IDENTITA' UMANA E NATURALE

IDEE PER UN SOCIALISMO DEMOCRATICO
L'autogestione di una democrazia diretta


IDENTITA' UMANA E NATURALE

Il problema principale dell'identità umana è quello di come vivere un'esistenza naturale, cioè non forzata da circostanze che inducono a fare scelte non umane. Tra umanità e naturalità la differenza dovrebbe essere minima.

Se gli esseri umani vivessero secondo natura, non sarebbero costretti a cercare nell'eccesso, nell'estremo o nel paradosso il significato della loro vita. Infatti la cosa più sintomatica di questa mancanza d'identità è proprio la ricercata diversità con cui si vuol vivere. L'ansia di protagonismo, cioè il voler essere disperatamente qualcuno, è indice di sicura alienazione.

Se gli sforzi che si fanno per affermare il proprio individualismo fossero indirizzati verso la preservazione dello stile di vita comunitario, probabilmente non esisterebbero contraddizioni antagonistiche, ma solo problemi da risolvere.

La tragedia dell'uomo civilizzato è quella di non riuscire a essere se stesso, è quella di cercare continuamente un modo per affermare la propria individualità contro l'individualità degli altri. Il risultato è che ognuno si trova a vivere un ruolo che le circostanze gli impongono. Per poter emergere si finisce con l'assumere dei comportamenti innaturali, eterodiretti, troppo eccessivi per essere veri.

Gli uomini non hanno ancora risolto il problema di come superare questa alienazione tipica delle civiltà antagonistiche. Probabilmente perché non hanno risolto alla radice problemi come il dominio della proprietà privata, lo sfruttamento del lavoro altrui, il saccheggio delle popolazioni tecnologicamente e soprattutto militarmente più deboli, l'esigenza di scatenare guerre senza fine quando l'affermazione di sé viene messa in forse.

L'uomo deve imparare a sentirsi libero di fronte alle cose e soprattutto deve imparare a lottare per salvaguardare il senso di umanità che è in lui e il contesto naturale che è al di fuori di lui. Qualunque opera di ricostruzione dell'identità umana che non tenga conto delle esigenze della natura, è destinata sicuramente a fallire. L'uomo è parte della natura, è un soggetto di natura e tutto ciò che viola le leggi della natura mina la stabilità del consorzio umano.

Quando usiamo il concetto di "storia" in riferimento alla sola "storia delle civiltà", considerando la "preistoria" con distaccata superiorità, non ci rendiamo conto che la storia è solo la storia di vari tentativi in cui i fallimenti sono infinitamente superiori ai successi, mentre la preistoria è la storia di una realtà.

Bisognerebbe convincersi che il problema dell'identità umana può avere solo due vie percorribili: o esiste un'unica storia dell'uomo in cui risulta chiaro che i modelli di vita sono sempre stati basati su due uniche alternative: proprietà collettiva o proprietà privata, condivisione o separazione dei beni ecc., con conseguenze ovviamente diverse, per cui, nella consapevolezza di ciò, gli uomini sono tenuti ad assumersi determinate responsabilità; oppure è meglio precisare subito che la storia di cui si parla è soltanto quella di una determinata civiltà, basata sull'antagonismo e sulla sperequazione dei beni, ovviamente secondo forme e modi differenti, e che il concetto di "preistoria" è stato elaborato da queste civiltà per indicare uno stile di vita rozzo e primitivo.

Se si ponessero dei paletti del genere forse comincerebbe ad avere un senso la storia come "scienza dell'uomo". Studiare la storia infatti dovrebbe voler dire analizzare le condizioni in cui l'uomo può essere se stesso e cercare di capire le motivazioni per cui spesso preferisce non esserlo o non gli riesce di esserlo (cioè a prescindere dalla consapevolezza che può avere del problema).

Lo studio della storia dovrebbe partire da un'esigenza morale e politica, strettamente legata al presente, in quanto qualunque studio della storia che non aiuta a capire e a migliorare il presente, non serve a nulla. Il passato va visto in funzione del presente, anche se il presente non può pretendere, solo perché presente, di essere migliore del passato o di poterlo giudicare. Oggi anzi siamo assolutamente convinti che il presente debba recuperare qualcosa che si trova nel passato e che i nostri ritardi rendono sempre più lontana.

L'uomo deve ritrovare, nella consapevolezza del male che lo caratterizza, la cosiddetta innocenza perduta. Questo compito, di una complessità eccezionale, può essere affrontato e risolto solo con la sforzo congiunto di tutti gli uomini.

Forse qualcuno può obiettare che non c'è bisogno di studiare il passato per risolvere i problemi del presente. Certo, il passato, di per sé, non può (e non deve) offrire la soluzione dei problemi del presente, tuttavia gli uomini non possono fare a meno della memoria storica (tradizione, senso comune, valori...), che si trasmette attraverso le generazioni. Pensare di poter fare a meno di questa linfa vitale, significa condannarsi a ripetere sempre gli stessi errori.

IL CONCETTO DI INNOCENZA

E' difficile dire che cos'è l'innocenza. Se guardiamo i bambini dovremmo dire che è mancanza di consapevolezza del male. Ma questo non significa che il male non venga compiuto.

I bambini agiscono d'istinto, in maniera analoga agli animali, e solo se c'è qualcuno che insegna loro la differenza tra bene e male, riescono ad acquisirla. Capiscono la presenza del male dal fatto che a causa di talune loro azioni, prevalentemente connesse all'uso delle cose, altri, come conseguenza, soffrono. In tal modo associano bene a piacere e male a dolore. Ma non riescono certamente ad associare piacere individuale a male quando tale piacere è fonte di dolore altrui.

L'etica dei bambini ha senso quando il dolore altrui è momentaneo o quando al dolore si possono trovare facilmente delle alternative. Infatti, nel momento stesso in cui l'adulto interviene per insegnare come comportarsi, allora l'etica dominante non è più quella infantile. D'altra parte è impossibile che esista un'etica infantile senza la presenza di un'etica adulta.

E' comunque molto difficile dare una definizione positiva di innocenza, poiché si è sempre compartecipi, a vario titolo, lo si sappia o no, di processi i cui meccanismi regolatori spesso ci sfuggono o non riusciamo a controllare come vorremmo.

Si può soltanto parlare di gradi diversi di colpevolezza, e anche di gradi diversi di consapevolezza della colpa. Come noto, infatti, la colpa è soggettiva e oggettiva (che non è la stessa cosa di volontaria e involontaria: oggettivamente, in quanto appartenente all'Europa occidentale, io partecipo allo sfruttamento del Terzo mondo, e vi parteciperei anche se aderissi, soggettivamente, al commercio equo e solidale, proprio perché esistono dei processi industriali e commerciali di dipendenza che non vengono modificati dalla mia volontà personale).

Il processo meno oneroso, alla lunga, è quello di ammettere una parte di colpa: se tutti sono capaci di autocritica è più facile risolvere i problemi. Dichiararsi sempre innocenti e scaricare su altri la parte delle proprie colpe, porta a incancrenire i problemi, poiché nessuno è in grado di sopportare un peso eccessivo di colpa. Distribuire i pesi della colpa: ecco il senso della democrazia.

Resta comunque singolare che mentre nel mondo infantile la stragrande maggioranza dei casi di conflitto dipenda dall'uso delle cose, nel mondo degli adulti, oltre al problema dell'uso, c'è anche quello della proprietà.

Nei bambini uso e possesso sono equivalenti, nel senso che uno presuppone l'altro; nel mondo degli adulti invece il possesso diventa proprietà, sicché uso e proprietà sono reciprocamente indipendenti.

Il concetto di proprietà privata ha sconvolto i rapporti umani e sociali. Da quando sono nate le civiltà possesso non è equivalente a proprietà; il possesso permette l'uso del mezzo di lavoro, ma chi detiene la proprietà del mezzo, può togliere possesso e uso. Chi non ha proprietà usa le cose come se gli fossero date in prestito, senza garanzia di possederle fino alla morte.

La proprietà è dunque la conseguenza principale di un rapporto di forza, che da un lato assomiglia all'arbitrio di un bambino, ma che di fatto viene compiuto da un adulto.

Chiunque difenda la proprietà lo fa per difendere un interesse privato. Non ci può essere innocenza in questo.

L'unica proprietà difendibile è quella pubblica, ma una proprietà pubblica è una non-proprietà, è un patrimonio comune, a disposizione di tutti, come dovrebbe essere per le risorse della terra, il cui proprietario è il nostro stesso pianeta, di cui noi siamo ospiti a tempo determinato.

Solo in presenza di una proprietà comune esiste la libertà del possesso e dell'uso. Il concetto di proprietà privata rende di per sé sbagliato l'uso delle cose. Il fine, nell'uso delle cose, non è l'interesse comune, ma quello privato o individuale.

Una proprietà è comune quando appartiene a una collettività locale, in grado di controllare che nessuno trasformi una parte di essa in proprietà privata.

In presenza della proprietà privata, qualunque istituzione (Stato, esercito, scuola ecc.) fa interessi privati, anche quando dice o appare il contrario. Infatti, quanto più forti e diffuse e diversificate sono le forme della proprietà privata, tanto più si cerca di mistificarle con istituzioni che di pubblico hanno solo la parvenza, la forma esteriore.

In realtà tali istituzioni servono soltanto, nel migliore dei casi, a difendere la piccola proprietà privata contro la grande. E in genere la grande tende sempre a ridurre gli spazi di manovra della piccola, proprio servendosi delle stesse istituzioni. Dipende, dei due piatti della bilancia: Stato e Mercato, quale si vuol far pesare di più.

ESSERE QUEL CHE SI E'

L'evoluzione sembra di per sé escludere un "cominciamento" specifico per l'essere umano. Ed è per questo che viene particolarmente osteggiata dai credenti, i quali però oggi non negano che i passi biblici relativi alla creazione non possano essere interpretati alla lettera. Oggi per fortuna non ha più senso la diatriba su come interpretare la famosa creazione in sei giorni del Genesi.

Resta tuttavia aperto il problema (tant'è che anche la scienza parla di "anello mancante") su come sia stata possibile un'evoluzione dal mondo animale a quello umano. Infatti, anche guardando l'evoluzione delle scimmie e, anche considerando che tra il nostro e il loro Dna le differenze si riducono soltanto al 2%, resta difficile credere che l'essere umano provenga completamente da questo genere di animale. Basta guardare il semplice fatto che le scimmie hanno una grande paura dell'acqua, mentre noi invece ne siamo attratti in maniera irresistibile.

Più che discendere da un'unica specie, quella umana sembra essere la sintesi di molte specie animali. La scimmia, p.es., non desidera volare come gli uccelli; noi sì. I pesci non desiderano uscire dall'acqua; noi sì. Questo per dire che se anche diamo per scontata l'evoluzione, i conti alla fine non tornano perfettamente.

C'è qualcosa di troppo diverso tra l'uomo e l'animale. E questa cosa non può essersi formata semplicemente sulla base di progressivi mutamenti di forma, cioè sulla base di molteplici determinazioni quantitative. Oggi, p.es., diamo per scontato che l'essere umano proviene da un unico ceppo, nonostante svariate differenze somatiche.

Infatti, se guardiamo gli abitanti di una qualunque parte del pianeta, ci accorgiamo che sono sostanzialmente uguali, cioè tutti sono di gran lunga superiori a qualunque tipo di animale. Tutti, previo addestramento, sono in grado di fare tutto.

Per quale ragione non esiste una specie animale simile a quella umana? Cioè per quale ragione l'evoluzione dalla quantità alla qualità ha riguardato solo una delle tante specie animali? Certo, dai felini più feroci della preistoria, la natura è arrivata a produrre il gatto, ma le differenze sono rimaste di forma: l'evoluzione non ha riguardato cambiamenti di sostanza. Pur essendo passati milioni di anni, le cose che sa fare un felino sostanzialmente sono le stesse: cacciare, dormire, leccarsi, riprodursi ecc.

L'essere umano è qualcosa di completamente diverso, nella sostanza, da qualunque essere animale. E quando diciamo "completamente" non lo intendiamo in riferimento all'aspetto fisico, benché anche qui le differenze non siano di poco conto (basta p.es. guardare l'andatura eretta o il volume del cervello), quanto piuttosto in relazione all'aspetto "meta-fisico", cioè a quanto va oltre l'aspetto visibile.

Oggi è difficile mettere in discussione l'idea di "evoluzione" o di "progresso materiale della natura", e tuttavia, guardando l'essere umano, vien quasi da pensare che l'evoluzione abbia trovato il suo compimento proprio in questa particolare "specie animale", nel senso che ogni ulteriore sviluppo delle cose materiali e formali sembra dover dipendere unicamente dallo stesso essere umano.

A tutt'oggi non c'è alcun altro animale che possa contrastare il primato dell'essere umano in natura. L'unico vero nemico dell'uomo, l'unico a poterlo distruggere, sembra essere l'uomo stesso. Solo con lo sviluppo dell'essere umano è sorto il rischio dell'autodistruzione. Una cosa di questo genere, che è sommamente innaturale, al punto che la stessa natura ne subisce le conseguenze e cerca di difendersi come meglio può, non può essere il frutto di alcuna evoluzione, né semplice né complessa (almeno non di quelle che comunemente conosciamo).

Nella specie umana sono presenti degli aspetti "meta-fisici" del tutto sconosciuti agli animali. Infatti, nessun animale ha mai avuto e probabilmente mai avrà il coraggio di sentirsi superiore alla natura. Dunque, per quale motivo quando noi avvertiamo questa sensazione, finiamo con l'autodistruggerci? Non è forse una contraddizione che mentre da un lato ci sentiamo superiori a qualunque tipo di animale e persino della stessa natura, dall'altro invece rischiamo di non riuscire ad essere neppure noi stessi?

La domanda cui oggi dovremmo cercare di rispondere è dunque la seguente: in che maniera possiamo sentirci superiori alla natura senza rischiare di distruggerla e senza rischiare di distruggere noi stessi?

Fino ad oggi infatti l'essere umano ha cercato di dimostrare la propria superiorità in maniera fisica o materiale: ha edificato costruzioni di ogni genere, ha costruito, distrutto e ricostruito, ha modificato radicalmente gli ambienti naturali, li ha devastati, desertificati, abbandonati a se stessi dopo averli spogliati di tutte le loro risorse.

Ora, c'è un modo di dimostrare la nostra superiorità rinunciando a comportamenti del genere? Il modo dobbiamo cercarlo in quel medesimo aspetto "meta-fisico" che fino ad oggi ci ha permesso di dominare usando la forza e la violenza. Questo aspetto è la coscienza. Dobbiamo sviluppare la coscienza interiore, e dobbiamo farlo in maniera collettiva, poiché l'essere umano è sociale per definizione.

Dobbiamo ridefinire il concetto di "umanità", partendo da un rapporto equilibrato con la natura. Se riusciamo a trovare l'equilibrio perduto, riusciremo anche a essere noi stessi, a vivere senza distruggerci.

Ma per fare questo occorrono almeno tre cose:

  1. vivere in mezzo alla natura, recuperando quindi le aree abbandonate dalle società antagonistiche;
  2. fare in modo, in maniera collettiva, che queste aree garantiscano la sopravvivenza, cioè l'autoconsumo;
  3. difendere queste aree dai condizionamenti esterni e mettere il significato e le modalità della loro gestione a disposizione di chi le vuole riprodurre altrove.

Quale scienza può esserci utile per realizzare questo progetto? Quella primitiva, quella anteriore alla nascita delle civiltà antagonistiche, quella che ancora oggi si trova nelle comunità meno accessibili all'uomo contemporaneo, schiavo della scienza e della tecnica, del profitto e dell'amministrazione statale, del potere dei partiti e delle religioni...

Tutto il resto non serve a nulla. Dobbiamo uscire dal concetto di "civiltà" per entrare in quello di "natura"; dobbiamo uscire dal concetto di "storia" per tornare alla preistoria. Solo così riusciremo a capire cosa significa "essere quel che si è".

SULLA DIGNITÀ UMANA

Qualunque contraddizione del mondo capitalistico, che offenda pesantemente il valore della dignità umana, verrà sempre considerata da ogni religione come un’occasione per riaffermare i propri superati princìpi.

Questo è stato uno dei motivi per cui dopo la grandezza tecnico-scientifica del mondo greco-romano si è imposto l’arretrato Medioevo, che però dal punto di vista etico-sociale aveva un’alternativa più convincente da offrire alle masse popolari. Con la nascita del Medioevo la storia ha in un certo senso dimostrato che laddove si dà più peso alle questioni che meno riguardano la dignità umana, il progresso volto a recuperare tale dignità non necessariamente terrà conto di quello tecnico-scientifico.

I due progressi ovviamente non si escludono a vicenda: non esiste uno stretto rapporto di causa/effetto. Tuttavia la storia ha dimostrato che un qualche rapporto esiste e che, in definitiva, le civiltà migliori non sono state quelle che hanno prodotto opere “esteriori”, “quantitative”, ma quelle che hanno prodotto opere “spirituali”, riferite direttamente alla grandezza dell’animo umano.

Forse la storia ha voluto insegnarci che chi si preoccupa di coltivare l’interiorità umana e di sviluppare la capacità di fare il maggior bene possibile alla gente, non ha il tempo materiale per dedicarsi ad altro. L’edificio più solido che l’essere umano può costruire poggia su fondamenta invisibili, che solo con uno sguardo interiore possono essere individuate.

Ecco perché si deve cercare di restare coerenti col bene essenziale che si predica a parole. Quando tale coerenza viene meno, a causa della complessità della vita pratica e materiale, è bene fermarsi e ricominciare dai rapporti più semplici, più spontanei e genuini.

In questo modo peraltro si eviterà che la religione approfitti della situazione per fare propaganda di se stessa. Il Medioevo sarebbe stato sicuramente migliore senza il servaggio e il clericalismo.

QUANDO LA DIVERSITÀ AIUTA L’IDENTITÀ

L’educazione ai “diritti umani” nella società multiculturale non è forse un modo astratto di porre la questione dell’integrazione culturale?

I “diritti umani” prevalenti in questo momento a livello internazionale non sono forse quelli formulati nell’area delle società occidentali (o comunque sottoposte all’influenza della civiltà capitalistica)?

Normalmente noi riteniamo sia sufficiente rispettare tali “diritti” per garantire l’esistenza e lo sviluppo della società multiculturale. Ma siamo sicuri che l’equazione sia così scontata?

Lo stesso concetto di “diritti umani” non è forse nato nell’ambito della cultura occidentale? Chi ci dice ch’esso sia sufficiente per valorizzare le “culture altre”?

Perché non dovremmo pensare che da un’effettiva integrazione culturale potrebbe anche emergere una nuova formulazione del concetto di “diritti umani”, se non addirittura un suo superamento?

Il diritto infatti, se praticato, garantisce il rispetto della “diversità”, ma di per sé non favorisce il processo integrativo delle diverse culture.

Peraltro il diritto riuscirebbe a garantire l’effettivo rispetto delle diversità culturali solo se la sua formulazione fosse il frutto di un processo integrativo già in atto, in cui tutte le parti in causa vengono considerate paritetiche, equivalenti. Il che, a tutt’oggi, non è.

Se esistesse un processo di questo genere, il diritto perderebbe buona parte della sua ragion d’essere. Le diverse culture si garantirebbero il reciproco rispetto proprio perché si sentirebbero inscindibilmente unite. Il rispetto, in tal caso, non potrebbe mai essere formale (come spesso invece accade nell’ambito del diritto).

Quando non c’è rispetto, è perché manca la disponibilità all’integrazione, e quando manca tale disponibilità, non c’è diritto che possa favorirla.

Per favorire l’integrazione occorre capire che la “diversità” non è una minaccia all’identità, ma una possibile ricchezza. Anzi, si potrebbe addirittura dire che l’identità si pone tanto più in essere quanto più accetta la diversità.

Per capire quale diversità va accettata e quale no, bisogna sempre fare riferimento ai bisogni umani. L’identità e la diversità sono positive quando rispondono alle esigenze umane fondamentali della vita.

Per rispondere a queste esigenze occorre non tanto il diritto quanto la disponibilità a considerare la propria identità strettamente correlata all’identità altrui. E questo non è un processo che avviene automaticamente, soprattutto quando da secoli siamo abituati a considerare la nostra civiltà come un modello paradigmatico per tutte le altre.

SULLA FINZIONE

La finzione si smaschera da sola o comunque essa, col tempo, si rivela per quello che è: una fonte di comportamenti irrazionali, incontrollabili. Gli uomini non possono sopportare oltre un certo limite la mancanza di unità, di verità, di libertà personale.

Naturalmente perché la finzione di smascheri, occorre che la coscienza del valore del rapporto umano si faccia valere e non si lasci ingannare dalle apparenze, dalle illusioni, dai trucchi di chi si nasconde per timore della verità.

Che l'alienazione, prima o poi, porti all'irrazionalismo, è certo, ma che dall'irrazionalismo, per reazione, possa sorgere una vera esperienza di liberazione, nessuno può negarlo. Che "possa" non significa che "debba" per forza sorgere. Si può anche pensare che il capitalismo sia destinato a crollare, ma non si deve pensare che il socialismo sia destinato a sostituirlo. Il crollo del capitalismo sarà frutto dell'alienazione umana, ma la nascita del socialismo dovrà essere il frutto di una volontà positiva, costruttiva (altrimenti il socialismo non sarà che una riedizione, riveduta e corretta, del vecchio capitalismo, come la servitù della gleba fu una riedizione del precedente schiavismo). Il rapporto umano infatti non può essere soltanto semplicità e trasparenza, ma anche consapevolezza e responsabilità, cioè maturità collettiva, sociale.

* * *

La nostra è la civiltà dell'apparenza e della finzione. Ad es. nel settore degli spot televisivi vi sono, in genere, per ogni prodotto reclamizzato tantissimi altri prodotti di qualità equivalente, se non superiore, che pochi conoscono e che non si acquistano appunto perché non sono pubblicizzati, mentre il costo di quelli che lo sono viene direttamente pagato dall'acquirente.

Quello che manca è la sostanza delle cose, la qualità della vita: tutto viene mascherato dalle parole o dalle immagini (l'abbigliamento, l'abitazione, i mezzi di trasporto o del tempo libero, ecc.). Ciò che più inganna però sono le parole, poiché queste arrivano alla coscienza, mentre le immagini colpiscono i sensi, le emozioni. Le parole sono lo strumento per eccellenza degli intellettuali borghesi, grazie al quale essi possono nascondere i loro bassi istinti (cupidigia, ambizione, narcisismo).

Perché dunque dobbiamo continuamente fingere di essere diversi da quello che siamo? È difficile dare una risposta univoca. Se uno è bisognoso di tutto in una società dove si vuole far credere che la maggioranza sia facoltosa, e se è pure così ingenuo da credere a quello che gli dicono, allora proverà vergogna del suo stato e cercherà di nasconderlo. Se un altro vive in una società in cui i valori dominanti sono, oltre all'opulenza, il successo e la carriera, l'opportunismo che permette di realizzare l'uno e l'altra, l'astuzia che abilita a evadere il fisco e a derubare il prossimo, l'ambizione sfrenata che serve per guadagnarsi un prestigioso ruolo direttivo - è evidente che se i valori sono questi, chi non riesce a conseguirli e non ha neanche la capacità di metterli in discussione, si sentirà un "diverso" e se ne vergognerà.

La finzione quindi ci serve per coprire un vuoto che abbiamo non solo nei confronti della società borghese, ma anche nei confronti di un'alternativa a questa società. La finzione viene a supplire non solo il nostro fallimento di "cittadini borghesi", ma anche il nostro fallimento di "uomini". Molti sono incapaci non solo d'essere egoisti, ladri e bugiardi, ma nella loro vita privata e sociale non sanno neppure costruire quella trama di rapporti all'interno della quale sia già possibile superare i limiti dell'egoismo, del furto e della menzogna. E' assurdo giustificare questa incapacità totale di vivere l'alternativa, rifugiandosi dietro al pretesto che le istituzioni non permettono di realizzarla.

È fuor di dubbio, in effetti, che se le istituzioni borghesi, di per sé, non sono capaci di alcuna alternativa e neppure vogliono sentirne parlare, è altrettanto vero ch'esse non hanno mai avuto e mai avranno la forza d'impedire in modo assoluto che ne possa sorgere qualcuna. Gli ostacoli politici, amministrativi, economici o di altra natura servono proprio a discriminare le vere dalle false alternative. Spesso s'incontrano degli individui che non cercano un'alternativa non perché non ne avvertano il bisogno, ma solo perché temono d'essere considerati dei frustrati, degli emarginati, temono cioè di sentirsi dire che cercano le "idee" perché non hanno trovato i "soldi". E così, nell'incertezza, essi non hanno né il coraggio delle idee né la viltà dei soldi. Ebbene, a costoro bisogna energicamente affermare che qualunque ritardo nella realizzazione dell'alternativa comporta sempre delle conseguenze drammatiche, di fronte alle quali nessuno poi avrà il diritto di dire: "Che colpa ne ho?".

IL SENSO DELLA MEMORIA

La memoria che un tempo veniva coltivata con la parola scritta e oggi coi CD-Rom ha la stessa funzione della memoria che millenni fa si coltivava con la trasmissione orale?

In altre parole: oggi abbiamo bisogno di mezzi potentissimi per memorizzare l'immane conoscenza accumulata nel corso dei secoli, ma è davvero questa la memoria di cui abbiamo bisogno per sentirci "vivi"?

Quando la trasmissione della memoria era solo orale, c'erano poche nozioni oppure ce n'erano a sufficienza per sentirsi "vitali"?

La realizzazione di sé dipende veramente dalla possibilità di accedere in poco tempo a una quantità infinita di conoscenze?

Non stiamo forse rischiano un neo-illuminismo cybernetico?

Se le conoscenze di cui disponiamo non hanno virtualmente limiti, come potremo sapere con sicurezza quando avremo trovato quelle indispensabili per l'autorealizzazione?

Una volta gli esseri umani conoscevano di meno ed erano più felici perché ingenui, sprovveduti? Noi invece siamo più felici perché possiamo sapere subito ciò che ci serve? Le cose stanno davvero così?

E soprattutto: siamo davvero sicuri che le conoscenze di cui possiamo disporre siano di per sé sufficienti a garantire una loro applicazione e, in particolare, una loro applicazione positiva?

Non rischiamo forse di veder aumentare lo stress quando di fronte a tante possibilità cognitive (virtuali), l'esperienza pratica rimane priva di risorse adeguate, cioè senza un reale potere di gestione della conoscenza?

In una parola, la memoria è una facoltà meramente tecnica o è una qualità dello spirito? è un fenomeno che riguarda il mero apprendimento individuale o è il principale deposito delle esperienze vitali di una collettività?

Possono l'informatica, la cibernetica, la telematica... aiutarci a recuperare, in maniera reale e non virtuale, il senso di una collettività perduta?


Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Politica - Socialismo democratico
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Aggiornamento: 11/12/2018