IDEE PER UN SOCIALISMO DEMOCRATICO
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PER UNA TRANSIZIONE AL SOCIALISMO
AUTOGESTITO
I Che il socialismo scientifico abbia capito sempre poco della questione agraria, è risaputo. Marx ed Engels odiavano i contadini. Solo alla fine della loro vita, il primo si dovette ricredere grazie ai contatti coi populisti russi, mentre il secondo si rese conto che questa classe aveva compiuto, al tempo di Lutero, "la rivoluzione borghese n. 1". Anche Lenin, dopo aver costantemente criticato i populisti, al momento di fare la rivoluzione decise di adottare il loro programma agrario, ma per lui i contadini rimasero sempre dei piccolo-borghesi, a meno che non rientrassero nella categoria del proletariato rurale. Tuttavia si sarebbe guardato bene dal farli fuori come fece lo stalinismo. L'ideologia del socialismo scientifico non è stata elaborata da intellettuali provenienti dal mondo contadino ma dal mondo borghese. Questi intellettuali criticavano gli industriali in quanto ritenevano insensato il sistema capitalistico. Tale sistema però non è mai stato ritenuto insensato per l'uso in sé di una scienza e di una tecnologia finalizzate a incrementare la produttività, né per il primato economico concesso in maniera assoluta all'industria e al valore di scambio, ma piuttosto per il fatto che lo sviluppo viene del tutto subordinato alla ricerca di profitto, di plusvalore, di accumulo di capitali, stante la separazione tra mezzi produttivi e loro proprietari (ovvero tra capitale e lavoro), in totale dispregio delle reali necessità di vita dei lavoratori, che sono i veri artefici della ricchezza di un paese. Il capitalismo sarebbe dunque insensato proprio perché inefficiente, dissipatore e, per molti versi, disumano. Nei confronti dell'agricoltura i socialisti hanno ereditato semplicemente la mentalità borghese, imponendo ai contadini la loro trasformazione in agenti dell'industria rurale (cioè in capitalisti agrari veri e propri, associati in cooperative, come da noi, oppure in operai rurali alle dipendenze dello Stato, com'era nel "socialismo reale"). L'unica cosa che di diverso i socialisti han sempre detto, rispetto agli economisti liberali, nel settore dell'agricoltura, era quella di compiere una riforma con cui spezzare il latifondo e redistribuire la proprietà della terra ai contadini. Che l'agricoltore dovesse smetterla di lavorare la terra con strumenti primitivi e di lavorarla pensando anzitutto al proprio autoconsumo, il socialismo l'ha sempre detto e non ha mai avuto dubbi in merito. I dubbi sul socialismo li hanno però sempre avuti gli stessi contadini, sia quelli, ovviamente, che dopo la requisizione dei beni latifondistici e del clero regolare, erano in grado di acquistare una porzione di terra che permettesse loro di trasformarsi in capitalisti agrari, sia quelli che, non potendo diventarlo, si aspettavano dallo Stato (borghese o socialista che fosse) una valorizzazione del loro ruolo, tale da non sconvolgere la loro vita. Nei paesi capitalisti come il nostro i contadini o sono diventati borghesi o sono diventati operai nelle fabbriche dei borghesi. Prima di emigrare han fatto i briganti, ma inutilmente. Pochi però hanno potuto diventare capitalisti agrari. In Russia, al tempo dello stalinismo, poco tempo dopo l'abolizione della Nep, i contadini più benestanti (kulaki), che mal sopportavano la statalizzazione dell'economia, furono praticamente sterminati. Per i contadini nullatenenti si crearono i sovchoz (aziende agricole statali, i cui addetti erano in realtà degli operai salariati dipendenti dallo Stato, e non avevano alcun interesse a migliorare o aumentare la loro produzione). I contadini invece che avevano mezzi sufficienti per associarsi in cooperative, furono costretti a mettere in piedi i kolchoz, la cui produzione era sempre sotto controllo statale, salvo le eccedenze non previste dal piano quinquennale. Ma se le eccedenze apparivano troppe, il successivo piano quinquennale alzava le quote da raggiungere, sicché la motivazione a produrre di più e meglio, per guadagnare qualcosa in più, era ridotta al minimo. E poi, non essendoci libero mercato, era impossibile contrattare i prezzi delle derrate. La motivazione in Russia funzionava solo nei momenti particolarmente critici, quando p.es. il paese era minacciato dall'invasione straniera (o quando lo si voleva far credere). Lo stalinismo ha saputo servirsi ampiamente degli ideali patriottici, prendendosi pure abusivamente il merito di aver sconfitto il nazismo. Oggi i contadini in Europa occidentale, negli Stati Uniti e nell'occidente in generale, non esistono più, proprio perché da tempo le alternative sono diventate due: o diventi capitalista agrario o abbandoni la terra (chi ha un piccolo podere da coltivare, lo considera un hobby o una piccola integrazione al proprio reddito). Oggi i contadini esistono solo nel Terzo mondo, e generalmente lavorano per i monopoli occidentali. Da noi i contadini sono scomparsi perché sacrificati sull'altare del capitalismo e del socialismo scientifico, che nei paesi est-europei veniva chiamato "socialismo reale", dove si presumeva che lo Stato fosse "di tutto il popolo". Gli stessi contadini esistenti nel Terzo mondo vengono attualmente sacrificati per far nascere in quei paesi un capitalismo che possa reggere la concorrenza del nostro, che per loro resta tecnologicamente superavanzato. Cina, India, Brasile ecc. sono partiti in ritardo, ma siccome dispongono di tantissimi contadini, sono convinti di recuperare il tempo perduto. Tutti vogliono diventare come noi, perché tutti vedono che da noi c'è benessere, comodità, lusso, sviluppo impetuoso della tecnologia, libertà di fare qualunque cosa, avendo denaro sufficiente. In questo momento l'occidente sta progressivamente abbandonando persino i propri capitalisti agrari, in quanto ci si è accorti che le loro stesse derrate alimentari possono essere acquistate da capitalisti agrari di altri paesi, i quali possono servirsi di salariati agricoli a costi irrisori, che permettono loro di vendere merci a prezzi molto competitivi. Sono assai pochi i capitalisti agrari che da noi riescono a sopravvivere, giusto i più grandi, in grado di acquistare le terre dei loro confinanti e di servirsi di abbondante manodopera straniera a basso costo. E anche questi, senza incentivi statali, non ce la farebbero. Noi siamo destinati a mangiare cose che sempre meno saranno prodotte da noi. In futuro non sarà solo col petrolio che si potrà ricattare la nostra economia di trasformazione di risorse altrui. Quanto tempo potrà durare una situazione del genere? II
IL SOCIALISMO DELLE COMUNITA' RISTRETTE Le idee socialiste non nascono soltanto quando si inizia a parlare di socialismo. Piuttosto si dovrebbe dire che nella storia il socialismo diventa un'idea quando si smette di praticarlo, cioè a partire dal momento in cui si formano le prime civiltà basate sull'urbanizzazione, sulle differenze di ceti e di classi, ecc. Prima di allora, tutta l'esperienza primordiale o primitiva del cosiddetto "uomo preistorico" può essere definita di tipo "socialistico". Le parole hanno soltanto un uso convenzionale: quello che conta sono i fatti. Abbiamo iniziato a parlare di "socialismo" usando le più disparate parole. Ed è compito dello storico saper andare al di là delle parole per comprendere i fatti. E i fatti, quando si parla di socialismo, devono essere riconducibili a una cosa sola: la proprietà comune dei mezzi produttivi, in maniera tale che nessuno possa prevalere su altri. Questa proprietà comune è la base materiale per qualunque altra forma di "socializzazione". Quindi l'unico criterio che distingue un'esperienza di socialismo da un'altra è il modo in cui si vive tale proprietà. Di conseguenza l'unico criterio che distingue un'idea di socialismo da un'altra è il modo in cui si cerca di realizzare questa esperienza. Aveva ragione Lenin a puntare l'attenzione su questioni come la tattica e la strategia, che fino ad allora erano considerate patrimonio delle operazioni belliche. Con lui diventano questioni politiche, aventi come obiettivo la conquista del potere, cioè il rovesciamento delle istituzioni di governo. Il concetto di "rivoluzione", con Lenin, diventa qualcosa di molto concreto, di fattibile, come mai, prima d'allora, s'era visto. Con lui si ha, per la prima volta, l'impressione che il socialismo, dopo 6000 anni di storia basata su conflitti antagonistici irriducibili, poteva passare dall'idea all'esperienza. La vittoria del socialismo, in Russia, poi tradito dallo stalinismo, dimostrò la superiorità dell'organizzazione del bolscevismo rispetto a tutte le altre correnti che volevano superare lo zarismo. Dimostrò anche la superiorità rispetto a tutte le correnti del socialismo euroccidentale che dicevano di voler costruire un'alternativa al capitalismo. Semmai ci si può chiedere il motivo per cui il leninismo fu subito tradito dallo stalinismo. Qualcosa deve aver fatto difetto. E non si può certo sostenere, compiendo un'opera di sciacallaggio, che l'aberrazione dello stalinismo era già inclusa nel leninismo. Che l'idea di "socialismo" sia imprescindibile nell'epoca contemporanea, lo dimostra il fatto che anche le esperienze nazi-fasciste vi si richiamavano. Certo, vi possono essere passi avanti in direzione del socialismo, e passi indietro a favore del capitalismo. Tuttavia la tendenza resta sempre verso il recupero di un socialismo perduto, proprio perché il capitalismo non solo non è in grado di risolvere le proprie contraddizioni, ma tende anche, per motivi endogeni, ad aggravarle sempre di più. Il vero problema sta quindi nel cercare di capire quali possano essere le condizioni per far sì che i tradimenti non siano in grado di avere effetti così devastanti su milioni di persone. Eliminare la possibilità del tradimento è ovviamente impossibile. Ma si deve cercare di rendere quest'azione meno gravosa possibile. Il problema cruciale sta proprio in questo: da un lato, infatti, l'idea del socialismo, per realizzarsi, ha bisogno del concorso di grandi collettività; dall'altro ci si rende facilmente conto che il tradimento degli ideali ha ripercussioni dirette proprio su queste grandi collettività. L'esperienza leninista ci ha fatto capire che se queste collettività non restano unite, a rivoluzione compiuta, possono facilmente essere sopraffatte dai conservatori del sistema, i quali possono avvalersi di aiuti esterni, da parte di altre forze avverse al socialismo. E tuttavia, una volta superata la reazione, si deve avere l'intelligenza per capire che una gestione "statalistica" della transizione facilmente porterà ad abusi e corruzione, come appunto hanno dimostrato gli orrori dello stalinismo. Socialismo vuol dire non solo democrazia politica, ma anche autogestione sociale dei bisogni collettivi. Un'autogestione del genere non può essere statalizzata, proprio perché è l'istituzione stessa dello Stato che va abbattuta. Un'autogestione è autentica se è circoscritta a livello territoriale. La democrazia infatti, per essere autentica, deve essere diretta, ma non potrà mai esserlo se è "statale". Nell'ambito dello Stato la democrazia può essere solo indiretta, delegata, rappresentativa. È il concetto stesso di "istituzione" che impedisce la democrazia diretta. E là dove questa manca, è impossibile un'autogestione sociale dei bisogni collettivi. La democrazia e l'autogestione sono possibili soltanto all'interno di comunità ristrette, dove sia possibile un controllo reciproco in forza di una conoscenza personale fra i soggetti che le compongono. Se non comprendiamo questo, non servirà a niente fare delle rivoluzioni per edificare degli Stati con cui sostituirne altri. |
Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"