FILOSOFIA DELLA DITTATURA MILITARE

IDEE PER UN SOCIALISMO DEMOCRATICO
L'autogestione di una democrazia diretta


FILOSOFIA DELLA DITTATURA MILITARE

Sin dalla nascita delle civiltà, seimila anni fa, le guerre sono sempre state fatte per arricchirsi a spese altrui.

Per farle occorrono generalmente soldati forti e coraggiosi, ben addestrati e guidati da ufficiali esperti e motivati, soldati disposti a sopportare grandi sacrifici e che quindi non possono appartenere a ceti abituati a vivere negli agi. Questo a prescindere dal fatto che oggi le guerre si possono fare anche con strumenti più sofisticati, p.es. i capitali o i mezzi di comunicazione, che però tendono ad aggiungersi a quelli tradizionali e non a sostituirli in toto.

Nel passato un ufficiale poteva anche provenire dai ranghi elevati, ma doveva prima sottostare a una ferrea disciplina, la quale comunque di per sé non lo faceva diventare un valente militare. Tanti grandi generali, condottieri, conquistatori, di tutti i tempi e luoghi, provenivano da ceti modesti se non addirittura infimi (Diocleziano p.es. era figlio di ex-schiavi). Era stata proprio la loro umile origine a favorirli nella conoscenza dei limiti e delle capacità del mondo militare.

Non basta l'accademia per diventare ottimi ufficiali: ci vuole l'esperienza sul campo, poiché alla fine è solo questa che dà la necessaria flessibilità per vincere battaglie e guerre, anche nei momenti che paiono disperati e per i quali i manuali consigliano la ritirata.

I ceti in grado di fare la guerra sono spesso quelli provenienti da ambienti rurali, montanari, operaistici, quelli che possono venire arruolati sfruttando la speranza che hanno di poter ottenere di più di quanto invece vanno a perdere, quelli che nella considerazione del politico vengono considerati marginali, perché non appartengono a lobbies di potere: sono soltanto carne da cannone. La guerra di Secessione negli Stati Uniti fu vinta dai nordisti con l'apporto fondamentale dei neri liberati dalla schiavitù.

Bisogna però che questi militari vengano saggiamente motivati, con garanzie di riscatto sociale, che non possono coincidere soltanto con un riconoscimento economico per la mansione bellica prestata. Se i militari provengono dai ceti marginali, occorre che, finita la guerra, essi possano fare o carriera militare, oppure ottenere terre in proprietà o altri benefici che assicurino loro un miglioramento significativo della condizione sociale antecedente all'arruolamento. Va evitato con cura il tradimento che fece il governo italiano ai militari che avevano combattuto, vincendola, la prima guerra mondiale.

Un militare non deve mai avere la percezione che sta combattendo soltanto perché le istituzioni statali lo obbligano. Di fronte alle prime gravi sconfitte si demoralizzerà molto facilmente e si chiederà perché combattere per uno Stato che in tempo di pace non lo aveva mai messo in condizione di vivere dignitosamente. Se un militare comincia a pensare che, in ultima istanza, il nemico può non essere peggiore del proprio sovrano o del proprio Stato o della propria nazione, la sconfitta sarà assicurata.

Di regola tuttavia la guerra non serve tanto ai militari, quanto piuttosto ad arricchire i ricchi, che temono di essere scavalcati da altri ricchi o da altri che lo stanno diventando usando metodi giudicati "illegali". In tal senso fenomeni come il colonialismo e l'imperialismo possono essere letti come il tentativo da parte delle nazioni più ricche, che per diventarlo avevano usato tutti i metodi più illeciti, d'impedire che altre nazioni, partite in ritardo, usassero gli stessi metodi per spartirsi la torta dei paesi più deboli. Poiché esiste uno sviluppo ineguale nei livelli di "civilizzazione", chi parte in ritardo, per poter recuperare il tempo perduto, è costretto a rinunciare a qualunque forma di scrupolo. Italia, Germania e Giappone p.es. furono costrette a diventare nazi-fasciste per poter competere con nazioni imperialiste già molto avanzate, come Regno Unito, Francia e Stati Uniti.

I potentati economici che decidono di entrare in guerra investono le loro risorse, trasformando l'industria da civile a militare e ottengono, finché la guerra permane, dei profitti favolosi. Chi rischia di più sono invece i politici, poiché se il loro paese perde la guerra, saranno costretti alle dimissioni. Se invece il paese, pur avendo perso la guerra, non riesce a imboccare la vera strada della democrazia sociale, gli industriali, che prima erano stati favorevoli alla guerra, facilmente sapranno riconvertire le loro aziende in produzioni civili. L'esempio della Fiat, in tal senso, è emblematico.

Quanto al reperimento delle risorse economiche per sostenere una guerra, generalmente vengono procurate dallo Stato attraverso le tasse estorte ai cittadini meno abbienti che non vanno a combattere; oltre alle tasse esiste anche il lavoro coatto o l'imposizione di grandi sacrifici.

Il risultato delle guerre è però alla lunga sempre negativo, anche in caso di vittoria. Infatti gli agi ch'esse procurano portano non solo a una più generale corruzione dei costumi, ma anche a infiacchire gli animi, a non desiderare più di fare altre guerre. Il servizio militare diventa facoltativo, fatto su richiesta, come se fosse un lavoro che necessariamente deve essere ben pagato, essendo in gioco la vita di qualcuno.

Quando sono abituate a vincere, le nazioni ripongono tutta la loro superiorità non tanto sui militari quanto sulla tecnologia che usano, su cui continuano a investire enormi capitali. Si presume di essere imbattibili solo perché si dispone di un ingente potenziale bellico e non vengono tenuti nella giusta considerazione altri fattori extra-militari (ivi inclusi i moti popolari a favore del pacificismo). E' in questa sopravvalutazione di sé che si perdono le guerre (come p.es. gli Usa in Vietnam). La forza dissuasiva, che dovrebbe funzionare solo nei confronti del nemico, finisce col ritorcersi nei confronti anche di se stessi.

La debolezza di una nazione dipende anche dal fatto che il mondo militare diventa un mondo industriale in piena regola: le armi, quando non si usano, si possono comunque vendere, anche ai propri nemici o concorrenti economici, facendo attenzione a non vendere quelle che hanno un valore strategico (equivalente oggi al nucleare) o comunque quelle di distruzione massiva. Insieme alle armi si vende anche l'addestramento per imparare ad usarle. E' tutta una catena di cui non si vede la fine.

Per gli eserciti permanenti, professionali, tecnologicamente avanzati, la pace è una vera disgrazia. Occorre sempre provocare conflitti locali, regionali, proprio perché, anche se in essi non si è coinvolti direttamente, si può sempre approfittarne per vendere armi, anche ad entrambe le parti belligeranti, naturalmente non fino al punto in cui si possa creare una situazione controproducente sul piano politico. Tendenzialmente però i generali preferiscono il coinvolgimento diretto, anche per tenere in esercizio le loro truppe e sperimentare gli effetti sul campo delle nuove trovate tecnologiche (come p.es. fanno gli americani col fosforo o l'uranio impoverito e come facevano in Vietnam con gli agenti chimici).

Un altro aspetto che bisogna considerare attentamente è il fatto che se è vero che i militari dipendono dalla politica, è anche vero che quando questa non riesce a risolvere o contenere i problemi sociali (che nelle società antagonistiche aumentano a prescindere dalle guerre vinte), i militari tendono a diventare anche politici. E quando un militare diventa politico (generalmente attraverso un colpo di stato), la dittatura è inevitabile.

Per tutto il periodo dell'impero romano nessun imperatore volle mai ripristinare la divisione tra militare e politico. Neppure nel Medioevo lo si fece: ci vollero le guerre italiane tra Impero e Comuni prima che quest'ultimi riuscissero a imporsi politicamente. Tuttavia il passaggio dai Comuni alle Signorie e ai Principati comportò la progressiva concentrazione dei poteri nelle mani dei ceti più abbienti e alla fine in quelle del Principe, che era un militare di professione.

Il Principe (esattamente come l'Imperatore romano o come il Tiranno greco) appariva come una sorta di mediatore tra opposti interessi. Gli imperatori romani p.es. poterono godere di ampi consensi popolari proprio perché, pur essendo dei dittatori, venivano visti come un contrappeso decisivo alla protervia dei senatori. Anche nel mondo greco la parola "Tiranno" non veniva affatto considerata negativamente dal popolo, proprio perché il Tiranno era colui che limitava i poteri politici degli aristocratici, considerati cinici e corrotti.

Tuttavia, se il potere politico dei senatori, degli aristocratici proprietari di terre subì dei ridimensionamenti, non così fu per il potere economico di queste classi privilegiate. Nessun imperatore, nessun dittatore o tiranno riuscì mai a realizzare una società davvero democratica, neppure quando fruiva di un grande consenso popolare. Gli aristocratici persero il loro potere economico solo in seguito a sconfitte militari da parte di popolazioni straniere.

Dunque come si può notare i processi si ripetono. Il motivo sta nel fatto che nelle società antagonistiche i conflitti sociali obbligano ad avere, da parte dei ceti benestanti, un corpo separato, quello appunto militare, preposto al controllo delle sommosse popolari, delle rivendicazioni che rischiano di trasformarsi in ribellioni. I dittatori, pur fruendo del consenso popolare, non hanno mai permesso che le rivendicazioni delle masse si spingessero oltre un certo livello. Il duce doveva soltanto apparire come una forma di illusione.

Finché c'è separazione tra proprietari e nullatenenti, ci sarà sempre separazione tra militare e civile, tra militare e politico. E siccome i conflitti, non risolti, tendono sempre a peggiorare (a volte son proprio le guerre ad acuirli, in quanto queste mandano in rovina i ceti più deboli, anche quando la loro nazione risulta vittoriosa), il civile e il politico finiranno inevitabilmente coll'essere subordinati al militare.

Per togliere al militare i suoi poteri politici non sarà sufficiente un colpo di stato, poiché con questo mezzo, le contraddizioni non si risolvono affatto, ma occorrerà una vera e propria rivoluzione di popolo, occorrerà cioè che i militari si schierino apertamente dalla parte delle esigenze di sopravvivenza del popolo.

Occorrerà altresì che i leader rivoluzionari, appena fatta l'insurrezione, mettano il popolo in condizioni di autogovernarsi e anche di autodifendersi contro chiunque voglia privarlo del diritto alla propria autonomia. E' sbagliato pensare che il popolo vada sempre tenuto disarmato o che lo si debba armare solo in caso di estrema necessità, quando p.es. si devono combattere dei nemici esterni alla comunità nazionale. I nemici, quelli più pericolosi, spesso sono interni.

Se il popolo non è in grado di gestire il proprio destino, sarà sempre possibile che le forze rivoluzionarie giunte al potere, compiano un rivolgimento di fronte e tradiscano gli ideali della rivoluzione. Non possiamo dimenticare la peggiore lezione della storia, quella dello stalinismo.

La democrazia o è diretta o non è. Non può essere delegata ma solo autogestita, e questo è possibile solo in una porzione di territorio piccola, in cui sia possibile il controllo dei controllori. Una qualunque democrazia delegata corrompe qualunque eletto, anche il più onesto di questo mondo, proprio perché è il sistema politico della delega in bianco che non funziona.

L’entità dei poteri dovrebbe essere inversamente proporzionale alla distanza che un organismo ha nei confronti dei propri cittadini: quindi massima a livello comunale e minima a livello statuale. Invece adesso è esattamente il contrario. E quando ci si accorgerà che questa forma delegata della politica non svolge alcuna funzione, anzi è di intralcio ai poteri forti non politici (che devono sopportare concorrenti internazionali molto più forti di loro), questi inevitabilmente preferiranno soluzioni più autoritarie, oppure abbandoneranno l'Italia a se stessa, delocalizzando completamente la propria attività.

LA DITTATURA E' INEVITABILE? FORSE NO

Una svolta politica, per tenere in piedi un sistema malato come il nostro, non può essere che autoritaria. Se non si vogliono risolvere (ma, se vogliamo, neppure affrontare) le cause fondamentali del malessere e se si vuol far credere che il malato soffre di un male non cronico ma passeggero, non resta che la dittatura, cioè il modo tradizionale con cui illudere le masse che dall'alto si possono facilmente risolvere tutti i problemi, tutte le crisi.

Nei paesi occidentali, ove domina il capitale privato, quando la democrazia formale non funziona. non si chiede maggiore democrazia ma più autoritarismo. Lo chiedono ovviamente i poteri forti, quelli che gestiscono la politica, l'economia, l'informazione. Non si vede altra via d'uscita che il cesarismo, il capo carismatico, proprio perché gli esponenti di quei settori di potere vogliono conservare i loro privilegi e, anzi, possibilmente aumentarli. Non vogliono avere intralci di alcun genere, non vogliono sentire contestazioni.

I nemici da abbattere, da ridimensionare, da circoscrivere in un'area ben limitata sono gli oppositori politici, i magistrati che vogliono far rispettare la legge, i movimenti a favore delle libertà sociali civili ambientali, i docenti che fanno della loro libertà d'insegnamento un'occasione per criticare la democrazia borghese.

In questa operazione di censura e di costrizione, i poteri forti spesso si avvalgono della collaborazione delle confessioni religiose di stato o maggioritarie, le quali, essendo anch'esse istituzioni di potere o comunque di consenso, han bisogno, per sopravvivere, di determinate contropartite.

Il problema principale che in questo momento i poteri governativi (politici o economici) devono risolvere è capire in quali forme è possibile imporre una dittatura, cioè con quali pretesti si può cercare di convincere la popolazione della sua necessità. Devono infatti stare attenti a non ripetere le esperienze fallimentari del nazi-fascismo, quando la dittatura si poneva in maniera troppo esplicita.

Quelle furono esperienze conseguenti ai problemi rimasti irrisolti dopo la fine della prima guerra mondiale e al crac borsistico del 1929. Oggi non solo non esiste la prima condizione, ma grazie allo Stato sociale s'è potuto scongiurare un crollo finanziario altrettanto grave, quello del 2008. Le banche sono state salvate grazie ai risparmi dei cittadini, sottratti loro con la forza.

L'unica condizione che oggi il potere può utilizzare come pretesto per rendere necessaria una dittatura è appunto il colossale debito degli stessi Stati sociali: un debito che, in assenza di un Pil sostenuto, rischia di travolgere l'intero sistema.

I poteri forti non vogliono un caos generalizzato, i cui scenari potrebbero essere imprevedibili, ma aspira a utilizzare la paura del caos per rivendicare la necessità di un presidenzialismo autoritario. Ecco perché non ha fretta a fare delle riforme; ecco perché, quando parla di riforme, le vuole a costo zero, oppure molto dolorose per i ceti medio-bassi (negli Usa, addirittura, l'unica che sono riusciti a fare, quella sanitaria, se la stanno rimangiando).

Se vi è la minaccia di un crac finanziario dello Stato, se le famiglie temono che tutti i loro risparmi si riducano a un nulla, se il tenore di vita è sempre più costretto a subire gravi deterioramenti e se la popolazione ha la netta percezione che i propri sacrifici non sortiscono alcun effetto positivo sulla crisi, sicuramente si pongono le condizioni per una svolta autoritaria.

Il sistema, che è profondamente corrotto, vuole offrire l'illusione che la dittatura serva proprio per difendere la democrazia. Le istituzioni, quindi, possono anche sopravvivere, ma come un guscio vuoto. E' la dittatura della democrazia che ci vogliono somministrare come medicina salutare per un sistema malato. Una dittatura non solo economica (del capitale) ma anche politica (delle istituzioni che lo rappresentano).

Un'operazione del genere, in Europa, può essere fatta solo in un modo: trasferendo tutti i poteri politici al Parlamento europeo, cioè ponendo fine all'autonomia dei singoli Stati, sempre più incapaci di autogovernarsi e soprattutto di gestire il proprio debito pubblico. Gli Usa invece, che questo centralismo l'hanno già e che sono infinitamente più militarizzati di noi europei, hanno bisogno di pretesti che coinvolgano immediatamente le forze armate e di polizia.

Ecco, di fronte a un'operazione del genere non si può tergiversare, soprassedere, minimizzare. Bisogna difendersi, non per limitarsi a tutelare la democrazia formale (come fa la sinistra riformista), ma proprio per uscire dal sistema. E, poiché questo è di tipo mercantile, la ricetta per farlo è una sola: l'autoconsumo.

La storia non offre ulteriori alternative. Ci vuole un autoconsumo armato, in grado di difendersi dagli attacchi del globalismo liberista e deregolamentato, dall'oligopolio delle multinazionali, dalla mondializzazione finanziarizzata: un virus che non proviene solo dagli Usa, ma anche dal Giappone e dall'Europa occidentale e, ultimamente, anche dalla Cina.

Dobbiamo farlo anche a costo di dover rinunciare a tutto il progresso tecnologico fin qui raggiunto e col rischio di ritornare al paleolitico. E' la dignità umana che ne va di mezzo.


Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Politica - Socialismo democratico
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Aggiornamento: 11/12/2018