LE RAGIONI DEL FEDERALISMO
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IL PIACERE DEL PUBBLICO
UNA CITTÀ Luca Meldolesi, già ordinario di politica economica all’Università degli Studi di Napoli, è stato Presidente del Comitato per l’emersione (1999-2008). Ha scritto, tra l’altro, Italia federanda, Rubbettino 2011, e Federalismo democratico. Per un dialogo tra eguali, Rubbettino 2010. È membro dell’associazione Effeddì, "Federalismo Democratico”. Assieme ad altri sei impegnato in una campagna per il federalismo democratico. Puoi raccontare? Tra gli anni Trenta e Quaranta, il tema del federalismo era molto dibattuto tra gli intellettuali. Norberto Bobbio nel 1945 aveva scritto un libro su Cattaneo, ora ripubblicato a cura di Nadia Urbinati, Stati Uniti d’Italia. A conferma di come questo dibattito fosse vivo. Poi nel ‘48 la costituzione sancì il compromesso tra Peppone e Don Camillo... Intendiamoci, la costituzione è stato un grande risultato, e tuttavia un’intera problematica è stata messa da parte. La tradizione sturziana da una parte e quella salveminiana, dei fratelli Rosselli, Giustizia e Libertà, dall’altra, si sono in qualche modo interrotte. Noi, il federalismo, abbiamo dovuto riscoprirlo non dal pensiero, ma dalla pratica. Per me questa storia ha visto la sua origine nell’ambito del lavoro universitario e poi nel lavoro di governo. È così che piano piano mi sono accorto che questo paese, dal punto di vista della pubblica amministrazione, proprio non funziona; e ho cercato di spiegare perché. Mentre gli storici, i filosofi e i letterati si fermano a dire delle cose, ecco il mio mestiere mi costringeva a cercare, a inventare delle soluzioni. Retrospettivamente quello che ho fatto negli anni in cui mi sono occupato di riforma dello Stato, e poi di emersione, un impegno portato avanti con tutti questi giovani prevalentemente meridionali, era già un lavoro di questo tipo. Per me il federalismo è una cosa molto più grande della semplice questione del federalismo fiscale. E le soluzioni che abbiamo cercato non erano certo "rivoluzionarie”, tipo anni Settanta, per niente: erano sempre ipotesi costruttive, che però si fondavano su una logica che, rispetto ai funzionamenti ordinari, era radicalmente diversa. A un certo punto l’esperienza del Comitato per l’emersione del lavoro irregolare è finita, fondamentalmente perché sia la destra che la sinistra l’hanno respinta; devo dire che la responsabilità è da un lato di Maroni-Sacconi e dall’altro di Damiano. Io ho cercato di resistere fino all’arrivo del governo Prodi, purtroppo da questo punto di vista, si è rivelato un disastro anche quello. Insomma, non avevo scampo. Alla fine hanno abolito l’ente, che però era andato abbastanza avanti per arrivare a certe conclusioni. Mi sono così incamminato da me su una strada nuova. In questo momento mi pare ci sia una specie di revival del pensiero federalista italiano. C’è un signore che ancora non ho incontrato che si chiama Gangemi, dell’Università di Padova, che ha fatto una serie di libri sul federalismo: l’ultimo è La linea siciliana del federalismo, che era stato preceduto da La linea veneta del federalismo e altre opere. All’operazione collabora anche De Rosa, che è stato il biografo di Sturzo. A Milano è nato un gruppo, "Allarme Milano Speranza Milano”, che ha delle caratteristiche diverse da quelle che hanno caratterizzato il mio impegno, però con alcune complementarietà interessanti. Direi due: loro sono di ambiente prevalentemente cattolico, ma di formazione cattaniana, e poi si occupano del lavoro di tipo aziendale. Ecco, queste caratteristiche però possono dialogare e infatti abbiamo cominciato a costruire qualcosa. Uno dei nodi del federalismo è il buon governo, cioè l’amministrazione. Il primo punto chiave è questo: il nostro sistema statuale ha una provenienza di tipo monarchico, quindi viviamo in un sistema che si dice democratico ma che in realtà è semi democratico perché il centralismo continua a prevalere. Lo dico con cognizione di causa perché ci ho lavorato dentro per dieci anni. Ma già da prima avevo maturato quest'idea che c’era qualcosa che non mi convinceva al centro, a Roma insomma. Alla fine sono arrivato a spiegarmi questa storia. E la storia è che il Risorgimento alla fine ha adottato una soluzione che è franco-piemontese da un punto di vista istituzionale dei funzionamenti dell’istituzione. La peculiarità del nostro paese è che, a differenza della Francia, dove il dominio centrale non era contestato, qui la stessa natura del paese, la molteplicità delle città e dei territori, hanno prodotto dei processi sia sociali che territoriali che hanno via via spinto questo sistema a imbastardirsi. Quindi noi siamo un po’ un centralismo bastardo. È questa la nostra condizione, tant’è che fin da subito sono nate molte esperienze dal basso che volevano andare in un’altra direzione e però sono sempre state mantenute entro certi limiti dai grandi partiti nazionali, dalla Democrazia cristiana da una parte e dal Partito comunista dall’altra. Possiamo dire che ci troviamo in qualche modo con una tradizione popolare positiva, coperta però da un coperchio. Per tanti anni siamo andati avanti così. Adesso sembra proprio che i nodi siano arrivati al pettine, quindi avremo bisogno di attivare dei processi di cambiamento. Qui però c’è anche da spiegare che il processo di cambiamento come io lo vedo oggi è molto diverso dal discorso degli anni Settanta. Il federalismo non è una cosa da avanguardia rivoluzionaria. Al contrario, ci vuole un grande consenso nel paese per poter fare questo cambiamento. Al contempo ci vuole anche una capacità di stare addosso ai problemi e trovare via via delle soluzioni. Per dirti, adesso mi hanno chiesto di essere chiaro su che cosa bisognerebbe fare anche in un comune. Cioè il federalismo democratico applicato. Ecco, se mi si presenta un sindaco e mi dice: "Va bene, ma allora che cosa dobbiamo fare?”, io gli dico subito tre cose, che sono anche tutte ormai molto sperimentate. Nello Stato non c’è cultura. In questo sistema centralista gli impiegati sono come degli automi. Noi invece vogliamo delle persone consapevoli. Allora bisogna iniettare elementi conoscitivi all’interno dei funzionamenti, lavorando sia desk sia field, cioè sia a tavolino sia nell’inchiesta, nello studio, nella comprensione, con un occhio che non può essere soltanto sociale oppure politico oppure giuridico, come avviene normalmente, ma che deve essere economico. Cioè le soluzioni devono essere di crescita della produttività pubblica. Non è possibile che noi ci roviniamo perché l’impiegato, nella tradizione italiana, è uno che dorme. È assurdo. Questa cosa qui non va bene, bisogna continuamente progredire; questo nel Nuovo mondo si vede. Quindi c’è intanto questo compito da svolgere, che può essere fatto da un gruppo di persone, di giovani soprattutto. Poi c’è un secondo lavoro da fare, quello di costruire i dati. Lo Stato non funziona con i dati, funziona sulla base delle leggi, della politica ecc. Ma i dati non ce li hanno. Com’è possibile? Se il manager di un’azienda, una persona perbene e competente, riceve una responsabilità pubblica, la prima cosa che chiede è: "Dove sono i dati?”, perché non sa lavorare senza. Ma non ci sono. C’è un solo comune italiano che pubblica il bilancio on-line ed è Faenza. Allora, noi adesso stiamo cercando di spingere il paese verso questa soluzione. L’idea è di entrare dentro la macchina e cominciare a cambiarla. Alberto Carzaniga, che è stato sottosegretario e presidente della Cabina di regia nazionale, amico e collega, è il costruttore dei conti pubblici con un sistema che si chiama Siope, che ha avuto un buon risultato. Il fatto è che questo sistema per ora è servito solo al centralismo, non alle autonomie locali. Oggi le autonomie locali mandano i dati a Roma, che li usa per la macroeconomia. Così non funziona. Quindi, come secondo punto, al sindaco io dico: "Se mandi i dati a Roma tieniti almeno una copia”. Non lo fa nessuno! Perché non sono abituati a studiarli, a cercare di capire cosa c’è dentro. Una volta eseguito quello che in burocratese si chiama "adempimento”, sono a posto. Allora dico: tenete i dati, prendete dei giovani e fateglieli studiare, fatevi venire delle idee... Terza cosa molto importante che si può fare subito è inserire il lavoro di tipo industriale nell’amministrazione. In un ufficio pubblico se chiedi cos’è il team work, non lo sa nessuno. Cose risaputissime in qualsiasi azienda, come il fatto che il capogruppo si prende onore e oneri, che c’è una responsabilità di gruppo e che però la responsabilità del lavoro è individuale, quindi nessuno si può nascondere; ecco, tutto questo nello Stato non c’è. D’altra parte, nello Stato la formazione si fa imparando a memoria le leggi. Una cosa che mi fece molta impressione quando lavoravo nella struttura pubblica è che gli uffici erano costantemente presi dall’aggiornamento. Anziché nella ricerca del risultato tutte le risorse venivano sprecate nell’adempimento delle direttive delle varie circolari. Comunque, per concludere, il problema è quello già enunciato: noi abbiamo addosso uno Stato che ha una provenienza monarchica. Per tanto tempo abbiamo fatto finta che non fosse così, adesso dobbiamo per forza trovare una strada. L’altro nodo del federalismo democratico che individui è quello del "lavoro libero”... In un saggio del 1861, "Del pensiero come principio d’economia pubblica”, Carlo Cattaneo ha scritto tra l’altro che "da un operatore cointeressato si aspetta un servizio più sagace e fedele. […] Questo è lo scoglio a cui ruppero quasi tutte le imprese dei socialisti. I fondatori avevano compreso in tutta la sua forza il principio del lavoro, e in qualche parte il principio dell’intelligenza; ma non apprezzavano l’efficacia del lavoro libero, ch’è quanto dire della libera volontà. I riformatori economici, al pari dei politici, trascurarono troppo la libertà”. Leggendo questo passo, mi sono chiesto che conseguenze trarne per noi, per l’oggi. Semplicemente questa: che se diamo il giusto ruolo alla libera volontà, al lavoro autonomo, possiamo anche recuperare i principi del lavoro e dell’intelligenza in tutta la loro forza ed aprirci così ad una correzione consapevole, nel senso dell’equità, delle tendenze spontanee del nostro vivere collettivo. Si capisce così come la democratizzazione federalista del sistema pubblico e l’intelligente evoluzione del sistema privato a favore dell’imprenditoria popolare e della giustizia sociale possono spalleggiarsi. Cattaneo l’aveva vista questa cosa. Vale a dire che non si può amputare il lavoro. Cioè se ti metti nell’idea di guardare al solo lavoro salariato e non invece al lavoro direttivo, autonomo, manageriale, imprenditoriale e così via, questo ti condanna a stare in un binario morto. Questo è un grande problema della sinistra, che è ancora preda del vecchio schema. Invece da un rapporto di subordinazione bisogna riuscire a uscire, sennò non c’è emancipazione. Qui siamo proprio un po’ nel cuore della questione: se non riusciamo a superare questa roba qua, non c’è alcuna possibilità, rimaniamo in una posizione senza speranza. Io vedo un grande scoglio nella questione culturale, nella diffidenza verso il cittadino, tanto più se si dà da fare... Non c’è dubbio. Ancora oggi, emblematicamente, non c’è nessuna corrente che ha capito e che si batte effettivamente per questa cosa. Nello stesso tempo penso che l’unica strada sia quella di mostrare, tramite l’esempio -l’esempio è la cosa più importante- che i risultati ci possono essere e che quindi non c’è niente di male che lo Stato funzioni. Io invito sempre tutti ad andare in Canada, in Australia o in Svizzera e a vedere che le cose possono andare bene, non è necessario che vadano male. Nelle università americane, dove ho lavorato, è tutto all’inverso: sono strutture protese verso l’avvenire. Se tu vai a leggere Tocqueville, lui dice che la logica nostra, cioè europea, francese (lui poi era un nobile francese, quindi conosceva bene il funzionamento della macchina) è di costruire uno Stato "ordinativo”, cioè sottoporre la popolazione a un determinato ordine che nasce dall’alto. La logica del Nuovo mondo è invece "mobilitativa”. Cioè un ufficio pubblico di qualsiasi genere deve cercare di ottenere dei risultati, non deve semplicemente fare quello che gli viene detto di fare. Approfittarsi del diritto è considerato sbagliato: se una norma non funziona, bisogna cercare di fare il meglio possibile, non di cavarsela in nome dell’idea "prima la pelle”. Ovviamente chi si sforza di ottenere il risultato deve essere premiato. Ma in generale nel Nuovo mondo c’è proprio una diversa natura del funzionamento che noi guardiamo un po’ sorpresi. Nel nostro paese siamo abituati a qualche dialogo solo a livello comunale. Infatti i nostri sindaci sono persone che dimagriscono. Cioè si sforzano di fare le cose, anche perché sono sottoposti a un pressione molto forte. Ma via via che si sale s’ingrassa. È così. Ora è chiaro che dobbiamo ripartire da dove possiamo. Per questo è importante fare i conti e cominciare a metterci le mani per migliorare la produttività. Da professore di politica economica la cosa che mi sembra più chiara è che quando le cose vanno male -e nel Sud vanno malissimo- c’è più possibilità di ripresa. Perché se cominci a fare bene, si vede, si assiste a un cambiamento. Questo è il messaggio che io porto avanti con gli uni e con gli altri. Certo, io parto da sinistra perché questa è la mia condizione e la mia tradizione però ho degli allievi che fanno molto bene come destra, come imprenditori, come manager e anche come impiegati pubblici. Una volta avviati su questa strada, c’è molto da camminare naturalmente perché i sistemi federalisti democratici hanno certe caratteristiche che noi nemmeno ci sogniamo. Sono sistemi in cui c’è una logica di tipo cooperativo tra le istituzioni. Figurati: qui si odiano tra una stanza e quella accanto! Hai poca fiducia verso partiti e sindacati... Mi dispiace dirlo, ma il sindacato pretende di difendere l’indifendibile. Non è possibile mandare a fondo il paese. Uno dei miei antagonisti, un sindacalista emiliano, a un certo punto m’ha detto: "Io penso che le piccole imprese del sommerso bisogna distruggerle”. Ho detto: "Va bene, ciao”. Che vergogna. Detto tutto questo, un friccico di speranza c’è sempre perché effettivamente il paese è vivo, c’è una base e qualche elemento culturale interessante, però non molto più di questo... Alla fine lo statalismo prevale. Cioè ci sono gli anarchici che hanno qualcosa da dire però sono troppo indisciplinati, diciamo così. La tradizione della sinistra, sia sindacale sia politica, è messa abbastanza male. Pertanto per ora qui non vedo grandi prospettive. Al contempo vedo che nella realtà queste cose hanno molto senso e quindi se riusciamo a fare dei progressi, a sperimentare... Anche all’interno dei vecchi partiti, dove si assiste a un esaurimento del pathos politico -non sanno più perché sono lì- tuttavia se qualcuno, un giovane, riesce a metterci dentro qualcosa di vivo, le cose si rianimano e diventa di nuovo interessante. Molto importante è sempre questo tema dello sviluppare le capacità. Soprattutto per i giovani. Purtroppo nel sistema politico così come l’ho conosciuto quest’idea non c’è. Cioè non c’è l’idea che il sodalizio possa produrre cultura, capacità, direzione. Anche lì è tutto centralizzato. C’è il capo e poi c’è un sacco di gente che esegue, il che è assurdo. Io cerco proprio di lavorare all’inverso, di creare le condizioni per cui le persone si autonomizzino davvero e riescano a far bene. Tu citi spesso l’Australia... Sto preparando un libro che uscirà ad aprile, è un testo filo australiano in cui ci sarà tutta una parte sul confronto tra l’Italia e l’Australia. Nei paesi del Nuovo mondo quello che notiamo è che all’atto della fondazione, viene trasposta la cultura dell’Europa di quel momento, però siccome le lontananze sono molto grandi, poi il paese deve evolvere per i fatti suoi, cioè senza un vero dialogo con il Vecchio continente. Questo è vero per gli Stati Uniti, per il Canada ed è vero per l’Australia nei primi dell’Ottocento. Quindi l’Australia viene fondata con una cultura di tipo cartista. Il personaggio che ha lavorato su questo e che, tramite Albert Hirschmann, io sono andato studiando, si chiama Louis Hartz, forse il maggior scienziato politico americano del dopoguerra; una figura molto interessante: professore di Harvard, ebbe il coraggio di andare al Congresso e attaccare la guerra del Vietnam e per quello ebbe un sacco di guai. Credo abbia finito la sua vita in Svizzera. Scrisse "The Founding of New Societies. Studies in the History of the United States, Latina America, South Africa, Canada, and Australia”. L’idea di Hartz, come dicevo, è che la cultura del Nuovo mondo viene dall’Europa, ma poi evolve autonomamente. Aggiungo anche che il Labour australiano non era favorevole al federalismo; era contro perché pensava fosse una cosa di notabili, il suo obiettivo era di impossessarsi dello Stato e, con il centralismo, di fare gli interessi degli operai salariati... le solite cose. Ovviamente ci sono state un po’ di difficoltà, però col tempo tutti si sono accorti che con una diversa gestione della cosa pubblica, le cose andavano meglio. Secondo me, la cosa più bella che si vede in Australia è che la gente ci crede veramente. Cioè tu vedi che le persone, invece di cercare di scamparla, hanno il piacere di gestire la cosa pubblica. Per me è stata notevole soddisfazione. Il federalismo in questa tradizione vuol dire più democrazia, più diffusione della gestione. Cioè i gestori sono molti, con la loro responsabilità individuale, e vengono tutti valutati; il sistema è trasparente, perché la contabilità pubblica funziona, quindi tutti conoscono i numeri. Ecco, in un sistema così diventa interessante proprio il fatto che la partecipazione è anche più ovvia: la gente si parla: "Quell’università funziona bene, quell’ufficio funziona bene, l’altro meno”. Noi siamo talmente stomacati di come stanno le cose che non c’interroghiamo nemmeno più. Non sappiamo dove metterci, da dove cominciare... è terribile. Sì, entrare in un ufficio e trovare che le cose funzionano bene può essere un trauma. Già in Canada e negli Stati Uniti io avevo avuto una sorta di shock culturale e anche in Australia ho ritrovato questo piacere del pubblico. L’altra cosa interessante è che questa crescita della democrazia è un processo nel quale uno non nasce "saputo”, come si dice nel Sud. Cioè un immigrato che arriva in Australia non è un federalista democratico, però lo può diventare per fortuna. È anche un processo storico. In Italia, se entri in un negozio ti aspetti di essere trattato da cliente. Se invece entri in un ufficio pubblico ti aspetti di essere trattato da suddito. È così. Invece no, tu sei sempre un cliente. E non è una questione di gentilezza. Certo anche quello è importante. Io mi ricordo che da ragazzino non erano nemmeno gentili. Adesso magari sono gentili però tu capisci subito che non è casa tua. Ma allora questa sovranità del cittadino dove sta? Non c’è. Il paradosso di questo sistema è che il giorno delle elezioni c’è una grande mobilitazione e emozione. Ma alla fine è l’unico giorno nel quale comandi tu, certo relativamente, però senti di fare qualche cosa. Invece, tutti gli altri giorni ritorni ad essere servo di una macchina, che poi è anche irrazionale, non si capisce nemmeno come funziona, è quasi kafkiana. Quello che voglio dire è che oggi è senza dubbio così. Però non è necessariamente così. Tanto più che qui una potenzialità di evolvere, ce l’avremmo, sia sul piano storico sia sul piano costituzionale, perché il Titolo V pone gli enti sullo stesso piano. Il problema del federalismo è farlo, praticarlo e con l’esempio riuscire gradualmente a spiegare a tutti che si può vivere meglio, in maniera più efficiente e anche più giusta socialmente. Tu ricordi che nella tradizione italiana il municipalismo ha radici antiche. Cattaneo s’era innamorato della Lega delle città etrusche. Quando si parla della libertà degli antichi, si fa sempre riferimento all’antica Grecia, eccetera. A parte il fatto che noi eravamo la Magna Grecia, quindi avevamo le leghe delle città greche, con tutti i loro guai, le lotte intestine, eccetera. Ma ancora prima dell’arrivo dei Fenici e dei Greci, con ogni probabilità, l’Italia aveva già questa struttura, e non solo nell’antica Etruria. In Sardegna, a Sassari, adesso hanno scoperto delle grandi statue orientaleggianti, che probabilmente erano collocate nel luogo sacro dove si riuniva la lega delle città sacre. Anche i campani probabilmente avevano questo tipo di organizzazione. Quindi quest’idea di Cattaneo che l’Italia è una cosa costruita in una maniera diversa dall’Europa continentale è una cosa vera. E tu pensa proprio la contraddittorietà tra la Lega e Cattaneo. I leghisti a un certo punto se ne sono usciti con questa cosa del sole delle Alpi, questo fiore dei celti. Ecco, Cattaneo dice che i celti hanno interrotto l’evoluzione italiana per quattro secoli! Comunque la spiegazione di Cattaneo è che siccome la gran parte delle prime popolazioni italiane provengono dal Medio Oriente sono venute via mare. Il punto interessante è che chi arriva via mare ha la tendenza a creare prima la città e poi il contado. Il percorso inverso rispetto alla trasmigrazione dei popoli via terra, per i quali veniva prima la campagna, l’agricoltura, e solo dopo nascevano i villaggi. In fondo, anche Braudel dice che noi siamo il paese delle città. Questo paese ha delle tradizioni molto antiche e radicate. In fondo non dobbiamo inventare niente. Perché allora non giocarci le carte buone che abbiamo? Se poi posso fare un’ultima considerazione, mi compiaccio che alle celebrazioni del 150° Cattaneo, per la prima volta, sia stato accostato agli altri del Risorgimento e invece Vittorio Emanuele abbia fatto un passo indietro. Fonte: www.unacitta.it |