici, aveva detto: "Non farti di dio alcuna rappresentazione".

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12) L'idea di ateismo nel cristianesimo

Nel vangelo di Giovanni ci sono vari passi in cui i redattori, che certamente sul piano intellettuale non erano degli sprovveduti, cercano di esprimere le loro idee relative all'ateismo. Essi dovevano aver letto i testi fondamentali della Sofistica greca, che generalmente, sull'argomento, non era in alcun modo favorevole ai miti e alle leggende.

Il loro ateismo però è diverso da quello della Sofistica. Infatti è un ateismo (ovviamente in riferimento ai tempi di allora) che si presenta nei panni del teismo, o meglio del cristocentrismo o cristomonismo, in quanto l'idea di dio, per la prima volta nel pensiero ebraico, passa attraverso l'esistenza di una persona, considerata divino-umana, in via esclusiva, cioè tale per cui essa solo può esserlo. La prerogativa della divinità viene attribuita al solo Cristo, per cui viene negata, p. es., a tutti gli imperatori romani e persino a tutti gli dèi del mondo antico.

Per quale motivo in questo caso possiamo parlare di "ateismo"? Perché per un ebreo nessun uomo poteva considerarsi così perfetto da essere ritenuto un dio.

Quando i redattori fanno dire al Cristo d'essere l'unico o l'unigenito figlio di dio, praticamente gli attribuiscono una caratteristica divina assolutamente univoca, inimitabile o ineguagliabile. Certo, anche gli uomini sono, per il cristianesimo, "figli di dio", ma non nella stessa maniera. Noi partecipiamo all'essenza divina, non abbiamo una natura divina ingenerata o eterna.

I greci, quando manifestavano il loro ateismo, si limitavano a dire che dio è una creazione della fantasia umana. L'uomo ha bisogno di creare un ente perfetto a titolo consolatorio, al fine di trovare una spiegazione all'insensatezza della vita o alla imprevedibilità o spaventosità dei fenomeni naturali.

Con i redattori del IV vangelo la cosa è diversa. Solo di Cristo si dice che è la verità della vita, per cui solo lui può dire di essere l'immagine di dio, la sua perfetta rappresentazione divino-umana. "Chi vede me, vede il Padre" - dice a più riprese - "perché mi chiedete di mostrarvi Dio?".

Quindi praticamente coi vangeli l'ateismo si esprime riconducendo dio a una persona fisica, che però, in via esclusiva, è anche di natura sovrumana. Questo ragionamento non poteva essere accettato né da un ebreo, per il quale l'unico vero dio era ed è Jahvè, cioè colui che è e che non è rappresentabile in alcuna maniera, poiché se lo si facesse inevitabilmente gli si ridurrebbero le caratteristiche divine, essendo l'uomo sommamente imperfetto. Ma non poteva essere accettato neppure da un greco, poiché gli unici esseri non strettamente umani erano chiaramente un prodotto mitologico della fantasia dei poeti. I greci potevano anche credere nell'esistenza degli dèi, ma non potevano credere che un uomo fosse una divinità in senso stretto. Ecco perché quando sentono parlare Paolo all'Areopago, gli ridono in faccia. Infatti non stava parlando come uno dei poeti, intenzionato a introdurre un nuovo mito letterario ad Atene. Paolo presumeva di raccontare cose che, secondo lui, erano veramente accadute.

Al dire dei greci sugli dèi si potevano raccontare molte storie fantastiche, in cui si era liberi di credere o di non credere, anche se il fatto di non credervi risultava poco confacente con le tradizioni aristocratiche o popolari di una polis; senza poi considerare che una coerente posizione ateistica finiva col ridurre di molto le potenzialità letterarie della fantasia umana. In ogni caso non si poteva indurre a credere che un uomo reale andasse considerato come una reale divinità.

Quindi il cristianesimo va considerato come il superamento, nell'ambito della religione, sia dell'ebraismo che del paganesimo. Dell'ebraismo perché circoscrive la divinità a un soggetto esclusivo, di natura divino-umana; del paganesimo perché questo soggetto non è fittizio ma reale ed è così reale che rende irreali tutti gli altri dèi.

Ora, perché questa forma di ateismo cristocentrico del cristianesimo oggi viene considerata del tutto superata, o comunque in via di definitivo superamento? Anche qui il motivo è molto semplice: l'uomo ha capito che, se riesce a risolvere le proprie contraddizioni sociali, è dio di se stesso.

Cioè l'uomo ha capito che possiede i mezzi e gli strumenti per affrontare e risolvere, senza l'aiuto di alcun dio, tutti i suoi problemi. Ma allora - ci si può chiedere - perché non lo fa? Non è per mancanza di intelligenza o di potenzialità operativa, ma proprio per difetto di volontà. L'uomo non riesce a risolvere le contraddizioni sociali, quelle antagonistiche, non perché è una creatura debole, viziata dal peccato originale, ma soltanto perché non ha il coraggio di abbattere i poteri forti che vogliono tenerlo sottomesso. È con l'idea e soprattutto la pratica della rivoluzione politica che l'uomo ha cominciato a credere d'essere un dio. Ed è da quando ha capito che bisogna ribellarsi per poter essere una divinità che, a proprie spese, ha imparato a correggere i propri errori.

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13) Conclusione

I

Feuerbach diceva che gli uomini avevano creato un dio a loro immagine e somiglianza, e aveva ragione. Ma non s'era accorto che quando gli ebrei dicevano che l'uomo era a immagine e somiglianza di dio, erano più realisti e materialisti dei pagani, i quali ponevano tra gli uomini e gli dèi un abisso incolmabile. Per loro infatti gli dèi erano immortali, gli uomini no. Per loro era impossibile opporsi a un dio senza l'aiuto di un altro dio. Inoltre al di sopra di tutti gli dèi dominava il destino, che nessun dio poteva violare, meno che mai gli uomini. I greci erano fatalisti, gli ebrei no; erano dominati dall'idea di schiavismo, gli ebrei no.

Eppure chi ha saputo trarre dalle concezioni religiose dell'ebraismo delle conclusioni inedite è stato solo il cristianesimo, che arrivò a dire una cosa sconvolgente: un uomo, Gesù, era dio; cosa che aveva dimostrato risorgendo da morte, o comunque scomparendo misteriosamente dalla sua tomba.

"In principio era il logos", cioè Cristo era l'intelligenza dell'universo, posta a capo di ogni cosa; "il logos era presso dio", cioè era di sostanza divina, in quanto imparentato con la divinità; "il logos era dio", cioè, pur essendo umano in tutto e per tutto, lo era anche in senso divino. Quindi un uomo era dio. Tutte le religioni precedenti al cristianesimo venivano subissate da questa consapevolezza semi-ateistica.

Semi-ateistica perché, dicendo che solo un uomo era dio (in via esclusiva), non si arrivava, purtroppo, a un'altra logica conseguenza (inerente alla sua stessa predicazione), e cioè che tutti gli uomini sono dèi: si volle mantenere in vita la religione quando in realtà essa andava rimossa.

Infatti, se gli uomini sono dèi, non esiste alcun dio qualitativamente diverso da loro. Il logos, al massimo, non è che il prototipo della divinità umana, di cui dobbiamo prendere consapevolezza. Non c'è altro dio che l'uomo, e Cristo ne è l'emblema, ucciso da quelle stesse persone che avrebbero dovuto riconoscerlo per prime.

Ma c'è di più. Se tutti gli uomini sono dèi, allora lo sono anche le donne, ma se lo sono anche le donne, allora esistono due prototipi. In principio non c'è l'uno ma il due. L'essenza della divinità umana è duale per definizione.

Dobbiamo dunque arrivare a tirare queste due conclusioni, superando definitivamente il cristianesimo e qualunque altra religione: in principio esiste solo un'essenza umana, che è divina e duale, distinta per genere.

Se è così, la dimensione terrena è solo una delle dimensioni universali cui siamo destinati. È solo un banco di prova, una sorta di esperimento in vitro, un'anticipazione di ciò che ci attende nell'universo. Su questa pianeta stiamo sperimentando il meglio e il peggio di noi, per poter capire come regolarci quando ne saremmo fuori.

Noi sappiamo che il Sole si spegnerà tra cinque miliardi di anni, ma questo tempo è lunghissimo soltanto perché non deve condizionarci nelle nostre scelte di vita. Noi in realtà dobbiamo renderci conto d'essere eterni e in grado di muoverci in uno spazio illimitato. Dobbiamo prendere consapevolezza di avere caratteristiche divine, proprio per il fatto di esistere. Ce le abbiamo dalla nascita, proprio perché l'essenza umana (esattamente come quella naturale) è eterna e universale, per cui, in quanto essenza divino-umana, noi non siamo mai nati e mai moriremo.

Dobbiamo abituarci all'idea di dover vivere in eterno in uno spazio illimitato, in cui non esiste alcun dio che ci dica come dobbiamo essere. L'unica cosa che dobbiamo cercare di capire è come vivere al meglio questa essenza umana. Purtroppo però sono circa 6000 anni che abbiamo smesso di capirlo, cioè da quando siamo voluti uscire dallo stato di natura del comunismo primordiale. È appunto questa condizione di vita che dobbiamo cercare di recuperare. E dobbiamo farlo su questo pianeta, assolutamente, anche usando la violenza contro chi ce lo impedisce. Solo recuperando lo stato di natura possiamo tornare ad essere quel che eravamo, possiamo avere speranza di popolare l'universo nel migliore dei modi. Ne va della sopravvivenza del genere umano, il quale, se non riesce ad essere secondo natura, inevitabilmente si autodistrugge.

Dobbiamo porre fine all'antagonismo sociale attraverso una resistenza attiva al male. Neanche il più piccolo torto deve passarla liscia. Non nel senso che bisogna essere spietati con chi sbaglia, ma nel senso che, di fronte a ogni abuso, bisogna reagire prontamente, altrimenti il virus si diffonderà in maniera incontrollabile.

Questo significa che la democrazia è possibile solo in piccole comunità, dove ci si controlla reciprocamente. Queste comunità devono essere autosufficienti, cioè non possono dipendere da entità esterne, come dio, lo stato, il mercato, la chiesa... Né è pensabile che una città possa dipendere dalla campagna o viceversa.

Dobbiamo creare comunità basate sull'autoconsumo e sulla democrazia diretta. Dobbiamo arrivare a scambiarci solo delle eccedenze, nella convinzione che la sovranità è inalienabile e indivisibile, come diceva Rousseau. E qualunque forma di delega deve poter essere revocata in qualunque momento.

Ci attende un lavoro enorme, ma a nostro favore giocano le contraddizioni irrisolvibili dei sistemi antagonistici. Dobbiamo soltanto rinunciare all'illusione di poterle risolvere. Dobbiamo approfittare del momento in cui esse scoppieranno, ma bisogna prepararsi subito ad avere le idee sufficientemente chiare, proprio perché non saranno gli eventi, di per sé, a darcele. Le idee conformi a natura vanno elaborate prima. Nessuna pratica rivoluzionaria senza teoria rivoluzionaria, diceva Lenin.

Noi dobbiamo andare al di là della contrapposizione tra paganesimo, ebraismo e cristianesimo, tra comunità particolare, vissuta p. es. nell'ambito di una polis, e comunità internazionale. Noi dobbiamo vivere in comunità ristrette, dove sia possibile la democrazia diretta e quindi il controllo reciproco, dove il rispetto della natura sia integrale, e dove tutto ciò venga fatto con la consapevolezza che il genere umano appartiene a un destino comune, che può essere percorso seguendo strade diverse, su cui si può camminare liberamente, senza temere interferenze altrui.

II

Una conclusione che si rispetti non può essere esaustiva ma deve offrire lo spunto per nuove ricerche, eventualmente sulla base delle seguenti considerazioni.

Tutto quanto viene detto al di fuori dei quattro vangeli canonici va considerato molto poco utile ai fini di una comprensione della figura di Gesù. Gli stessi vangeli canonici vanno considerati come una solenne mistificazione. Questo perché si presume che la "resurrezione" sia l'aspetto più importante della sua vita, quando invece quell'aspetto riguarda la sua morte. Peraltro il concetto di "resurrezione" è solo un'interpretazione della tomba vuota, in quanto il "giudizio di fatto" avrebbe dovuto limitarsi a parlare di "strana scomparsa di un cadavere".

Non solo, ma dei quattro suddetti vangeli solo due vanno ritenuti prioritari: quello di Marco, il primo ad essere stato scritto (da cui dipendono in gran parte Matteo e Luca), e quello di Giovanni, l'ultimo, che si contrappone a Marco e che è stato profondamente modificato proprio per ridurre al minimo tale contrapposizione. Nel vangelo marciano è espressa la teologia petro-paolina, risultata vincente dopo la catastrofe della nazione israelitica nel 70.

L'ultima cosa che abbiamo di Gesù Cristo, la più importante di tutte, è la Sindone, il lenzuolo che ha avvolto il suo corpo nel sepolcro. Tale reperto si pone a un livello infinitamente più alto di quello dei due suddetti vangeli, proprio perché non ha subìto modificazioni da parte di redattori tendenziosi. Altro non abbiamo.

L'importanza della Sindone non sta semplicemente nel fatto che l'immagine ivi rappresentata ha qualcosa di poco spiegabile secondo i nostri canoni scientifici, ma sta piuttosto nel fatto che la condizione in cui quel corpo si presenta (fustigato, torturato, crocifisso e trafitto al costato) è contraddittoria all'immagine che ne danno i vangeli, per i quali, infatti, il Cristo non ha nulla di politicamente eversivo contro i Romani, autori di quella esecuzione capitale.

Noi abbiamo a che fare con una Sindone autentica, poi con un vangelo, quello marciano, scritto da un discepolo di Pietro, che nella sua stesura definitiva ha subìto delle aggiunte più chiaramente favorevoli alla teologia paolina; infine vi è il vangelo giovanneo, che è il risultato di una profonda manomissione da parte dei discepoli dello stesso apostolo, il quale, molto probabilmente, aveva scritto il suo testo in aramaico. Il contenuto di questo vangelo originario doveva essere nettamente avverso alla teologia petro-paolina presente nel vangelo marciano e negli altri Sinottici.

Il cristianesimo paolino è rinvenibile, ovviamente, nelle lettere di Paolo, che sono anteriori alla scrittura definitiva del vangelo marciano. Esse tuttavia non sono anteriori a tutto questo vangelo, in quanto la sua stesura originaria, anch'essa in aramaico, apparteneva alla tradizione petrina. Ecco perché in quel testo vi è la teologia petro-paolina, che è una mistificazione della Sindone.

Questo per dire che l'unica cosa che merita davvero d'essere compresa non è la nascita e lo sviluppo del cristianesimo, ma è la modalità in cui è avvenuta la mistificazione nei confronti dell'operato del Cristo. Si tratta di una modalità politica regressiva, reazionaria, nei confronti di un'attività politico-nazionale, ch'era insurrezionale nei confronti dei Romani e rivoluzionaria nei confronti della casta sacerdotale che gestiva il Tempio di Gerusalemme.

Preso in sé e per sé, il cristianesimo è soltanto una religione e, come tutte le religioni, è soltanto una forma di alienazione. Non merita di essere studiato indipendentemente dalla mistificazione storico-politica che l'ha generato. Quando verrà accettato da Costantino e reso obbligatorio da Teodosio, esso rientrerà nella storia dell'impero romano-cristiano, e si trasformerà in una ideologia ufficiale, sostituendosi al paganesimo. Se fino a Costantino il cristianesimo poteva pretendere di avere qualcosa di "eversivo", a partire dal Concilio di Nicea (presieduto dall'imperatore), in cui si stabilisce dogmaticamente l'ortodossia di tale religione e l'obbligo di aderirvi, qualunque carattere eversivo viene irrimediabilmente perduto. Il cristianesimo "ortodosso" diventa progressivamente una confessione statale e l'opposizione a tale confessione verrà esercitata da mille eresie.

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Appendici

14) Cristo tra massa ed energia

Se massa ed energia coincidono e Cristo - come dicono i cristiani - è "risorto", allora in lui vi era qualcosa di particolare, ma questo quid, che è un'essenza, deve essere in qualche modo presente (per partecipazione) anche nell'essere umano, altrimenti son più le cose che non si spiegano di quelle spiegabili.

La differenza tra lui e noi sta nel fatto che massa ed energia in lui sono coincidenti in maniera assoluta; in noi invece solo in maniera relativa. Cioè la sua energia, per un motivo a noi inspiegabile, ha avuto bisogno subito di riprendersi la sua massa.

Questo però ci fa pensare che sia giusta l'idea dei cristiani di ritenere necessaria la "resurrezione dei corpi", per quanto forse sarebbe meglio usare il termine "reintegrazione potenziata".

La nostra essenza - che loro chiamano "anima" o "spirito" o "pneuma" - che pure continua ad esistere dopo la morte, ha bisogno di un "corpo", come avviene tra gli aristotelici con l'"atto" e la "potenza". Questa cosa, per certi versi, è incredibile. Infatti il nostro corpo tende naturalmente a disfarsi, a decomporsi. Di quale corpo ha bisogno l'anima (o la psiche) per esprimersi al meglio?

L'energia ha bisogno di una massa equivalente, nella sostanza e nella forma, in quanto ognuno dei due elementi deve trovare nell'altro il proprio sostentamento, la propria caratterizzazione. Un'anima, nell'universo, non saprebbe come utilizzare un corpo terreno.

Anima e corpo devono convivere, coesistere. Quindi il corpo che avremo non sarà esattamente identico a quello terreno. Avrà maggiori capacità, non potrà invecchiare, si sposterà alla velocità della luce, brillerà come le stelle, avrà infinite capacità creative: dovrà popolare l'intero universo. L'unica cosa che non potrà fare sarà quella di leggere il pensiero, poiché la legge fondamentale dell'universo, e cioè la libertà di coscienza, non può e non potrà mai essere violata.

Tuttavia questo "corpo nuovo" dovrà per forza avere qualcosa che già adesso abbiamo, in nuce, su questa terra, poiché siamo tutti "figli dell'universo". Questo qualcosa è appunto il legame (sinolo) che unisce i due elementi: massa ed energia devono potersi influenzare reciprocamente, rispettandosi nella loro diversità e anzi avvalendosene. Come riescano a stare uniti non ci è dato di sapere: sappiamo solo che non possiamo tenerli divisi.

Resta però da spiegare perché il Cristo ha avuto bisogno subito di riottenere il proprio sinolo. E resta anche da spiegare se questa ricomposizione sia avvenuta motu proprio o in virtù di un intervento esterno. Se è vera questa seconda ipotesi, allora hanno ragione i cristiani a parlare di un dio-padre; se invece è vera la prima, allora non esiste alcun dio. In tal caso noi avremmo a che fare con un individuo umano che, apparentemente, sembra molto particolare, e non sarebbe da scartare l'idea di considerarlo come una sorta di "prototipo dell'umanità", di cui questa non è altro che un "prodotto derivato", avente, in potenza, medesime caratteristiche (quanto all'immagine e alla somiglianza), tra cui le principali sono l'eternità come esistenza e l'infinità della coscienza.

Gesù Cristo cioè sarebbe un soggetto di tipo "universale", afferente, per intrinseca qualità o natura, alla dimensione dell'universo, ed egli sarebbe giunto sulla terra come una sorta di "extraterrestre" - i cristiani usano la parola "incarnazione" - per ricordare agli uomini una cosa che avevano dimenticato, e cioè che la loro provenienza e il loro destino è l'universo; sicché - questa appare la conseguenza più logica - tutto quanto essi fanno su questa terra non potrà non avere conseguenze su quello che domani dovranno fare nell'universo, e quello che dovranno fare sarà appunto di "umanizzarlo".

La terra è un prodotto dell'universo, così come gli uomini sono stati generati dal loro "prototipo", il quale, evidentemente, non può avere solo caratteristiche maschili: il principio dell'universo non è monadico ma dualistico.

La cosa su cui riflettere maggiormente è che il Cristo non ha semplicemente comunicato un'informazione (quella relativa alla necessità di vivere umanamente), ma si è lasciato coinvolgere così tanto nelle vicende umane da finire sul patibolo. Quindi l'informazione - che i cristiani chiamano "rivelazione" - doveva essere particolarmente importante. Nel senso che il nostro destino nell'universo dipenderà molto dal comportamento che avremo saputo tenere su questo pianeta.

Questo spiega il motivo per cui Cristo non ha detto nulla di ciò che gli uomini dovranno fare nell'universo. Non poteva rischiare ch'essi fossero indotti a posticipare a una situazione ultraterrena il compito di risolvere i loro problemi più cruciali. Sarebbe stata una scelta anti-pedagogica, controproducente. Gli uomini devono imparare ad essere umani su questa terra: il resto verrà da sé.

Del tutto ingiustificati e illusori sono quindi stati i tentativi di presentare il Cristo come un essere sovrumano, dall'essenza divina. L'unico indizio che nel Cristo ci sia qualcosa di particolare, non ancora spiegabile, perché non riproducibile, è la sindone, trovata nella tomba vuota: è l'unico elemento ambiguo del Nuovo Testamento, in quanto tutto il resto va considerato mistificante. E non meno ridicoli sono stati i tentativi, da parte di atei e persino di credenti, di considerare falso quel reperto storico: infatti si comprende che i vangeli mentono proprio perché è vera la sindone, la cui immagine impressa lascia credere che si trattasse di un leader politico sovversivo, non di un semplice pacifista.

Tuttavia essa deve rimanere un semplice indizio, su cui non si può elaborare alcuna teoria, anche perché dobbiamo presumere che il Cristo non abbia fatto assolutamente nulla per far capire agli uomini ch'egli era più che un uomo. Tutto quanto ha detto o fatto era alla portata degli esseri umani, e ogni interpretazione che vada al di là di questa constatazione, è arbitraria.

Noi sappiamo soltanto che per essere "umani", nell'universo, dobbiamo prima dimostrarlo su questo pianeta. A noi è data soltanto la garanzia dell'immortalità, cioè del legame organico tra anima e corpo. Tutto il resto dipende dalla nostra volontà.

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15) Il tradimento di Giuda

Nella storia delle rivoluzioni o dei tentativi insurrezionali di tutti i tempi, i motivi che hanno indotto qualcuno dei protagonisti a tradire sono sempre stati, in genere, o l'estremismo o, all'opposto, il moderatismo.

Lenin nelle sue opere descrive due esempi famosi, che rientrano in queste categorie: quello di Kamenev e Zinoviev, che nell'imminenza della rivoluzione d'Ottobre dichiararono alla stampa la loro posizione contraria.

I due bolscevichi tradirono il fatto che quando in un'assemblea si finisce in minoranza, si deve comunque rispettare la volontà della maggioranza, che in quel momento aveva deciso di occupare il Palazzo d'Inverno, rovesciando il governo in carica.

Il secondo caso si verificò quando Trotsky fu inviato dal partito, nel 1918, a definire coi tedeschi la conclusione di un trattato di pace (quello che poi passerà alla storia col nome di Brest-Litovsk). Trotsky ad un certo punto assunse un'iniziativa personale che rischiò di portare la Russia bolscevica alla catastrofe.

Il primo esempio riguarda il moderatismo, il secondo l'estremismo. La storia è piena di questi esempi. Anche da noi il cosiddetto "compromesso storico" tra Moro e Berlinguer fu tradito, per il primo, dal conservatorismo della Democrazia cristiana e, per il secondo, dal terrorismo delle Brigate rosse. E Moro in prigione fu tradito dalla paura di tutti: destra, sinistra e gerarchia ecclesiastica, incapaci di considerare una vita umana superiore alla ragion di stato.

Nei momenti chiave degli avvenimenti rivoluzionari c'è sempre qualcuno che assume delle iniziative personali che rischiano di far fallire un progetto comune. Se vogliamo, tutta la storia del genere umano presenta dei momenti in cui l'azione individuale di taluni personaggi si pone in netto contrasto con le tradizioni consolidate o con la volontà manifesta di una determinata maggioranza.

Questi tradimenti hanno fatto nascere lo schiavismo, il servaggio, il lavoro salariato, il socialismo burocratico. Sono tutti tradimenti che l'idea di individualismo autoritario ha compiuto ai danni dell'idea di collettivismo democratico.

Lo schiavista è un individualista nei confronti dei propri schiavi, così come lo è il feudatario nei confronti dei propri servi della gleba, il capitalista nei confronti dei propri operai, il burocrate nei confronti dei propri cittadini.

Da questi tradimenti sono nate intere civiltà, poiché col tempo il tradimento di pochi si è generalizzato. Sono famose le parole che Rousseau scrisse nel suo Discorso sulla disuguaglianza: "Il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare, questo è mio, e trovò persone abbastanza ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile".

Da quando esistono questi fenomeni arbitrari, divenuti di massa, in cui il principio dell'individualismo è diventato legge dominante, chiunque vi si opponga, in nome di una nuova idea di collettivismo, rischia di apparire come un traditore.

Cristo appariva come un traditore agli occhi dei farisei e dei sadducei; Lenin appariva come un traditore agli occhi dei farisei e sadducei del suo tempo: i marxisti legali e gli economisti. Questo per dire che, nell'ambito delle civiltà antagonistiche, l'idea di tradimento è divenuta molto ambigua, difficile da decifrare.

Studiando i vangeli facilmente si scorge che il ruolo di traditore fu svolto dall'apostolo Giuda. La stessa parola "Giuda" è divenuta sinonimo di tradimento per antonomasia. Eppure l'esegesi laica moderna ha saputo individuare il tradimento anche nell'interpretazione della "tomba vuota" come "resurrezione", e nell'interpretazione del fallimento della rivoluzione anti-romana come "ascensione" o come "figliolanza divina del Cristo" o come "parusia" o come "immolazione del figlio di dio" ecc.

Tutte le descrizioni mistiche, teologiche, sovrannaturali del Cristo sono un tradimento del suo messaggio. Noi stessi che lo diciamo rischiamo di apparire dei "traditori" agli occhi di chi ancora crede in quelle descrizioni. Ciò quindi sta a significare che tra "verità" e "tradimento della verità" vi è un rapporto così dialettico che non sempre è possibile stabilire dove stia l'una e dove il suo contrario.

È da quando sono nate le civiltà che non sappiamo più dove stia la verità, quella verità che molto faticosamente andiamo ancora a cercare e che spesso ci illudiamo di trovare nelle fonti storiche, pensando, erroneamente, che quanto più esse siano antiche tanto più debbano essere vere.

L'onestà degli uomini di buona volontà si vede proprio in questo sforzo continuo di cercare la verità delle cose. In tal senso commetteremmo una sciocchezza incredibile nel voler considerare Giuda il più grande traditore della storia, al punto da doverlo mettere in bocca a Lucifero, come fece Dante nel suo Inferno.

Trotsky, Kamenev, Zinoviev non furono uccisi da Lenin perché tradirono, non furono neppure espulsi dal partito (almeno finché Lenin rimase in vita). Essi ammisero d'aver sbagliato e tutto finì lì, anzi, col tempo, ricoprirono posti di grande responsabilità.

Errori e tradimenti venivano dati per scontati: l'importante era fare autocritica e sapervi porre rimedio. Nessuno, fino a Stalin, aveva mai pensato in Russia di avere il monopolio della verità.

*

Ora però veniamo a Giuda. Il vangelo di Giuda, recentemente ritrovato, interpreta le parole che Gesù disse a Giuda durante l'ultima cena: "Quello che devi fare, fallo presto" (Gv 13,27), nel senso che Gesù "voleva" morire, e quelle parole stavano appunto a indicare a Giuda la richiesta di eseguire, senza discutere, un ordine autodistruttivo, che gli altri apostoli non avrebbero potuto capire.

E Giuda eseguì, per cui definirlo "traditore" non avrebbe senso, stando ovviamente a questa nuova fonte, il cui carattere tendenzioso è non meno evidente delle fonti canoniche.

D'altra parte gli stessi evangelisti e persino gli esegeti cattolici, quando affermano la tesi che Gesù "doveva" morire, in ottemperanza alla volontà divina, la quale aveva bisogno del sacrificio del "figlio" per riscattare gli uomini dalla maledizione del "peccato originale", rendono il tradimento di Giuda meno grave di quel che sembra.

Giuda - questa la tesi ufficiale della chiesa cristiana - è un traditore sul piano soggettivo, avendo tradito per sua libera scelta, ma il suo tradimento era qualcosa di previsto nell'economia salvifica di dio, per cui oggettivamente risultava necessario (previsto addirittura dai profeti).

Da questa interpretazione così forzosa è nata poi l'idea di attribuire il tradimento soggettivo a una motivazione di ordine economico: i famosi "trenta denari". Cioè Giuda non tradì in quanto politico di opinioni diverse, ma in quanto persona venale, abituata a rubare nella cassa dei Dodici (Gv 12,6).

A questo escamotage di dubbio gusto, che sicuramente servì per far apparire Giuda in una luce sinistra, i redattori dei vangeli si sentirono costretti proprio per giustificare il fallimento della rivoluzione anti-romana.

Il vero tradimento infatti non fu tanto quello individuale di Giuda, sempre prevedibile in una qualunque rivoluzione, quanto piuttosto quello collettivo che fecero gli apostoli nel momento del processo a carico di Gesù e che perpetuarono subito dopo la crocifissione.

Essi non ebbero il coraggio di prendere delle iniziative, di assumersi delle responsabilità, di proseguire il suo messaggio. Addebitarono il fallimento della rivoluzione a motivazioni pretestuose, quali appunto il tradimento di Giuda e interpretarono la scomparsa misteriosa del corpo del crocifisso in maniera capziosa.

Detto questo, noi non potremo mai sapere che cosa ci fosse dietro alla frase che Gesù disse a Giuda, incaricandolo di una precisa e urgente missione nell'imminenza dell'insurrezione armata: "Quello che devi fare, fallo presto". I redattori si sono preoccupati di avvolgere quella frase in un alone di massima ambiguità.

È tuttavia ipotizzabile l'idea che il Cristo avesse bisogno di sapere su quali alleanze poter contare per paralizzare col minimo sforzo, col minimo spargimento di sangue, la guarnigione romana di circa 600 soldati stanziata nella capitale giudaica.

Giuda sapeva benissimo che l'insurrezione era imminente: l'ingresso trionfale in groppa all'asino, di qualche giorno prima, rendeva il Cristo il soggetto più pericoloso per i poteri occupanti e per quelli collaborazionisti. Purtroppo il movimento nazareno non volle accettare l'idea che la rivoluzione andasse fatta nonostante il tradimento di Giuda. Il vero tradimento infatti nasce sempre o dalla paura o dal non volerla ammettere.

Ma torniamo a Giuda. Oggi sappiamo che l'insurrezione doveva avvenire di notte e che i redattori dei vangeli ne mistificarono il racconto aggiungendo all'episodio dell'ultima cena vari aspetti di natura mistica, il più importante dei quali fu l'istituzione dell'eucaristia.

Gesù aveva affidato a Giuda una missione delicata ma decisiva ai fini della buona riuscita del piano strategico. Dal risultato di questa ambasciata, da compiersi in tempi brevi, si poteva capire se l'insurrezione andava fatta in un determinato modo o in un altro, o se addirittura era meglio rinunciarvi.

Perché Gesù affidò una missione così importante a un discepolo di cui sospettava la possibilità del tradimento? Com'è possibile sostenere che il Cristo avrebbe rischiato di far fallire una rivoluzione popolare soltanto per mettere alla prova la fiducia di un singolo apostolo?

Qui è evidente che i vangeli mentono. Non avrebbe avuto senso affidare un incarico di così grande rilevanza a una persona in cui non si riponeva piena fiducia. Dobbiamo anzi pensare che la scelta cadde su Giuda proprio perché, essendo egli di origine giudaica e non galilaica, sarebbe stato agevolato nel compiere la missione.

Noi non sappiamo se questa mediazione avesse come destinatari gli zeloti o i farisei. Sappiamo soltanto che tutti gli altri discepoli non potevano non essere a conoscenza di ciò che Giuda doveva fare. Probabilmente quando non lo videro tornare nei tempi previsti, cominciarono a temere qualcosa: p. es. che lo stesso Giuda fosse stato tradito e magari catturato dal nemico. Per questo decisero di nascondersi nel Getsemani. Non si nascosero pensando che Giuda li stava tradendo, ma, al contrario, che lui stesso era stato tradito da qualcuno.

Invece il traditore fu proprio lui. Lui indicò la strada alla coorte romana per la cattura del Cristo e dei suoi discepoli. Perché lo fece? Noi non abbiamo alcuna possibilità di saperlo, e forse non ne abbiamo neppure il diritto. Nessuno storico al mondo potrà mai sondare la profondità dell'animo umano e dire con sicurezza quali siano state le motivazioni che hanno indotto Giuda a tradire.

Un uomo che riceve l'incarico di predisporre le condizioni per la riuscita di un'insurrezione e che ad un certo punto compie qualcosa che ne determinerà il pieno fallimento, è un uomo la cui coscienza deve servirci soltanto come valore paradigmatico, come testimonianza di ciò che virtualmente ognuno di noi potrebbe fare trovandosi in situazioni analoghe. E questo non solo perché siamo esseri incredibilmente deboli e pavidi, ma anche perché siamo caratterizzati da contraddizioni inesplicabili, in quanto spesso diciamo una cosa e ne facciamo un'altra, facciamo una cosa pensando di ottenere il meglio e invece otteniamo il peggio. Prima di tradire i nostri compagni di lotta, noi tradiamo noi stessi.

Quindi solo in maniera astratta, ipotetica, si possono delineare le motivazioni di questo tradimento epocale. Le quali, per tornare a quanto detto inizialmente, possono rientrare soltanto in due categorie: l'estremismo o il moderatismo.

Se Giuda era tendenzialmente un moderato, tradì perché temeva che la rivoluzione non avrebbe avuto successo. E di ciò evidentemente si convinse nel mentre eseguiva il suo incarico da ambasciatore. Per cui non si sentì un traditore del Cristo più di quanto non si sentisse un sostenitore del proprio popolo, di cui temeva la tragica fine per l'inevitabile ritorsione da parte dell'invasore romano.

Il tradimento in questo caso stette nel fatto che Giuda non tornò a riferire agli apostoli della indisponibilità da parte degli alleati, ma assunse un'iniziativa personale, probabilmente sotto la pressione degli stessi alleati, i quali, non meno probabilmente, gli avevano assicurato che al Cristo non sarebbe successo nulla di irreparabile. Giuda in questo caso si fidò più dei suoi compatrioti che degli stessi apostoli.

S'egli invece era tendenzialmente estremista, si può pensare che la decisione presa di far catturare Gesù, dovette emergere proprio nel momento in cui si rese conto che per l'indisponibilità degli alleati la rivoluzione rischiava di fallire. Probabilmente egli temeva che il Cristo avrebbe di nuovo rinunciato a compierla, come fece quella volta in Galilea, quando ebbe a disposizione ben cinquemila persone pronte a marciare sulla capitale giudaica (è il racconto, mistificato dai redattori, della cosiddetta "moltiplicazione dei pani").

Se questa interpretazione è giusta, allora Giuda deve aver pensato che la cattura di Gesù, tanto osannato da tutta la popolazione solo pochi giorni prima, avrebbe sicuramente indotto la stessa popolazione a intervenire e a cacciare i Romani dalla città e dalla nazione, anche senza l'aiuto degli alleati cercati dal Cristo. L'istanza della rivoluzione non poteva sottostare alla volontà del suo leader più significativo. Cioè l'insurrezione avrebbe anche potuto essere fatta in maniera spontanea, senza una direzione ben organizzata. È la famosa logica del "tanto peggio, tanto meglio".

Ora, che Giuda sia stato un estremista o un moderato non fa più molta differenza. I tradimenti in genere avvengono quando, nell'interpretare la realtà, per tutelare gli ideali delle masse, la parte personale, soggettiva, tende a prevalere su quella collettiva, oggettiva, cioè quando l'io si sente in diritto di rappresentare i molti e in molti non lo riconoscono.

Per quanti sforzi si possano fare, non c'è modo di definire il concetto di "tradimento", come non c'è modo di definire il concetto di "libertà" o quello di "coscienza". In campi di questo genere vale in particolar modo la massima filosofica secondo cui "ogni definizione è una negazione". Per cui alla fine è meglio tacere.

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16) Dialogo sul suicidio del Cristo

- Se ti chiedessi: "chi è stato il più grande tra i suicidi della storia", cosa risponderesti?

- Forse Socrate. Avrebbe potuto salvarsi, invece preferì morire.

- E se io invece ti dicessi che è stato Gesù Cristo, almeno per come appare nei vangeli?

- Un Cristo suicida? In che senso? Non vorrai riferirti a quell'urlo straziante che fece sulla croce per affrettare il suo decesso?

- No, mi riferisco all'idea che nei vangeli continuamente si dice che "doveva morire". Lui andò a Gerusalemme per farsi ammazzare.

- Veramente sino all'ultimo diede agli ebrei la possibilità di non farlo, tant'è che si nascose nel Getsemani.

- Si nascose per salvare gli apostoli, ma quando scoprirono il nascondiglio cosa disse? "Prendete me e lasciate liberi costoro".

- Ma questo cosa vuol dire? Chiunque avrebbe potuto sacrificare la propria vita per salvare quella dei compagni.

- È vero, ma uno non fa di tutto per creare un movimento di liberazione nazionale allo scopo di morire.

- Veramente nei vangeli viene detto ch'egli visse la sua morte per riconciliare gli uomini con dio. Si lasciò uccidere da innocente per togliere dalla colpa tutto il genere umano, che soffriva sin dai tempi di Adamo. Persino i suoi carnefici vengono salvati.

- Sì, questa è l'interpretazione di Paolo, su cui tutti i vangeli si basano. Il peccato e di conseguenza la morte sono entrati attraverso l'innocente Adamo e sono usciti attraverso l'innocente Cristo, che è morto senza colpa ed è risorto. Detto così, non si può parlare di suicidio del Cristo.

- Infatti Cristo non si è suicidato, è stato crocifisso. C'è una bella differenza.

- Eppure i vangeli dicono che "doveva morire", che la sua morte era "necessaria". Lui va a Gerusalemme dicendo a più riprese che il suo compito non era di liberare la Palestina dai Romani, ma proprio quello di sacrificarsi per l'intero genere umano.

- Uccidersi è una cosa, essere ucciso è tutt'un'altra.

- È proprio questo il punto: che forse tutt'un'altra cosa non è.

- Vuoi forse dire che il Cristo col suo comportamento ha indotto i Giudei a ucciderlo?

- In un certo senso sì. Se io, col mio comportamento da suicida, faccio in modo che il mio suicidio appaia come un omicidio, che impressione se ne farà la gente?

- Chi viene ucciso generalmente appare come una vittima. Se poi uno non ha mai fatto nulla di male, diventa addirittura un eroe, un martire dell'ingiustizia dominante, uno da santificare...

- Sì, ma uno che vuol farsi uccidere per apparire martire, potrebbe anche essere pazzo.

- Devi ammettere però che questo è il modo migliore per dimostrare la propria verità. Se uno si lascia uccidere per le proprie convinzioni, sarà anche un esaltato, ma qualche ragione deve averla. Se poi nella sua vita s'è comportato in maniera irreprensibile, perché dubitare delle sue buone intenzioni? perché non credere in quello che dice?

- I cristiani, in effetti, devono aver giocato su questa ambiguità. Pur di non ammettere che l'obiettivo del vangelo di Gesù era politico, han fatto in modo di trasformare il Cristo in un dio rassegnato alla propria morte violenta. È un suicida che vuol far ricadere sul nemico la causa della propria morte.

- Un pazzo intelligente.

- Non lui, ma chi ha creato questo personaggio mitologico: Paolo di Tarso e in parte l'apostolo Pietro, che, pur di non ammettere la propria incapacità a proseguire l'insurrezione anti-romana, preferì sostenere che la croce era stata voluta dalla "prescienza divina".

- T'immagini se nei vangeli avessero fatto un'esplicita apologia del suicidio? Avrebbero avuto pochissimi seguaci. Fare il martire non è cosa da tutti.

- Infatti, il suicidio nella storia è sempre stato visto come una sconfitta. Mi uccido perché un altro è più forte di me e non mi permette di vivere. Nei vangeli invece è diverso. Tu mi uccidi perché non sopporti che io abbia ragione.

- Già, così chi uccide non si rende conto che alla fine uccide se stesso. Passa dalla parte del torto e col tempo avrà sempre meno consenso. Vince nell'immediato, per essere poi sconfitto nel lungo periodo.

- Ecco spiegato il motivo per cui i cristiani, pur avendo sostituito la liberazione con la redenzione, cioè una cosa seria con una sciocchezza, sono riusciti a sopravvivere ancora oggi.

- Devi ammettere però che son stati bravi a far passare la sciocchezza per una cosa seria.

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17) Cristo "doveva" essere tradito?

- Ti rendi conto che noi non sapremo mai e poi mai che cosa volesse dire Gesù a Giuda nell'ultima cena?

- Ti riferisci a quell'ordine perentorio: "Quello che devi fare fallo presto!"?

- Proprio quello! Le motivazioni date nei vangeli sono semplicemente ridicole. Doveva andare a comprare qualcosa per la Pasqua, perché gestiva la cassa comune! Oppure doveva tradirlo perché questo era il disegno di Dio!

- Questa seconda cosa è stata confermata dal vangelo di Giuda, recentemente ritrovato.

- Già, Gesù doveva essere tradito, sicché Giuda è stato un eroe che ha avuto il coraggio di fare una cosa che gli altri apostoli non avrebbero mai fatto. E questo non è ridicolo, secondo te?

- E perché? Non è stato forse anche Pietro che, subito dopo aver scoperto la tomba vuota, disse che Gesù era morto per volontà divina?

- Ma non vedi che qui le contraddizioni si sprecano? Da un lato i vangeli condannano Giuda perché ha tradito, dall'altro dicono che Dio si è servito di lui per realizzare il suo piano di salvezza. Quindi non si capisce se Gesù doveva morire o poteva anche non morire in maniera così cruenta.

- Mi chiedo come sarebbero finiti i vangeli se non fosse stato tradito.

- Ma questa domanda non ha alcun senso. I vangeli sono stati scritti proprio perché era stato tradito e giustiziato. Se il suo tentativo rivoluzionario avesse avuto successo, i cristiani avrebbero scritto dei testi ottimisti, non rassegnati.

- Ma scusa, se non veniva tradito, non poteva morire di vecchiaia?

- Chi? un politico eversivo? L'avrebbero ammazzato lo stesso!

- Allora secondo te il tradimento di Giuda non è servito a niente?

- Non lo so. Io penso che se non ci fosse stato, forse una probabilità di successo l'insurrezione contro Roma avrebbe anche potuto averla. Non ha senso pensare, come fanno i vangeli, che Gesù era entrato a Gerusalemme per farsi ammazzare.

- In effetti se voleva farsi ammazzare, Giuda poteva anche non tradirlo.

- È pazzesco pensare a un Cristo suicida che chiede a un apostolo di compiere una sorta di eutanasia.

- Eppure il vangelo di Giuda parla chiaro: lui è stato l'apostolo più "cristiano" di tutti, l'unico ad aver capito veramente le intenzioni di Gesù.

- Se non fossero cose tragiche verrebbe da ridere. Gesù era entrato a Gerusalemme per vincere non per perdere, e il tradimento è stato del tutto inaspettato. Solo che l'idea insurrezionale è stata tradita anche dopo la sua morte, e questa volta da Pietro, quando cominciò a dire che il Cristo "doveva morire" e che sarebbe presto tornato in maniera trionfale.

- Ma perché hanno creduto in questa idea così strana, certamente poco giudaica?

- Perché la tomba l'han trovata vuota e tutti erano convinti che il cadavere non fosse stato rubato da nessuno. Quindi Pietro, che non l'aveva visto morire, perché s'era nascosto, ha pensato ch'era "risorto", ch'era più di un semplice uomo, che la morte era stata solo apparente, o che comunque se si era lasciato ammazzare, pur potendolo evitare, sicuramente sarebbe tornato molto presto per far vedere di che pasta era fatto.

- Ma scusa, se davvero era più che un uomo, per quale motivo s'era lasciato ammazzare?

- Ma è semplice! I vangeli lo dicono chiaramente: per dimostrare che i Giudei, da soli, non ce l'avrebbero mai fatta a liberarsi dei Romani. È stato poi Paolo, non Pietro, a dire che la parusia si sarebbe verificata alla fine dei tempi. Paolo ha accettato l'idea di resurrezione, ma ha rifiutato quella della parusia imminente a favore della Giudea.

- Scusa, ma quando i Romani han fatto fuori Lazzaro, uno dei leader eversivi più importanti, i Giudei non avevano già capito che da soli non ce l'avrebbero mai fatta? Gesù non accettò forse di entrare a Gerusalemme subito dopo la morte di Lazzaro, per compiere la rivoluzione?

- Il popolo, istintivamente, l'accolse in maniera trionfale, ma tra i politici evidentemente le resistenze dovevano ancora essere forti. Certo è che una volta entrato in quella maniera, sarebbe stato impossibile tornare indietro. In quella tragica notte, se non fosse stato tradito, avrebbe sicuramente fatto la rivoluzione, altrimenti si sarebbe screditato per il resto dei suoi giorni.

- Forse è stato questo il motivo per cui aveva detto a Giuda che quello che doveva fare, doveva farlo presto.

- Probabilmente l'aveva mandato dai farisei, che in quel momento erano il partito progressista più importante della Giudea.

- Ma secondo te l'idea di resurrezione è stata accettata da Giovanni?

- Secondo me l'ha accettata fino al momento in cui s'è reso conto che non ci sarebbe stata alcuna parusia imminente. Tant'è che lui scompare subito dagli Atti. Doveva aver capito che una resurrezione senza parusia diventava solo un'idea rinunciataria, attendista, utile solo ai Romani e ai Giudei collaborazionisti.

- Ma insomma tu come te la spieghi la tomba vuota?

- Anche questa è una domanda sbagliata. I discepoli avrebbero dovuto chiedersi come proseguire il messaggio di Gesù, senza tradirlo una seconda volta.

- Insomma Pietro è stato peggio di Giuda?

- Secondo me sì e Paolo peggio di Pietro. Almeno Pietro aspettava il ritorno immediato di un messia politico-nazionale. Paolo invece parla del ritorno di un redentore universale per la fine della storia.

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1 Non pochi esegeti confessionali hanno sostenuto che, nella fattispecie della lotta di liberazione di Israele contro Roma, una posizione "teo-politica" (quale certamente fu quella del partito zelota nel corso della guerra giudaica) avrebbe anche potuto costituire un fenomeno eversivo o addirittura rivoluzionario agli occhi dell'imperialismo romano. Questo, in effetti, può anche essere vero, ma resta il fatto - e la storia lo documenta in abbondanza - che una qualunque posizione "religiosa" si configura sempre, in ultima istanza, a prescindere dalle intenzioni di chi la professa, come un fenomeno regressivo della realtà. In tal senso non è da escludere che il fallimento della suddetta guerra giudaica sia da attribuirsi proprio alla volontà di tenere strettamente connessi "religione" e "politica".

2 Naturalmente siamo consapevoli che tale titolo veniva usato dal giudaismo anche in chiave mistica, come dimostra eloquentemente il Libro delle Parabole di Enoch, risalente probabilmente al 30 a. C., ove l'espressione "Figlio dell'uomo" fa riferimento a una figura trascendente, superumana, escatologica, con una funzione giudiziale, equivalente a quella che formulerà il paolinismo. Tuttavia la tarda tradizione profetica di Ezechiele e Daniele usava tale titolo senza particolare contenuti mistici, semplicemente in opposizione alle pretese dell'ideologia monarchico-davidica, ormai storicamente screditata fin dal periodo post-esilico.

3 Da notare che gli esegeti confessionali interpretano tale versetto come se nella frase rivolta ai "Giudici" (cfr Sal 82,6) il fatto che vengano chiamati "dèi" vada inteso in senso metaforico, in ragione della loro carica, essendo assodato, anche per la teologia ebraica, che l'assolutezza del "retto giudizio" appartenga solo a dio. Ma qui Gesù voleva superare l'interpretazione rabbinica (ereditata poi dai teologi cristiani), sostenendo che quella frase andava considerata in maniera letterale e in riferimento all'essere umano in generale, tant'è che nel salmo citato è detto espressamente che "dio giudica in mezzo agli dèi", che sono tali a prescindere dal loro "retto giudizio".

4 Sotto questo aspetto il racconto giovanneo delle nozze di Cana (2,1 ss.) è completamente inventato, proprio in quanto si vuol far passare la madre di Gesù come "consapevole" dell'origine divina del figlio.

5 Il vangelo originario di Marco fu scritto probabilmente in aramaico e doveva contenere una versione dei fatti meno mistica di quella definitiva in greco, molto influenzata dal paolinismo.

6 Sommando i tempi delle due attività, giudaica e galilaica, e considerando le possibili, estreme, date di nascita e di morte del Cristo (7 a. C. - 33 d. C.), e senza dimenticare che per la sola attività in Giudea Giovanni svolge il racconto su quasi tre anni, possiamo ipotizzare che l'intera attività predicativa e organizzativa del Cristo sia durata al massimo una decina d'anni, di cui almeno tre passati in Galilea, ivi inclusi alcuni momenti in cui fu costretto a rifugiarsi all'estero, in località o pagane o situate oltre i confini della Galilea o della Giudea.

7 Da notare che l'universalismo politico del Cristo precede di almeno vent'anni quello teologico predicato da Paolo di Tarso, in cui, dopo aver sostituito il concetto di schiavitù con quello di morte, si sostituisce quello di liberazione con quello di resurrezione, ed è di molto superiore a quello, di tipo meramente morale, che si riscontra, p. es., nella parabola lucana del "buon samaritano" (10,30 ss.). Lo stesso Luca infatti, quando si tratta di trasformare la morale in politica, stabilisce una incompatibilità di fondo tra Samaritani e nazareni (9,53), mostrando che l'universalismo del Cristo non era destinato ad avere alcuna possibilità di successo sul piano politico. D'altra parte gli stessi manipolatori del vangelo di Giovanni, vedendo che l'ingresso del Cristo in Samaria aveva un chiaro intento politico, non hanno resistito alla tentazione di trasformare la samaritana incontrata presso il pozzo di Giacobbe in una prostituta smascherata da un uomo che nel contempo era messia e dio (4,16 ss.).

8 Da notare che la differenza tra il cristianesimo di Paolo e quello di Cristo stava anche in questo. I cristiani di Paolo potevano essere perseguitati dagli imperatori non perché politicamente pericolosi, ma perché politicamente inaffidabili, in quanto appunto negavano loro la prerogativa di equipararsi a dio. Tale ricusazione appariva agli imperatori come una sorta di sfiducia aprioristica, assolutamente intollerabile per il controllo politico della società, pari a un delitto di "lesa maestà", punibile con la morte (che tale resterà fino a Costantino). Alla crisi della precaria democrazia senatoria, le classi dominanti, di tradizione non aristocratica e non legate alla terra, avevano reagito rivendicando la dittatura personale del sovrano, che per renderla meglio accettabile la si era ammantata di idee orientali misticheggianti. In una situazione del genere era relativamente facile diventare martiri, pur non avendo nulla di eversivo da far valere.

9 Si può qui ricordare che la carica di sommo sacerdote, ai tempi di Gesù, era già completamente screditata. Quirinio, il legato della Siria, aveva dovuto deporre Joazar, favorevole al tanto vituperato censimento romano, contro cui il popolo s'era rivoltato. Dopo di lui vi saranno i due sommi sacerdoti responsabili della morte di Gesù. Il successore di Quirinio, Valerio Grato, aveva deposto e nominato non meno di quattro pontefici dal 15 al 26 d.C. Quando scoppiò la guerra giudaica nel 66, la prima cosa che fecero i rivoltosi fu quella di uccidere i sommi sacerdoti Anano ben Anano e Joshua ben Gamaliel.

10 Nei confronti di questo potere pagano, il cristianesimo petro-paolino assumerà lo stesso atteggiamento di acquiescenza politica che i nazareni denunciavano nei confronti del giudaismo collaborazionista. Stando ai Sinottici e alle lettere di Paolo, ciò che in definitiva divideva gli ebrei dai cristiani erano unicamente delle questioni religiose. In realtà il movimento nazareno voleva opporsi politicamente ai Romani, anzi lo stesso giudaismo in senso lato, essendosi sempre posto come confessione politico-religiosa, difficilmente avrebbe accettato di esercitare i propri principi religiosi sottostando a un potere non ebraico. Le differenze quindi tra il movimento nazareno e il giudaismo possono essere individuate solo se si rinuncia a fare del giudaismo un'astratta categoria politica, come invece di regola si fa quando lo si vuole contrapporre al cristianesimo.

11 Si noti, peraltro, che, stando alla Sindone, si contano oltre cento colpi su tutte le parti del corpo, esclusa la regione cardiaca. Evidentemente Pilato non voleva rischiare che morisse anzitempo.


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