TORNARE AL COMUNISMO PRIMORDIALE

IDEE PER UN SOCIALISMO DEMOCRATICO
L'autogestione di una democrazia diretta


TORNARE AL COMUNISMO PRIMORDIALE

I - II

I

Perché il cosiddetto "socialismo reale" è fallito? Tra le altre cose, anche per una semplice ragione: non aveva tutelato in alcun modo le caratteristiche fondamentali del comunismo primitivo, quello esistito al tempo della cosiddetta "preistoria". Usiamo l'aggettivo "cosiddetto" perché in queste definizioni vi è sempre molta supponenza. Il "socialismo reale" non è mai stato una vera alternativa al capitalismo, se non forse nelle intenzioni di chi l'ha voluto nella fase iniziale. Quanto alla "preistoria", è vergognoso che si usi ancora un termine di questo genere. La specie umana fa parte di un'unica storia, di cui quella iniziata con le civiltà schiavistiche e proseguita sino ad oggi, secondo altre forme, è stata ed è umanamente la peggiore.

Le dieci fondamentali caratteristiche del "comunismo primordiale" - chiamiamolo così perché è meglio - sono state le seguenti:

  1. proprietà comune e gestione collettiva dei mezzi produttivi;
  2. assenza dello Stato o di organismi superiori alla comunità di villaggio;
  3. assenza di un mercato basato sulla moneta e quindi di una produzione specifica di merci;
  4. assenza della città o comunque di un centro urbanizzato non autosufficiente sotto ogni punto di vista;
  5. assenza di divisione in ceti o classi sociali;
  6. assenza di patriarcati o di sottomissione del genere femminile (la "saggezza" viene riconosciuta spontaneamente dalla comunità e non perché imposta da qualcuno);
  7. assenza di sfruttamento indiscriminato della natura, la quale non viene "dominata" bensì "gestita";
  8. assenza di sviluppo tecnologico ecologicamente insostenibile (quando si dice "la scienza al servizio dell'uomo", per "uomo" si deve intendere un collettivo democratico, non un individualismo esasperato);
  9. assenza del primato della quantità o della comodità sulla qualità della vita;
  10. assenza di scrittura e di nozionismo astratto e in genere assenza di divisione tra lavoro manuale e intellettuale.

Ora prendiamo un qualunque volume prodotto dal "socialismo reale" e vediamo cosa dice a proposito del "comunismo primitivo". A tale scopo useremo Economia politica. Il capitalismo (ed. Progress, Mosca 1983). Il capitolo II parla dei modi di produzione pre-capitalistici: di questi il paragrafo 1 è dedicato al "modo di produzione primitivo".

Si noti anzitutto l'uso dell'aggettivo "primitivo". Nella lingua italiana questa parola induce a pensare a qualcosa di negativo. È "primitivo" ciò che è vecchio e superato, di cui non si può avere alcuna nostalgia. A scanso di equivoci è quindi meglio usare la parola "primordiale" o "ancestrale", che è più neutrale e che evita sfumature di tipo assiologico, cioè valutativo. Se proprio ci si vuole politicamente schierare, che si usi la parola "comunitario" o "comunistico" o "collettivistico".

Il fatto che oggi si voglia opporre al capitalismo un'alternativa di tipo "socialistico", non deve farci ritenere migliori di altre realtà umane che, in un lontano passato, hanno vissuto analoghe esperienze di "socialismo". Che solo oggi si usi consapevolmente una parola del genere, in funzione anticapitalistica, non significa proprio nulla: non sono le parole in sé che determinano la loro corretta applicazione. Se lo pensiamo, siamo soltanto dei feticisti. Il fatto stesso che nella "preistoria" l'uomo abbia vissuto per milioni di anni nel "socialismo", mentre noi in quello cosiddetto "reale" non ci siamo riusciti nemmeno per oltre settant'anni, dovrebbe essere considerato indicativo del significato delle parole.

Attenzione che quando parliamo di "milioni di anni" stiamo usando le stesse parole del libro: "la società umana si formò oltre due milioni di anni fa, ma uscì dal periodo cosiddetto primitivo solo nel corso degli ultimi 7-9 mila anni" (p. 24). En passant si potrebbe dire, a proposito di questo lunghissimo periodo "storico", ch'esso doveva avere tutte le caratteristiche della "democrazia" (quella vera in quanto "naturale", conforme a natura), proprio a motivo del fatto che di sé non ha quasi lasciato tracce. Cioè là dove si possono constatare enormi costruzioni, imponenti edifici, monumenti spettacolari, si può presumere, con ottima approssimazione, che non vigesse affatto la democrazia o il socialismo, ma una qualche forma di dittatura o di costrizione e quindi di sfruttamento del lavoro altrui.

Noi oggi stiamo vivendo un'epoca in cui le grandi costruzioni sono la regola, per la cui realizzazione l'interesse nei confronti della dignità dei lavoratori e spesso anche della loro sicurezza, per non parlare della tutela ambientale, risulta molto relativo, se non del tutto marginale. Diventa quindi naturale per noi, educati costantemente dai mass-media a elogiare le civiltà che ci somigliano, provare simpatia o meraviglia nei confronti delle passate mega-costruzioni. Ebbene, se c'è una cosa di cui non dovremmo occuparci è proprio questa. Noi dobbiamo trovare il modo di uscire dal sistema, anzi, di uscire dal concetto stesso di "civiltà", evitando accuratamente di andare a cercare nel passato delle conferme che giustifichino il nostro presente. Noi dobbiamo valorizzare le discontinuità, non le analogie. E bisogna farlo in fretta, prima che sia troppo tardi. È un lavoro da etnologi e antropologi, più che da storici e archeologi. La differenza tra questi tipi di ricercatori è che il lavoro degli etno-antropologi non ha senso se non toccano con mano ciò di cui devono parlare; anche gli archeologi lo fanno, ma su cose morte. Quanto agli storici, essi si servono soltanto di archivi e biblioteche, cioè di documenti scritti da una specifica categoria di persone: gli intellettuali.

Le ultime collettività primordiali, antecedenti allo schiavismo, ancora esistenti in qualche luogo remoto del pianeta, dovremmo proteggerle come le pupille dei nostri occhi. "Proteggerle" vuol semplicemente dire permettere loro di essere quel che sono, cioè di riprodursi in un contesto naturale, senza dover sottostare alle pressioni artificiali della nostra civiltà. "Aiutarle" non vuol certo dire "farle diventare come noi", offrire loro degli strumenti frutto della nostra civiltà. Quanto per noi sarebbe di "aiuto", per loro potrebbe essere rovinoso. Semmai dovremmo chiederci il motivo di questa incongruenza, tra il nostro sentire e il loro. Dovremmo cioè sentirci indotti a rimettere in discussione il nostro stile di vita, cercando di capire il motivo per cui determinate realtà non sanno che farsene dei nostri "aiuti", anzi li temono.

II

Ora però passiamo al testo e vediamo il primo controsenso. Il periodo del comunismo primitivo viene diviso in due sotto periodi: quello appropriativo, in cui "l'orda umana primitiva" consumava i prodotti che la natura offriva spontaneamente; e quello riproduttivo, caratterizzato da allevamento e agricoltura, tipici della comunità prima tribale e poi territoriale, che è all'origine della nascita degli antagonismi sociali.

Gli autori usano un'espressione terribile, inquietante: "orda umana primitiva", che fa pensare a qualcosa d'animalesco, d'istintivo o comunque di poco intelligente. Tuttavia, appropriarsi dei frutti spontanei della natura non vuole affatto dire non essere capaci di cacciare, pescare, tendere trappole per catturare animali da mangiare. Tutte cose che, per poter essere fatte, richiedono una certa abilità, anche strumentale (si pensi all'uso dell'arco e delle frecce, della cerbottana, del boomerang, degli oggetti per pescare, ecc.). La stessa raccolta dei frutti spontanei della terra richiede una certa competenza conoscitiva, in quanto non tutto è per l'uomo commestibile. Quindi è da presumere che sia che raccogliessimo soltanto frutti in abbondanza, sia che lo facessimo anche cacciando, noi non siamo mai stati simili agli animali, proprio perché tra noi e loro vi sono aspetti del tutto incommensurabili, il primo dei quali è il linguaggio.

In ogni caso il passaggio da un periodo all'altro non sta di per sé a significare la fine del comunismo primitivo e quindi l'inizio dei conflitti di classe. Allevamento o agricoltura, presi in sé e per sé, non vogliono dire nulla: non è la loro presenza che determina la nascita dell'antagonismo sociale, né oggi ha senso affermare che, pur in presenza di allevamenti e tecniche agricole molto sofisticate, è sufficiente socializzare i beni (mezzi e strumenti produttivi) per realizzare il socialismo. Allevamento e agricoltura possono essere considerati fonte di antagonismo solo nella misura in cui si escludono a vicenda: gli allevatori infatti hanno bisogno di campi aperti, mentre gli agricoltori non possono tollerare che i loro campi coltivati vengono danneggiati dal passaggio (transumanza) delle mandrie.

Tuttavia se è un'intera comunità che gestisce entrambe le cose, nulla impedisce che ci si possa mettere d'accordo. Se si vive in un collettivo in cui la proprietà è comune e la gestione dei bisogni è sociale, è nell'interesse di tutti trovare un'intesa, un punto d'incontro. Il problema semmai è un altro. Allevamento e agricoltura sono concepiti per soddisfare un semplice bisogno riproduttivo dell'intera comunità o piuttosto per far arricchire qualcuno in particolare? Il punto centrale è proprio questo: si produce per soddisfare bisogni naturali o innaturali? Si produce per consumare o per vendere e quindi per accumulare denaro? Fino a che punto sono indispensabili le scorte, le eccedenze dovute alla propria produzione? Qual è il prezzo che si è disposti a pagare, in termini di "qualità della vita", quando si decide di voler accumulare delle riserve di cibo o di altro?

Una comunità dev'essere autosufficiente in tutto ciò che di essenziale le serve per riprodursi. Se decide di accumulare le riserve di qualcosa è perché sa di non essere autosufficiente. In tal caso il suo destino è segnato, in quanto viene a dipendere da fattori esterni, che non potrà controllare. L'accumulo delle eccedenze diventa un palliativo, una forma d'illusione. Presto o tardi questa comunità diventerà aggressiva: si svilupperanno dei conflitti, prima interni, tra chi ha e chi non ha, tra chi può e chi non può, e poi contro terzi. Si vorrà usare il surplus di derrate come uno strumento di pressione, di potere e si finirà col diventare una comunità ostile, pronta a sottometterne delle altre, e che potrà, a sua volta, essere assoggettata da altre che, proprio perché hanno lo stesso problema, mostreranno d'essere ancora più aggressive e meglio organizzate.

Se una comunità invece è autosufficiente, al massimo si possono accumulare cose non essenziali e non oltre un certo livello, allo scopo di scambiarle con altre non essenziali, giusto per avere qualcosa di diverso, che non si riesce a produrre in proprio per motivi indipendenti dalla propria volontà, ma di cui, in definitiva, si potrebbe anche fare a meno, poiché non è da queste cose che dipende la propria esistenza. Il principio più importante che bisogna affermare quindi è il seguente: una comunità dev'essere autosufficiente nelle cose essenziali che le permettono di sussistere. Se per motivi contingenti le manca qualcosa di essenziale, il rischio è sempre quello che diventi violenta. È quindi importante che le comunità confinanti la aiutino in tutti i modi a rendersi autosufficiente.

Di una qualunque comunità bisogna quindi verificare sempre se l'autosufficienza dipende da una propria autoproduzione o se invece questa autoproduzione garantisce solo una parte della propria sussistenza, mentre il resto si è costretti a cercarlo al di fuori di sé, attraverso lo scambio commerciale delle reciproche eccedenze (e quindi bisogna verificare se queste eccedenze vengono prodotte appositamente per essere vendute, per acquistare ciò che non si vuole produrre in proprio, per accumulare ricchezze, rinunciando all'autoconsumo, cioè ad avere una propria autosufficienza a 360 gradi). Quando non si è autosufficienti, gli scambi commerciali sono sempre molto pericolosi, poiché, inevitabilmente, aumentano le disparità all'interno di qualunque comunità umana. In tal caso, infatti, l'eccedenza diventa non il superfluo ma l'essenziale. E se l'eccedenza diventa l'essenziale per sopravvivere, il destino della comunità è segnato: i conflitti interni mineranno la solidità etica, sociale, culturale della comunità, la quale cercherà di supplirvi accentuando l'oppressione contro terzi o, se questi si ribelleranno, le misure coercitive al proprio interno.

Quando esistono due comunità confinanti, ognuna delle quali è deficitaria di qualcosa di essenziale, che cerca di ottenere attraverso uno scambio reciproco (un baratto o, peggio ancora, attraverso l'uso della moneta), il rischio è sempre quello di un conflitto. È sufficiente che una delle due comunità non sia in grado di garantire, anche solo per una volta, ciò di cui l'altra ha bisogno, perché si scatenino sospetti a non finire, controversie su ciò che si è promesso e non mantenuto, fino ai litigi sulle questioni di confine, che inevitabilmente sfociano nelle provocazioni, nei pretesti per compiere qualcosa d'irreversibile.

L'autosufficienza nelle cose essenziali per sopravvivere è quindi la regola n. 1: uno scambio commerciale ha senso solo per il superfluo e solo nella forma del baratto. Gli scambi dovrebbero vertere non sull'alimentazione o sul vestiario, non sulla soddisfazione dei bisogni primari, ma su altri aspetti: p. es. sulle tecniche di caccia o di allevamento o di lavorazione agricola o di produzione di manufatti o di rapporti matrimoniali, o di festività comuni ecc. Chi sostiene che questa forma di comunismo è "primitiva" (è "il comunismo della miseria"), non uscirà mai da alcun antagonismo sociale.

III

Vediamo ora altri controsensi. Gli autori del testo sostengono che la società primitiva produceva degli strumenti di lavoro "rudimentali", in pietra, bastoni e ossa di animali uccisi. Ecco un classico modo di giudicare il passato: gli strumenti di lavoro erano "rudimentali" rispetto ai nostri. Non ci si chiede se lo erano anche rispetto al bisogno di procurarsi il cibo. In effetti, se fossero davvero stati inadeguati, come spiegarsi che con essi ci si è potuti riprodurre per oltre due milioni di anni? (Peraltro senza far scoppiare alcuna guerra, e, soprattutto, senza devastare le caratteristiche dell'ambiente naturale).

È incredibile questa incapacità di contestualizzare, relativizzandole nello spazio e nel tempo, determinate condizioni di vita. Tali condizioni non vanno considerate "inferiori" alle nostre: semplicemente bisogna verificare se i mezzi a disposizione erano idonei ad assicurare la riproduzione di quelle condizioni. Ma se si parte dal presupposto che gli strumenti lavorativi erano molto rozzi e primitivi, una qualunque analisi è falsata in partenza. Se un uomo primitivo potesse vederci oggi, inevitabilmente ci direbbe che i nostri strumenti lavorativi non possono essere considerati "avanzati", visto che tendono a eliminare la presenza della natura o a ridurla al minimo. Il grado di affidabilità di un mezzo lavorativo non può essere deciso esclusivamente dall'uomo, in totale autonomia rispetto alla natura. Sotto questo aspetto i veri "primitivi" siamo noi.

Che l'analisi economica diventi presto falsata è ben visibile laddove si dice che, a causa della precarietà di questi mezzi lavorativi, "l'uomo primitivo, quasi del tutto disarmato nella sua lotta contro la natura e l'ambiente esterno, non poteva sopravvivere e lavorare al di fuori di un collettivo" (p. 24). Quante sciocchezze dette in un'unica frase, e da parte di insigni economisti e docenti dell'Accademia delle Scienze dell'Urss!

Una comunità del tutto "disarmata" riesce a sopravvivere per oltre due milioni di anni? Le civiltà antagonistiche basate sullo schiavismo o sul servaggio hanno resistito poche migliaia di anni. Quelle che hanno resistito di più (p. es. l'egizia) è stato perché praticavano lo schiavismo non privato ma di stato, che è una forma meno violenta di oppressione e che in parte rispetta delle condizioni di vita pre-schiavistiche. E poi perché parlare di "lotta contro la natura"? La natura è fonte di vita non di morte. L'uomo non potrebbe vivere neppure per un momento senza le risorse della natura, per quanto noi, con tutta la nostra tecnologia, si faccia di tutto per non farlo sembrare. Considerando che allevamento e agricoltura esistono da meno di 10.000 anni, bisogna dire che la comunità primitiva è riuscita a riprodursi grazie soprattutto alle risorse delle foreste, dei mari, dei laghi, dei fiumi... Non aveva certo bisogno di andare a scavare nel sottosuolo o nelle miniere. Gli indiani del Nord America hanno, in genere, rifiutato l'agricoltura, che pur conoscevano, semplicemente perché per le loro esigenze ritenevano sufficiente la caccia degli animali selvatici.

Ma il limite maggiore di questo scriteriato giudizio storico-economico è un altro. L'uomo primitivo - viene detto - non poteva sopravvivere "al di fuori di un collettivo". Perché, forse oggi qualcuno riesce a farlo? Non siamo forse tutti dipendenti da uno o più collettivi di riferimento? Persino il capitalista più ricco del mondo è dipendente dall'andamento ondivago delle borse mondiali. O forse si vuole sostenere che noi, a differenza di loro, grazie ai nostri raffinati strumenti di lavoro, possiamo fare a meno del collettivo quando e come ci pare? E che quindi - di conseguenza - quando aderiamo a un collettivo, lo facciamo non perché costretti dalla precarietà dei nostri strumenti di lavoro, ma per una scelta consapevole?

Strano che si dicano delle sciocchezze del genere, soprattutto da parte di economisti di area socialista, anche perché le civiltà antagonistiche sono nate proprio cercando di contrapporsi alla forza dei collettivi ancestrali, dove tutto era in comune. Le civiltà antagonistiche sono tutte, nessuna esclusa, una forma di individualismo, nei cui confronti non si può pensare di opporre idee collettivistiche che non abbiano nulla a che vedere col comunismo primordiale.

La forza di un individuo sta nel collettivo di appartenenza. E l'adesione a tale collettivo, finché è esistita la democrazia, è sempre stata libera, indipendentemente dalla qualità dei propri strumenti di lavoro: se non fosse stato così, non sarebbe nata alcuna civiltà antagonistica. Semmai è oggi che siamo costretti ad appartenere a collettivi che altri collettivi vogliono dominare. È nelle società divise in ceti o classi sociali che l'adesione a un collettivo è sempre una forzatura.

Quando il socialismo parla di "abolizione delle classi sociali", non lo fa per affermare il pieno e assoluto individualismo di ogni essere umano. Si tratta piuttosto di recuperare un collettivismo primordiale, di cui oggi abbiamo perso, nelle nostre società cosiddette "avanzate", qualunque memoria.

IV

Vediamo ora un altro pregiudizio. "La raccolta collettiva dei prodotti della natura e dei risultati della caccia - si legge nel testo - si svolgeva su un territorio relativamente ridotto, determinato da considerazioni di tipo 'nutritivo', nell'ambito di ristretti gruppi di consanguinei, relativamente isolati" (p. 24). E allora? Dov'è il problema? Per questi insigni accademici sovietici il problema sta nel fatto che se si accetta l'idea di autosufficienza alimentare, ovvero di autoconsumo, è impossibile accettare l'idea di una nazione, di uno Stato, di un mercato nazionale e mondiale.

Quando si realizza uno "Stato socialista", tutto va pianificato dall'alto. Le realtà locali, in un certo senso, scompaiono, in quanto risultano meramente funzionali a decisioni verticistiche. Se a livello locale le cose non funzionano, la colpa non è del centro ma della periferia, cioè degli amministratori inefficienti, dei burocrati corrotti che non sanno mettere in pratica i diktat governativi.

Ma i classici del marxismo non volevano l'estinzione dello Stato? Non volevano - a differenza degli anarchici - una "dittatura del proletariato" contro la reazione violenta della borghesia, per arrivare poi a una progressiva autonomia della società civile (come desideravano gli stessi anarchici, salvo che per questi la cosa doveva essere immediata e non "progressiva")? E come si pensa di ottenere questo obiettivo senza sviluppare l'idea di autoconsumo e di autogestione delle risorse produttive? Il cosiddetto "socialismo reale" non è forse fallito proprio perché all'istanza locale non si voleva concedere alcuna vera autonomia? Per quale motivo tutte le volte che si parla di autonomia dell'istanza locale si teme di finire in una situazione di tipo "feudale"? Nel Medioevo non esisteva alcuna democrazia, in quanto la classe aristocratica era in aperto antagonismo nei confronti di quella contadina. Dunque non si capisce perché in una situazione di assenza di classi contrapposte, si debba considerare la realtà locale subordinata a quella centrale. Si pensa davvero di poter scongiurare la rinascita delle classi contrapposte imponendo dal centro una determinata e ferrea volontà alla periferia? Non ci si rende conto che, così facendo, si è già creata una nuova classe sociale (quella politica e burocratica) in aperto contrasto con tutta la società civile?

Non solo quindi va affermato un primato della realtà locale su tutto il resto (1), ma occorre anche lasciare tale realtà libera di evolvere verso la propria autodistruzione. Gli uomini infatti devono imparare ad autogestirsi, addebitando solo a se stessi la causa dei propri mali. Se non si chiarisce subito questo aspetto, qualunque alternativa al "socialismo burocratico" non farà che favorire il capitalismo. Come in effetti è avvenuto. È ridicolo pensare di potersi opporre a uno "Stato centralizzato" sostituendolo con uno "democratico". Nessuno Stato sarà mai capace di valorizzare l'istanza locale fino al punto da negare se stesso.

Dobbiamo smetterla di complicarsi la vita usando lo strumento degli "organi istituzionali", nella convinzione di poter fare qualunque cosa con i mezzi produttivi a nostra disposizione. Noi potremmo anche avere gli strumenti più sofisticati del mondo, ma nessuno di essi renderebbe più efficiente l'uso delle istituzioni statali, né più democratica la vita di una nazione.

Stato e nazione sono due concetti obsoleti, anche quando si cerca di opporre l'uno all'altra (come p. es. ha fatto la Polonia quando s'è voluta liberare del socialismo di stato, per abbracciare poi il capitalismo privato). E non è che siano obsoleti a confronto di realtà sovranazionali, come oggi sempre più vengono emergendo. La vera democrazia (che è poi quella diretta) è possibile solo a livello locale, solo in regime di autogestione delle risorse produttive locali. Qualsiasi istanza sovralocale non può che essere transitoria e su temi specifici, decisi di comune accordo. E i delegati scelti per discutere questi temi e che accedono a tale istanza, in rappresentanza delle rispettive comunità locali, possono soltanto avere un mandato ridotto nel tempo e con poteri limitati, il più possibile circoscritti, revocabili in qualunque momento. La regola generale dovrebbe essere questa: i poteri che si concedono a un delegato devono essere inversamente proporzionali alla distanza geografica dalla comunità di appartenenza. In questa maniera nessun rappresentante si sentirà autorizzato a prendere delle decisioni arbitrarie, o comunque nessuna comunità si sentirà vincolata alle decisioni ch'egli arbitrariamente avrà preso.

Non ha alcun senso disprezzare i legami clanico-tribali, consanguinei e territoriali, né ha alcun senso sostenere che là dove esistono legami del genere vi è "isolamento". Là dove non ci sono confini da rispettare, l'isolamento è molto relativo. Sono gli Stati e le Nazioni che impongono l'isolamento e l'assoggettamento di popolazioni libere. L'unica cosa che bisogna disprezzare è lo sfruttamento del lavoro altrui e l'idea di poter fare della natura ciò che si vuole.

Non bisogna vedere negativamente quella che gli autori del libro chiamano la "cooperazione semplice, senza divisione del lavoro per sesso o età" (p. 24). Questa cooperazione semplice è uno degli obiettivi fondamentali del socialismo democratico futuro. Essa infatti va considerata, sul piano economico, come un riflesso della democrazia sociale e politica. Chiunque deve contribuire all'esistenza della comunità: non si può essere discriminati per motivi di sesso o di età, ma neppure per la provenienza geografica, per l'atteggiamento nei confronti della religione o a causa dei legami di parentela. Uno deve rendersi conto da solo fino a che punto può esplicitare il proprio contributo. Da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri bisogni: questa è una delle regole fondamentali del socialismo maturo. Sarà poi compito della natura differenziare le capacità all'interno del collettivo. Non dobbiamo aver paura di sentirci tutti uguali in comunità: è la natura stessa che s'incarica di renderci unici e irripetibili. L'importante è non fare delle differenze naturali il pretesto per affermare qualcosa di artificiale.

V

Vogliamo qui aprire una parentesi su un'altra "perla di saggezza" espressa in un altro importante volume del marxismo sovietico, intitolato Lineamenti di storia dell'Urss (ed. Progress, Mosca 1980). È dedicata ai cosiddetti "matrimoni di gruppo". Si sostiene che nel paleolitico superiore, da 40.000 a 14.000 anni fa, si formò una nuova organizzazione sociale, basata sulle battute di caccia collettive, su abitazioni e focolari in comune e quindi su raggruppamenti più solidi dell'orda primitiva e del branco.

Su queste amenità e su questa "barbara" terminologia si è già detto abbastanza: qui si può soltanto ribadire che è pazzesco pensare che prima del paleolitico l'uomo vivesse come gli animali. Ora invece vediamo l'affermazione-clou: "questa nuova organizzazione fondata sulla consanguineità era la comunità matriarcale, la forma più antica del sistema gentilizio. A causa della pratica del matrimonio di gruppo, caratteristico degli stadi iniziali di sviluppo di tutta l'umanità, la parentela da parte di madre era la sola attendibile" (p. 6 del vol. I). Dopodiché gli autori cercano di spiegare il motivo per cui la donna era ritenuta così importante: raccoglieva vegetali, conservava il fuoco, preparava il cibo, curava le riserve alimentari, confezionava gli indumenti, partecipava alla caccia. Tutte cose che, a ben guardare, avrebbe potuto benissimo fare anche un uomo: l'unica che non avrebbe potuto fare, non viene neppure citata.

Qui le osservazioni da fare sono molteplici. Anzitutto i cosiddetti "matrimoni di gruppo" non possono essere considerati una regola all'interno di una comunità primitiva, bensì un'eccezione, in quanto è la natura stessa a provvedere a differenziare quantitativamente i sessi in maniera sufficientemente equilibrata per garantire a tutti di riprodursi. Se esiste poligamia o poliandria vuol dire che la situazione sociale è anomala, cioè qualche motivo contingente ha richiesto una soluzione particolare, estrema, per non compromettere la sopravvivenza del collettivo. P. es. tra popolazioni che conducono molte guerre, in cui muoiono molti uomini, è facile che, ad un certo punto, s'imponga la poligamia. Ma è ridicolo pensare di opporre al matrimonio visto come "proprietà privata" l'idea di una sorta di "comunismo sessuale" (alla Platone), o di far coincidere "matriarcato" con "poliandria". Chissà perché idee come queste vengono sempre in mente a società di tipo maschilista.

A differenza del patriarcato, il matriarcato non è mai esistito. In un collettivo democratico non ha alcun senso imporre politicamente una differenza di genere sessuale. È vero che nella mitologia greca si parla di matriarcato (vedi ad es. le cosiddette Amazzoni), ma ci si riferiva a una scelta di vita contrapposta consapevolmente a quella maschilista del patriarcato.

Situazioni di poligamia o poliandria possono esistere anche tra il mondo animale, ma si tratta sempre di eccezioni. La regola è la monogamia, che è la più semplice, la più facile da gestire. Per far sussistere un'esperienza collettiva non vi è alcun bisogno di praticare relazioni poliamorose. Semmai è nella cura della prole che tutta la comunità deve sentirsi coinvolta. In tal senso è vero il contrario di quanto sopra si è detto, e cioè che non è importante sapere da chi si è nati, ma chi ci farà crescere. Il fatto che, ad un certo punto, si siano formate delle comunità basate su clan di consanguinei non può di per sé far pensare all'esistenza di "matrimoni di gruppo". Anzi, in genere, quando si parla di società gentilizia, si dà per scontata l'esistenza del patriarcato, e quindi di una prima forma di differenza di genere, di ceto, di classe.

Anche quando in certe comunità un uomo offre la propria moglie, per una o più notti, all'ospite che è giunto a trovarli, bisogna dire che decisioni del genere vengono prese soltanto quando ci si sente molto deboli e si ha paura che gli estranei possono distruggere gli ultimi brandelli di comunità. Anche lo ius primae noctis, se mai sia esistito, rientra in questa preoccupazione di sopravvivenza.

Il rispetto della donna, nel comunismo primitivo, era semplicemente dovuto al fatto che in un collettivo democratico tutti si rispettano, nessuno escluso. E ci si rispetta per quello che si è, non anzitutto per quello che si sa fare. Essere e fare coincidono dal punto di vista dell'essere, non del fare, proprio perché nell'arco della propria vita non si è in grado di fare sempre le medesime cose.

VI

Ora però si faccia attenzione al tipo di ragionamento che fa il marxismo quando deve spiegare la transizione dal comunismo primitivo alla comunità tribale. Si vuol far credere - sulla scia della filosofia hegeliana - che è del tutto naturale passare da semplici determinazioni quantitative a una nuova e decisiva qualità di vita.

La quantità è determinata dai bisogni, destinati a crescere di continuo; i bisogni non possono essere soddisfatti da uno sviluppo troppo basso delle forze produttive; si crea così una contraddizione apparentemente irrisolvibile, che si acutizza al crescere della popolazione. Ci si trova di fronte al problema di migliorare gli strumenti di lavoro e di creare una prima divisione del lavoro basata sul sesso e in parte sull'età. Attenzione che non si parla ancora di una contraddizione di tipo antagonistico, in quanto la proprietà rimane comune. Anche quando l'agricoltura subentra alla raccolta spontanea dei frutti della natura, e l'allevamento subentra alla caccia, non esiste ancora l'antagonismo vero e proprio della società schiavista.

La transizione alla comunità tribale avviene spontaneamente, sulla base della risposta "tecnica" o "materiale", che si dà alla crescita dei bisogni collettivi. La conseguenza decisiva di questa specializzazione, di questo aumento della produttività del lavoro è l'accumulo di scorte alimentari. A giudizio di questi insigni studiosi è del tutto naturale che si accumulino delle eccedenze ben oltre lo stretto necessario.

Ora, cosa fare di queste eccedenze? È ovvio, bisogna scambiarle con quelle di altre comunità. Prima gli scambi erano casuali e sporadici; ora invece diventano così regolari che non se ne può fare a meno. Cioè proprio mentre si ottengono proprie eccedenze, si scopre di dover "dipendere" dalle eccedenze altrui. L'allevatore infatti si è così specializzato che ha bisogno dell'agricoltore e questi ha bisogno di quello.

Dov'è finita la proprietà comune dei mezzi produttivi? È finita male, poiché l'allevatore e l'agricoltore, ognuno per conto proprio, s'è accorto che, migliorando le tecniche produttive, poteva fare a meno del lavoro comunitario collettivo. Era diventato più capace di lavorare da solo e quindi più capace di arricchirsi, in grado di gestire autonomamente e commercialmente lo scambio delle proprie eccedenze. Un tempo, per cacciare, bisognava essere in molti; ora, per allevare pecore capre maiali ecc. basta una sola persona. Un tempo, con zappa e vanga, il lavoro nei campi doveva esser fatto da tutti; ora, con l'aratro, lo svolge una singola famiglia, che tende ad appropriarsi del prodotto ricavato da uno specifico lotto di terra.

Ecco apparire, spontaneamente, quel mostro storico chiamato "proprietà privata". Questa proprietà è nata senza che nessuno se ne accorgesse! "La proprietà privata - si legge incredibilmente a p. 29 - costituiva di fatto la negazione di quella collettiva, e per questo si può dire che la comunità conteneva al suo interno i germi della propria rovina".

Per quale motivo si sostiene una sciocchezza del genere? Il motivo è uno solo ed è tutto ideologico: il futuro socialismo non potrà andare incontro alla medesima rovina del comunismo primitivo, proprio perché saprà sfruttare le conquiste tecnologiche del capitalismo e quindi saprà rispondere a qualunque bisogno emergerà, senza dover per questo rischiare nulla.

Ecco perché Marx ed Engels, parzialmente smentiti, in questo, da Lenin, sostenevano che il socialismo poteva affermarsi soltanto là dove il capitalismo avesse esaurito la sua forza propulsiva. Cioè l'individualismo borghese avrebbe dovuto accorgersi da solo che il continuo perfezionamento degli strumenti produttivi non sarebbe stato in grado di risolvere la fondamentale contraddizione tra capitale e lavoro. Lenin si oppose a questa convinzione, dicendo che, con una rivoluzione politica si sarebbe potuti passare dal feudalesimo al socialismo, saltando la fase avanzata del capitalismo, anche se poi non ebbe il tempo necessario per accorgersi che la sua proposta di abbinare socialismo a elettrificazione, cioè l'idea di utilizzare le acquisizioni scientifiche del capitalismo in un contesto politico e sociale completamente diverso, non poteva essere considerata sufficiente per ottenere un socialismo davvero "democratico".

Insomma, come si può ben notare, si è voluto sovrapporre un discorso di tipo ideologico a un'analisi di tipo storiografico. Lo si è fatto sia per dimostrare che il socialismo futuro sarebbe stato superiore a qualunque forma di capitalismo, anche dal punto di vista tecnologico, sia per far credere che l'esperienza del comunismo primitivo era troppo limitata per poter impedire a se stessa di trasformarsi in una società schiavistica, non avendo gli strumenti "ideologici" necessari, cioè essendo troppo ingenua e sprovveduta. Infatti, quando prese a svilupparsi tecnologicamente, finì col negare le proprie radici.

Per questi economisti tornare al comunismo primitivo non serve a nulla, non è sufficiente per abbattere il capitalismo. I paesi che, dopo essersi liberati del giogo coloniale capitalistico, hanno cercato di recuperare le loro radici pre-borghesi, cioè gli ordinamenti comunitari faticosamente sopravvissuti, non hanno combinato nulla. Il tribalismo non è in grado di garantire alcuna transizione al socialismo. Come minimo, infatti, occorrerebbe "una fase intermedia di proprietà cooperativistica" (p. 31), prima di sviluppare il socialismo vero e proprio.

È curioso che il marxismo, quando si tratta di analizzare le conquiste tecnologiche, formula sempre giudizi positivi, quasi a voler dire che il passaggio dal comunismo primitivo allo schiavismo era del tutto naturale, anzi è giustificato da una necessità superiore, quella appunto di dover rispondere tecnologicamente a dei bisogni accresciuti. Quando invece si passa ad analizzare le conseguenze di tali processi - quelle che hanno portato al sorgere della proprietà privata -, ecco che i giudizi diventano negativi, necessariamente negativi, altrimenti il socialismo non può pretendere di porsi come alternativa al capitalismo, che di quella proprietà ha fatto il suo principale baluardo.

Il testo parla chiaro, nella sua insipienza: "la proprietà privata e la diseguaglianza materiale non furono altro che il naturale risultato dello sviluppo di questo modo di produzione" (p. 30). Il corsivo è nostro.

Note

(1) Notino i credenti cristiani che mentre per gli ortodossi la parola "cattolico" indica anzitutto una comunità locale, riunita attorno al proprio vescovo, per i cattolici-romani indica invece una realtà mondiale, di cui il papa è il rappresentante più significativo, il garante dell'unità. Sotto il capitalismo la parola "cattolico", in senso latino, è stata sostituita dalla parola "mercato", di cui il rappresentante più significativo è il "capitale". Ecco perché, in un certo senso, è giusto parlare di "teologia del mercato.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Politica - Socialismo democratico
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Aggiornamento: 11/12/2018