Per un socialismo democratico: ETICA E CORRUZIONE

IDEE PER UN SOCIALISMO DEMOCRATICO
L'autogestione di una democrazia diretta


ETICA E CORRUZIONE

SULLA CORRUZIONE POLITICA

La nostra epoca è caratterizzata dal dominio del capitale. È nata -come dice il marxismo- nel XVI sec. e, se ogni civiltà dura mediamente un migliaio di anni, essa non morirà tanto presto, anche se i sintomi della sua decadenza si vedono chiaramente sin da ora. Con le due guerre mondiali (soprattutto con l'ultima) abbiamo sperimentato di quanta distruzione sia capace il capitalismo. Una terza potrebbe esserci per una nuova ripartizione delle colonie voluta da eventuali Paesi del Terzo Mondo o dell'ex "socialismo reale" divenuti capitalisti, oppure per impedire che questi Paesi diventino veramente "socialisti".

Si può addirittura prevedere che il futuro capitalismo, alla luce di quanto è già successo col nazismo e col fascismo, che si richiamavano alle idee del socialismo, avrà tratti assai simili allo stalinismo, benché dal punto di vista borghese. Il socialismo occidentale si affermerà come forma di razionalizzazione del capitale. Naturalmente, perché ciò avvenga, occorrerà una base popolare di consenso molto più ampia di quella che riuscì ad ottenere il nazifascismo: non basterà la piccola borghesia, ci vorranno anche gli operai.

Per conseguire un obiettivo del genere sarà necessaria una corruzione particolarmente sofisticata. Attualmente la corruzione dei partiti occidentali che si richiamano, in maniera distorta, al socialismo, facendo gli interessi del capitale, è fondamentalmente di tipo economico, cioè fondata sulla possibilità di ottenere dei vantaggi materiali. In Occidente ancora non si concepisce una corruzione "ideale", senza profitto: se esiste, essa viene considerata o stupida o poco pericolosa.

Con lo stalinismo invece si è inaugurata una nuova forma di corruzione, quella politica, cioè del dominio allo stato puro, del potere per il potere, dell'egemonia assoluta su tutto, anche sul capitale, in nome di un'ideologia apparentemente favorevole alle masse. Lo Stato era uno strumento non della borghesia, ma di un partito. Hitler e Mussolini sono stati il prodotto della classe borghese e senza l'appoggio dei monopoli non avrebbero potuto fare niente. Stalin invece è stato il prodotto di un'idea, che prima si è affermata in seno a un partito di governo e poi è dilagata in tutto lo Stato.

La superiorità della corruzione politica dello stalinismo è dimostrata anche dal fatto ch'essa è durata tantissimo, anche dopo la morte di Stalin e persino dopo la destalinizzazione del XX Congresso del Pcus: praticamente essa ha cominciato a entrare in crisi solo con la filosofia della perestrojka, ufficializzata dall'ex-partito di Gorbaciov nell'aprile del 1985.

Forse gli storici si dovrebbero chiedere se il socialismo di stato non abbia vinto il nazifascismo anche per questa sua più alta forma di corruzione. Spesso infatti si dice che il socialismo ha vinto il capitalismo, nella IIa guerra mondiale, nonostante lo stalinismo. Eppure lo stalinismo ha rappresentato, benché negativamente, una più alta forma di organizzazione statale. Un collettivismo forzato può portare a risultati peggiori dell'affermazione individualistica dell'uomo, ma i fatti hanno dimostrato che ai tempi di Stalin esso costituiva un'organizzazione più razionale.

Il fallimento totale di questa organizzazione si è verificato non in tempo di guerra ma in tempo di pace. La ragione sta nel fatto che nel mentre la si costruiva, gli uomini erano convinti che con essa avrebbero potuto realizzare gli ideali del socialismo. Essi in realtà stavano realizzando gli ideali del socialismo di stato, burocratico e amministrato. Ecco perché oggi, nei paesi est-europei, molti vedono l'affermazione dell'individualismo anche in funzione antisocialista. Ecco perché dobbiamo fare in modo che l'ideale del collettivismo libero non vada perduto. Solo con l'edificazione di questa forma di collettivismo l'umanità potrà risparmiarsi i disastri sia del capitalismo che del socialismo di stato.

IL FORMALISMO BORGHESE

Una caratteristica tipica della morale nella società capitalistica è il formalismo.

Poiché, per principio, ogni criterio di vita, nell’ambito del capitalismo, è antitetico all’umanità delle cose, il limite che generalmente si vuole porre fra un’azione lecita e una illecita è di fatto un limite di circostanza, legato alla convenienza del momento.

Quanto pesino, nella determinazione di tali confini formali di liceità, gli interessi di potere, è facile indovinarlo. La morale capitalistica è essenzialmente il frutto di un compromesso di conflitti antagonistici per natura.

Nel capitalismo tutto è antagonistico, a meno che non sussistano sacche di pre-capitalismo in via di estinzione, o non si formino resistenze di tipo anti-capitalistico, capaci di evolversi verso forme di transizione socialista.

La morale capitalistica è la morale dell’interesse privato prevalente, cioè di quella sfera privata che, a causa della sua forza, tende a ufficializzarsi, diventando sfera dominante. In tal senso, tutte le differenze che si pongono tra azioni lecite e illecite diventano alquanto formali e relative.

L’unica vera differenza possibile, nell’ambito del capitalismo, è quella fra un’azione illecita sanzionata dalle leggi (p.es. l’usura delle banche) o dalla prassi quotidiana (p.es. l’evasione fiscale o i profitti della criminalità organizzata) e l’azione illecita al di fuori delle consuetudini e delle leggi dominanti (p.es. lo scippo di un tossicodipendente).

Normalmente noi consideriamo la mafia un fenomeno illecito, ma solo un ingenuo potrebbe pensare che l’attività di un’impresa capitalistica o di una banca sia sostanzialmente lecita, ovvero che sia illecita solo in casi del tutto particolari.

L’immoralità, cioè la corruzione, l’assenza di valori umani ecc., è la regola, non l’eccezione, nella società capitalistica.

Peraltro tale società è strutturata in maniera così gerarchica e burocratica che il singolo diventa immorale anche contro la sua volontà. Non tanto perché egli sia consapevole di compiere azioni immorali (che non vorrebbe compiere), quanto perché si trova a compierle anche senza saperlo: anzi, normalmente, la sua immoralità più persistente è proprio quella più inconscia, cioè quella maggiormente determinata dalla fisionomia globale del sistema, che porta ad assumere, in maniera del tutto naturale, pensieri e atteggiamenti contrari all’etica umana.

Non c’è assolutamente modo di scalfire questo trend se ci si limita a svolgere una battaglia solo sovrastrutturale (p.es. solo culturale). Né può essere considerata sufficiente la battaglia che si conduce sul piano meramente sociale (p.es. attraverso il volontariato o le rivendicazioni sindacali).

La stessa battaglia politica (specie quella parlamentare) non serve a nulla se non ha di mira il rovesciamento del sistema.

Ogni battaglia che si conduce (e l’ideale è sempre quello di tenere rigorosamente uniti gli aspetti sociali, culturali e politici), deve essere finalizzata al superamento del capitalismo (almeno come obiettivo finale), nella consapevolezza che tale sistema è assolutamente irriformabile.

* * *

Che cosa vuol dire "precisione formale" nell'ambito della cultura occidentale? Vuol dire, molto semplicemente, che l'identità di sé non viene misurata sulla base del proprio rapporto col collettivo, ma sulla base della propria capacità di eseguire il più fedelmente possibile delle operazioni formali, il cui valore è stato stabilito da organi superiori e la cui esecuzione deve tener conto di un certo ordine gerarchico.

Di qui il grande sviluppo della burocrazia, degli organi preposti all'ordine pubblico, del ritualismo in genere e, sul piano culturale, del diritto, delle scienze della precisione (matematica, statistica, informatica...).

In una società del genere il collettivo non è il fondamento dell'io, ma il luogo in cui l'io può trarre occasione per autoaffermarsi. L'io anzitutto si concepisce come individualità isolata, potenzialmente antagonista a tutti gli altri io, una monade che quando entra nel collettivo si crea uno spazio vitale in cui potersi affermare a spese altrui, in maniera relativamente autoritaria. Nei paesi latini s'è cercato di ovviare a questo handicap della società borghese valorizzando al massimo la struttura familiare e parentale. Nei paesi anglosassoni si sono invece sviluppati i club.

Nella società borghese l'io accetta talune regole in maniera formale, semplicemente perché altri io, isolati come lui, lo costringono a farlo.

L'io borghese nei confronti del collettivo ha due atteggiamenti: cerca di sfruttarlo per un proprio tornaconto; lo accetta come un male inevitabile, perché comunque il collettivo lo costringe a tener conto di valori etici di cui farebbe volentieri a meno, anche se poi egli tende a riprodurre in piccolo un proprio collettivo per sopportare meglio l'alienazione della vita basata sul profitto. Di qui l'importanza che il borghese dà alla famiglia nucleare, alle relazioni extraconiugali, ai rapporti esclusivi coi colleghi di lavoro, agli hobby per il tempo libero...

In queste società alienate i veri problemi sorgono quando ci si accorge che le regole sono così formali da non essere in grado di garantire alcuna pacifica convivenza: l'io contro tutti alla fine porta alla dittatura politica. Il ricorso al fascismo è generato dalla convinzione che non esistono altri mezzi per poter garantire all'io borghese la sua sopravvivenza come tale.

Col fascismo l'io borghese si toglie la maschera della falsa democrazia e smette di cercare compromessi con altri io (borghesi e non). Il fascismo è la rappresentazione politica dell'egoismo che caratterizza la personalità borghese in crisi.

SULL'ETICA INDIVIDUALISTA

Ogni manifestazione di eccessivo rigorismo morale (spesso in forme punitive) è frutto dell'individualismo borghese, e non perché una posizione collettivista sia di per sé più incline all'opportunismo (semmai è la borghesia che reagisce al proprio opportunismo etico con improvvise controtendenze autoritarie), ma, al contrario, perché una posizione collettivista è più incline - quando è democratica - a porre in primo piano l'esigenza concreta dell'essere umano, in stretto rapporto con la realtà presente.

L'individualista non ha mai il senso pieno della realtà, semplicemente perché vede troppo da vicino se stesso, anche quando si nasconde dietro la logica della "ragion di stato". Egli applica alla realtà i propri valori egoistici e non ne verifica mai l'attendibilità sulla base delle esigenze della stessa realtà. In tal senso l'individualista è sempre un pessimista.

L'individualista è necessariamente una persone schematica, che, o per paura o per orgoglio (che spesso sono la stessa cosa), non si confronta mai con tutta la realtà: l'unica realtà che vede è quella che può servirgli per affermare il proprio io, ovvero quella che gli interessa resti il più possibile immodificabile.

La personalità borghese o è anarchica (quando rifiuta le regole di un collettivo che non le appartiene) o è conservatrice (quando vuole imporre le proprie regole a tutti i collettivi). Non può essere una personalità dialettica, proprio perché non s'interessa di istanze umane.

L'individualista lo si riconosce dal fatto che tende ad essere uno schematico sul piano etico, oppure, per reazione, un relativista assoluto, privo di ogni vera etica. Non c'è mediazione tra il borghese che vuole imporsi perché crede nei propri valori e il borghese che vuole continuare a imporsi dopo aver smesso di credere in quegli stessi valori. Se la borghesia di 500 anni fa vedesse quella di oggi, stenterebbe a riconoscerla sul piano etico, priva com'è di valori umani, benché le due borghesie siano in realtà due facce di una stessa medaglia: dogmatismo e relativismo (per "dogmatismo" bisogna intendere ovviamente i principi connessi all'attività affaristica, per quanto la prima borghesia calvinista fosse dogmatica anche sul piano religioso).

Naturalmente la posizione dogmatica è sempre più seria di quella relativista, ma è anche quella più pericolosa, perché può causare danni enormi alla società (basta vedere quelli causati dal fascismo).

L'individualismo relativista può nuocere alla società in maniera indiretta, attraverso la propria attività commerciale. Tuttavia gli effetti di questo condizionamento alla lunga sono più pesanti. E' più facile opporsi a una dittatura politica che a una economica.

IL CULTO DELL'IMMAGINE

L'attuale culto dell'immagine -di cui i giornalisti sono i grandi sacerdoti- può essere nato come reazione al parlare vuoto o astratto, cioè a causa della debolezza delle parole, ma esso non può risolvere, di per sé, la crisi della tradizionale formulazione linguistica. Le immagini infatti non creano esperienze vitali più significative di quelle che avrebbero dovuto creare quelle parole o a cui quelle parole avrebbero dovuto riferirsi. Se gli uomini perdono l'abitudine a riflettere sulle parole (perché hanno l'impressione di sprecare il loro tempo), non acquisteranno maggiore criticità guardando le immagini. E per una semplice ragione: se il potere sa che la collettività è disabituata a pensare, la cultura che farà passare attraverso i media sarà ancora più rozza e primitiva, strettamente legata ai valori istintivi, superficiali e antagonistici, tipici della civiltà borghese in decadenza, che non ha niente di meglio da offrire per realizzare profitti.

In questa civiltà l'immagine ha una funzione meramente narcotica, utile per tenere il soggetto in uno stato di totale dipendenza psicologica e culturale, rispetto ai modelli dominanti della classe borghese. Tale funzione rischia di essere così potente che il soggetto non riesce più a confrontarsi direttamente, personalmente, sulle parole, in quanto per lui solo le immagini hanno un qualche significato. Le uniche parole che riesce ad assimilare sono quelle che è costretto a ripetere, sulla base di determinati ruoli da rispettare, nonché quelle che -estremamente elementari e povere di contenuti- trova connesse al culto stesso dell'immagine, nei confronti del quale non ha alcuno strumento critico di valutazione. Il dramma di molti individui, oggi, è che non riescono più a mettersi personalmente in gioco: assimilano senza rielaborare, senza approfondire. A costoro si può far fare qualunque cosa, se si usano efficaci metodi di persuasione: anche ipnotizzarli "via cavo" o convincerli che una determinata guerra imperialistica sia una "giusta causa".

Perché dopo un decennio di contestazione siamo scesi a questi livelli subumani? Perché non siamo più in grado di reagire? Molto è dipeso dallo spirito revanchista della borghesia, che non si lascia mai sfuggire l'occasione di recuperare il terreno perduto. Ma molto è dipeso anche dal prezzo che la contestazione ha dovuto pagare per i propri errori, il più grave dei quali è stato quello di pretendere di curare le malattie del sistema dopo averne analizzati i sintomi e individuate le cause. La contestazione è servita a superare una certa ipocrisia, una certa sfasatura tra la cultura dominante degli anni '50 e '60 e le esigenze delle nuove generazioni. In tal senso i mali di oggi non vanno attribuiti al fallimento del '68, poiché essi si sarebbero ugualmente prodotti e forse con conseguenze ancora peggiori: il '68 fu semplicemente la presa di coscienza di una malattia in atto, tanto che oggi una qualunque inversione di tendenza, che mettesse in discussione la realtà di questa malattia, dovrebbe per forza assumere una fisionomia autoritaria e repressiva.

Oggi purtroppo l'Italia si trova a vivere non solo il declino del sistema ma anche quello della contestazione: ecco perché vanno emergendo quelle correnti che rivendicano una svolta autoritaria in direzione di una repubblica presidenziale, senza che si conceda alcuna vera autonomia alle forze locali; ecco perché le forze locali che rivendicano una tale autonomia lo fanno senza la preoccupazione di modificare l'intero sistema, ma solo con quella di sopravviverci alla meglio. Per superare le tendenze scissioniste delle Leghe, il sistema dovrà realizzare un nuovo compromesso: togliere il potere al centro-destra e consegnarlo alla sinistra, al fine di conservare, in forma rinnovata, l'egemonia politica ed economica della borghesia.

COSA FARE?

I fatti cosa dimostrano? perché sembrano dare sempre ragione a chi ha torto? Il motivo è semplice: se chi ha ragione non riesce a imporsi, alla fine passa per uno che ha torto, per uno che vuole giustificare il tutto. Se le ragioni in cui si crede non vengono realizzate, qualcuno può anche legittimamente pensare che la mera critica delle istituzioni e del potere politico sia in realtà un pretesto per non agire in modo concreto. In effetti, se questa realizzazione ci fosse, gli uomini acquisterebbero fiducia, sarebbero disposti a lasciarsi coinvolgere attivamente, crederebbero cioè che le ragioni non sono soltanto giuste, ma anche praticabili.

Diversamente, gli uomini tendono a propendere per le soluzioni più categoriche, più unilaterali, quelle soluzioni che si avvertono come giuste solo istintivamente, solo in compagnia di altre persone non meno estremiste. Gli uomini sono disposti a ragionare finché il momento dell'azione non s'impone da sé. E il momento oggi è avvertito con tanta maggiore esigenza quanto più grande è la frustrazione che si subisce.

Così, ad es., si avverte chiaramente che la pena di morte non costituisce un deterrente, pur tuttavia, nel vedere la grande criminalità dilagare e restare impunita, ci si convince che la sua introduzione sarebbe necessaria, inevitabile, da accettarsi come una sorta di "male minore".

Gli uomini non riescono a sopportare più di tanto le ingiustizie: ecco perché quando non vedono alternative reali, sono disposti ad accettare le soluzioni più rozze e schematiche. Questa conclusione non è imputabile solo alle persone istintive, superficiali, ma anche a quelle che, pur conoscendo gli strumenti per modificare al meglio la situazione, non si comportano in maniera energica, volitiva. Esistono infatti persone che teorizzano consapevolmente il disimpegno asserendo che lo spontaneismo deve comprendere da solo i propri errori. Il che, in altre parole, significa illudersi di vincere lo spontaneismo, attendendo che certe posizioni ideologiche o politiche producano effetti devastanti. In questo caso il disimpegno viene a mascherare la propria incapacità di essere e, negli ambiti del potere istituzionale, anche il proprio grande cinismo.

OSSERVAZIONI SULLA MORALE

Le concezioni morali sono relative alle epoche storiche e, all'interno di queste, alle diverse situazioni sociali e ambientali. Tale relatività, tuttavia, non è assoluta, altrimenti non si verificherebbe mai l'abbandono di certe scelte morali (abbandono che a volte è addirittura definitivo) e l'acquisizione di altre (acquisizione che sul momento può anche dare l'impressione d'essere definitiva). Esiste quindi un'evoluzione storica della morale che solo a posteriori, col passar del tempo, ci aiuta a comprendere cosa sia più giusto e meriti d'essere conservato e sviluppato.

Questa progressione della coscienza morale, in rapporto allo sviluppo dell'individuo e dell'intera umanità, dipende dal fatto che le generazioni ereditano le concezioni morali dalle generazioni precedenti e le sviluppano ulteriormente. Ma, ribadiamo, è solo a posteriori che si può dire se certe scelte sono state giuste o sbagliate. Nel momento in cui vengono fatte non esistono dei motivi o delle indicazioni oggettive che possono far propendere l'uomo, di necessità, verso una scelta o verso un'altra. La libertà umana, nel presente, si gioca nel mezzo di possibilità abbastanza equivalenti. Non esiste alcuno sviluppo storico, alcun condizionamento sociale che porta gli uomini a compiere ineluttabilmente determinate azioni, buone o cattive che siano.

Una legge morale ritenuta migliore può essere soltanto proposta coll'esempio, con il confronto democratico, con lo scambio pacifico e tollerante delle esperienze e, in secondo luogo, se non esiste consenso unanime (il che spesso si verifica), con la volontà della maggioranza. La quale, una volta affermatasi, non può non tener conto che esiste una posizione morale minoritaria.

La corruzione, in una società di corrotti, non è un grave reato, ma lo diventa se in questa società s'impongono con la forza del loro esempio, esperienze di "onestà", alternative a quelle dominanti. Si tratta appunto di verificare quale grado di consapevolezza ha la persona corrotta di tali esperienze e quanto tali esperienze siano veramente alternative.

Tuttavia, una data posizione morale può rivelarsi migliore anche se la maggioranza delle persone ne vive un'altra: la maggioranza infatti non è sempre un criterio di verità o di moralità. In questo caso l'individuo che lotta per una transizione, deve saper cogliere nella società in cui vive quei fattori che gli possono permettere di far affermare la sua concezione morale alternativa a quella dominante. Nei primi tempi, ovviamente, userà molta cautela, anche perché, contestando una morale sociale da un punto di vista individuale si ottengono sulla popolazione degli effetti di molto inferiori a quelli che si possono ottenere contestandola da un punto di vista sociale (cioè attraverso comunità, gruppi, partiti, sindacati, ecc.).

In astratto si può dire che l'uomo fa progredire le sue concezioni morali in rapporto allo sviluppo della sua intelligenza. Questo però non significa che quanto più l'uomo è intelligente, tanto più è morale, poiché dall'acquisizione intellettuale alla realizzazione pratica il passaggio non è automatico. Occorre la mediazione della volontà e soprattutto di quella sociale, collettiva. Però si può dire con certezza che una concezione morale ha un valore soprattutto nella misura in cui gli individui la sentono come propria.

Perché una concezione morale si dimostri superata occorre che la stragrande maggioranza dei cittadini evidenzi un'esigenza di moralità superiore. Nessuna legge è in grado d'imporre o di cancellare una concezione morale. La legge o è uno strumento coercitivo nelle mani di chi opprime, oppure serve soltanto a impedire che l'applicazione di determinati principi morali vada a detrimento delle libertà altrui. In questo secondo caso la legge ha ancora senso se i principi morali non sono sufficientemente fondati nell'abitudine dei cittadini.

Ad es. le leggi sul divorzio e sull'aborto non sono state leggi che hanno voluto favorire o che hanno favorito, senza volerlo, una concezione morale o immorale, poiché anche senza queste leggi gli adulteri e gli aborti clandestini non sarebbero mancati. Anzi, senza le leggi la situazione risultava più immorale, in quanto tendenzialmente ipocrita e soggetta alla speculazione privata. Le due leggi non hanno fatto altro che legalizzare una decadenza dei costumi in atto, frutto a sua volta di una crisi di ordine sociale ed economico. Cioè hanno reso questa decadenza meno traumatica. Ma il problema è rimasto, e la legge non è in grado di risolverlo. Esistono dei rapporti sociali e delle concezioni morali sbagliate, che portano al divorzio o all'aborto (o anche al furto, alla corruzione, all'omicidio...). La legge non è assolutamente in grado di creare un'alternativa a questi rapporti.

Può dunque anche accadere che da una concezione morale elevata la società passi, a causa di processi involutivi e regressivi, a una meno elevata (oppure che da una concezione morale ipocrita ma tenuta nascosta si passi a una concezione morale negativa sia in pubblico che in privato), e può accadere che ciò avvenga anche a livello generale, collettivo, non solo individuale, ma un'involuzione del genere non è destinata a durare, poiché negli uomini esiste un istinto di sopravvivenza che si applica anche alle questioni morali.

PER UN’ETICA UNIVERSALE

L’accentuazione degli aspetti etici della vita, nel senso idealistico del termine “etica”, non è affatto detto che rispecchi una concezione collettivistica dell’esistenza.

Il Kant filantropo, cosmopolita, liberista, o l’Hegel oggettivo e statalista non erano meno individualisti di Kierkegaard o di Nietzsche. Si trattava solo di una diversa forma d’individualismo borghese (più “ottimista” che “pessimista”, più legata agli albori del capitalismo che non alle sue forti contraddizioni antagonistiche e alla consapevolezza di superarle che veniva emergendo nell’Europa della metà del XIX secolo).

Si può anzi dire che quanto più l’etica pretende d’essere rigorosa, oggettiva e strettamente legata alla ragion di stato, tanto più gravi saranno le sue conseguenze sociali, proprio perché un’etica siffatta non rappresenta degli interessi veramente collettivi, bensì gli interessi di una classe sociale che pretende di porsi dal punto di vista della collettività.

L’idealismo filosofico e politico, in tal senso, rappresenta lo sforzo supremo (e illusorio) di una classe sociale che pretendeva di farsi accettare dalla collettività, a prescindere dai suoi interessi particolari.

La collettività, dal canto suo, ha accettato questa forzatura solo fino a quando i suoi interessi non sono stati clamorosamente contraddetti da quelli della particolare classe sociale.

Purtroppo l’ignoranza è così grande nel popolo, che solo dopo aver verificato un grande conflitto d’interessi si comincia a rivendicare un’istanza concreta di giustizia.

È comunque interessante notare come i paesi protestanti passino continuamente dal permissivismo più sfrenato al moralismo più rigoroso. Questo è appunto un segno del carattere particolarmente individualistico delle loro società, che anche se sono piene di clan e associazioni, non vanno mai al di là di un certo aristocraticismo di classe.

La morale non è, in questi paesi, una morale veramente pubblica, decisa dalla collettività, ma è una morale che una classe particolare, politicamente egemone, impone a tutta la collettività (ciò che da tempo anche nei paesi di religione cattolica si verifica).

Quando questa collettività si ribella, si aprono due strade: o la morale della classe particolare cede su taluni aspetti e involve verso forme di volgare edonismo (e sulla base dell’accentuazione degli istinti continua a condizionare la società intera, che s’illude d’aver ottenuto maggiori libertà); oppure la collettività, con uno sforzo rivoluzionario, è in grado di affermare la propria morale universale su quella particolare della classe egemone.

Se si imbocca la prima via, è facile aspettarsi, col tempo, una soluzione autoritaria, poiché nessuno Stato può reggersi unicamente sull’instabilità degli istinti.

Se si imbocca la seconda via, ad un certo punto ci si dovrà rendere conto che la rivoluzione politica non implica di per sé quella umana, che è molto più complessa.

INNOCENZA E COLPEVOLEZZA

L'uomo primitivo non aveva un'innocenza ignorante, ma un'innocenza consapevole, anche se la consapevolezza era limitata al suo tempo e non certo al nostro. L'unica ignoranza che aveva era quella sulle conseguenze che egli poteva subire se in luogo del collettivismo libero avesse accettato l'individualismo. Ecco, in questo senso se l'uomo moderno accettasse consapevolmente il collettivismo libero, lo farebbe con una consapevolezza che l'uomo primitivo non aveva, ma non per questo la sua libertà sarebbe superiore. Non è infatti la consapevolezza del male che di per sé rende più liberi: occorre anche e soprattutto quella del bene, e questa è possibile averla, in profondità, solo se si vive un'autentica esperienza della libertà.

L'occidente deve ritrovare nel Terzo mondo l'innocenza perduta, poiché oggi ha solo consapevolezza del male che vive.

PER CONCLUDERE

La differenza tra i nostri tempi e quelli di Marx e Lenin sta nel fatto che oggi l'unità l'avvertiamo come un'esigenza ontologica, vitale, di sopravvivenza spirituale dell'uomo, e non soltanto come un'istanza politica di liberazione o di giustizia sociale. La divisione ormai è penetrata nel più profondo del nostro essere, nella modalità dei nostri rapporti più o meno quotidiani e non soltanto nelle condizioni formali, estrinseche della nostra esistenza.
Non dobbiamo vergognarci di questo, poiché l'ammetterlo è già il primo passo verso la liberazione. Questa situazione infatti è diventata assolutamente insopportabile, nel senso cioè che nessun tipo di benessere (fisico, materiale, economico...) ci permette di sopportarla. La coscienza della divisione è diventata troppo forte perché ci si possa tranquillizzare con la rassegnazione. Non ci si può rassegnare a una cosa che uccide lentamente. L'uomo è fatto per vivere e per vivere nella pienezza dell'essere: il suicidio non può essere una scelta di ordinaria amministrazione.

Il fatto però è che siamo talmente disabituati a un rapporto umano naturale, profondo, sentito, che di fronte a noi, nel mentre si cerca di superare la divisione, sembra prospettarsi un'esperienza ancora più alienante di quella attuale. Le alternative o non sappiamo coglierle o non sappiamo crearle. Kierkegaard direbbe che dobbiamo superare la "possibilità dello scandalo", cioè la vergogna che proviamo al cospetto della nullità del nostro essere. I tossicodipendenti sanno bene che fino a quando non hai toccato il fondo, non riesci ad avere il coraggio di rialzarti. Forse dovremmo partire dall'esperienza e dalla sensibilità di tutti quei giovani che si sono ritrovati dopo anni di buio totale.


Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Politica - Socialismo democratico
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Aggiornamento: 11/12/2018