Il filo rosso da Machiavelli a Clausewitz

IDEE PER UN SOCIALISMO DEMOCRATICO
L'autogestione di una democrazia diretta


I RAPPORTI DI FORZA
Il filo rosso da Machiavelli a Clausewitz

Roberto Sidoli

A molti secoli e a migliaia di chilometri di distanza dall’India di Kautilya, la tematica dei rapporti di forza trovò una nuova fonte di elaborazione nell’opera di un esperto protagonista della pratica politica, il fiorentino N. Machiavelli, che può essere considerato a pieno titolo il fondatore del pensiero politico occidentale moderno visto che il suo asse di pensiero rappresentò una radicale rottura con le coordinate politiche generali del Medioevo e con una tradizione millenaria.

La “rivoluzione machiavellica” maturò in una situazione storica europea caratterizzata dallo sviluppo delle forze produttive e della scienza, dall’introduzione della stampa e della polvere da sparo, dal rinascimento delle arti e della cultura, dalla formazione in Francia, Spagna e Inghilterra dei moderni stati nazionali e dalla conquista delle Americhe, dopo la spedizione di Colombo del 1492. Venne inoltre preparata a livello culturale dall’ampia diffusione in Europa dell’opera di Marsilio da Padova, il Defensor pacis (1326), che elaborò una rappresentazione moderna dello Stato costituzionale, privo di natura provvidenziale-religiosa ed in grado di esercitare la sua sovranità attraverso la Legge, intesa come prodotto giuridico-politico della sola pratica umana, alimentandosi e riflettendo retrospettivamente sia sull’esperienza del governo democratico fiorentino di Savonarola che sulle feroci lotte politiche sviluppatesi nella Romagna ed in Toscana durante la seconda metà del secolo: fino a quell’intervento delle potenze spagnole e francesi che, a fine Quattrocento, pose fine all’equilibrio bilanciato che esisteva da alcuni decenni tra stato vaticano e repubblica veneziana, regno di Napoli, Firenze e lo stato milanese dei Visconti.

Machiavelli svolse per anni un ruolo di protagonista di alto livello della vita politica italiana in qualità di segretario della seconda Cancelleria della segreteria della Repubblica fiorentina, una specie di ministero della guerra e degli interni, dal 1494 fino al 1512: anche in base all’esperienza personale acquisita sul campo, la sua opera storico-teorica cercò di fornire una visione complessiva propedeutica per ogni progetto politico teso all’acquisizione-riproduzione del potere politico statale in un’epoca di transizione, in cui contemporaneamente entrò in crisi la struttura della città-stato e viceversa si affermò la necessità di un nuovo involucro politico, lo stato-nazione, intesa come forma statuale vincente per i processi di accumulazione di forza in campo politico, militare ed economico.[1]

L’analisi storico-politica di Machiavelli non rimase certo staccata dalla realtà italiana, ma venne anzi finalizzata a stimolare sul piano intellettuale e politico-generale un possibile processo di unificazione politica italiana sulla falsariga di altre grandi nazioni europee quali Francia, Gran Bretagna, Spagna, liberando contemporaneamente la penisola dal dominio straniero (“a ognuno puzza questo barbaro dominio”): nonostante il fallimento del progetto di Machiavelli, la sua opera fondamentale (Il principe) ottenne un grande successo postumo su scala europea: Gramsci notò che «Carlo V lo studiava. Enrico IV pure Sisto V ne fece un sunto. Caterina de Medici lo portò in Francia e se ne ispirò forse per la lotta contro gli Ugonotti e la strage di San Bartolomeo. Richelieu…», eccetera. Cioè Machiavelli servì realmente gli stati assoluti nella loro formazione, perché era stato l’espressione della “filosofia dell’epoca, europea più che italiana”.[2]

In sostanza il manifesto politico, “l’utopia rivoluzionaria” (Gramsci) del teorico toscano non ricercò solo la conoscenza delle leggi della storia e della politica, ma divenne la “formulazione di un problema politico concreto”, secondo la definizione sostanzialmente corretta di L. Althusser, tentando di risolvere concretamente il problema insolubile (agli inizi del Cinquecento) dell’unità nazionale italiana.[3]

La ricerca di strumenti d’azione concreti portò Machiavelli a fondare una teoria della “ragione di stato”, intesa sia come rifiuto preventivo del carattere vincolante di ogni norma morale e/o religiosa corrente che come costruzione di una scala di priorità politico-sociale in cui l’obiettivo superiore era l’interesse del soggetto egemone e del “principe” ai vertici dello stato, rigettando pertanto a priori la tradizionale subordinazione di stampo medievale della politica alla teologia e facendo in modo che la gestione degli affari comuni della società conquistasse nella sua opera un indiscusso primato sulla sfera religiosa e morale.

Sono sufficientemente noti i cardini della ragione di stato espressi nelle “pagine maledette” di Machiavelli, nel Principe come nei Discorsi sulla prima Decade di Tito Livio.

Il primato della paura sul consenso nei rapporti tra subordinati e dirigenti politici e l’utilizzo combinato di forza e astuzia da parte del “principe” nella lotta per la conquista-riproduzione del potere, (la “golpe” e il “lione”); il pieno diritto a violare trattati, parole date, giuramenti a seconda della convenienza (quando “l’osservantia li torni contro”); la “sanatoria generale” che la vittoria produce sulle eventuali ripercussioni politiche nate dall’utilizzo spregiudicato di mezzi e tattiche “criminali” rappresentano solo alcuni elementi degli spunti di Machiavelli che riproducono in modo originale regole politiche amorali già prescritte da Kautilya e Sun Tzu.

Inoltre Machiavelli descrisse a più riprese l’importanza della potenza militare nella sfera politica e nella sua visione del mondo la superiorità nell’utilizzo della violenza nel corso degli scontri politici e internazionali assunse il ruolo decisivo di un particolare diritto della forza, capace di produrre sia potere che consenso. «Perché uno principe debbe avere dua paure: una dentro, per conto de’ sudditi; l’altra di fuora, per conto de’ potentati esterni. Da questa si difende con le buone arme e con li buoni amici, e sempre se arà buone arme, arà buoni amici.»[4]

Su questa solida base emergono le novità introdotte da Machiavelli nella teoria generale dei rapporti di forza e che riguardano principalmente quattro aspetti specifici.

In primo luogo la dialettica tra bisogno e paura venne descritta (in modo ancora frammentario) come una doppia spada di Damocle che accompagna inevitabilmente la pratica politica del “principe”, dei dirigenti politici e delle masse popolari in genere, costituendo una costante storica che produce effetti diversi seconda del mutevole gioco delle forze in campo.

Effetto paralizzante, se la correlazione di forze viene percepita come sfavorevole. In un passo famoso sui “profeti”, sui rivoluzionari che “introducono” nuovi sistemi di governo e di potere egli notò che «perché lo introduttore ha per nimici tutti quelli che delli ordini vecchi fanno bene, et ha tepidi defensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbono bene. La quale tepidezza nasce, parte per paura delli avversari, che hanno le leggi dal canto loro, parte dalla incredulità delli uomini; li quali non credano in verità le cose nuove, se non ne veggono nata una ferma esperienza. Donde nasce che qualunque volta quelli che sono nimici hanno occasione di assaltare, lo fanno partigianamente,» (con accanimento) «e quelli altri defendano tepidamente; in modo che insieme con loro si periclita».[5]

Le “leggi” non sono altro che la terminologia usata da Machiavelli per indicare la forza d’urto dell’autorità e della tradizione di dominio degli “ordini vecchi” del potere costituito, che produce un’inevitabile paura collettiva della rappresaglia dei privilegiati in coloro che “assaltano il cielo” e simpatizzano per la causa rivoluzionaria: anche l’”incredulità” popolare a suo avviso viene generata politicamente dalla stessa causa, dalla mancanza di fiducia nella stabilità e capacità di riproduzione delle “cose nuove” e delle nuove forme di potere.

Il passo in oggetto tradusse in forme generali le lezioni teoriche prodotte in Machiavelli dalla esperienza politica di Savonarola, un frate domenicano che divenne il principale ispiratore dell’effimera forma di governo popolare sorta a Firenze dopo la caduta del regime dei Medici negli ultimi anni del ’400. Sotto forme religiose e pauperistiche, Savonarola aveva aiutato a scatenare delle lotte di classe di notevole intensità contro i privilegi socio-economici detenuti dall’élite fiorentina, composta principalmente da banchieri e grandi mercanti, ma l’instabilità del sostegno popolare a suo favore e la debolezza politico-militare del nuovo gruppo dirigente segnarono la sua rovina e furono da Machiavelli contrapposte alla potenza d’urto reale espressa dalla reazione vittoriosa dei poteri dominanti fiorentini e vaticani, per breve tempo minacciati nei loro interessi socio-economici da riforme come l’eliminazione dell’usura, la modifica a loro sfavore del sistema fiscale e la costituzione di un nuovo banco dei pegni.[6]

Degne di nota furono anche le intuizioni di Machiavelli sull’importanza della categoria politica di nemico principale, all’interno delle relazioni e della politica internazionale.

Infatti la tattica espressamente consigliata da Machiavelli ad uno stato capace di conquistare una nuova area geopolitica era quella di allearsi ai soggetti politici più deboli della regione contro l’antica e temuta potenza dominante, utilizzando l’ostilità dei primi (i “vicini minori potenti”) contro la seconda per creare un fronte di alleanze in grado di isolare ed indebolire il nemico comune: anche in questo campo Machiavelli prese spunto da un’esperienza storica concreta, dall’ascesa (e declino) di Cesare Borgia, che alla fine del XV secolo tentò di unificare l’Italia centrale utilizzando i mezzi materiali messi a sua disposizione dal papa Alessandro VI, padre dell’aspirante “principe”.

«Debbe ancora chi è in una provincia disforme, come è detto, farsi capo e defensore de’ vicini minori potenti, et ingegnarsi di indebolire e’ potenti di quella, e guardarsi che per accidente alcuno non vi entri uno forestiere potente quanto lui. E sempre interverrà che vi sarà messo da coloro che saranno in quella mal contenti, o per troppa ambizione o per paura; come si vidde già che li Etoli missono e’ Romani in Grecia; et in ogni altra provincia che li entrorono, vi furono messi da’ provinciali. E l’ordine delle cose è, che subito che uno forestiere potente entra in una provincia, tutti quelli che sono in essa men potenti li aderiscano, mossi da invidia hanno contro a chi è suo potente sopra di loro: tanto che, respetto a questi minori potenti, lui non ha a durare fatica alcuna a guadagnarli, perché subito tutti insieme fanno uno globo col suo stato che lui vi ha acquistato.»[7]

Per Machiavelli l’altro lato della medaglia consisteva nell’imperativo politico teso a non fare mai assumere ad uno stato il ruolo di antagonista principale di tutta una serie di soggetti politici, evitando in tal modo di catalizzare contro di sé l’ostilità degli stati confinanti contro la nuova “minaccia formidabile”: regola desunta anche dalla sconfitta subita da Venezia nel 1508 ad opera di una potente ed eterogenea coalizione di nemici minacciati dalle tendenze egemoniche ed espansionistiche della repubblica veneta, alleanza che rischiò di porre termine alla stessa esistenza politica autonoma dello stato lagunare.

«Crederrei bene che a fare una repubblica che durasse lungo tempo, fusse il modo ordinarla dentro come Sparta o come Vinegia, porla in luogo forte e di tale potenza che nessuno credesse poterla subito opprimere e dall’altra parte non fusse sì grande che la fusse formidabile a’ vicini; e così potrebbe lungamente godersi il suo stato. Perché per due cagioni si fa guerra a una repubblica, l’una per diventarne signore, l’altra per paura ch’ella non ti occupi. Queste due cagioni il sopradetto modo quasi in tutto toglie via: perché se la è difficile a espugnarsi, come io la presuppongo, sendo bene ordinata alla difesa, rade volte accaderà o non mai che uno possa fare disegno di acquistarla. Se la si starà intra i termini suoi, e veggasi per esperienza che in lei non sia ambizione, non occorrerà mai che uno per paura di sé le faccia guerra; e tanto più sarebbe questo se e’ fussi in lei constituzione o legge che le proibisse l’ampliare.»[8]

Una parziale costruzione delle basi politiche necessarie per impostare correttamente il problema della gerarchia tra i fattori politici di potenza rappresenta un terzo regalo fornito dal segretario di stato fiorentino alla teoria generale dei rapporti di forza politico-sociali (e internazionali): nella scelta di priorità tra oro e ferro, tra denaro e forze militari, tra risorse economiche in campo internazionale il primato è attribuito correttamente dal teorico toscano alle potenzialità belliche e alla critica delle armi.

L’esperienza storica gli mostrò chiaramente che il potere politico si fonda sulla “canna del fucile” e sulla superiorità politico-militare posseduta nello scontro concreto, a livello statale ed internazionale, mentre a suo avviso sbagliano i dirigenti politici che ritengono prioritari nella lotta politica il possesso di una massa critica di risorse economiche. «Credono che basti loro a difendersi avere tesoro assai, e non pensano che se il tesoro bastasse a vincere, che Dario arebbe vinto Alessandro, i Greci arebbono vinto i Romani, ne’ nostri tempi il duca Carlo arebbe vinti i Svizzeri, e pochi giorni sono il Papa ed i Fiorentini insieme non arebbono avuta difficoltà in vincere Francesco Maria nipote di papa Iulio II nella guerra di Urbino. Ma tutti i soprannominati furono vinti da coloro che non il danaio ma i buoni soldati stimano esser il nervo della guerra. Intra le altre cose che Creso re de’ Lidii mostrò a Solone ateniese, fu uno tesoro innumerabile: e domandando quel che gli pareva della potenza sua, gli rispose Solone che per quello e’ non lo giudicava più potente, perché la guerra si faceva con il ferro e non con l’oro, e che poteva venire uno che avessi più ferro di lui e torgliene. Oltre a di questo, quando dopo la morte di Alessandro Magno una moltitudine di Franciosi passò in Grecia e poi in Asia, e mandando i Franciosi oratori a il re di Macedonia per trattare certo accordo, quel re per mostrare la potenza sua e per sbigottirli mostrò loro oro ed ariento assai: donde quelli Franciosi, che di già avevano come ferma la pace, la ruppono, tanto desiderio in loro crebbe di tòrgli quell’oro. E così fu quel re spogliato per quella cosa che egli aveva per sua difesa accumulata. I Viniziani pochi anni sono, avendo ancora lo erario loro pieno di tesoro, perderno tutto lo stato, sanza potere essere difesi da quello.

Dico pertanto non l’oro, come grida la comune opinione, essere il nervo della guerra, ma i buoni soldati, perché l’oro non è sufficiente a trovare i buoni soldati, ma i buoni soldati sono bene sufficienti a trovare l’oro. Ai Romani, s’egli avessono voluto fare la guerra più con i danari che con il ferro, non sarebbe bastato avere tutto il tesoro del mondo, considerato le grandi imprese che feciono e le difficultà che vi ebbono dentro.»[9]

Contro ogni tentazione “economicista”, per usare la terminologia moderna, Machiavelli indicò con chiarezza come fattore decisivo nello scontro politico internazionale la superiorità militare ed il differenziale di potenza politico-militare tra gli antagonisti, ed anche in campo statale la sconfitta di Savonarola, dei Gracchi, della folta schiera di combattenti per i diritti e bisogni politico-materiali delle classi popolari aveva insegnato al fiorentino la differenza tra “profeti armati” e “profeti disarmati”: per il teorico fiorentino «tutt’i profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorno», alias i rivoluzionari disarmati (o male armati) vengono schiacciati spietatamente dalle classi dominanti.[10]

Il limite della soluzione machiavellica consiste nella confusione tra due problemi teorici distinti, nella mancata separazione tra la questione del primato della forza militare nello scontro politico e l’individuazione della base materiale e dei presupposti concreti per lo sviluppo della potenza bellica. Nel passo citato Machiavelli infatti esaltò “i buoni soldati”, ma non aggiunse che i buoni soldati presuppongono la presenza di “buone armi” e di risorse economiche sufficienti per produrle-riprodurle, presuppongono una “buona” organizzazione (personale esperto e tempo per la sua organizzazione) e le risorse economiche necessarie per costruirla: sarà del resto lo stesso teorico fiorentino, nell’opera l’Arte della guerra, a superare questa visione unilaterale indicando che “gli uomini, il ferro, i danari e il pane sono il nervo della guerra” (libro VII).

In ultimo, ma non per importanza, Machiavelli riuscì parzialmente ad inquadrare la relazione generale esistente tra i rapporti di forza ed i livelli variabili di soddisfazione (insoddisfazione) dei bisogni politico-materiali collettivi via via ottenuti dai soggetti in campo.

Uno dei nuclei fondamentali della politica viene individuato da Machiavelli nella tecnica della mediazione intesa come sintesi mutevole tra il dinamico rapporto di forze concreto e la scala elastica di bisogni politico-materiali delle parti in lotta, che a sua volta si deve basare sulla coscienza lucida e spassionata della priorità della correlazione di potenza rispetto agli interessi soggettivi, per quanto doloroso tale primato possa risultare per le forze politiche che si trovino volta per volta in una posizione di relativa inferiorità e di conseguenza siano costrette ad accettare dei compromessi sfavorevoli.

La capacità/incapacità di accettare accordi svantaggiosi e la “tecnica” politica della mediazione vennero analizzate in primo luogo avendo come punto di riferimento la politica internazionale.

«Venne nel 1512 uno esercito spagnuolo in sul dominio fiorentino per rimettere i Medici in Firenze e taglieggiare la città, condotti da cittadini d’entro, i quali avevano dato loro speranza che subito fussono in sul dominio fiorentino piglierebbono l’armi in loro favore; ed essendo entrati nel piano e non si scoprendo alcuno, ed avendo carestia di vettovaglie, tentarono l’accordo: di che insuperbito il popolo di Firenze non lo accettò, donde ne nacque la perdita di Prato e la rovina di quello stato.

Non possono pertanto i principi che sono assaltati fare il maggiore errore, quando lo assalto è fatto da uomini di gran lunga più potenti di loro, che recusare ogni accordo, massime quando e’ gli è offerto: perché non sarà mai offerto sì basso che non vi sia dentro in qualche parte il bene essere di colui che lo accetta, e vi sarà parte della sua vittoria.»[11]

Secondo Machiavelli gli interessi esistono, ma non fluttuano nel vuoto e proprio gli interessi della città di Firenze imponevano nel caso specifico di essere difesi ad un livello minimale e difensivo, visto il rapporto di forza nettamente favorevole ai nemici spagnoli: forse Lenin nel 1918, prima di accettare la pace “vergognosa” di Brest Litovsk con la Germania imperialista, avrà riletto il passo sopra riportato…

Relativamente alla politica interna, Machiavelli suggerì al “principe” protoborghese una pratica permanente di mediazione tra le forze e classi sociali in lotta tra di loro, tra le diverse “università” e gruppi di pressione che compongono lo scacchiere politico statale: mediazione assolutamente interessata, non neutrale e basata in ogni caso soprattutto sul differenziale di potenza tra i gruppi in conflitto.

«E li stati bene ordinati e li principi savi hanno con ogni diligenza pensato di non disperare i grandi e di satisfare al popolo e tenerlo contento; (…) di nuovo concludo che uno principe debba stimare i grandi, ma non si fare odiare dal popolo.»[12]

Machiavelli comprese perfettamente l’impossibilità politica di non scontentare nessuno e rese pertanto più concreta la natura partigiana e realista della mediazione tra interessi: «Perché non potendo e’ principi mancare di non essere odiati da qualcuno, si debbono forzare di non essere odiati dalla università; e quando non possono conseguire questo, si debbono ingegnare con ogni industria fuggire l’odio di quelle università che sono più potenti.»[13]

Grazie a Machiavelli la teoria politica occidentale tornò ad essere scienza ed osservazione empirica di fatti e dinamiche reali, riprendendo lo studio dei rapporti di forza in campo statale ed internazionale (anche se ancora in modo frammentario) e proprio nel corso del XVI e XVII secolo una pluralità variegata di autori contribuì tra l’altro a formare la proteiforme teoria politica del contropotere, che rivendicò in modo variegato la legittimità della ribellione contro le scelte politiche (di carattere generale o particolare) delle elite politiche dominanti e dei loro mandanti sociali, quando e se tali opzioni avessero superato una certa soglia critica di pericolosità sociopolitica per determinati gruppi sociali e/o religiosi.

Le teorie del contropotere elaborate durante il XVI secolo a loro volta si distinsero in due filoni diversi a seconda che il diritto-potere di rivolta venisse attribuito anche alle masse popolari (contropotere popolare) o invece solo ad elite non governative dotate di una massa sufficiente di autorità, di potenza e carisma politico (=contropotere dell’elite): in ogni caso la tendenza politico-sociale in oggetto risultò particolarmente stimolante per il processo generale di analisi dei rapporti di forze, poiché essa richiamò e rimandò alla realtà di una controforza subordinata, alias ad un processo di accumulazione di energie, uomini, mezzi materiali e direzione politica non ancora sufficiente/non più sufficiente a permettere la gestione del potere, ma tuttavia capace di limitare la sfera d’azione dei nuclei dirigenti al potere e di contrapporsi loro frontalmente, almeno in determinate situazioni critiche ed esplosive.

Certo, le presunte “colonne d’Ercole” del potere politico ed i suoi limiti d’intervento e di gestione dello stato vennero interpretati dalla scuola del contropotere sotto la forma di diritti inviolabili dei sudditi-governati statuiti dalla stessa sfera divina o da un patto sociale immodificabile, ma la terminologia giuridica e/o religiosa non nasconde il fatto che i teorici del contropotere esprimessero e condensassero interessi ed esigenze di forze politiche reali, che si mossero sullo scacchiere statale per tutelare la propria posizione politico-sociale e per modificarla a loro vantaggio, ove ritenuto possibile.

Alcuni embrioni di analisi sul diritto di resistenza “dal basso” erano stati sviluppati da due teologi eretici della fine del XIV secolo, quali Wycliff e Jan Hus, che concordemente avevano sostenuto il diritto-dovere per i sudditi di disobbedire alle autorità che fossero “in stato di peccato” e di rivoltarsi contro di loro, ma tuttavia è soprattutto a partire dalla seconda metà del Cinquecento che la tematica del contropotere venne sviluppata quasi contemporaneamente dai gesuiti, dall’élite protestante e dai cosiddetti monarcomani, per motivazioni politico-sociali opposte ma paradossalmente convergenti, almeno nei risultati teorici.

Partendo dalla gerarchia cattolica e dalle sue “teste pensanti” più raffinate, i rapporti di forza concreti creatisi tra chiesa e nuovi stati assolutistici cattolici nella seconda metà del Seicento ormai non permettevano più la riproduzione della dottrina teorica della sovranità assoluta (“plenitudo potestatis”), elaborata da papa Innocenzo III agli inizi del XIII secolo e che affermava con forza il primato del potere pontificio non solo in ordine al dominio spirituale ma anche a quello temporale: in quella fase la centralità ecclesiastica si manifestava sia nell’investitura da parte del papa dell’imperatore e delle diverse autorità regali che nel diritto di arbitrato di ultima istanza del Vaticano nei confronti delle guerre scoppiate tra gli stati del mondo cristiano europeo, mentre ai governanti civili era invece proibito di intervenire e decidere nelle questioni ecclesiastiche.

Il processo di rapida accumulazione di forza politica, economica e militare da parte dei nuovi stati moderni europei ed il parallelo indebolimento relativo del potere ecclesiastico, minato in un primo tempo dagli scismi interni e successivamente dalla riforma protestante, impose ai cervelli politici della gerarchia vaticana l’avvio di un lungo processo di riposizionamento della concezione del rapporto tra potere statale e temporale, che culminò nella teoria del “potere indiretto” del papa enunciata dal gesuita cardinale Roberto Bellarmino nell’opera De potestate summi pontificis (1610).

Bellarmino ammise forzatamente e a malincuore che l’ecclesiastico e il politico sono due generi distinti di potere, mentre venne parallelamente escluso che la sovranità potesse in qualsiasi modo derivare ai principi e alle élite politiche dal consenso delle alte gerarchie vaticane: ma allo stesso tempo il teorico gesuita – e futuro papa – escluse decisamente il diritto divino dei re e riprese in modo creativo la lezione politica del filosofo medioevale Tommaso d’Aquino, affermando che la legittimazione del potere statale trova la sua prima e diretta origine dal rapporto politico tra governanti e popolo, con la decisiva mediazione della Chiesa cattolica. L’elemento innovativo del pensiero di Bellarmino consistette infatti nell’individuazione di un “contropotere” di intervento dei vertici dell’autorità ecclesiastica nei casi di emergenza rispetto alle questioni temporali e alle scelte politiche più importanti per la chiesa nella gestione del potere, tanto che nel suo lavoro teorico egli sostenne «che il pontefice, come tale, benché non abbia alcun potere puramente temporale, tuttavia in ordine al bene spirituale ha il sommo potere di disporre delle cose temporali di tutti i cristiani: può cambiare i regni e togliere a uno e dare all’altro, come somma autorità spirituale se ciò è necessario per la salvezza delle anime».[14]

In sostanza Bellarmino si rese lucidamente conto che il potere della Chiesa non era ormai più in grado di sostenere uno scontro aperto per l’egemonia con il potere statale-temporale di matrice cattolica, della cui forza e capacità di intervento l’apparato ecclesiastico del Vaticano aveva del resto assoluto bisogno nella lotta contro le nuove forze statali (e popolari) protestanti: il sacco di Roma del 1527 da parte dei lanzichenecchi del cattolicissimo Carlo V era stata una dura lezione che ancora bruciava nella memoria storica della gerarchia ecclesiastica.

Il teorico gesuita scelse pertanto una seconda linea di difesa non contestando il potere direttivo dei “principi” cattolici, ma subordinando l’autorità di questi ultimi alla tutela da parte loro delle priorità e degli interessi politico-materiali della Chiesa romana e legittimandoli solo se essi erano impegnati realmente in una lotta senza mediazioni contro l’eresia protestante e le forze che contestavano il primato della gerarchia cattolica: se il principe veniva meno a tale obbligo politico e morale, l’alta gerarchia e la “lobby” religiosa si arrogava invece il diritto di “cambiare i regni” e di determinare una ribellione contro l’autorità costituita traditrice, esercitando un contropotere capace anche di trasformarsi in concreta azione eversiva contro le élite politiche ritenute eretiche o infide.

Dato che Bellarmino era cosciente della forza politica rimasta all’apparato ecclesiastico, basato nell’età della Controriforma su una burocrazia consolidata e su un notevole livello di controllo di ampi strati della popolazione all’interno degli stati europei, che coinvolgeva (in minor misura) anche una parte significativa di alcune collettività politiche passate dalla parte della ribellione protestante, la gerarchia vaticana, sia a livello teorico che pratico, non escludeva di poter utilizzare come forza di ritorsione contro i governanti eretici la ribellione popolare o, in alternativa, il ricorso al terrorismo individuale: l’espressione teorica più radicale di parte cattolica del diritto di resistenza contro la “tirannia” addirittura si presenta in alcune sue parti come un “manuale del perfetto terrorista” del Seicento.

Nell’opera De rege et regis institutione (1599) il gesuita spagnolo Juan de Mariana aveva ritenuto che la fonte di legittimazione del potere politico fosse il patto di associazione ed il contratto che gli uomini stringono per uscire dallo stato di natura e soddisfare i propri bisogni fondamentali, mediante l’elezione di un legittimo sovrano, ma il monarca a suo avviso restava obbligato nei confronti del popolo a seguire i princìpi della giustizia, pena la deviazione tirannica: in un possibile scenario storico di oppressione il popolo aveva pertanto il diritto di eliminare, politicamente e fisicamente, il governante-tiranno e per facilitare l’adempimento di questo sacro compito il creativo gesuita aveva elencato con cura una serie di potenziali mezzi a disposizione del tirannicida, dal pugnale al veleno.[15]

Non si trattò solo di parole: i consigli machiavellici del de Mariana trassero profitto ed insegnamento anche dalla lezione dell’omicidio del re francese Enrico III nel 1589 da parte del frate domenicano Jacques Clement, legittimandone apertamente la sua pratica concreta e preparando a loro volta il terreno per un secondo assassinio, quello di Enrico IV da parte del monaco Ravaillac nel 1610, seguito dalla messa al rogo del “libro maledetto” ordinata dal Parlamento di Parigi subito dopo l’omicidio del re francese.

Il fronte politico-religioso protestante manifestò tendenze teoriche paradossalmente molto vicine a quelle gesuite, anche se ovviamente finalizzate ad obiettivi politico-religiosi antagonistici rispetto a quelli ricercati e desiderati dall’alta gerarchia vaticana.

Il rapporto con il potere statale dei principali dirigenti della Riforma è stato caratterizzato dalla regola dell’obbedienza e della subordinazione come tendenza principale, tanto che secondo Lutero i sudditi devono sottomettersi con rassegnazione anche alle direttive di un potere “malvagio” ed a loro ostile: ancora nel 1530, durante la Dieta di Augusta, egli propose ai principi e vescovi tedeschi l’obbedienza nei confronti dell’imperatore cattolico Carlo V, anche se il “Principe” era animato da intenzioni ostili verso il movimento della Riforma. Nel suo testo L’autorità secolare (1523), Lutero legittimò pienamente il potere statale e “la spada”, in mancanza dei quali si “scioglierebbe lacci e catene alle bestie selvagge e feroci, cosicché potrebbero sbranare e dilaniare chiunque” e solo due anni dopo egli invocò una spietata repressione da parte dei principi contro l’insurrezione contadina tedesca, guidata in Turingia da T. Muntzer e dagli anabattisti. «Cari signori, liberate, salvate abbiate misericordia della povera gente; ma scanni, strangoli chi lo può… Vi scongiuro, chi lo può fugga dai contadini come dal diavolo in persona. E se qualcuno troverà tutto questo troppo duro, pensi che la sedizione è cosa insopportabile e che ad ogni istante c’è da attendersene la distruzione del mondo” (“Contro le bande dei contadini che assassinano e rubano”).»[16]

Per Lutero il potere serve sempre come argine alla ribellione, dato che le “bestie selvagge” si devono domare attraverso l’utilizzo della forza militare dei “signori” feudali e dei leader politici interessati.[17]

Tuttavia in campo protestante emerse anche una tendenza secondaria generata sia dalla minaccia di annientamento della riforma protestante proveniente dall’imperatore e dai sovrani cattolici che, allo stesso tempo, dalla controforza materiale via via accumulata dagli “eretici” protestanti, anche grazie all’appoggio di una parte importante dei principi e delle masse popolari della Germania, Francia e Gran Bretagna: pertanto a poco a poco si formò la concezione di un diritto alla resistenza delle élite contro il “giudice ingiusto” che interferiva in questioni di fede e di credo religioso e nello stesso scritto prima citato, l’Autorità secolare, Lutero affermò chiaramente che «anche se [i principi] sono dei rozzi bestioni, devono riconoscere tuttavia di non avere potestà alcuna sulle anime». Nella successiva Confessione di Magdeburgo del 1550 egli sviluppò la tesi secondo cui se il “magistrato superiore”, il governante si rivela inadempiente rispetto ai giuramenti prestati o corrotto, spetta ai “magistrati inferiori” (ai notabili e ai ricchi protestanti) il dovere di opporsi ad esso altruisticamente e per il bene del popolo ed in modo analogo se l’imperatore fosse venuto meno agli obblighi contratti con i suoi elettori per difendere invece la causa papista, i grandi feudatari tedeschi, cioè i magistrati inferiori, erano autorizzati per Lutero ad unirsi per combatterlo.

In impressionante analogia con la teoria del potere indiretto di Bellarmino, venne sancito il diritto dell’elite politico-religiosa protestante alla ribellione contro il potere supremo se esso era ritenuto intenzionato a violare in modo permanente gli interessi fondamentali di carattere religioso dei cittadini e della stessa élite; anche la seconda guida religiosa del protestantesimo, Calvino, elaborò la teoria dell’”eroe della Provvidenza”, secondo cui contro il “tiranno” papista Dio può suscitare un “nuovo Mosè” in grado di abbattere il “faraone” (alias il potere statale ingiusto) e di guidare il suo popolo fuori dalla schiavitù verso la terra promessa, attribuendo il diritto-dovere alla rivolta ad un personaggio eccezionale capace di interpretare la “volontà divina” contro il potere statale oppressivo.[18]

Un terzo filone teorico sviluppò invece il pensiero antitirannico estendendo il diritto alla ribellione, previsto da Lutero/Calvino solo per i “magistrati inferiori”, anche alla massa dei governati e all’insieme dei “sudditi”. L’acutizzazione delle persecuzioni contro i protestanti da parte delle autorità cattoliche estremizzò dei segmenti importanti degli “eretici”, a loro volta espressione politico-religiosa dei bisogni materiali della nascente borghesia europea ancora alleata ad ampi strati popolari, ed in particolar modo le repressioni di massa in Gran Bretagna operate dalla regina Maria Stuart (“bloody Mary”) e la strage di ugonotti francesi attuata nella notte di San Bartolomeo dalla Lega cattolica (23/24 agosto 1572) svolsero la funzione di catalizzatori politici dello scontento popolare dei protestanti, trovando rapidamente una loro traduzione politica nel diritto di resistenza collettivo, autentica forma di contropotere popolare proveniente dal basso.

Il calvinista scozzese John Knox, nel suo Appello alla nobiltà del 1558, rivendicò il diritto alla ribellione del “popolo” (nobili e popolani) contro l’ingerenza politica dei monarchi stranieri nelle questioni politiche e religiose scozzesi. L’opposizione alla gerarchia cattolico-romana e alla regina Maria Stuart costituì la base concreta per un’aperta teorizzazione della sovranità popolare, dato che Knox ritenne che il re, i giudici e i magistrati dovessero essere eletti dal popolo, a cui spettava in ultima istanza il primato politico nella gestione degli affari comuni dello stato: egli sostenne il diritto popolare alla resistenza e alla sollevazione armata contro le autorità politiche che contrastano la volontà popolare, fino a rivendicare apertamente il diritto al tirannicidio e la necessità di un contropotere armato e di massa, seguito in ciò da una pleiade di autori protestanti che parimenti sostennero il diritto all’opposizione della società e dei singoli cittadini contro il tiranno.

Lo scozzese Buchanan, nel suo testo De iure regni apud scotos; il successore di Calvino a Ginevra, Beze (Du droit des magistrats sur leur subiects); gli ugonotti francesi Hotman (Franco-Gallia) ed Etienne de la Boetie (Discours de la servitude volontarie) in forme diverse elaborarono il diritto-dovere dei semplici cittadini alla resistenza legittimando il primato della sovranità popolare, mentre quasi nello stesso periodo dei livelli più avanzati di scontro politico-sociale e dei rapporti di forza (temporaneamente) più favorevoli alle masse popolari determinarono tra le altre cose anche un salto di qualità nella teoria del contropotere, che si trasformò in concezione organica del potere rivoluzionario e popolare.

Fu infatti il movimento comunista rivoluzionario, ben distinto dalle forme di comunismo utopico espresse da singoli esponenti delle classi dominanti (T. Moore e l’Utopia del 1516), ad aprire la strada teorica e pratica al diritto alla rivoluzione, seppur sotto vesti religiose e misticheggianti, visto che nel lontano 1534 apparve il primo e dimenticato Manifesto dei Comunisti e la prima espressione teorica relativamente matura della tendenza comunista rivoluzionaria. Proprio durante la Comune rivoluzionaria instaurata dalla setta degli anabattisti a Munster, nella Germania nord-occidentale, uno dei più autorevoli rappresentanti della “Comune” di Munster, Bernhard Rothmann, scrisse nel 1534 il libro Eyne Restitution in cui si rielaborava in forma apocalittica l’esperienza concreta del potere anabattista a Munster: affermando con enfasi la necessità di un governo comunista-teocratico, B. Rothmann enunciò il “diritto alla spada” delle forze rivoluzionarie, antifeudali e antiborghesi e sostenne che per essi è lecito e giusto utilizzare la violenza per rovesciare il governo degli “empi”, degli sfruttatori e dei loro mandatari politici, vendicando “gli innocenti e i giusti”.[19]

Anche se molto più lentamente, le tesi del contropotere si trasformarono in un paradigma teorico insurrezionale e nella legittimazione del nuovo potere popolare rivoluzionario anche all’interno del fronte borghese democratico e antifeudale.

La prima fase della rivoluzione inglese, tra il 1642 ed il 1647, vide lo scontro frontale tra l’aristocrazia fondiaria e il potere statuale di Carlo I Stuart da un lato, e una coalizione eterogenea di borghesi, artigiani e piccoli contadini dall’altro.

All’interno del fronte antifeudale si sviluppò progressivamente la tendenza radicale dei levellers (livellatori), formato prevalentemente da artigiani che nelle armate di Cromwell esigevano tutele e garanzie, d’ordine non solo politico ma anche economico, a favore dei produttori indipendenti urbani e rurali: tale corrente acquisì nel corso del processo rivoluzionario una crescente coscienza della propria forza e capacità di autogoverno, al punto che il diritto all’autodifesa e alla resistenza collettiva contro il potere costituito semifeudale si trasformò nell’aperta ricerca di un potere permanente di elezione e di revoca dei rappresentanti del popolo, al fine di cercare di ridimensionare la forza politica delle classi dominanti borghesi e dell’aristocrazia fondiaria. Tale potere permanente venne rivendicato con chiarezza nell’appello politico A remonstrance of many thousand citizens, and other free-born people of England del 1646, redatto dai pubblicisti Richard Overton e William Walwyn ed in cui i due leader levellers scrissero ai deputati della Camera dei Comuni:

«Sappiamo perfettamente, e non possiamo dimenticarcene, che vi abbiamo scelto come membri del parlamento, perché ci liberaste da ogni forma di schiavitù e perché manteneste lo Stato in una condizione di pace e felicità. Per realizzare questo scopo vi trasmettemmo integralmente il potere, che era in noi, di portarlo a termine. Infatti, avremmo potuto agevolmente farlo da soli, se questo ci fosse sembrato opportuno; invece abbiamo scelto voi (…). Ma dovete ricordare che vi abbiamo concesso un potere soltanto sulla fiducia: esso può essere revocato, com’è giusto, e non può essere utilizzato per altro fine che il nostro benessere. (…) Noi siamo i vostri committenti, e voi i nostri agenti: questo è un fatto che non potete che riconoscere. Se voi, o chiunque altro, si arrogherà ed eserciterà un potere che non deriva dalla nostra fiducia e dalla nostra scelta, sarà un potere usurpato e uno strumento di oppressione, dal quale cercheremo di liberarci, dovunque lo troveremo: esso è infatti incompatibile con la nozione di giusta libertà, che voi stessi conoscete bene.»[20]

Se i rapporti di forza concreti esistenti nel 1645-48 non consentivano alla piccola borghesia (urbana/agricola) di conquistare e gestire direttamente il potere, erano ancora disposti in modo da permetterle di esercitare per un breve periodo una considerevole influenza sulla dinamica politica dell’Inghilterra rivoluzionaria, e l’autocoscienza della propria forza (temporanea) si trasformò nell’affermazione del diritto-potere di condizionare largamente le principali scelte politiche dei centri decisionali del potere, raggiungendo la soglia critica in cui il contropotere può trasformarsi in potere rivoluzionario o invece arretrare di fronte alla controffensiva dell’apparato governativo.

Un completo salto di qualità teorico avvenne in campo borghese ancora durante la prima fase della Rivoluzione francese attraverso la sua più compiuta espressione nel fronte teorico, l’opuscolo di Emmanuell Joseph Sieyes Cos’è il Terzo Stato? (del 1789), con il quale gli strati più coscienti della borghesia rivendicarono apertamente il diritto della loro classe all’egemonia politica e al controllo del potere statale.

La crisi economica, finanziaria e politica del 1788/89 rafforzò enormemente la posizione relativa della borghesia nello stato francese. L’enorme dimensione quantitativa raggiunta dal debito pubblico precluse alla monarchia francese le condizioni normali per la sua riproduzione politica, e una contemporanea carestia provocò un eccezionale aumento del prezzo del pane, merce “numero uno” del consumo popolare, scatenando lo scontento e l’indignazione latente delle masse, mentre dal canto suo l’opposizione corporativa e miope dei parlamenti locali e di una parte consistente dell’aristocrazia rispetto al potere statale indebolì e divise lo schieramento socio-politico semifeudale.

La convocazione da parte del re Luigi XVI, per la prima volta dal 1614, degli Stati Generali pose di fronte in modo visibile i tre “ordini” nei quali essi si articolavano: il primo (il clero) e il secondo (la nobiltà) rappresentavano un’infima minoranza della popolazione che monopolizzava i privilegi feudali e fiscali disponendo di larga parte della proprietà terriera e del potere istituzionale, mentre invece del Terzo Stato, che raggruppava i ceti borghesi, i contadini e gli artigiani (e, in modo estremamente parziale e mediato, gli stessi operai agricoli ed urbani) faceva parte l’enorme maggioranza della popolazione, sottoposta in forme diverse allo sfruttamento feudale-fiscale e all’emarginazione dal potere politico-statale.

Sieyes si pose il compito di definire il Terzo Stato esaltandone la sua forza e centralità politica, economica e sociale.

«Il piano di questo scritto è piuttosto semplice. Abbiamo tre domande da porci: 1) Cos’è il Terzo Stato? Tutto. 2. Cos’è stato finora nell’organizzazione politica? Niente. 3. Cosa chiede? Di diventare qualcosa».

Visto che tutte le attività produttive e scientifiche, le professioni liberali e le funzioni pubbliche (a esclusione di quelle di vertice) erano svolte dal Terzo Stato, esso poteva identificare con il corpo della nazione: “Il Terzo Stato è una nazione completa”. L’autocoscienza borghese della propria potenza d’urto raggiunse finalmente nel 1789 il più alto livello teorico e pratico quando Sieyes escluse la nobiltà ed i grandi proprietari terrieri (ma acutamente non il clero, considerato un nemico allora secondario) dal corpo sano della nazione, descrivendoli come dei parassiti sociali dannosi. «Chi oserà dunque dire che il Terzo Stato non ha in sé tutto ciò che è necessario per formare una nazione completa? È l’uomo forte e robusto, un braccio del quale è ancora incatenato. Se si eliminasse l’ordine privilegiato, la nazione non sarebbe affatto qualcosa di meno, ma qualcosa di più… Niente può andare avanti senza di lui, tutto andrebbe infinitamente meglio senza gli altri», alias senza i grandi proprietari terrieri e la loro egemonia politica.[21]

Il rapporto di forza concreto esistente tra nobiltà e Terzo Stato nel 1789 permise a Sieyes di affermare il primato politico del secondo sul primo soggetto politico sociale e, di fronte alla decisiva questione pratica se gli Stati Generali dovessero discutere insieme o separatamente e se dovessero votare in base al numero o per ordine, in sostanza di fronte al problema del controllo reale del potere egli sostenne che il Terzo Stato «deve riunirsi a parte, non collaborerà assolutamente con la nobiltà e il clero, non resterà insieme ad essi, né per ordine né per testa. Vi prego di fare attenzione alla differenza enorme che c’è tra l’assemblea del Terzo Stato e quella degli altri due ordini: la prima rappresenta venticinque milioni di uomini e delibera sugli interessi della nazione; le altre due, dovessero pure riunirsi, non hanno potere che su circa duecentomila individui e non pensano che ai loro privilegi. Il Terzo Stato, da solo, si dirà, non può formare gli Stati Generali. Tanto meglio! Comporrà un’Assemblea Nazionale».

Secondo Sieyes il numero prevaleva sul privilegio, ed il Terzo Stato aveva il potere-dovere sia di esprimere la “volontà generale” della nazione che di gestire i meccanismi dello stato nelle loro varie articolazioni, tanto che la parola d’ordine rivoluzionaria di Sieyes può essere sintetizzata nello slogan paraleninista del “tutto il potere all’Assemblea Nazionale e al Terzo Stato”, trasformando il contropotere di massa in un nuovo potere rivoluzionario grazie alla comparsa di una nuova e favorevole correlazione di potenza in campo politico-sociale.[22]

Alcuni anni dopo l’opera di Sieyes prese inizio l’elaborazione filosofica e storica di F. W. Hegel, nel periodo compreso tra il 1795 ed il 1830.

Il contributo (parzialmente) originale di Hegel alla scienza dei rapporti di forza si articola in quattro punti specifici: la centralità dell’apparato militare nella politica statale, l’analisi della politica internazionale come unione dialettica di interessi concreti e potenza globale, l’importanza del processo di calcolo del rapporto di potenza e la concezione della lotta politico-sociale come scontro tra volontà e tra paure/superamento delle paure.

I primi tre nodi teorici vennero elaborati da Hegel in relazione alla concreta situazione politica tedesca della fine Settecento inizi del XIX secolo, che gli ispirò il libro Costituzione della Germania (1799-1802) pubblicato postumo nel 1893.

Il filosofo tedesco prese spunto per la sua analisi politica dalla sostanziale dissoluzione del Reich tedesco e dell’impero germanico, ormai trasformatosi da secoli in un vuoto simulacro del potere, privo di forza materiale e di capacità d’intervento politico: solo quattro anni dopo la fine del lavoro di Hegel, del resto si concluse anche a livello formale-giuridico l’esistenza plurisecolare del Sacro Romano Impero della nazione tedesca (6 agosto 1806).

Lo scenario politico tedesco era stato contraddistinto per tutto il XVIII secolo dalla presenza dominante e dalla lotta, ora aperta ora nascosta, tra Austria e Prussia. I due principali centri di potenza politico-militare della Germania avevano intessuto un prolungato scontro per l’egemonia sull’impressionante pleiade di medi e piccoli staterelli che costellavano lo scacchiere politico tedesco e che basavano la loro esistenza indipendente essenzialmente sul relativo equilibrio di forze tra Austria e regno prussiano, il quale impediva alle due potenze dominanti di eliminarli inglobandoli nella loro sfera d’influenza politico-territoriale: ma alla fine del XVIII secolo la novità principale venne rappresentata dal “fattore Francia” e dai successi militari delle armate napoleoniche, tanto che nell’inverno del 1797 a Ranstadt era stato riunito il congresso degli stati che componevano il Reich tedesco con il compito di ratificare gli accordi di pace già stipulati a Campoformio tra la repubblica francese e la casa d’Austria.

Poiché la riva sinistra del Reno era stata segretamente ceduta ai francesi, bisognava indennizzare i principi espropriati a spese degli stati ecclesiastici, ma i contrasti tra Prussia e Baviera da una parte e Austria dall’altra, oltre che l’indecorosa ressa dei principi tedeschi per garantirsi l’appoggio francese trascinarono per le lunghe il congresso, che si sciolse infine nella primavera del 1799 quando già si erano mossi gli eserciti della seconda coalizione antifrancese. Non dovevano passare neppure due anni che le vittorie francesi di Marengo e Hohenlinden costrinsero l’Austria a cercar di nuovo la pace, conclusa a Lunéville il 9 febbraio 1801 sancendo la cessione alla Francia della riva sinistra del Reno e si riaprì la questione degli indennizzi, ma visto che la dieta convocata a Ratisbona non riuscì a concludere alcunché neanche in questa occasione, fu necessaria la mediazione della Francia e della Russia: ne risultò la deliberazione della Deputazione imperiale (febbraio 1803) che soppresse centododici stati tedeschi, tra cui quasi tutte le città libere, mentre lo stesso secondo Reich si dissolse anche dal punto di vista formale nel 1806.

La dura realtà dell’eutanasia del Reich tedesco ed il processo parallelo di egemonizzazione della Germania da parte della nuova superpotenza francese spinse Hegel ad attuare un’analisi lucida e realistica della situazione politica tedesca, che si collegò esplicitamente alla lezione ed agli insegnamenti di Machiavelli.

Proprio il “paradosso tedesco”, l’inesistenza della Germania come stato unitario e le condizioni concrete della sua scomparsa come soggetto politico (“la Germania non è più uno stato”) permisero ad Hegel, mediante una rapida comparazione dialettica con la condizione materiale e la potenza espressa dagli altri stati europei, di chiarire e mettere in luce i due elementi fondamentali che differenziano costantemente un vero stato da un finto-stato, da un ectoplasma privo di una reale struttura politico-materiale.

«Onde una moltitudine formi uno stato si esige che essa costituisca un comune apparato militare e un potere statale».[23] Seppur in modo assolutamente indipendente, il teorico tedesco sviluppò a modo suo la concezione di Sun Tzu dell’esercito come “baluardo dello stato” e anticipò le conclusioni del marxismo sullo stato, inteso come struttura composta principalmente da “distaccamenti speciali di uomini armati” in grado di disporre di “appendici reali, prigioni e istituti di pena di ogni genere”, da “esercito permanente e polizia, che sono i principali strumenti di forza del potere statale”. (Lenin, Stato e Rivoluzione).

L’apparato militare e il potere direzionale diventano i due elementi essenziali che, secondo Hegel, caratterizzano realmente l’essenza dello stato.

“Che a detenere il potere sia uno solo o molti”; “le leggi civili in senso stretto, e l’amministrazione della giustizia, l’eguaglianza di leggi e procedura, o quella dei pesi, delle misure o del denaro”; “il modo con cui vengono emanate le leggi, se da una particolare potestà, ove con svariati tipi di partecipazione dei diversi corpi statali, o, in generale, dei cittadini”; il tipo di tassazione o la “comunanza quanto ai costumi, alla cultura, alla religione o alla lingua”, sono per Hegel “elementi accidentali” che restano fuori dal concetto di potere statale: invece risulta essenziale che l’unione statale abbia la capacità di difendere i propri interessi, “quale che sia la potenza di cui dispone e il successo che può ottenere” e il Reich tedesco non era uno stato proprio perché non aveva un apparato militare reale ed operante per uno scopo di difesa/attacco comune, se non con “leggi e parole” e con buone intenzioni prive di un seguito reale.[24]

La situazione paradossale del Sacro Romano Impero, di uno stato formale privo di potere reale permise ad Hegel di estrapolare il fattore principale che contraddistingue il potere statale ed i rapporti di forza interni/internazionali: “il necessario, che deve trovarsi nelle mani del potere statale e essere stabilito direttamente da lui” non è altro che l’apparato militare.[25]

Inoltre Hegel sviluppò nell’opera citata una teoria globale della politica internazionale fondata sul realismo, sull’analisi di “ciò che è” contrapposta al “dover essere” utopico e staccato dall’analisi dei rapporti di forza concreti.

Il pensatore tedesco sbeffeggiò innanzi tutto la posizione dell’olandese Ugo Grozio (1625, De iure belli ac pacis), secondo cui i rapporti tra gli stati vengono regolati dall’assioma “razionale” del principio pacta sunt servanda e dalla regola del rispetto dei trattati tra stati sovrani. Hegel notò che mentre Federico II di Prussia aveva elaborato nei primissimi tempi del suo regno un trattato antimachiavellico in politica internazionale, fondato proprio sul rispetto delle regole morali dei trattati stipulati dagli stati, il sovrano tedesco, «gli ha opposto» – a Machiavelli – «moralistici luoghi comuni la cui sanità ha poi dimostrata egli stesso, sia col suo modo di agire che, esplicitamente, nei suoi scritti, quando, per esempio, nella prefazione alla storia della prima guerra di Slesia egli nega che i trattati internazionali siano ancora vincolanti quando non corrispondono più all’interesse di uno stato».[26]

Hegel sostenne che non le regole, i patti o il “diritto” sono le “vere, interiori forze motrici” della politica internazionale, ma il complesso dialettico composto sia dagli interessi di uno stato che dai mutevoli rapporti (“combinazioni”) di potenza.

«Se i filantropici sostenitori del diritto e della moralità avessero un interesse, sarebbero in grado di capire che gli interessi, e quindi anche i diritti, possono entrare in collisione, e che è stupido istituire una contrapposizione tra il diritto e l’interesse dello stato, o – come si suol dire con la parola più aborrita dalla moralità – con l’utile dello stato.

Il diritto è l’utile di un singolo stato sancito e riconosciuto mediante trattati; ora, perché nei trattati sono sanciti i diversi interessi degli stati, e, come diritti, questi interessi sono così infinitamente svariati, è inevitabile che gli interessi, e perciò anche i diritti, vengano in contraddizione – e dipende solo dalle circostanze, dalle combinazioni di potenza, cioè dal giudizio della politica se quell’interesse e quel diritto che si trova in pericolo vada difeso con tutta la forza della potenza statale: anche l’altra parte, invero, può addurre un diritto perché essa ha proprio l’interesse (e quindi anche un diritto) che nella collisione ha direzione opposta.»[27]

Il diritto non è altro che “l’utile” di uno stato (si pensi a Tucidide e al dialogo con i Meli) che entra in contraddizione potenziale/reale con i “diversi interessi” degli altri stati, e pertanto lo scontro aperto o latente di interessi contrastanti rappresenta una costante storica nel rapporto tra poteri statali su scala internazionale.

Dipenderà solo dal “giudizio della politica”, dalla valutazione soggettiva (corretta/errata) della “combinazione di potenza” trasformare il conflitto latente in scontro aperto ed in guerra, fenomeno concreto che secondo Hegel non decide quale diritto-interesse sia «il vero diritto – entrambe le parti hanno un vero diritto – ma quale diritto debba cedere di fronte all’altro»: a suo avviso il collegamento tra interessi e la loro espressione giuridica (trattati), il conflitto tra gli interessi degli stati e la loro risoluzione mediante la forza costituiscono la base concreta su cui si basa la politica internazionale, anche se nella sua concezione teorica manca ancora l’individuazione del nesso che si crea tra i presunti interessi generali dello stato ed i reali bisogni collettivi della classe egemone sul piano sociopolitico al suo interno, espressi attraverso la progettualità e pratica dei suoi mandatari politici giunti via via al potere.

Inoltre Hegel indicò l’importanza nella lotta politica internazionale del processo di calcolo del differenziale di potenza esistente tra gli stati.

«In politica, invece, prima di attaccare si calcola, e per un piccolo guadagno non si mettono a rischio grandi interessi: ma quando sembra che ce lo si possa garantire senza pericolo, non si perde occasione.»[28]

Secondo Hegel lo squilibrio (e l’equilibrio) di potenza tra i diversi stati fornisce il “grimaldello” per comprendere una serie di processi politici, dato che a suo avviso sono i rapporti di forza internazionali, nella loro espressione specifica di netta superiorità di un soggetto politico, a spiegare il fenomeno ricorrente della scomparsa violenta dei piccoli stati ad opera dei loro grandi antagonisti.

«I piccoli stati che si contrapposero, sul piano della potenza, a una potenza mille e più volte maggiore, ebbero a subire il loro necessario destino, la rovina.. Che cosa è stato della moltitudine degli stati indipendenti, Pisa, Siena, Arezzo, Ferrara, Milano, di queste centinaia di stati – ogni città ne costituiva uno? Che cosa è stato delle famiglie dei tanti duchi e marchesi del tutto sovrani, delle case principesche dei Bentivoglio, Sforza, Gonzaga, Pico, Urbino ecc., e della innumerevole nobiltà minore? Gli stati indipendenti vennero assorbiti da quelli più grandi, questi da quelli più grandi ancora, e così via; ad uno dei più grandi, Venezia, la fine è stata data, ai nostri giorni, da una lettera di un generale francese, recapitata da un aiutante. Le case principesche più illustri non hanno più sovranità, e nemmeno peso politico, in un ordinamento rappresentativo. Le stirpi più nobili sono diventate aristocrazia di corte.»[29]

Proprio un’altra forma particolare dei rapporti di forza, l’equilibrio relativo di potenza, permette invece a suo avviso di spiegare la sopravvivenza autonoma ed indipendente dei medi e piccoli stati, differente dallo stato vegetativo proprio di alcune formazioni politiche nazionali, diventate mere “pedine nei piani delle potenze straniere”. Prendendo in esame la situazione politica tedesca del XVIII secolo, Hegel rilevò che per “l’avidità di ingrandirsi a spese dei corpi statali tedeschi” degli stati medio-piccoli, “Austria e Prussia sono almeno eguali – se l’Austria non ha ancora qualche vantaggio”, ma la stessa lotta costante tra i due “lupi” più potenti, il timore e paura reciproca dei due stati più forti del passibile ingrandimento territoriale e rafforzamento politico dell’antagonista avevano involontariamente salvato per un lungo periodo di tempo l’indipendenza degli stati minori: “non una loro propria potenza”, afferma Hegel, ma il relativo equilibrio di forze tra i due poteri statali maggiori aveva permesso al loro riproduzione politica come stati sovrani ed autonomi.[30]

Secondo il filosofo tedesco una seconda variante dell’equilibrio relativo di potenza si ritrova nello scacchiere politico globale dell’Europa settecentesca, caratterizzata dalla presenza di diversi stati di forza dotati di una forza relativa approssimativamente paragonabile, creando una struttura composita in cui era molto difficile il predominio di un solo stato.

«Dopo Carlo V le monarchie spagnola ed austriaca non sono state più riunite in una sola mano, e da un secolo esse sono possedute da famiglie del tutto diverse. L’Austria ha perso vaste province, Francia ed Inghilterra si sono elevate ad una potenza analoga a quella dell’Austria, si sono costituite Prussia e Russia; da un pezzo l’Austria non è più la monarchia che in Europa non aveva pari. Si è formato un sistema di equilibrio europeo, cioè un sistema per il quale, di solito, tutte le potenze europee sono interessate a una guerra, e nessuna di esse può cogliere da sola i frutti anche della guerra più fortunata – e nemmeno frutti che siano proporzionanti ai successi da lei ottenuti. Anche prescindendo da ciò, le guerre hanno tanto cambiato di natura che la conquista di poche isole, o di una provincia, costa sforzi di molti anni, somme immense ecc.»[31]

Tuttavia proprio il gigantesco e multiforme processo di accumulazione di forze realizzato nel 1793-1808 dalla Francia e i suoi successi politico-militari sotto la direzione di Napoleone mostreranno presto a Hegel il carattere transitorio e limitato dell’equilibrio di forze europeo, sempre pronto a trasformarsi in squilibrio di potenza ed in una sorta di imbalance of power.

Comunque il contributo più interessante di Hegel alla materia in esame si esprime attraverso l’elaborazione di una teoria del primato della paura/superamento della paura nella lotta tra volontà soggettive, nella battaglia tra “autocoscienze opposte”: seppur in forma distorta e mistificata, il filosofo tedesco individuò il rapporto permanente che esiste nelle società di classe tra la superiorità di forze, il timore della punizione e l’accettazione (più o meno coatta) dello sfruttamento da parte degli “schiavi”, delle masse popolari.

Nella Fenomenologia dello spirito (1807) Hegel affrontò infatti il problema del rapporto dell’autocoscienza individuale con le altre soggettività, che a sua volta rappresenta una delle fasi del processo di autogenerazione dell’uomo mediante la dialettica della negatività.

In una prima fase l’Io, l’autocoscienza soggettiva si trova, secondo Hegel, di fronte ad altri individui percepiti come esseri completamente estranei e distaccati dalla sua esistenza. «Ma l’altro è anch’esso un’autocoscienza. Un individuo sorge di fronte a un individuo. In questa posizione immediata gli individui sono l’uno per l’altro a guisa di oggetti qualunque: sono formazioni indipendenti»; ciascuna autocoscienza «è bensì certa di se stessa, non però dell’altra.»[32]

Secondo il filosofo tedesco il reale riconoscimento dell’”altro” avviene in base alla pratica ed all’azione dell’altro e sull’altro e, con un notevole salto mortale teorico, Hegel rilevò che «finché si tratta dell’operare dell’altro, ognuno mira alla morte dell’altro. (…) La relazione di ambedue le autocoscienze è dunque così costituita ch’esse danno prova reciproca di se stesse attraverso la lotta per la vita e per la morte».[33]

Il rapporto fondamentale tra gli individui è costituito per Hegel da una lotta permanente e spietata, che tende essenzialmente alla distruzione dell’altro o alla sua trasformazione in uno strumento e mezzo materiale da utilizzare, in un “servo” che permette al signore di “esaurire la cosa e acquietarsi nel godimento” soddisfacendo i propri bisogni senza trasformare la “cosa”, la natura con il proprio lavoro, ma attraverso il dispendio di energie psicofisiche via via erogato dallo schiavo sconfitto in una lotta precedente.

La posta in palio nella lotta delle autocoscienze si dimostra subito enorme e si esprime nella conservazione/perdita della libertà e nell’autodeterminazione di se stessi/sottomissione alla volontà altrui: le diverse autocoscienze individuali «debbono affrontare questa lotta, perché debbono, nell’altro e in se stesse, elevare a verità la certezza loro di essere per sé. E soltanto mettendo in gioco la vita si conserva la libertà…»[34]

Mediante la prova della lotta a morte e senza compromessi, ciascuna autocoscienza/individuo rischia la propria vita cercando contemporaneamente di distruggere l’avversario, «deve avere di mira la morte dell’Altro, quando arrischia la propria vita, perché per lui l’Altro non vale più come lui stesso; la sua essenza gli si presenta come un’altra».

La parte risultata vittoriosa nello scontro assume il ruolo del signore mentre il soggetto sconfitto si trasforma in servo, “coscienza dipendente alla quale è essenza la vita o l’essere per un altro”: al signore spetterà il diritto pieno all’”appetito”, al godimento degli oggetti e al consumo dei beni procurati dal lavoro del servo, cui invece tocca “la disciplina del servizio e dell’obbedienza”, il lavoro subordinato inteso come astinenza dal godimento (“appetito tenuto a freno”) e sforzo costante di creazione di “cose” e oggetti di consumo per il suo signore.

Con la creazione della dialettica “padrone-servo” Hegel in primo luogo demolì il contrattualismo nelle sue diverse varianti, facendo a pezzi la concezione secondo cui il potere politico (ed economico) nasce da un contratto sociale, mentre invece non è altro che il sottoprodotto di un atto di forza e di un rapporto di forze: ma Hegel notò anche come l’elemento che fa la differenza tra le autocoscienze in conflitto, trasformandole rispettivamente in signori e servi, sia rappresentato dalla paura e dal terrore-rifiuto della morte da parte del soggetto sconfitto.

«Vale a dire, tale coscienza non è stata in ansia per questa o quella cosa e neppure durante questo o quell’istante, bensì per l’intera sua essenza: essa ha infatti sentito paura della morte, signora assoluta. È stata, così, intimamente dissolta, ha tremato nel profondo di sé, e ciò che in essa v’era di fisso ha vacillato.»[35]

Per Hegel la superiorità “spirituale”, e subordinatamente sociopolitica non è raggiunta dall’autocoscienza che “inorridisce dinanzi alla morte”: mentre il “Signore” vince la paura della morte, il servo “trema” di fronte ad essa e pertanto quest’ultimo cede alla “volontà superiore” del padrone pagando un prezzo enorme e permanente, dato che essere schiavo infatti significa per il filosofo tedesco vivere in modo continuo nel terrore e “flettersi” continuamente (Tucidide).

La forma estremizzata e soggettivistica attraverso cui Hegel impostò la teoria del rapporto servo/padrone non gli impedì di illuminare parzialmente la struttura politica (politico-sociale) fondamentale che sorregge la contraddizione lavoro/godimento e servitù/consumo, e cioè quella sottomissione forzata e basata sulla paura che colpisce i produttori diretti di fronte ai predatori degli oggetti di consumo. Alle spalle dell’apparentemente astratta produzione teorica hegeliana si ritrova la concreta realtà del terrorismo di massa utilizzato dalle élite dominanti, le immagini degli schiavi di Spartaco crocifissi nella strada collocata tra Capua a Roma o dei contadini ungheresi costretti nel 1514 a mangiare ancora vivo il corpo del loro leader G. Dosza, catturato e bruciato su un trono; si ritrova il terrore interiorizzato delle masse popolari di fronte alla prigione, alle forche e alle torture, agli apparati concreti (polizia, esercito, spie, servizi segreti) dei diversi “Signori” nelle loro multiformi manifestazioni storiche, dal 3700 a.C. fino al terzo millennio dell’era cristiana.[36]

Quasi contemporaneamente ad Hegel, un ulteriore contributo all’affinamento della teoria dei rapporti di forza venne fornita da un altro prussiano. Il grande teorico militare Clausewitz, che aveva contribuito attivamente alla sconfitta di Napoleone da parte della colazione anti-francese nel 1813-15, ha prodotto innanzitutto la celebre definizione della guerra come “atto di forza” e “continuazione della politica sotto altre forme e con altri mezzi”, subito accolta con tutti gli onori nel patrimonio del marxismo e delle forme più raffinate di pensiero borghese (liberale o fascista), ma egli ha fornito al “filo rosso” anche una visione molto chiara e lucida della strategia, intesa come un processo di sintesi di interessi politici generali che deve essere capace di porre uno scopo specifico e ben determinato, rispetto al quale vanno misurati l’obiettivo bellico (Ziel) e le risorse, i mezzi necessari per raggiungerlo (Mittel); per il teorico prussiano la strategia costituisce “l’intelligenza della guerra” ed è una componente importante del rapporto politico tra gli stati (e tra le classi, si può aggiungere).

La seconda novità consegnata da Clausewitz alla teoria generale dei rapporti di forza consiste nell’individuazione della categoria dello Schwerpunkt, del centro di gravità e del punto di forza principale detenuto da ciascun soggetto politico e che può variare a seconda degli attori, giustificando strategie di lotta diverse: ad esempio egli notò che il reale punto di forza dei grandi condottieri del passato (Alessandro, Federico il Grande, Napoleone, ecc.) era il loro esercito e che se pertanto questo veniva distrutto, per loro era finita.[37]

Un ulteriore elemento creativo consistette nella distinzione teorica elaborata dal generale tedesco tra tre diverse tipologie di guerre: guerra di annientamento, guerra limitata e guerra di logoramento. Secondo Clausewitz il primo tipo di guerra ha come fine “l’abbattimento dell’avversario”, mentre nel secondo tipo si vogliono soltanto fare alcune conquiste ai confini del territorio nemico, per mantenerle o farle valere come utile mezzo di scambio nelle trattative di pace; la guerra di logoramento, invece, a volte si incarna nella guerriglia ed ha come fine l’esaurimento delle forze fisiche e della volontà dell’avversario, strada obbligata da parte del più debole che voglia realmente “massimizzare i mezzi” limitati a sua disposizione e continuare ad opporre “pura resistenza”.

Il punto debole di Clausewitz consistette nell’aver adottato ed accettato come elemento costante e decisivo nei rapporti interstatali la realtà e la categoria generale di equilibrio politico, inteso come la “tendenza degli interessi generali comuni al mantenimento della condizione esistente” ed allo status quo politico su scala internazionale, quasi sicuramente venendo influenzato dal mite trattamento inflitto nel 1814-1855 alla Francia dalle potenze vincitrici su Napoleone: il grande teorico tedesco non riuscì a distinguere tra la tendenza generale espressa dagli stati di classe in condizioni favorevoli, tesa costantemente a modificare e spostare a proprio vantaggio i rapporti di forza, ed uno dei possibili risultati della lotta tra le tendenze contrapposte ed antagoniste dei diversi stati, l’equilibrio di forza.

In sostanza Clausewitz dimenticò le guerre di conquista napoleoniche e l’egemonia mondiale raggiunta allora dal colonialismo inglese, la sparizione di innumerevoli stati-staterelli dalla scena internazionale e la tragica esperienza polacca del ’700, non comprendendo che uno dei possibili risultati della lotta permanente per la modifica dei rapporti di forza è l’egemonia (… non l’equilibrio) mondiale, o di zona, della potenza più forte: Clausewitz ritenne in modo errato che la guerra finisce “naturalmente con la pace tra i contendenti”, ma Montezuma, i re incas, i vari principi e re deposti dalla Rivoluzione francese e da Napoleone non sarebbero stati sicuramente d’accordo con questa dichiarazione.

Tuttavia il realismo di Clausewitz era troppo forte, tanto che nel 1830-31 egli riconobbe con chiarezza come nei rapporti politici tra gli stati valga quasi sempre il “principio” antagonistico del contrasto di interessi tra i vari stati: “la storia dice che l’Inghilterra ha trovato il principio ostile alla sua grandezza e sviluppo a grande potenza sempre in Francia”, affermò contraddicendo proprio la sua precedente tesi sulle presunte tendenze al mantenimento dello status quo.[38]

[1] F. Meinecke, “L’idea della ragione di stato nella storia moderna”, p. 30, ed. Sansoni

[2] A. Gramsci, “Note sul Machiavelli”, p. 158 (Miscellanea), ed. Einaudi

[3] L. Althusser, “Machiavelli e noi”, pp. 34-37, ed. Il Manifesto

[4] Machiavelli, “Il principe”, cap. XIX, ed. Ricciardi

[5] op. cit., Cap. VI

[6] E. Gualazzi, “Savonarola”, ed. Rusconi

[7] N. Machiavelli, “Il principe”, op. cit., cap. III

[8] N. Machiavelli, “Discorsi sulla prima decade di Tito Livio”, Libro I, Cap. VI

[9] “Discorsi sulla prima decade di Tito Livio”, op. cit., Libro II, Cap. X

[10] “Il Principe”, op. cit., Cap. VI

[11] “Discorsi sulla prima deca”, op. cit., Libro II, cap. 27

[12] “Il principe”, cap. 19

[13] “Il principe”, cap. 19

[14] G. M. Bravo, “Profilo di storia del pensiero politico”, pp. 69-70, ed. La Nuova Italia Scientifica

[15] G. B. Bravo, op. cit., p. 99

[16] J. Atkinson, “Lutero – La parola scatenata”, p. 280, ed. Claudiana e L. Febvre, “Martin Lutero”, pp. 220-222, ed. Laterza

[17] G. M. Bravo, op. cit., p. 47 e F. Engels, “La guerra dei contadini”, p. 32, ed. Feltrinelli

[18] G. Galli, “Manuale di storia delle dottrine politiche”, pp. 64-65, ed. Il Saggiatore

[19] U. Gastaldi, “Storia dell’anabattismo”, Libro I, pp. 562-563, ed. Claudiana

[20] G. M. Bravo, op. cit., p. 119

[21] G. Galli, op. cit., pp. 156-157

[22] op. cit., p. 158

[23] Hegel, “Costituzione della Germania”, p. 23, ed. Einaudi

[24] op. cit., p. 22

[25] op. cit., p. 23

[26] op. cit., p. 107

[27] op. cit., p. 91

[28] op. cit., p. 65

[29] op. cit., pp. 102-103

[30] op. cit., p. 122

[31] op. cit., p. 121

[32] Hegel, “Fenomenologia dello Spirito”, p. 156, ed. La Nuova Italia

[33] op. cit., p. 157

[34] op. cit., p. 138

[35] op. cit., pp. 161-162

[36] Engels, “La guerra…”, op. cit., pp. 48-49

[37] G. E. Rusconi, “Clausewitz, il prussiano”, pp. 16/283, ed. Einaudi

[38] Rusconi, op. cit., pp. 220-222

Fonte: www.robertosidoli.net/?page_id=28


Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Politica - Socialismo democratico
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Aggiornamento: 11/12/2018