L'UOMO E L'AMBIENTE NATURALE

BIOLOGIA E CULTURA


L'UOMO E L'AMBIENTE NATURALE

Foto Mulazzani

Un bel paesaggio, come quelli che la terra sabina sa offrire, esercita un fascino particolare su colui che voglia trattenersi ad osservarlo, rifuggendo per qualche tempo dalla quotidianità del vivere che spesso ci condiziona attraverso la ripetitività delle cose che si devono fare e l’esigenza di doverle compiere in tempi sempre più ristretti.

Se dunque ci imponiamo di concederci dei momenti di riflessione interiore, svincolati dai vincoli di tempo che ci attanagliano, se dimentichiamo per qualche momento le nostre agende di lavoro, gli appuntamenti fissati, le cartelle di marcia che ci accompagnano ormai sia nel lavoro sia nei momenti di svago programmato, forse potremmo trovarci nelle condizioni in cui fu posto dal Poeta il pastore errante dell’Asia, che mirando “ in cielo arder le stelle” aveva modo di chiedersi “ a che tante facelle? Che fa l’aria infinita, e quel profondo Infinito seren? Che vuol dire questa Solitudine immensa? Ed io che sono?” Il povero pastore non avrebbe potuto porsi simili domande nel frenetico correre quotidiano e avrebbe più possibilità di indirizzare lo sguardo su qualche incombente foresta di cemento piuttosto che su un cielo stellato.

Ecco allora che la percezione del paesaggio risente dello stato d’animo, della cultura, delle abitudini di vita ma anche dei pregiudizi di cui ciascuno di noi è imbevuto. Il paesaggio ci parla con un linguaggio che può essere più o meno variegato, dipendendo da noi la capacità di percepirlo nella sue varie sfaccettature. Poniamoci con la mente al centro di una valle, e per non spostarci dalla Sabina, immaginiamo di trovarci affacciati dalla bella balconata dell’eremo di Greccio.

Lo sguardo spazia e incrocia all’orizzonte una catena di montagne dalle cime brulle, lungo i cui pendii si incastonano antichi borghi; sul fondo, la valle ampia e luminosa è attraversata da un filare di alberi e da fitte siepi che accompagnano e nascondono alla vista il fiume; tutt’intorno fervono le opere agricole; i terreni squadrati, i canali di irrigazione, i casolari, le macchine dei campi, tutti parlano di una intensa opera di intervento dell’uomo.

Proviamo a domandarci come doveva apparire un tale paesaggio un secolo fa, o al tempo delle comunità sabine, o ancora più giù prima che l’uomo lo popolasse! Esso si trasformerebbe ai nostri occhi con la stessa rapidità con cui le acque di un ruscello, scivolando a valle, si allargano o restringono, adattandosi agli spazi che incontrano.

Il clima può rendere conto della trasformazione di deserti sabbiosi in lussureggianti foreste, lo slittamento delle placche continentali ci spiega la trasformazione di depositi marini in superbe montagne; ma anche gli organismi viventi esercitano un ruolo primario nella storia del paesaggio. Una popolazione di castori può giustificare la formazione di un ambiente palustre lì dove prima una foresta era attraversata da un piccolo corso d’acqua, una migrazione di cavallette può trasformare una prateria in una landa deserta!

Ogni organismo vivente sottrae risorse dall’ambiente circostante per destinarle alla sua sopravvivenza ed alla possibilità di riprodursi. Ma nel fare ciò deve in qualche modo percepire il paesaggio che lo circonda; deve sapere individuare le aree idonee alla sua sopravvivenza e quelle che meglio si prestano alla sua attività riproduttiva; deve avere la possibilità di spostarsi da una chiazza di paesaggio ad un’altra attraverso corridoi che ne garantiscano la sopravvivenza.

Naturalmente ciascun organismo vivente ha una sua specifica percezione del paesaggio che condivide, in gran parte, con i suoi conspecifici: una miriade di segnali visivi, acustici, odorosi si intrecciano nel paesaggio ma essi vengono captati solo parzialmente ed in maniera specifica da ciascun abitante.

La comunicazione diviene un elemento essenziale per sopravvivere e riprodursi, e più gli organismi sono complessi, maggiormente sono elaborati i loro meccanismi di comunicazione. Essi non sono limitati a fornire informazioni sullo stato dell’ambiente, ma manipolano, ingannano, seducono, attraggono. Sotto la spinta della selezione sessuale gli strumenti di comunicazione intraspecifica si sono amplificati, diversificati, e resi capaci di fornire informazioni codificate secondo un modello che ricorda un labirinto di specchi deformanti in cui la nostra immagine può apparire volutamente distorta, mostrandosi ora impietosamente traboccante ora esageratamente filiforme.

In questo quadro in cui il paesaggio è continuamente perturbato da fattori abiotici e da organismi viventi, il ripristino della situazione preesistente è condizionata da una specifica capacità del paesaggio stesso di assorbire la perturbazione, sia essa rappresentata da un incendio o da tempesta, creando una situazione il più possibile simile a quella che la ha preceduto, ma raramente uguale ad essa.

Il paesaggio dunque si modifica continuamente, per alcune specie in maniera brusca e repentina , così come può avvenire per una popolazione di mosche, spruzzando un insetticida in un locale da esse invaso, per altre in modo quasi impercettibile; in ogni caso le popolazioni viventi, ognuna con la propria specificità, hanno un gran da fare per cercare di adattarsi a tali cambiamenti, risultando esaltate le differenti specificità presenti all’interno delle varie popolazioni; su tali differenze opera la selezione, rendendoci conto della realtà oggi esistente: tutte le specie viventi derivano da progenitori che sono risultati vincitori momentanei di un processo selettivo che ha lasciato alle sue spalle milioni di altre specie, che non hanno trovato il binario giusto per adattarsi al continuo cambiamento dei paesaggi.

In tempi più recenti, e in particolare da quando la nostra specie ha raggiunto un tasso di accrescimento eccezionalmente alto, data la sua complessità ( è stato calcolato che attualmente la popolazione umana è in grado di raddoppiare la sua consistenza numerica in soli quarantatre anni, mentre appena tre secoli fa ne occorrevano più di mille!), i connessi processi di antropizzazione stanno determinando una modifica dell’ambiente con una intensità prima sconosciuta, se si fa riferimento a popolazioni che hanno dominato la Terra prima dell’uomo. Stiamo ormai imponendo i nostri paesaggi ad altri organismi viventi: di questi quelli che in qualche modo riescono ad entrare in sintonia con la nostra percezione ambientale non vengono spazzati via nella pattumiera dei processi evolutivi inadeguati. Sempre più è diventato essenziale per comprendere il funzionamento ecologico di un paesaggio esaminare e conoscere la storia umana di quel determinato paesaggio. Quanto può durare tutto ciò?

Per millenni l’umanità è vissuta nell’illusione di una natura in equilibrio in cui un incendio, una frana, un’alluvione erano percepiti come elementi estranei, al cui cessare tutto si ricomponeva come prima. Per gli antichi Greci le perturbazioni, ed i cambiamenti dei paesaggi a cui davano luogo, trovavano spiegazione in un andamento ciclico, i ricorsi storici, intorno ad un punto di equilibrio stabile: se una stagione si presenta particolarmente arida prima o poi ne arriva una piovosa e i conti vanno in pareggio! Se il mondo è in equilibrio un uso razionale e scientifico delle risorse garantisce la continuità di tale condizione.

Oggi tale certezza sta venendo meno: le numerosissime estinzioni che si sono succedute nel tempo ci suggeriscono che la posta in gioco è più alta! La natura si presenta ai nostri occhi, che pregiudizialmente oggi non ricercano equilibrio e stabilità, profondamente instabile: i paesaggi sono vulnerabili e la stessa idea che dopo un’intensa perturbazione la vita si ridistribuisca secondo stati successionali che si concludono con situazioni di equilibrio sufficientemente stabili non reggono più di fronte alla nostra percezione dei fatti.

I rapporti tra specie ed all’interno delle specie sono più complesse di quello che si poteva ritenere: non basta una popolazione di falchi a mantenere in equilibrio una popolazione di arvicole; le relazione sono più complesse e ogni variazione di una popolazione ha effetti imprevedibili sulle popolazioni di altre specie, che a loro volta risentono degli effetti di altre specie ancora in una caledoscopica rincorsa che rende improbabile l’esistenza di un equilibrio della natura.

Il paesaggio va dunque pensato non tanto come popolato da un insieme di comunità biologiche che stanno in equilibrio stabile con l’ambiente, quanto come un mosaico di chiazze soggetti a differenti livelli di perturbazione ed in dinamica trasformazione. Ricorrendo ad una immagine, possiamo paragonare il nostro paesaggio più al rattoppato vestito di Arlecchino che a quello di Pulcinella!

Si afferma sotto questo aspetto un nuovo modo di rapportarsi ad esso: una sua gestione adattativa dovrebbe mirare né a massimizzare l’appropriazione delle risorse disponibili, attraverso un utilizzo industriale delle varie zone, come si può ottenere, in un rimboschimento, attraverso l’impianto degli alberi secondo uno schema che rimanda la mente ad una sfilata militare, né conservando e preservando le condizioni attuali del nostro paesaggio attraverso vincoli che escludano o riducano la presenza umana, quanto cercando di individuare le condizioni che consentono alle varie aree o chiazze presenti di perpetuare i processi che garantiscono la sopravvivenza e la riproduzione delle diverse comunità biologiche.

Oggi sappiamo che spesso la parte produttiva di una foresta dipende dalla parte economicamente improduttiva di essa: non tenere conto di questo può significare una rapida perdita del paesaggio in quanto l’instabilità che ne deriva porta inevitabilmente all’affermazione di perturbazioni rispetto alle quali il paesaggio in questione non è più resiliente, cioè non è in grado di ricostituire un nuovo equilibrio.

Tornando alla domanda posta prima: quanto può durare tutto ciò ? possiamo dire che è difficile trovare una risposta . I sistemi ecologici sono attraversati da elementi di imprevedibilità, mutevolezza e dinamicità che rendono difficile ogni previsione: una buona regola rimane quella di un rispetto verso tali processi. Come Fellini nella Luna nel pozzo servirebbe un po’ di silenzio per poter ascoltare e cercare di comprendere quello che il paesaggio ci potrebbe suggerire!

Centro D’Italia (novembre 2003, anno I, n. 1)


a cura diAntonio De Marco - Parco Abatino

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Scienza
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Aggiornamento: 23/04/2015