Per un socialismo democratico: OLTRE LO STATO DI DIRITTO

IDEE PER UN SOCIALISMO DEMOCRATICO
L'autogestione di una democrazia diretta


OLTRE LO STATO DI DIRITTO

I - II - III - IV - V - VI - VII - VIII - IX - X

Ha ancora senso parlare di "Stato di diritto" o di "Stato socialista di diritto"? Queste espressioni giuspolitiche, anche alla luce di quanto è accaduto nell'est-europeo, non stanno cominciando forse ad apparire come un tentativo per continuare a giustificare dei sistemi sociali (ivi inclusi quelli occidentali) che democratici non sono più e forse mai lo sono veramente stati?

Detto senza interrogativi, si ha come l'impressione che tenere uniti concetti come "Stato e democrazia" o "Stato e socialismo", o addirittura "Stato e diritto", sia diventato assolutamente deleterio per lo sviluppo dei rapporti sociali e umani. Questo perché l'evidenza sta lì a dimostrare che all'affermazione di uno dei due termini (lo Stato) segua necessariamente, quasi automaticamente, la negazione dell'altro.

La stessa perestrojka sembra essersi incagliata proprio su questo scoglio. Dopo aver sostenuto -a ragion veduta- che la formazione di uno "Stato socialista di diritto" è indissolubilmente legata alla promozione della democrazia, si è posta per così dire in attesa contemplativa dello sviluppo "spontaneo", naturale, della stessa democrazia, senza offrirne però gli strumenti più idonei. Addirittura si è arrivati a credere che per realizzare il socialismo autogestito sia necessario trovare una mediazione tra socialismo e capitalismo, tra pianificazione dall'alto e mercato dal basso.

Questi modi d'impostare il problema non hanno dato i frutti sperati. Si era detto: l'autogestione socialista del popolo non è possibile se non si garantisce il primato della legge o del diritto, che esclude l'arbitrio, l'anarchia e gli abusi dei funzionari statali o di partito.

Bene. Perché allora tutto questo si è fermato? La risposta forse è più semplice di quel che non si creda: perché alla pretesa identificazione di "Stato e popolo" non ha fatto seguito la vera democrazia sociale (o socialista), ma solo l'intenzione di crearla. Nel peggiore dei casi è venuto emergendo il rifiuto istintivo nei confronti non solo di tutto quanto è "statale", ma anche di tutto quanto è "popolare": di qui le tendenze corporative, etnocentriche, antisociali...

Cioè a dire, non si è ancora arrivati ad accettare l'idea che per realizzare la vera democrazia sociale, occorre superare non solo il concetto di Stato, che inevitabilmente amministra in maniera burocratica e piramidale tutta la società; non solo il concetto tradizionale di partito, che si serve appunto delle istituzioni statali per dominare, dividendo la società in "bianchi e neri"; ma va superato anche il concetto di diritto, che da solo non può far funzionare le cose, neppure se è il più democratico di questo mondo, riformato da intense lotte politiche.

La perestrojka l'aveva detto con precisione: occorre sviluppare, in modo organico, dal basso, la democrazia socialista attraverso il decentramento autogestionale e l'uso sociale, collettivo, libero (non imposto dalle autorità superiori) della proprietà, dei mezzi economici di produzione, trasformazione e distribuzione dei prodotti. La perestrojka era giunta a questa conclusione dopo aver costatato che lo Stato socialista non era migliore di quello capitalista, che cioè una proprietà statalizzata non è di per sé più efficiente di una assolutamente privata.

Detto questo però essa non ha fatto, con coerenza e decisione, il passo successivo: che è quello di convincersi che non può esistere vera democrazia sociale se questa non è diretta, immediata, gestita dal popolo, e che il popolo, per operare in maniera efficiente, non può più coincidere con la nazione o, peggio, con lo Stato. Il vero "popolo" è quello che coincide con una unità territoriale limitata, circoscritta anche nei confini geografici, aldilà dei quali la democrazia sociale non diventa -come spesso si dice- più "complessa" o "diversificata", ma diventa "formale" cioè invivibile, impossibile.

L'AUTOGOVERNO DEL POPOLO

Gli Stati moderni vennero istituiti, oltre che per motivi di "classe", dopo aver sperimentato che le forze sociali potevano produrre, attraverso la tecnologia, un benessere particolarmente elevato. L'organizzazione dello Stato moderno sarebbe stata impensabile in qualunque altra epoca, proprio perché nei confronti delle risorse naturali e umane non è mai esistito quell'incredibile sfruttamento cui ci ha portato la rivoluzione tecnico-scientifica e industriale del capitalismo.

Il capitalismo ha partorito un mostro che, anche contro le sue migliori intenzioni, fa sentire i cittadini alienati e impotenti (inclusi quelli che - come dice Marx - fanno della propria alienazione un motivo per dominare gli altri). Semplicemente perché non si riesce più ad avere un rapporto organico con il contesto locale in cui si vive: ci si sente derubati delle proprie capacità decisionali, gestionali e di controllo. Cittadini e lavoratori sanno bene infatti che fra loro e il contesto locale si frappone sempre un elemento estraneo, che vuol farla "da padrone": è lo Stato.

La perestrojka ha tardato a comprendere il processo di autonomizzazione delle etnie, delle nazionalità e dei gruppi linguistici, religiosi ecc. Ha veduto in questo processo solo gli aspetti negativi della disgregazione, e non ha compreso ch'esso, in realtà, rappresenta solo la forma più istintiva, più irriflessa, di un altro processo, ben più vasto e imponente, che dovrà caratterizzare la democrazia nei prossimi secoli.

La stessa sinistra occidentale spesso non ha lo sguardo rivolto verso il futuro: si preoccupa dello sfascio del "socialismo reale" perché vede solo il dominio incontrastato degli USA, oppure se ne compiace al fine di legittimare la propria rinuncia alla fuoriuscita dal capitalismo. In entrambi i casi non ci si è sforzati di comprendere in che modo la nuova mentalità della perestrojka può portare il mondo intero, e quindi anche l'occidente, verso il superamento dell'antagonismo sociale e internazionale. Molta della stessa intellighenzia sudamericana progressista sembra non aver capito che il "socialismo reale" non poteva continuare a vivere nella stagnazione solo per impedire che il conflitto Est-Ovest si trasformasse in quello Nord-Sud.

Dobbiamo in sostanza capire che solo attraverso l'autogoverno del popolo (inteso come gruppo sociale circoscritto, dotato di autonomia politica e capacità decisionale a tutti i livelli) è possibile superare il mito di una legge imparziale o di uno Stato di diritto, democratico. La legge ha valore nella misura in cui la elabora chi la deve applicare. Chi la deve applicare -diversamente da chi fino ad oggi si è limitato ad elaborarla- sa bene che i rapporti sociali sono sempre molto più complessi di qualunque legge. Le leggi migliori, quelle che veramente rispecchiano gli usi e i costumi di una determinata popolazione, sono -come tutti sanno- quelle "non-scritte", quelle che ci si tramanda per consuetudine, di generazione in generazione, quelle che si cambiano al cambiare dei rapporti sociali, collettivi, di tutta la popolazione, in modo lento e progressivo. Il vero diritto - diceva Marx - dev'essere "disuguale", perché deve tener conto di bisogni diversi.

Si dirà: se nell'ambito locale vigono i rapporti antagonistici (frutto ad es. di un uso privato della proprietà), è impossibile che la legge promuova la democrazia, poiché chi la elabora non sarà mai la stessa persona che la deve applicare; oppure, se si tratta della stessa persona, quella più forte (economicamente) cercherà d'imporre delle leggi la cui applicazione non leda i suoi interessi.

È vero, ma la storia ha dimostrato, tanto all'est quanto all'ovest, che lo Stato non è in grado di superare i rapporti antagonistici. Nel "socialismo reale" lo Stato cercò di eliminarli statalizzando, con la forza, la proprietà, ma finì col riprodurli nei rapporti tra società civile e Stato, poiché lo Stato e il partito dominavano una società impotente.

LA SOVRANITÀ POPOLARE

Nei paesi capitalisti -come noto- l'antagonismo della società viene protetto dallo Stato, il quale cerca di renderlo il più sopportabile possibile, onde evitare che le masse reagiscano con scioperi e manifestazioni, e cerca invece di esasperarlo, togliendosi la maschera dell'interclassismo, quando esse reagiscono con insurrezioni e rivoluzioni.

Questo cosa significa? Che se non sono le masse a distruggere i rapporti conflittuali, che alienano gli uomini e li abbruttiscono, sostituendoli con quelli pacifici, egualitari e democratici, nessuno potrà mai farlo al loro posto. Nessuno cioè potrà mai creare uno Stato così democratico o una legislazione così giusta da rendere inutile il compito delle masse. La perestrojka non poteva essere costruita solo dall'alto.

Ogniqualvolta il popolo si attende la propria emancipazione o liberazione da parte di forze governative o statali, di sicuro non si realizza alcuna democrazia. Uno Stato che garantisce la democrazia, eo ipso la viola.

Tale assunto i paesi est-europei l'hanno acquisito prima di noi, perché politicamente, nonostante tutto, erano più maturi. Ciò che ancora difetta è la pars construens. Ancora in effetti non si vede da parte di quelle popolazioni un'energia, una capacità autorevole, sufficiente a delegittimare progressivamente le funzioni dello Stato e del diritto. Ancora cioè non si è capaci di trarre le logiche conseguenze dal principio affermato in sede teorica, secondo cui il valore politico fondamentale dello Stato di diritto è quello della sovranità popolare.

Come noto, la concezione dello Stato di diritto si è sviluppata in antitesi a quella retorica o demagogica di "Stato di tutto il popolo", che, a sua volta, aveva sostituito quella estrema, che lo stalinismo aveva protratto anche in tempi di pace, di "dittatura del proletariato". Dalla "dittatura sul proletariato" dello stalinismo si era passati allo "Stato per tutto il popolo" della stagnazione. Oggi si parla di "Stato di diritto" con una pretesa maggiormente realistica, imitando -sul piano dell'espressione formale- la giurisprudenza occidentale. Si afferma cioè che la legge deve essere uguale per tutti, che i diritti non vanno affermati solo sulla carta, ecc., e si aggiunge che il socialismo, a differenza del capitalismo, ha maggiori possibilità, se diventa democratico, d'essere coerente coi suoi principi.

La democrazia sociale però non avrà futuro senza il coraggio di affermare non solo che lo Stato di diritto è tale solo se si lascia subordinare alla sovranità popolare, ma anche che esso deve accettare l'idea di una sua progressiva estinzione. Oggi infatti siamo arrivati al punto che un decentramento ha senso solo se contemporaneamente si ha un progressivo esautoramento delle funzioni statali, parlamentari e del governo centrale, a vantaggio dei livelli regionali e locali. Questo vale tanto all'est quanto all'ovest.

Quando Lenin, e prima di lui Engels, dicevano che lo Stato socialista deve estinguersi, in quanto non può essere abolito a colpi di decreti e meno che mai può esserlo finché esiste l'antagonismo sociale, sostenevano, in pratica, il primato della società civile (dando per scontato, naturaliter, ch'essa fosse già socialista).

Oggi inoltre sappiamo che la fine dello Stato o del diritto non può essere neppure la "logica" conseguenza di una rivoluzione politica, come si credette l'indomani dell'Ottobre. I bolscevichi hanno pagato cara l'illusione di credere che fosse sufficiente una rivoluzione politica per garantire la libertà a tutti gli uomini. La rivoluzione politica, in realtà, non è che il primo momento della liberazione, quello più elementare, più "facile" -se vogliamo-, poiché è il momento concepito come liberazione da un "nemico" (interno e/o esterno, politico e/o sociale), non è ancora il momento positivo della costruzione della libertà nella pace.

L'ESTINZIONE DELLO STATO

Il socialismo occidentale spesso si è vantato di non essere caduto nelle aberrazioni del "socialismo reale", mostrando d'aver capito in anticipo che il socialismo, per essere democratico, deve avvalersi delle conquiste giuspolitiche della democrazia borghese (che è "formale" per sua natura). In tal modo si è creduto e si è fatto credere che la transizione dal capitalismo al socialismo doveva necessariamente avvenire in maniera pacifica, non-violenta, senza traumi di sorta... Come se a priori si potesse stabilire una cosa del genere! Si è cioè sperato che la borghesia giungesse alla consapevolezza delle proprie contraddizioni e si facesse da parte spontaneamente, consegnando le chiavi del potere alle forze di opposizione. Si è insomma avuto l'ardire di criticare il "presente" del socialismo in nome del suo "futuro", l'essere in nome del dover-essere.

Già l'Ottobre, in verità, aveva evidenziato la precarietà di queste posizioni. Che cosa fu la rivoluzione bolscevica se non il tentativo di dimostrare che in una società dominata dall'oppressione, le classi che la subiscono non possono coltivare a lungo l'illusione di poterla sopportare?

Il fatto è purtroppo che, puntando più sulla centralizzazione e meno sulla democratizzazione, ad un certo punto la rivoluzione ha impedito che la verità affermata sull'estinzione dello Stato potesse realizzarsi in modo adeguato. L'ultimo Lenin comprese sì la necessità del decentramento e dell'autogestione, ma ai fini del rafforzamento dello Stato non della sua scomparsa progressiva. In questo, certo, egli era condizionato da un mare di problemi: l'arretratezza economica della società e culturale delle masse, l'interventismo straniero, la guerra civile... Era facile in quei momenti pensare che la controrivoluzione sarebbe stata meglio combattuta col centralismo che non con la democrazia. Meno giustificazioni ebbe lo stalinismo, che finì col distruggere tutta l'esperienza dei Soviet, la NEP e qualsiasi forma di decentramento e di autogestione.

Reagendo poi allo stalinismo e alla successiva stagnazione, la perestrojka ha avuto l'occasione di comprendere che la vera, profonda, libertà è quella che si vive in maniera sociale, nell'ambito dei rapporti umani, in un contesto in cui l'antagonismo dovuto alle differenze di classe, di ceto o di proprietà sia risolto non solo politicamente (ché se la rivoluzione si ferma a questo livello non ottiene nulla), ma anche socialmente.

Il primo passo è certamente quello della rivoluzione politica (anche il gramscismo, se non tende a questo fine, è un'illusione), altrimenti l'edificio dei nuovi rapporti sociali è impossibile costruirlo. La spontaneità della transizione è un criterio che può essere accettato in via di fatto: in fondo, tutte le opposizioni a un sistema oppressivo nascono spontaneamente. Ma non la si può accettare come metodo, poiché così nessun sistema oppressivo è mai stato e mai verrà vinto.

La spontaneità, al massimo, la si può accettare, come metodo, dopo che la rivoluzione politica è stata compiuta, dopo che la democrazia sociale messa in atto ha raggiunto una certa maturità, dopo che la responsabilità delle masse, che sentono il collettivo come parte integrante della loro vita, appare come garanzia sufficiente contro il ritorno ai vecchi sistemi. Ma perché questa maturità si formi occorre tempo, molto tempo.

Oggi il compito che attende la sinistra è quello di organizzare un'opposizione consapevole al sistema politico ed economico di questa società capitalistica, che abbia come metodo l'affronto delle contraddizioni a livello locale (per costruire e strutturare il consenso), e come fine l'edificazione di una società autogestita, in cui il livello locale-regionale abbia un primato funzionale, operativo, su quello centrale-nazionale.

In questo senso, un partito che lotta per la transizione, non può essere semplicemente un'organizzazione politica, dev'essere anche uno strumento di promozione dei diritti umani, della cultura, dei rapporti sociali, dell'ambiente... Non nel senso che il partito deve gestire in proprio queste cose, ma nel senso ch'esso deve promuoverle, stimolarle, o raccordarle, se già ci sono.

La democrazia non può più essere intesa solo in senso politico, come spazio da rivendicare per garantire il rispetto di determinati diritti. Essa va intesa in senso globale, complessivo, per il recupero di un'identità perduta e non solo di un diritto violato. E ognuno si rende conto da sé che per recuperare tale identità occorrono anche i livelli sociale e culturale, oltre a quello politico, ovvero la valorizzazione delle risorse naturali, la tutela delle minoranze etniche, la cultura della diversità, la lotta contro il consumismo e tante altre cose non meno importanti.

Il nuovo soggetto democratico e socialista, nel volere l'estinzione dello Stato, non va a cercare dei mezzi efficaci, a livello giuspolitico, validi di per sé, per cercare d'impedire, con sicurezza, che in futuro si ripresenti la violazione della legalità: non esiste alcuna possibilità d'impedire ope legis una tale violazione, né, tanto meno, servendosi di mezzi repressivi e polizieschi.

LA FINE DELLO STATO

I

Ognuno deve potersi sentire responsabile delle proprie azioni e deve rendere conto alla collettività di ciò che dice e di ciò che fa.

In questo senso la fine dello Stato sociale è giusta, perché in tale fisionomia del bene pubblico il cittadino si sentiva come deprivato della propria libertà di scelta, cioè abituato ad attendere dalle istituzioni la soluzione dei suoi problemi.

Tuttavia, come spesso succede quando si cerca di eliminare un male con una nuova medicina, si rischia di fraintendere le modalità del risanamento generale.

Parlare infatti di autonomia, autogestione, decentramento, federalismo e cose del genere, può avere un senso positivo per tutta la collettività soltanto se si offre concretamente a ogni cittadino la possibilità di partecipare direttamente alla gestione della cosa pubblica.

Noi dobbiamo sì desiderare la fine dell'assistenzialismo, la fine della delega alle istituzioni, la fine della statalizzazione della vita sociale, civile, politica, economica e culturale della nazione, ma dobbiamo anche desiderare l'inizio di una nuova vita pubblica e collettiva, democratica e partecipata, onde impedire che si affermi, senza più alcun controllo, il principio borghese della libera iniziativa privata, che porta a considerare il proprio simile solo in veste di concorrente.

Ogni forma di sana competizione non può prescindere dal principio generale secondo cui ognuno ha diritto a un'esistenza dignitosa. E non si può sostenere, in presenza di un sistema basato sui monopoli, che se uno non riesce a vivere un'esistenza del genere, la responsabilità ricade solo su di lui.

Per superare il principio homo homini lupus, occorre che ogni individuo venga posto nella condizione di poter gestire liberamente la propria vita, nel rispetto delle condizioni di vita della comunità cui appartiene, controllando che la vita degli altri non diventi un ostacolo all'esercizio della propria libertà. Questo lavoro di reciproco controllo non può essere fatto da un ente super partes.

Ovviamente non esiste una definizione astratta di libertà, essendo essa una conquista incessante. È nel concreto infatti che gli uomini devono cercare le condizioni per cui la libertà di uno sia in grado di favorire la libertà dell'altro.

Quando non si capisce questo elementare principio, spesso si va incontro a catastrofi d'incalcolabile portata: le stesse rivoluzioni sociali e politiche, che sorgono sempre come risposta all'egoismo di pochi sfruttatori, portano con sé sofferenze e lutti a non finire.

II

Lo smantellamento del Welfare State nell'economia e nei servizi (sanità, scuola...) e in altri settori dell'economia, di per sé non è un processo negativo, poiché esso potrebbe anche significare che le masse hanno raggiunto la maturità sufficiente per cominciare ad autogovernarsi.

La realtà purtroppo è un'altra. Da un lato lo Stato afferma la logica del "più mercato" perché nel campo dei servizi sociali è fortemente deficitario. È impossibile infatti che in un sistema sociale capitalistico possa sopravvivere a lungo uno Stato con delle caratteristiche che fino a ieri si potevano riscontrare nei paesi del "socialismo reale". Lo Stato sociale ha avuto senso dietro la spinta del '68, ma non è mai stato nell'interesse della borghesia tutelare le conquiste dei lavoratori. Peraltro, col fallimento del "socialismo reale", uno Stato "sociale" oggi non ha più alcuna ragione d'esistere.

Dall'altro lato però se in un paese capitalista lo Stato rinuncia alle sue funzioni sociali, non si deve pensare che ciò andrà a beneficio di quelle masse popolari più consapevoli, disposte ad autogestirsi, ma andrà a beneficio di quei gruppi sociali privilegiati, con redditi medio-alti, protetti dalle stesse istituzioni statali. Non a caso, soltanto una parte di Stato si sta smantellando, quella relativa ai servizi sociali, non certo quella burocratica, fiscale, poliziesca e militare, che anzi sta diventando sempre più forte.

A quale futuro stiamo andando incontro? Soltanto i popoli che meno sono stati abituati a credere nel valore delle istituzioni statali borghesi, i popoli che meno hanno subìto l'illusione di ritenere le istituzioni borghesi le più democratiche del mondo, saranno coloro che meglio riusciranno ad affermare i valori della democrazia e dell'autogoverno locale. In Occidente le classi e i ceti privilegiati faranno di tutto per conservare il loro potere.

STATO E NAZIONE

Il concetto di nazione va superato insieme a quello di Stato.

La nazione, come entità geopolitica, è sempre stata usata in funzione degli interessi dello Stato politico, anche se non è neppure il caso di paragonare la complessità di una nazione con lo schematismo unilaterale dello Stato.

Oggi sono due gli obiettivi da realizzare: 1. La democrazia diretta, e questo è possibile solo a livello locale; 2. Il villaggio globale, cioè la possibilità di eliminare qualunque barriera possa dividere gli uomini di tutto il mondo.

Dobbiamo da un lato essere protagonisti attivi del nostro destino e, dall'altro, aperti al mondo intero. Senza deleghe in bianco.

UN RAPPORTO DI FIDUCIA

Non deve forse essere considerato assurdo il fatto che in nome di un ente astratto: lo Stato, il potere politico (di governo e di opposizione) abbia fatto uccidere una persona concreta: Aldo Moro?

E non è forse assurdo il fatto che, in nome della stessa ragion di stato, si debba ogni volta rischiare che i sequestratori di persona uccidano i loro ostaggi?

Lo Stato affronta la criminalità organizzata aumentando le pene, le restrizioni, le forze dell'ordine, i controlli... Ma quando una persona è sotto sequestro, lo Stato non dovrebbe forse fare di tutto per liberarla senza metterne in pericolo la vita? Perché congelarne i beni o quelli dei parenti? Dovrebbe essere lo stesso Stato a farsi carico della trattativa!

Che problemi avrebbe uno Stato democratico se dopo aver pagato il riscatto, creasse le condizioni per un'autentica democrazia sociale? In presenza di questa democrazia non sarebbe forse più difficile il ripetersi dei sequestri? E se anche si dovesse ripetere un altro sequestro, non sarebbero forse gli stessi cittadini a consegnare i colpevoli? Il fatto è che lo Stato, facendo gli interessi di una classe sociale particolare: la borghesia, è incapace di avere un rapporto di fiducia con tutti i propri cittadini.

SOCIETÀ CIVILE E STATO

L'idea di volere più società civile e meno Stato di per sé non è sbagliata. Generalmente infatti chi preferisce lo Stato è un idealista astratto, cioè uno scettico sulle possibilità che la gente comune ha di vivere la democrazia sociale. È un idealista nel senso che ritiene possibile l'esistenza di qualcosa che obblighi i cittadini a essere democratici senza ledere i loro diritti. Il che è una contraddizione in termini, in quanto uno Stato che "garantisce" la democrazia è uno Stato che necessariamente la nega.

A un ente astratto, impersonale, falsamente oggettivo, in nome del quale si possono compiere crimini (vedi p.es. la pena di morte) e abusi a non finire (corruzione e concussione), nella convinzione di poter restare impuniti, perché sottratti ad ogni controllo popolare, è sempre preferibile una compagine concreta, fatta di cittadini reali e di situazioni contraddittorie, tali per cui non sia possibile nascondersi dietro il paravento delle istituzioni, delegando ad altri i motivi del cattivo uso della propria libertà.

Chi predica uno Stato interclassista o super partes inganna l'opinione pubblica, che ne sia cosciente o no. La vera obiettività sta nelle scelte che si compiono a favore dei bisogni della collettività.

Tuttavia, per poter realizzare un'alternativa efficace allo statalismo, occorre che la società civile sia fortemente organizzata. L'estinzione dello Stato può essere solo un processo graduale, in rapporto allo sviluppo della democrazia sociale.

Nello svolgimento del processo bisogna però essere chiari sin dall'inizio, poiché non ha alcun senso rivendicare l'autonomia socio-economica della società garantendo nel contempo allo Stato la centralità politico-istituzionale e militare. Quando si pretende la realizzazione dell'autonomia, occorre farlo in maniera globale, ancorché locale, investendo ogni aspetto delle attività umane.

Chiedere allo Stato di farsi da parte per permettere alle forze sociali di poter competere senza regole e senza controlli, significa rivendicare l'autonomia non per costruire ma per distruggere.

La concorrenza di per sé non è un valore, meno che mai se la sua applicazione comporta delle conseguenze drammatiche per chi non sa reggerla.

Come non è un valore in sé il monopolio, poiché se esso può limitare i danni della concorrenza, può causarne altri ancora maggiori, come p.es. il conformismo di massa, il rafforzamento del militarismo ecc.

Il problema non si risolve neppure cercando di conciliare monopolio e concorrenza, poiché essi, presi singolarmente, non sono che due facce di una stessa medaglia: nel senso che non è mai possibile stabilire a priori quale dei due regimi sia migliore. In genere l'uno si afferma quando l'altro, nel suo affermarsi, ha procurato situazioni disastrose.

È la stessa logica del capitale a rendere la scelta fra monopolio e concorrenza un falso problema.

TORNIAMO A ROUSSEAU

Lo Stato dev'essere subordinato alla società, il legislatore deve conformarsi alla volontà del popolo. Non solo, ma il popolo deve diventare legislatore di se stesso, e ciò è possibile solo a livello locale, perché solo a questo livello è possibile una democrazia diretta, piena, sostanziale e non formale, cioè non delegata a rappresentanti che vivono lontani dalla realtà quotidiana, che non possono oggettivamente avere il polso della situazione. La democrazia è reale quando può essere posta sotto controllo quotidiano dagli stessi cittadini che la gestiscono.

Vanno superati i concetti di Stato e di nazione, persino i concetti di istituzione (che è strettamente legato a quello di burocrazia) e di rappresentanza parlamentare, se s'intende con questo termine un governo centrale che impone le proprie leggi alle comunità locali.

Qualsiasi tentativo di democratizzare la società civile, senza mettere in discussione i concetti di Stato, nazione, istituzione e governo parlamentare centralizzato, è destinato a fallire, perché col tempo tende a svuotarsi di contenuto, non avendo la forza politica per affermarsi e, di conseguenza, per modificare il sistema (si pensi, in tal senso, alla fine che hanno fatto il decentramento regionale, i consigli di quartiere o di circoscrizione dei Comuni, i Decreti Delegati per le scuole statali ecc.).

Non è più sufficiente la "buona volontà" per risolvere la corruzione, il degrado, l'inefficienza... Non basta più neppure la decisione di sostituire i "corrotti e corruttori" con uomini di "provata virtù". Infatti, dopo un certo periodo di risanamento, si finisce col ricadere inevitabilmente nei mali di sempre. Da questo punto di vista fanno bene coloro che propongono di considerare la corruzione un elemento strutturale del sistema. Ma fanno bene "al negativo".

È il sistema in quanto tale che non funziona e non singoli suoi aspetti o settori; e funziona così male che praticamente qualunque volontà positiva dei politici finisce col realizzare obiettivi opposti a quelli voluti.

Torniamo dunque a Rousseau, ma passando per i principi della perestrojka, che umanizzano e democraticizzano l'idea di socialismo. La democrazia di Rousseau non potrà mai realizzarsi senza l'esperienza rivoluzionaria insegnata da Lenin e non potrà mai sussistere senza l'esperienza democratica insegnata dalla perestrojka.

Rousseau era un ingenuo, poiché pensava che una società divisa in classi potesse trasformarsi progressivamente nel suo contrario, ma aveva capito che senza la sovranità popolare diretta (quale ad es. si costituì con i "soviet") non c'è alcuna vera democrazia.

LA VOLONTÀ DI AUTORGANIZZARSI

Dobbiamo superare il concetto di "istituzione", che rappresenta una forma di "idealismo", in quanto si ritiene che possano esistere strutture perfette, adeguate ai molteplici bisogni e interessi della società, in grado di funzionare da sole, come per una "magica volontà dall'alto". Si ha infatti l'assurda pretesa che le istituzioni facciano quello che la società non riesce più a fare come "società".

In realtà l'istituzione, di per sé, a prescindere dalla volontà di chi la rappresenta, tende a negare la realtà, poiché per funzionare ha bisogno di semplificare la complessità delle cose reali. E nella misura in cui si separa dalla realtà essa inevitabilmente, nella propria presunta autonomia, tende a complicare le cose semplici, grazie ai meccanismi della burocrazia.

Nata con la pretesa d'essere un modello di perfezione, l'istituzione, col tempo, è diventata esattamente il contrario di quanto la società borghese si era prefissata. D'altra parte non poteva essere diversamente, poiché l'istituzione, per sua natura, resta uno strumento nelle mani di un potere centralizzato, autoritario, burocratico, slegato dalla vita quotidiana della gente comune. L'istituzione fa parte della società divisa in classi e, come tale, tende a riprodurre tale divisione: essa, in sostanza, serve alla classe egemone per controllare e dominare tutte le altre.

L'istituzione è incapace di accogliere la realtà così com'è: essa infatti ha un'immagine simbolizzata della realtà, e con una forte valenza negativa. L'istituzione avverte la realtà sociale con fastidio, perché se ne sente giudicata. La rivalsa delle istituzioni sulla realtà è appunto quella di rendere la vita impossibile o inutile la protesta. È un meccanismo perverso ma inevitabile, che s'instaura nel rapporto pubblico tra cittadino e istituzioni.

La realtà non può mai essere accolta con tutti i suoi difetti e le sue eccezioni. I casi particolari danno fastidio, a meno che non siano di prestigio, che non comportino un qualche interesse di carriera, di guadagno, di favoritismo o di casta: in questo caso l'istituzione si lascia facilmente scavalcare, nel rispetto formale delle procedure, al fine di poter essere meglio riconfermata. Oggi questo fenomeno rientra in quello, ben più complesso, chiamato "tangentopoli".

Normalmente i difetti della vita reale non vengono presi in considerazione, poiché l'istituzione è già troppo angosciata dalle proprie quotidiane disfunzioni per avere il tempo di applicarsi alla "complessità". Tuttavia, qualunque esemplificazione della realtà, alla lunga rende l'istituzione obsoleta, inutile. In questa paralisi, chi dispone di potere può vivere sfruttando al meglio le istituzioni, mentre gli altri continuano a restarne schiacciati.

In luogo dell'istituzione va affermata la volontà dei cittadini di autorganizzarsi, amministrando collettivamente le proprie risorse materiali, umane e finanziarie. L'istituzione spinge al conformismo, alla delega; l'autonomia spinge alla responsabilità personale.

L'autogestione valorizza le diverse potenzialità, inclinazioni, attitudini. Le istituzioni invece vivono all'insegna dello spreco e dell'inefficienza. La società, per dimostrare che non ha bisogno delle istituzioni, deve dimostrare di sapersi adeguare ai bisogni. In questo senso il volontariato è solo il primo passo: esso è nato per supplire a una carenza, ma il suo destino non deve diventare quello di puntellare una struttura che fa acqua da tutte le parti. Il volontariato deve darsi un'identità politica che metta all'ordine del giorno il problema di una transizione a una società globalmente diversa.

LA CRISI DELLO STATO BORGHESE

Quando uno Stato s'indebolisce a causa di incessanti guerre di classe (sociali o civili), la situazione della società di quello Stato è paradossalmente più favorevole allo sviluppo della democrazia di quanto sembri.

Normalmente infatti si pensa che uno Stato debole, in preda a guerre intestine, non possa assolutamente conoscere la democrazia. E, così dicendo, si fa arbitrariamente coincidere "democrazia" e "Stato forte".

In realtà uno "Stato forte" è per sua stessa natura profondamente "antidemocratico". In tal senso ogni sua crisi interna (specie se strutturale) va vista favorevolmente, anche se in una situazione del genere è facile che emergano forze favorevoli al "bonapartismo".

Di regola gli sbocchi alla crisi di uno Stato sono due, in politica interna: 1. si rafforzano elementi reazionari in grado di trasformare la "debolezza" dello Stato in una forma di pericolosa aggressività (anche per gli Stati limitrofi); 2. emergono le forze sane del Paese, che sanno difendere, anche con l'uso delle armi, se occorre, i valori della libertà e della giustizia sociale.

Non è assolutamente vero che uno Stato in crisi diventa tanto più facilmente autoritario quanto più forti sono i tentativi delle forze progressiste di affermare la democrazia. È vero anzi il contrario: più le forze progressive sono deboli e più quelle reazionarie si sentiranno autorizzate a usare metodi autoritari. La crisi dello Stato borghese infatti è endogena, non dipende dalle forze progressive (le quali anzi, generalmente, costituiscono la base su cui edificare la nuova società).


Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Politica - Socialismo democratico
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 11/12/2018