UNA DEMOCRAZIA FORMALE

IDEE PER UN SOCIALISMO DEMOCRATICO
L'autogestione di una democrazia diretta


UNA DEMOCRAZIA FORMALE

Nella nostra società la democrazia è formale perché viene esercitata da poche persone elette in Parlamento o in altre istituzioni di potere, ove il vero potere democratico, quello popolare, è stato delegato a dei rappresentanti che non rendono conto di quello che fanno e che, in ogni caso, hanno la facoltà di fare quasi quello che vogliono per tutta la durata del loro mandato. Persino la Costituzione afferma che di fronte al popolo il Parlamento non ha "vincolo di mandato"(art. 67). Nessuno può contestare una decisione presa dal Parlamento. Nessuno può perseguire legalmente un parlamentare o un partito che disattendano il proprio programma elettorale. Tale articolo è inoltre la giustificazione al fatto che ai parlamentari non possa essere revocato il mandato.

In tal senso la democrazia è formale non tanto o non solo perché borghese (anche nel socialismo amministrato esisteva una democrazia delegata) quanto perché esclusivamente delegata, cioè non anche diretta.

Il concetto di democrazia viene usato in maniera strumentale perché per i politici il consenso non ha un valore in sé, ma solo in funzione della loro elezione. Questo è molto più vero per il voto politico-parlamentare che non per quello amministrativo-locale. Il fatto di dover esercitare la delega nella capitale è indubbiamente, per il politico, un incentivo a deresponsabilizzarsi. Quanto più egli si allontana dall'ambiente che lo ha eletto, tanto più sarà soggetto a corruzione.

In tal senso si può dire che la democrazia delegata fine a se stessa non è che una delle maschere della moderna dittatura, pronta a essere tolta in caso di necessità. Le parole che escono da tale maschera: progresso, pluralismo, diritti, libertà, democrazia…, sono il pane quotidiano con cui si cerca d'ingannare la buona fede della gente comune.

Se i potentati politico-economici avessero a che fare con gente ignorante e spoliticizzata, probabilmente userebbero meno artifici retorici (come in genere accade nei paesi del Terzo Mondo).

Questo per dire che gli abusi compiuti dai politici generalmente non dipendono da motivazioni di carattere personale (si troveranno sempre persone più o meno disposte alla corruzione o alla concussione), ma dipendono proprio dal fatto che il sistema politico è strutturato in modo tale ch'essi non potrebbero comportarsi diversamente. Un eletto che sostituisce in Parlamento un eletto corrotto, prima o poi sarà anch'egli soggetto a corruzione. Il fatto stesso di prendere degli stipendi così elevati e di fruire di immensi privilegi di varia natura, è già fonte di un incredibile abuso, a prescindere dall'ideologia politica che si professa.

IL PRIMATO DELL'ECONOMIA

Nell'epoca borghese, essendo l'interesse generale della società subordinato a quello particolare di una classe particolare: la borghesia (soprattutto quella imprenditoriale), inevitabilmente la politica è subordinata all'economia. Solo in apparenza dunque lo Stato borghese si pone come forza autonoma che organizza il movimento spontaneo dell'economia.

Nel socialismo democratico non sarà sufficiente affermare che il plusvalore può essere recuperato da una classe operaia padrona delle proprie fabbriche (anche i contadini saranno padroni delle loro terre). Cioè non sarà sufficiente affermare la fine del lavoro salariato e la socializzazione integrale dei mezzi produttivi. Occorrerà anche affermare la possibilità di abolire la divisione del lavoro. Se un cittadino vuole diventare un lavoratore globale, onnilaterale, la società dovrà offrirgliene l'opportunità.

Inoltre la democrazia avrà senso solo se locale, ma a livello locale, sul piano economico, si dovrà affermare il principio dell'autosufficienza e dell'autoconsumo, altrimenti la democrazia non avrà mai delle basi solide.

Si può anche sviluppare la scienza e la tecnica al punto da rendere superfluo l'operaio nella produzione industriale: in tal modo peraltro gli si permetterebbe di gestire il proprio tempo libero secondo i propri desideri. Ma questa prospettiva non costituirebbe una soluzione convincente: 1) perché gli uomini diventerebbero schiavi delle macchine; 2) perché essi s'illuderebbero che il benessere sia garantito in modo automatico.

Il socialismo non può essere contrario al macchinismo, poiché caratteristica dell'uomo è quella di avere con la natura anche un rapporto strumentale, artificiale. Tuttavia, il socialismo deve creare le condizioni perché il macchinismo non arrivi a prevalere sul rapporto naturale dell'uomo con l'ambiente. Il macchinismo deve rimanere una libera scelta dei singoli individui e non un'imposizione. Ciò significa che tra macchinismo e non-macchinismo andrà continuamente cercato un compromesso.

Le condizioni che la società deve creare, sono relative all'umanizzazione dei rapporti sociali. Quanto più la società è esigente su tale umanizzazione, tanto più essa deve pretendere di non sentirsi minacciata da elementi artificiosi ed eccessivamente complessi. La vera complessità deve riguardare la profondità del rapporto umano, cioè l'intensità con cui lo si vive, e a tale scopo il macchinismo non è indispensabile.

Lo sviluppo del macchinismo, partito dall'esigenza di compensare un vuoto esistenziale e sociale, non ha fatto altro che rendere sempre più superficiali i rapporti umani. Con l'uso sistematico della scienza e della tecnica, l'uomo ha smesso di volgere lo sguardo verso se stesso e di cercare la qualità delle cose nel loro aspetto interiore.

La socializzazione dei rapporti umani -quale si è verificata sotto il capitalismo- ha escluso la loro umanizzazione. Nei sistemi precapitalistici non mancava la socializzazione, ma mancava la piena umanizzazione, in quanto vigevano rapporti antagonistici. Non era la natura a determinare completamente la qualità, il tipo, le modalità del rapporto umano, poiché questo rapporto aveva anche le possibilità di determinare se stesso: ciò che lo ostacolava era appunto la divisione in classi della società.

Con il capitalismo l'alienazione dell'uomo ha raggiunto livelli eccezionali; con il socialismo di stato questi livelli sono stati addirittura superati. I Paesi est-europei hanno avuto la forza di liberarsi dei loro errori e speriamo non abbiano la stupidità di accettare le nostre alienazioni.

DAVVERO IL CAPITALISMO NON HA ALTERNATIVE?

In una democrazia sociale autogestita non accadrebbero ai nostri agricoltori le assurdità imposte dalla CEE (relative alle quote fisse di latte, al numero massimo di capi di bestiame, alla quantità di produzione possibile, ai prezzi ridicoli dei prodotti agricoli e così via). Non accadrebbe che un prodotto uscito di fabbrica e giunto al negozio venga a costare tre-quattro-cinque volte di più. O che i prezzi di molti prodotti siano decisi non dalla loro qualità intrinseca, ma dall'etichetta, dalla firma, dalla pubblicità, dal monopolio, dalla moda, dalla stagione e così via. Ha forse un senso che i prezzi dei prodotti agricoli vengano decisi dall'industria di trasformazione o dalle grandi borse di commercio o dalle commissioni economiche degli Stati o addirittura dai singoli negozianti, in una parola da tutti meno che dall'agricoltore?

I prezzi delle merci vanno decisi non solo dai produttori, non solo dai monopoli, non solo dai tecnici e dagli esperti, non solo dal mercato, e neppure soltanto dai consumatori, ma vanno decisi da una società i cui produttori non siano sostanzialmente diversi dai consumatori: una società cioè dove il rapporto tra produttore e consumatore sia così stretto che praticamente la diversità dei mestieri non possa di per sé creare alcun ostacolo alla realizzazione di quel rapporto.

Una società dove i cittadini, nei tribunali, devono poter giudicare i loro concittadini, essendo gli unici a conoscerli meglio di chiunque altro. Giudici, avvocati, pubblici ministeri devono essere scelti dagli stessi cittadini che assisteranno, come testimoni, come parenti o conoscenti, come giuria popolare ecc., ai processi pubblici e privati.

Lo stesso servizio militare non dovrebbe forse essere fatto nel luogo in cui si vive e che si conosce perfettamente e che si saprebbe difendere con sicurezza? In questo senso, non dovrebbe forse essere fatto da tutti i cittadini, periodicamente, e non da professionisti stipendiati o da soldati di leva una volta soltanto nella loro vita?

Ogni esperienza di autogoverno locale nel passato è fallita non perché fosse locale, ma perché non si era risolto l'antagonismo delle classi. I concetti di Stato, nazione, impero ecc. sono ogni volta emersi per cercare di risolvere un conflitto di livello geografico più circoscritto. In tal modo non si faceva che estendere il conflitto a livelli più elevati, offrendo solo l'illusione d'averlo risolto. Il crollo degli Stati, delle nazioni, degli imperi è sempre stato e sempre sarà una conseguenza di quella illusione.

L'ASSENZA DI RESPONSABILITA' PERSONALE

In assenza di autogestione, la democrazia resta formale anche quando, dopo una crisi di governo, si verifica l'alternanza nella guida di un Paese. Una democrazia delegata che non prevede quella diretta rappresenta solo una gestione elitaria del potere, soggetta continuamente al pendolo fra anarchia e dittatura. Infatti, quando l'aristocrazia politica s'accorge che i suoi metodi non garantiscono ai gruppi oligarchici la necessaria stabilità economica, ecco che scatta l'esigenza di cercare "l'uomo della Provvidenza".

Quando la democrazia parlamentare è in crisi, perché i soggetti politici si sono dimostrati incapaci di governare e non godono più alcuna fiducia da parte degli elettori, è facile che qualche gruppo parlamentare inizi a rivendicare un rapporto diretto con le masse (magari in questo viene sollecitato da altri gruppi o movimenti extraparlamentari).

Improvvisamente la democrazia tende ad assumere un atteggiamento ambivalente: facendo ricorso, specie attraverso i media, all'istintività delle masse (populismo), essa mira a cercare una legittimazione dell'autoritarismo al di fuori dell'ambito meramente parlamentare. L'obiettivo è soltanto quello di rafforzare l'esecutivo, le funzioni monocratiche del governo o di affermare addirittura un personalismo presidenziale.

Fra la democrazia delegata e l'anarchia è dunque difficile dire cosa sia meglio, poiché la prima si trasforma facilmente in un arbitrio legalizzato ("di Stato"), patrimonio di pochi: il che può comportare conseguenze più nefaste dell'arbitrio dei singoli cittadini.

Non è forse singolare che nei Paesi a democrazia delegata ci si appelli al principio della "responsabilità personale" solo quando si tratta di punire il cittadino per aver compiuto un'azione illegale? "Positivamente" la responsabilità personale, in una democrazia delegata, non appartiene a nessuno: a chi comanda infatti spetta il privilegio dell'arbitrio, a chi ubbidisce il dovere di sottostarvi.

Per i governi delle democrazie delegate un esempio di cittadino modello è quello che obbedisce alle leggi dello Stato e paga le tasse, cioè obbedisce a leggi e tasse che "altri" gli hanno imposto, senza chiedergli alcun parere.

Il massimo della democrazia diretta, in questi Paesi, è rappresentato dall'esercizio del referendum popolare, cioè dalla possibilità (piuttosto lenta e macchinosa) di abolire una legge già in vigore.

UN NUOVO RAPPORTO TRA ELETTO ED ELETTORE

La vera democrazia non può essere delegata se l'eletto non è un'espressione diretta dell'elettore, cioè un'emanazione circostanziata nel tempo e nello spazio, che può essere facilmente tenuta sotto controllo.

L'eletto deve rappresentare costantemente la volontà di un elettore particolare (che può essere un gruppo, una comunità, sempre di dimensioni ristrette, poiché l'eletto deve costantemente tenersi in rapporto, in contatto con la base che l'ha votato).

Per essere veramente efficace, l'esercizio della responsabilità personale deve essere quotidiano, in modo tale che i risultati di tale impegno si possano vedere con una certa periodicità.

Se l'esercizio di tale responsabilità non comporta, col tempo, una progressiva trasformazione della società (nel suo complesso e non soltanto in singoli settori), facilmente la democrazia involve verso una gestione arbitraria del potere. Quanto più gli antagonismi, gli abusi… diventano un male endemico, tanto più si vanno a cercare soluzioni estreme, categoriche, destinate soltanto a peggiorare le cose.

Naturalmente l'eletto, in una democrazia diretta, è a sua volta un membro della comunità che lo ha votato: ciò significa ch'egli non può limitarsi a rappresentare passivamente la volontà di altri, ma deve interagire con tale volontà, manifestando le proprie opinioni.

Le masse popolari, di per sé, non sono migliori dei singoli eletti (a volte non sono migliori neppure dei singoli autocrati). Cosa sono stati, in fondo, il nazi-fascismo e lo stalinismo se non la miscela di due volontà perverse: una individuale (consapevole) e l'altra collettiva (strumentalizzata)?

Per questa ragione non ha senso sostenere che laddove le masse pretendono maggiore protagonismo, lì c'è sicuramente più democrazia. La democrazia non è un concetto che si può ipostatizzare, non è mai una definitiva acquisizione: la sua presenza va dimostrata ogni volta, in quanto è sempre un obiettivo da raggiungere. Se non fosse così, noi p.es. non riusciremmo a spiegarci il passaggio dal comunismo primitivo allo schiavismo.

Al massimo si potrebbe dire questo: la democrazia è molto di più un obiettivo nelle formazioni sociali antagonistiche che non in quelle collettivistiche, nel senso che mentre nelle prime il raggiungimento dell'obiettivo comporta un preliminare rovesciamento del sistema, nelle seconde invece comporta di quest'ultimo una progressiva evoluzione.

In un tipo di sistema la democrazia affermata come valore serve per ricordare agli uomini che non sono delle bestie selvagge; in un altro tipo serve a ricordare che, se tradiscono certi ideale, possono sempre diventarlo.

Di sicuro noi sappiamo solo una cosa: che è più facile realizzare la democrazia là dove la gente è abituata a decidere, cioè ad assumersi direttamente delle responsabilità. Certo, anche questa gente può compiere delle scelte sbagliate o addirittura lasciarsi corrompere, ma avrà meno motivi di addebitarne la causa a enti impersonali o a persone estranee.

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Quando c'è l'esigenza di farsi rappresentare, deve esserci inoltre la possibilità di potersi rappresentare da soli. Vi possono infatti essere dei casi così gravi (minacce alla libertà, violazioni di diritti, disastri ambientali…) per i quali l'intervento diretto di un gruppo o dell'intera comunità è più efficace di qualunque altra soluzione.

Per queste ragioni la democrazia diretta, che è poi l'unica vera democrazia, può funzionare solo quando la comunità sociale non è troppo grande, cioè quando esiste, in concreto, la possibilità di controllare l'operato dei cittadini e quindi anche dei loro delegati, che devono poter essere rimossi in qualunque momento se vengono meno al mandato ricevuto (ciò ovviamente significa che all'eletto va data la possibilità di difendersi).

In tal senso è assurdo che una persona possa pretendere di fare il politico di professione. La politica è lo strumento per rivendicare dei diritti, per gestire degli spazi, per prendere delle decisioni, per risolvere dei conflitti sociali: non può essere una dimensione di vita.

La politica è un contenitore che può essere riempito solo di tutto ciò che non è politico. Quando la politica si rende autonoma dalla vita sociale e dalla cultura, diventa eo ipso arbitraria, sempre e comunque, a prescindere dalle sue azioni particolari.

QUALI SPERANZE PER IL FUTURO?

La storia spesso manifesta questo singolare aspetto: proprio mentre le forze regressive s'incaponiscono a difendere i loro privilegi e la cultura del passato, che ha già perso di credibilità, tende a formarsi l'alternativa per il futuro. Questa, tuttavia, per risultare vincente, ha bisogno di porsi in maniera creativa e costruttiva: non può limitarsi ad attendere che il consenso le venga consegnato su un piatto d'argento. Anche perché il crollo rovinoso della reazione potrebbe travolgerla.

In altre parole, proprio mentre è più forte il potere politico e militare delle forze conservatrici, molto più debole è il loro potere morale, la loro legittimazione sociale - ed è questo, in definitiva, che deciderà la loro sorte.

Questo momento di transizione sarà tanto più veloce, tanto meno cruento quanto più risoluta sarà la resistenza delle forze regressive. Naturalmente la velocità della transizione non è di per sé un indice sicuro della sua democraticità: la velocità distruttiva di certe rivoluzioni (si pensi p.es. a quella francese) s'è trasformata ben presto in altrettanta velocità autodistruttiva.

In effetti, non basta la fiducia dei cittadini per essere sicuri che le nuove istituzioni saranno caratterizzate eticamente. Occorre anche e soprattutto che si realizzi la democrazia sociale, per la quale le istituzioni hanno compiti davvero limitati. Un'istituzione ha senso solo quando non può staccarsi dalla società, e questo, quando una società per secoli ha convissuto con la realtà delle istituzioni, è più facile a dirsi che a farsi.

Il cittadino democratico dovrà abituarsi all'idea che in una società autogestita ogni abuso si ripercuote immediatamente su tutti i cittadini, nessuno escluso: o si vive insieme nel bene comune o nessuno si salva. Là dove esiste la democrazia sociale, la corruzione non può dilagare come un cancro incurabile.

L'AFFERMAZIONE DELLA DEMOCRAZIA

Come noto, i momenti della dissoluzione della comunità primitiva e del feudalesimo sono anche quelli dell'affermazione della democrazia politica (Grecia...Europa borghese).

La democrazia è una grande illusione, poiché con essa il capitalismo s'è posto lo scopo di convincere il servo della gleba che emancipandosi politicamente dal servaggio avrebbe potuto diventare veramente libero, anche sul piano economico.

Da dove aveva preso la borghesia la capacità di elaborare una finzione giuspolitica così sofisticata? Ovviamente dal cristianesimo, prima nella sua corrente cattolica, poi in quella protestantica. Il liberalismo borghese, in effetti, non è che una laicizzazione del dualismo cristiano di metodo e contenuto.

E' stato il cristianesimo a permettere la nascita del capitalismo, a offrire le coordinate ideologiche alla borghesia per compiere la propria rivoluzione. Il borghese ha potuto scindere il valore cristiano dalla sua pratica perché esso era già scisso: il borghese l'ha soltanto fatto secondo i propri interessi. Egli ha saputo illudere il contadino, oppresso dallo sfruttamento feudale, che l'affermazione del valore cristiano, in forma secolarizzata, comportasse, di per sé, la realizzazione della democrazia sostanziale.

La laicizzazione del valore cristiano non è dipesa soltanto dall'esigenza di emanciparsi dal feudalesimo, ma anche dall'esigenza d'impostare un rapporto di dominio nei confronti della natura. Essa è stata anche uno sviluppo conseguente, in Europa occidentale, della laicizzazione che già la teologia cattolica, a partire dalla riscoperta dell'aristotelismo, aveva iniziato a livello accademico.

Nell'antichità, allorché si affermò la democrazia politica, ovviamente non poteva esserci alcun riferimento alla religione cristiana. Ma è anche vero che nella democrazia ateniese non si pose mai all'ordine del giorno la questione di emancipare gli schiavi (o di illuderli che potessero esserlo). La democrazia serviva ai ceti medi commerciali per opporsi all'aristocrazia fondiaria conservatrice: non aveva altro scopo.

Nell'epoca borghese lo Stato viene a sostituire la chiesa e il suo braccio secolare: l'imperatore cristiano; così come il diritto sostituisce la teologia. Ora lo Stato (che astrattamente unifica le classi) diventa l'espressione politica del capitale, mentre la chiesa viene usata come strumento religioso per riconciliare le componenti culturalmente più arretrate o politicamente più marginali con quelle dominanti. Lo strumento principale (e laico) resta però quello del diritto, che si basa sull'assunto formale: "La legge è uguale per tutti", un principio che sul piano democratico andrebbe rovesciato: "La legge è diversa per ognuno", nel senso che andrebbe applicata più severamente nei confronti di chi ha maggiori responsabilità o maggiori disponibilità di mezzi e risorse.

COME FAREMO A GESTIRE L'UNIVERSO?

In uno spazio e in un tempo infiniti non ci si può mai fermare. Cioè quando si ha consapevolezza dell'infinità delle cose, il rischio che si corre non può certo essere quello della rassegnazione. Sulla terra, se uno sbaglia, può anche pagare tutta la vita: dipende da ciò che ha fatto. Spesso anzi siamo così intolleranti che infliggiamo pene di molto superiori al torto compiuto. Ma nell'universo avremmo il problema opposto, quello cioè di capire e far capire che uno non può affrontare con superficialità i valori umani soltanto perché sa di avere sempre a disposizione la possibilità di ricominciare da capo.

Di fronte a un proprio errore, la pena va comunque avvertita, altrimenti non c'è maturazione e la pedagogia diventa una scienza inutile. Certo è che la pena non potrà essere la stessa. Avendo la consapevolezza dell'infinità, la pena dovrà per forza essere qualcosa in grado di toccare l'interiorità della coscienza. Se si approfondisce la consapevolezza dell'estensione, relativa a un tempo e a uno spazio infiniti, deve per forza aumentare di molto la consapevolezza della profondità della coscienza.

L'essenza umana dovrà potersi salvaguardare anche in un mutamento radicale delle forme della sua vivibilità. Tuttavia una qualunque forma di esperienza, nell'infinità dello spazio e del tempo, non potrà mai prescindere dalla responsabilità del qui ed ora. Anche perché il principale compito dell'essenza umana è quello di approfondire se stessa, e questo è possibile solo in uno stretto contatto con altre essenze umane. Vivere rapporti superficiali, nella dimensione dell'universo, sarà la cosa più stupida che potremo fare.

Noi siamo soltanto destinati ad approfondire le cose, cioè a trovare i modi e le forme in cui l'essenza umana possa esprimersi al meglio. Il vero problema da affrontare sarà quello di far sì che a ognuno venga data questa possibilità. La democrazia non potrà certo essere un valore formale, come lo è oggi sulla terra. Una democrazia che prescinde totalmente dalle condizioni effettive della sua realizzazione, non vale nulla. Noi abbiamo bisogno di porre le condizioni per le quali ognuno si senta investito di una certa responsabilità personale. E questo è possibile soltanto se uno può constatare coi propri occhi gli effetti di tale responsabilità.

Sulla terra la democrazia non è mai qualcosa di autogestito, ma qualcosa di imposto o di eterodiretto, cioè amministrato dall'alto. Questo perché non si riconosce alcuna autonomia all'ambito locale: tutto deve dipendere da qualcosa che gli è superiore. La democrazia è fagocitata, svuotata di contenuto, tant'è che nei momenti di crisi può facilmente trasformarsi in una dittatura, scatenando persino guerre mondiali, come già visto nel Novecento.

Dunque la prima regola della democrazia, da attuare già sul nostro pianeta, sarebbe quella di ridurre progressivamente e costantemente i poteri delle istituzioni centrali, trasferendoli alle realtà locali, in maniera tale che gli spazi dell'autonomia vengano gestiti non in maniera evasiva, ma con responsabilità, cioè non per sottrarsi il più possibile alle forme di controllo dall'alto, ma per realizzare nuove forme di controllo reciproco, in cui ognuno è responsabile di chi gli sta vicino. Se non riusciamo a capire questo principio elementare della convivenza umana, una gestione democratica dell'universo sarà impossibile.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Politica - Socialismo democratico
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Aggiornamento: 11/12/2018