IDEE PER UN SOCIALISMO DEMOCRATICO. SUL NESSO FEUDALESIMO-CAPITALISMO

IDEE PER UN SOCIALISMO DEMOCRATICO
L'autogestione di una democrazia diretta


IDEE PER UN SOCIALISMO DEMOCRATICO
SUL NESSO FEUDALESIMO-CAPITALISMO

I - II - III - IV - V - VI - VII - VIII - IX - X

Una divisione del lavoro ha senso quando non esiste divisione tra lavoro e capitale, cioè quando i legami sociali dei produttori sono molto forti, altrimenti essa si trasformerà, inevitabilmente, in una fonte interminabile di soprusi: sfruttamento del lavoro altrui, abuso delle risorse naturali, sovrapproduzione di merci, impiego della scienza e della tecnica per perpetuare l'alienazione dominante (anche quando si pensa di attenuarne gli effetti) ecc.

Nel capitalismo la divisione del lavoro arricchisce pochi a svantaggio dei molti (all'interno di una stessa nazione e fra nazioni diverse). Guardando cosa essa ha prodotto in questa formazione sociale, vien da rimpiangere il Medioevo, in cui dominava l'autonomia del produttore diretto, che era polivalente, cioè indipendente dal mercato per le cose essenziali.

Solo che tale modo di produzione di per sé non può essere sufficiente per costituire un'alternativa efficace al capitalismo. Poteva costituire un'alternativa quando il capitalismo era in fieri, naturalmente a condizione che il sistema dell'autoconsumo eliminasse la piaga del servaggio.

Oggi, perché l'autoconsumo possa costituire un'alternativa, occorrerebbe che il capitalismo subisse un crollo totale per motivi endogeni, ma è dubbio che ciò avvenga in tempi brevi. Il capitalismo si regge sullo sfruttamento del Terzo Mondo: finché le colonie e le neocolonie non si emancipano anche economicamente, il capitalismo non si accorgerà mai di non poter autosussistere.

Quando una formazione sociale si regge sullo sfruttamento del lavoro altrui, si autoriproduce solo fino a quando i lavoratori si lasciano sfruttare: il fatto che ad un certo punto sia nata l'esigenza del colonialismo sta appunto a dimostrare che i lavoratori europei non avevano intenzione di lasciarsi sfruttare in eterno. Ora tale decisione devono prenderla i lavoratori del Terzo Mondo, e auguriamoci che, quando la prenderanno, i lavoratori dei Paesi occidentali capiscano che quello è il momento buono per realizzare l'internazionalismo proletario contro il capitalismo mondiale. Altrimenti un'altra guerra mondiale sarà inevitabile.

Va comunque assolutamente escluso che il lavoro polivalente del produttore autonomo possa costituire un'alternativa quando esso viene sottoposto a un qualsivoglia regime di servaggio. "Autonomia" non può solo voler dire "indipendenza dal mercato", ma deve anche voler dire "libertà" da qualunque forma di schiavitù. Si badi: non da qualunque forma di "dipendenza", ma da qualunque forma di "dipendenza" in cui esiste un "padrone" e un "servo", una posizione precostituita di dominio e una di subordinazione.

E' stata un'illusione della borghesia quella di credere che la libertà di un individuo potesse realizzarsi emancipandosi da qualunque dipendenza dal collettivo. Gli uomini devono dipendere dalle leggi che loro stessi, democraticamente, si danno, e devono altresì dipendere da molte leggi della natura, affinché sia salvaguardato l'equilibrio dell'ecosistema.

Se nel Medioevo non ci fosse stato il duro servaggio e l'oppressione culturale del clericalismo, forse il capitalismo non avrebbe trionfato così facilmente. Gli storici, in tal senso, dovrebbero verificare la tesi secondo cui l'edificazione del capitalismo è avvenuta in maniera relativamente facile nell'Europa occidentale, perché qui il servaggio era molto più opprimente che nell'Europa orientale.

Nei confronti del Medioevo il marxismo ha smesso emesso giudizi unilaterali, dettati da una sorta di pregiudizio anticlericale e antirurale. Si è condannato, col servaggio e il clericalismo, anche l'autonomia economica del produttore diretto, cioè il primato del valore d'uso sul valore di scambio, il significato sociale della comunità di villaggio, i concetti di autogestione e autoconsumo, ecc.

Il marxismo si è lasciato abbacinare dal fatto che, con l'impiego della rivoluzione tecnologica e con una forte divisione del lavoro, il capitalismo sia riuscito ad aumentare a dismisura le potenzialità delle forze produttive. In effetti in quest'ultimo mezzo millennio l'umanità ha fatto passi da gigante sul piano produttivo e tecnologico.

Tuttavia, molti di questi passi, che si ritengono "in avanti", sono stati pagati con terribili passi indietro (guerre mondiali, distruzione dell'ecosistema, morte per fame ecc.), al punto che oggi ci si chiede se davvero sia valsa la pena realizzare tanti progressi quando il risultato finale viene considerato soddisfacente solo per un'infima parte dell'umanità. Il marxismo ha avuto due torti fondamentali:

1. quello di appoggiare un qualunque sviluppo capitalistico contro la rendita feudale, senza preoccuparsi di trovare nel sistema dell'autoconsumo le possibilità di un'alternativa al servaggio;

2. quello di tollerare i guasti provocati dal progresso tecno-scientifico, illudendosi di poterli ovviare sostituendo il profitto privato col profitto statale.

Detto altrimenti, lo storico dovrebbe chiedersi se il superamento del servaggio e del clericalismo doveva necessariamente comportare il pagamento di un prezzo così alto, ovvero se la nascita del capitalismo è stata davvero un evento inevitabile della storia o se invece essa è dipesa dal fatto che nel corso del Medioevo gli uomini non fecero abbastanza per cercare un'alternativa alle contraddizioni antagonistiche del feudalesimo. Il capitalismo è forse diventato inevitabile a causa di questa mancata alternativa?

Se c'era la possibilità di una diversa soluzione, allora dobbiamo rimettere in discussione i giudizi negativi espressi dai teorici liberali e marxisti nei confronti del sistema economico basato sull'autoconsumo. Se vogliamo infatti creare un socialismo veramente democratico, di fronte a noi ci sono due strade (che possono anche essere seguite contemporaneamente, anche se di necessità una dovrà prevalere sull'altra):

1. l'autoconsumo del produttore diretto, polivalente, che ha bisogno del mercato solo per cose che non può assolutamente produrre o reperire come risorsa naturale (cose di cui, in ultima istanza, può anche far meno per poter vivere). Ciò implica ch'egli sia giuridicamente e politicamente libero, non soggetto ad alcuna coercizione extra-economica. Naturalmente le sue forze produttive saranno sempre limitate (come d'altra parte i suoi bisogni), ma la stabilità di tale metodo produttivo è assicurata, a meno che essa non venga minacciata da catastrofi naturali, nel qual caso dovrebbe farsi valere la solidarietà del collettivo, cui il produttore appartiene. Ovviamente la solidarietà va coltivata per tempo, in quanto essa non può nascere automaticamente; ed è questo in un certo senso il limite di tale sistema produttivo: il produttore diretto tende a rivolgersi alla forza del collettivo solo nel momento del bisogno;

2. una collettività o una società basata sulla divisione del lavoro, ma in cui l'uguaglianza dei lavoratori sia assicurata dalla democrazia a tutti i livelli. Quanto più è forte la divisione del lavoro, tanto più forti devono essere i legami sociali, poiché chi non rispetta le proprie funzioni incrina tutto l'apparato produttivo. Un sistema di tal genere deve puntare molto sui legami che possono realizzare i valori etico-sociali e culturali.

Ora, considerando il forte individualismo esistente in Europa occidentale (per non parlare degli USA), la seconda soluzione pare la più difficile da realizzare, poiché essa implica una certa maturità socio-culturale o comunque una certa disponibilità interiore a partecipare ai problemi comuni.

Europa occidentale e USA potrebbero imparare il socialismo democratico basato sulla divisione del lavoro, grazie all'aiuto di forze sociali straniere, provenienti da Paesi che conoscono il valore del collettivismo. Tali forze però dovrebbero essere considerate "paritetiche" e non dovrebbero essere numericamente "minoritarie".

In ogni caso sarà impossibile per l'Occidente conservare gli attuali livelli di produttività, accettando il collettivismo proprio dei Paesi non-capitalistici.

* * *

Analizziamo una tesi storica marxista apparentemente incontestabile:

La lentezza dello sviluppo sociale ed economico dell'Italia meridionale, rispetto all'Italia centro-settentrionale, nei secoli XII e XIII, era causata dalla scarsa diffusione dei rapporti mercantili-monetari e dalla mancanza quasi assoluta di mercati di smercio attorno alle città, che si occupavano generalmente solo del commercio estero. Principali responsabili di questa situazione furono i Normanni.

Ora, se si ragiona in maniera "positivistica" e "deterministica", non si può che convenire con la giustezza di tale tesi, che facilmente dimostra la superiorità di un'Italia "borghese" rispetto a un'Italia di tipo sostanzialmente "feudale".

Qui, al fine di contestare tale tesi, non vogliamo sostenere che l'effettivo ritardo del Sud nei confronti del Nord era, a quel tempo, ancora facilmente colmabile, in quanto moltissimi arabi, bizantini, ebrei... non disdegnavano affatto le pratiche mercantili; e se la politica di Federico II avesse sostenuto tali attività, senza porre monopoli statali e ingenti tasse, il divario fra Nord e Sud sarebbe stato superato. Non è questo il luogo per verificare se sia stato un bene o un male che i Normanni prima e gli Svevi dopo fossero "aperti" solo sul piano culturale e non anche su quelli socio-economico e politico.

La tesi suddetta, in realtà, va contestata in maniera intrinseca, cioè sul piano metodologico, prima ancora che contenutistico: va contestata per quello che essa, in sé e per sé, vuole esprimere e sottintendere, a prescindere dal fatto che possano esistere tesi contrapposte, ugualmente valide.

Quando si dice che "la lentezza dello sviluppo sociale ed economico del Sud era causata dalla scarsa diffusione dei rapporti mercantili-monetari", si fa inevitabilmente una gran confusione fra ciò che riguarda l'economia e quello che riguarda più propriamente il sociale (tale confusione il marxismo l'ha ereditata dal liberalismo borghese).

Sociale ed economico sono due cose diverse, poiché là dove esiste democrazia "sociale" non è detto che vi sia una particolare ricchezza "economica", e viceversa: lo sviluppo economico non è di per sé indice di garanzie sociali generali, di emancipazione delle masse popolari. E' un'illusione e anche una forma d'inganno perpetrata dalla borghesia quella di far credere che il benessere sociale dipenda dall'aumento del prodotto interno lordo. La qualità della vita non può dipendere dalla quantità di beni e servizi che si producono, neanche se questi beni e servizi fossero equamente distribuiti.

Normalmente infatti, nei paesi capitalisti, accade il contrario, e cioè che lo sviluppo meramente economico viene pagato da forti ingiustizie sociali. Il PIL aumenta e quindi aumentano i profitti dei capitalisti, ma a tutto svantaggio dei salari degli operai e degli stipendi degli impiegati. Se salari e stipendi aumentano, non aumentano in proporzione dei profitti, né il loro aumento riesce a tenere il passo con il crescere progressivo dei prezzi dei prodotti.

Queste cose tuttavia il marxismo le ha sempre dette. Ciò che qui stupisce è il criterio di misurazione del grado di "benessere" del Sud Italia, che viene messo in rapporto al grado di "ricchezza" di un'altra area del Paese. In realtà il Sud non poteva essere "arretrato socialmente" solo perché poco sviluppato sul piano "produttivo".

Tra l'altro, quando gli storici (marxisti o liberisti) parlano di "sviluppo" intendono anzitutto quello "economico", e di tutti gli sviluppi economici possibili, intendono esplicitamente riferirsi a quello capitalistico. E' cioè il "modo di produzione capitalistico" il metro di misura dello "sviluppo economico e sociale" di un determinato Paese. Il marxismo classico (quello almeno del Capitale) contesta questo modo non a monte ma a valle, cioè al momento di distribuire i profitti. Il capitalismo va superato perché non vuole ammettere che la propria ricchezza dipenda dallo sfruttamento del lavoratore.

Perché è fallito il "socialismo reale"? Perché ci si è illusi di poter eliminare i difetti del capitalismo eliminando i singoli capitalisti; ci si è illusi di poter garantire l'equa distribuzione dei profitti trasformando i tanti singoli capitalisti in un unico capitalista: lo Stato; ci si è illusi di poter creare la socializzazione dei mezzi produttivi a partire dalla loro nazionalizzazione; ci si è illusi di poter risolvere i problemi connessi all'uso della rivoluzione tecnico-scientifica affidandosi a una pianificazione amministrativa imposta dall'alto.

Il "socialismo reale" è fallito perché sin dai tempi dei "classici" del marxismo si era rimasti vittime di un pericoloso sillogismo: se "capitalismo" vuol dire "sviluppo" e il feudalesimo non era certo sviluppato, allora il feudalesimo era anche socialmente "arretrato". I valori etico-sociali sono stati fatti dipendere dal livello di benessere economico, salvo poi sostenere che, nonostante l'alto grado di produttività materiale, la prassi del capitalismo è fortemente anti-democratica e i suoi valori altamente anti-umanistici.

Questo modo di vedere le cose è, a dir poco, riduttivo (in quanto strumentale). Non si può sostenere con obiettività e realismo che il capitalismo è superiore al feudalesimo perché il socialismo costituisce l'unica vera alternativa al capitalismo.

Il marxismo contemporaneo deve adottare un criterio storico più flessibile, col quale poter guardare le formazioni sociali, che si sono susseguite nella storia, per quello che sono, senza metterle a confronto con quelle successive. La domanda cui il marxismo dovrebbe rispondere (in parte il populismo cercò di farlo) è la seguente:

Aveva in sé il Medioevo le possibilità di risolvere le contraddizioni antagonistiche del feudalesimo senza per questo dover imboccare la strada del capitalismo?

Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Politica - Socialismo democratico
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 11/12/2018