IDEE PER UNA SCIENZA UMANA E NATURALE |
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Ascesi, strutture, cavalli, sesso e batteri L’ascesi ha di mira il Paradiso, la discesa gli Inferi. Perché non il contrario? Perché mai il Bene dovrebbe trovarsi ad alta quota ? Il Bene e il Male non possono certo dipendere dalla posizione. In ogni cultura emerge però questa localizzazione figurata, che vede tutto ciò che sta in alto più buono, migliore, rispetto a ciò che sta in basso, traducendo quello che è un semplice ma fondamentale riferimento fisico e gravitazionale in uno morale e strutturale; e attribuendo sostanzialmente al Bene una prospettiva di successo e di controllo sul Male. Si determinano così scale di valori, mediante le quali siamo indotti ad attribuire livelli di superiorità e di inferiorità. Cos’è in generale una struttura? Una struttura è definita univocamente dalle regole che la governano. Tali regole a loro volta non sono altro che vincoli imposti agli elementi della realtà, mediante un più o meno grande dispendio energetico. Ne consegue che una struttura rappresenta di per sé un condensato di energia. In questo senso si può dire che essa si trovi più “in alto”, o che sia “superiore” rispetto a un’altra a minor contenuto energetico; in quanto il passaggio dalla prima alla seconda comporta liberazione di energia, analogamente a quel che avviene per la caduta di un grave. Il cammino per gli inferi risulta molto più agevole, come ognun sa, di quello in senso inverso, poiché il trasferimento di energia a un livello superiore (ascesi) comporterebbe in ogni caso un’immissione di energia dall’esterno… Tuttavia il concetto stesso di superiore e inferiore, così come descritto, sembra mancare di completezza allorché tiriamo in ballo l’ambiente e le sue dinamiche. Se è vero infatti che una struttura a maggior contenuto può essere considerata di livello superiore rispetto a un’altra di minor contenuto, è anche vero che a quest’ultima va associata l’energia resasi disponibile nel passaggio dalla prima alla seconda. Tale disponibilità di energia rappresenta infatti un “patrimonio” pienamente utilizzabile. Essa può esser tale da supportare importanti forme di interazione fra le strutture stesse e fra queste e l’ambiente, finendo così per assumere il significato, in senso lato, di “energia di comunicazione”. Ma lo stabilirsi di circuiti comunicativi, cioè la formazione di reti, viene a configurarsi a sua volta in assetti relativamente stabili e ordinati, a elevata complessità, sicché il panorama risultante è fondamentalmente interconnesso. In altre parole l’energia disponibile in conseguenza del passaggio da strutture più “forti” ad altre più “deboli” può andare a riempire, in senso figurato, lo “spazio” comune, dando origine a nuove e diversificate configurazioni ambientali, secondo un processo funzionale alla creazione di habitat, cioè di territori comuni alle strutture stesse. Il processo ipotizzato vede cioè una configurazione di partenza caratterizzata dalla presenza di strutture individuali ben definite in se stesse, ma con scarsi canali di comunicazione reciproca; che può essere rappresentata graficamente da una rete con molti nodi e pochi collegamenti distribuiti casualmente fra i nodi stessi; quel che si chiama una rete casuale, mentre nello stato finale la situazione si rovescia. In quest’ultima vengono a prevalere i collegamenti, che riempiono lo spazio e si addensano esponenzialmente su un numero di nodi limitato. Questi possono anche essere poco consistenti di per sé: ciò che li caratterizza e qualifica è il numero di collegamenti che ad essi fanno capo. La situazione si presenta sostanzialmente diversa sotto il profilo funzionale. La forte interconnessione consente infatti una risposta unitaria e flessibile in grado di far fronte a ogni evenienza; mentre presenta in realtà dei punti deboli in corrispondenza dei nodi più collegati. (Un esempio può essere, con riferimento alla rete di comunicazione ferroviaria, l’incendio verificatosi di recente alla stazione di Roma Tiburtina). Si tratta comunque di tipologie di reti ben note. La nostra ipotesi è che si possa far derivare l’una dall’altra, come abbiamo suggerito, sulla base di considerazioni energetiche. Che cioè l’energia necessaria a saturare di collegamenti lo spazio fra i nodi sia ottenibile a partire dall’energia immagazzinata originariamente nelle strutture di partenza. La “libertà” da queste acquisita al venir meno di parte dei vincoli strutturali a cui erano prima soggette, si riversa così nella possibilità di profonde modificazioni ambientali, atte a supportare in definitiva l’esercizio concreto di quelle medesime libertà. Situazione questa che se da un lato ha come conseguenza una elasticità e una capacità d’azione enormemente maggiore conferita all’insieme delle singole strutture, pur individualmente più “deboli” di quelle di provenienza, dall’altro può costituire il “rischio”, a cui esse stesse vengono a trovarsi esposte, di soggiacere a livelli organizzativi potenzialmente minacciosi per la loro stessa autonomia. Forse si sarà intuito che il riferimento sotteso a quel che abbiamo finora detto può essere la condizione propria delle strutture viventi, uomini e animali compresi. Nessuno nutre evidentemente il benché minimo dubbio che l’uomo sia di gran lunga superiore agli altri animali. Ma cosa significa? (Non doveva peraltro essere questa l’opinione degli antichi, allorché attribuivano sembianze di animali ai loro dèi. Sotto ogni latitudine e per gran tempo questa suggestione dominò nel profondo il cuore degli uomini, quasi un tributo di riverenza e riconoscenza verso il mistero delle origini. E ancora Feuerbach: “queste entità ausiliatrici, questi spiriti tutelari per l’uomo erano, in particolare, gli animali”. E come non fare poi cenno al dilagante “animalismo” dei nostri giorni, che induce molti a “preferirli” all’uomo?) Ora appare evidente che l’uomo si trova da un lato in una condizione di netta inferiorità fisica rispetto agli altri animali, ciascuno considerato nella sua nicchia (proprio a questa evidenza può essere attribuito gran parte del fascino che gli animali stessi hanno sempre esercitato su di noi), mentre dall’altro dispone di una grande superiorità intellettuale. Ma non potrebbe essere questa nient’altro che la manifestazione di quel territorio partecipativo, di cui abbiamo prima parlato, generato dalla trasformazione di energia strutturale in energia di comunicazione? Cioè qualcosa di esterno, in definitiva, al singolo uomo, che ne partecipa in quanto “nodo”, egli stesso, di una rete di collegamenti complessa? L’uomo avrebbe in buona sostanza supplito alla propria perdita di consistenza individuale, con la progressiva creazione di un grande patrimonio condiviso di ordine comunicativo e intellettivo. Dovremmo concludere che l’uomo non è che un animale destrutturato? Piuttosto che un animale non ancora definito, come amava invece pensarlo Nietzsche? Tale visione integra un percorso evolutivo assolutamente inedito, le cui risultanze delineano una realtà complessa nella quale l’uomo non è affatto separabile dal proprio contesto. Così come non avrebbe alcun senso considerare uno “hub” aeroportuale indipendentemente dai voli che lo collegano, in ugual modo non pare accettabile operare un distinguo fra la struttura interna all’uomo (neuronale) e quella della rete nel suo insieme. Ma piuttosto considerarle due “facce” della medesima realtà. Proprio la perdita o l’indebolimento di quei collegamenti determina nell’uomo quella che si chiama una condizione “demenziale”. Dal che si potrebbe anche arrivare a concludere che il cosiddetto sviluppo cerebrale umano non sia stato altro che lo sviluppo della comunicazione, cioè dei collegamenti. Quanto detto circa la perdita di consistenza individuale dell’uomo, ci richiama le riflessioni di quel geniale umanista, che fu Giovanni Pico della Mirandola, il quale riteneva che l’uomo fosse stato creato “privo di forma propria”, perché potesse assumere ogni forma; ma la sua posizione era viziata proprio dall’essere umanista, cioè dal mettere l’uomo al centro dell’universo. Un cavallo non potrà mai essere altro che un cavallo. Qualsiasi cosa accada e in qualsiasi situazione si trovi, la sua dimensione specifica, l’essere cavallo, non verrà mai meno. Quel che all’apparenza, e secondo Pico, sarebbe gravemente riduttivo nei confronti del cavallo, in verità ci costringe a prender atto che esso rappresenta qualcosa di talmente forte e strutturato da non poter mutare, qualsiasi cosa accada e qualunque intervento venga posto in essere. Il “complesso di regole” che lo definiscono, per così dire, nessuna delle quali minimamente derogabile, configura una dimensione strutturale di una forza straordinaria, se paragonata alla incerta e mutevole condizione umana. Ma di fronte al precipitare della situazione ecco che emerge nell’uomo la vocazione a costruirsi intorno immutabilità artificiali; cioè delle “invarianti” che suppliscano in qualche modo a quella perdita di “forma propria”, a quella “mutabilità” di cui il Pico menava gran vanto, quali straordinari doni divini. (In effetti è dio stesso, in quest’ottica, ad assumere il ruolo di invariante, evocato dall’uomo a sostegno della propria precarietà.) La partita viene così tutta giocata sul terreno comune, là dove circola l’energia resa disponibile dalla progressiva perdita di consistenza e responsabilità a livello di individuo. Il trasferimento di “competenze” a circuiti comunicativi accessibili a tutti, ma fondamentalmente anonimi, si realizza proprio a spese della dimensione individuale, che appare sempre più scialba e diafana, sempre più incapace di comportamenti autenticamente responsabili. D’altra parte l’intrinseca artificiosità delle categorie che vengono così a costituirsi rende indispensabile l’istituzione di livelli gerarchici elevati, sovrastanti, anzi dominanti, ma pur sempre surrettizi e, in definitiva, modificabili. In altre parole la necessità di stabilire punti fermi esterni, in luogo di quelli interni perduti, si traduce nello speciale bisogno di regole, leggi, valori, categorie morali, istituzioni; tutte esigenze completamente estranee al restante mondo animale, che non ha bisogno alcuno di regole per garantire la propria stabilità, a livello sia individuale che collettivo. E’ infine da sottolineare come la costituzione di un tale patrimonio condiviso e partecipativo abbia portato inevitabilmente ad attribuirgli anche una “sostanza” (lo spirito), con la quale sia possibile aspirare ad identificarsi, allontanandosi così ulteriormente da sé medesimi, nell’illusione di poter partecipare di una dimensione esistenziale di ordine superiore. Ora una riflessione trasversale rispetto alle argomentazioni di cui sopra ci porta a rimuginare intorno a un oscuro oggetto del desiderio: il sesso. Tutta la materia riguardante l’argomento ha sempre costituito, in ogni epoca e sotto tutte le angolature, un campo minato. Incontri e scontri di ogni tipo, infiniti ed inesausti assalti, cedimenti liberatori, compromessi senza fine, turbamenti irrisolti. Il sesso rappresenta davvero un ambito critico per l’uomo, e tuttavia ha sempre conservato, malgrado ciò, una forza e una coerenza straordinarie. L’importanza del fenomeno appare tanto più singolare quando si consideri la sua intrinseca “povertà”; cioè il campionario limitatissimo e strettamente ripetitivo delle sue modalità attuative. Esse sono rimaste praticamente le stesse da sempre; anzi rappresentano forse gli unici comportamenti umani che non abbiano subito le benché minime variazioni dalle origini. Ma la ripetitività e la immutabilità non sono forse caratteri tipici dei comportamenti animali? Del resto chi può dubitare che il sesso costituisca proprio l’aspetto più strettamente animalesco dei comportamenti umani? Sta qui il segreto della sua invincibile potenza. Il sesso è la vera forza dell’uomo. L’uomo si è finora salvato grazie al sesso. Spingendo ora un po’ per amore del paradosso alle estreme conseguenze le considerazioni sopraesposte, dovremmo concludere che, qualora ci convinciamo che sia solo possibile derivare da organismi in qualche modo superiori, non essendo in alcun modo immaginabile di poter derivare da organismi inferiori, a meno di non ricorrere all’afflato divino, la superiorità ultima nella scala dei viventi dovrebbe essere riconosciuta agli organismi unicellulari, visto che essi si pongono alle origini stesse della vita, e che per la verità ne hanno rappresentato gli esponenti esclusivi per miliardi di anni, cioè per la massima parte del tempo finora trascorso. Essi costituiscono per così dire una coltre di vita che ricopre la Terra. Noi stessi viviamo in simbiosi con loro, e il loro numero all’interno del nostro corpo è dieci volte superiore a quello di tutte le altre cellule. Pur non potendo disconoscere effettivamente a tali organismi il dominio sulla Terra, dato che nessuna nostra azione risulta avere minimamente intaccato la loro supremazia, non possiamo comunque accettare a cuor leggero la conclusione prima detta. Essa non sembra tuttavia completamente priva di chances, se non altro quando poniamo mente alla complessità grandissima della cellula vivente, solo ora percepita e indagata, nonché al suo rappresentare la vita allo stadio più completo e maturo, quello cioè che non prevede la ineluttabilità stessa della morte. |