I comunisti e il problema dello smaltimento dei rifiuti

IDEE PER UNA SCIENZA UMANA E NATURALE


I comunisti e il problema dello smaltimento dei rifiuti

di Davide Spagnoli

La natura non produce rifiuti: nell’ecosistema naturale, quelli di una specie diventano cibo per un’altra in un ciclo senza fine. È soltanto a partire dalla produzione taylorista e fordista, che questo ciclo è stato interrotto.

Le società umane fanno affidamento sull’ambiente naturale per tutti i propri bisogni materiali: cibo, vestiario ecc. Nello stesso tempo, tutti gli scarti umani finiscono nell’ambiente.

Stiamo producendo la più grande quantità di rifiuti e sostanze pericolose che mai siano state prodotte. E le nostre pratiche di smaltimento stanno sempre di più impoverendo le nostre risorse di base. L’idea convenzionale dell’industria del trattamento dei rifiuti è che ci sono solo due cose da fare: bruciarli o seppellirli.

Prima di addentrarci nell’analisi del funzionamento di un inceneritore è necessario considerare che una delle prime leggi della fisica che viene insegnata alle scuole medie inferiori è che in natura nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Un inceneritore non smaltisce i rifiuti, ma, semplicemente, ne riduce il volume di circa il 65% producendo esso stesso delle scorie molto pericolose per circa il 28-35% del quantitativo dei rifiuti trattati. Facciamo ora un semplice calcolo. Se entrano 100 tonnellate di rifiuti e ne escono 35 sotto forma di scorie, le restanti 65 tonnellate, viste le leggi della fisica, dove sono andate a finire? Nell’ambiente e da qui nella catena alimentare al cui vertice troviamo l’uomo: quindi, gli inceneritori ci fanno mangiare i rifiuti che produciamo!

L’incenerimento ha sempre rappresentato però una comoda scappatoia perché fornisce l’illusione dello smaltimento, mentre sono solo degli impianti di trasformazione dei rifiuti, che produce sostanze molto più tossiche di quelle entrate, e genera emissioni in atmosfera, rifiuti solidi (ceneri, polverino e filtri), e, a seconda della tecnologia, rifiuti liquidi.

Ma l’illusione della distruzione che dà l’incenerimento, è sempre stata una comoda scappatoia per i decisori politici, che possono così eludere il problema vero dei rifiuti, perché affrontare il problema dei rifiuti significa affrontare il problema della produzione industriale e dello sviluppo capitalistico.

Il primo inceneritore di cui si abbia notizia viene costruito a Paddington, in Inghilterra nel 1870: allora, come oggi, si pensa di poter recuperare l’energia contenuta nei rifiuti, ma a dispetto dei tentativi di bruciare carbone arricchito con rifiuti, l’impianto non è in grado di produrre la quantità attesa di vapore ed energia. La gente che vive nelle vicinanze dell’inceneritore, avvelenata da un fumo nero puzzolente, protesta contro l’impianto, che poco tempo dopo viene chiuso. Anche se il primo inceneritore è stato un fallimento, la tecnologia diventa molto popolare in Gran Bretagna. Fino all’inizio del XX secolo, vengono costruiti 210 impianti, 14 dei quali a Londra. Uno dei più longevi, costruito a Manchester nel 1876, viene chiuso nel 1903. Nel 1893, ad Amburgo, parte la costruzione del primo inceneritore del continente. Dieci anni più tardi ne vengono costruiti altri: in Danimarca, Svezia, Belgio, Svizzera, Cecoslovacchia e Polonia. L’inceneritore di Varsavia, funziona per un tempo considerevolmente lungo, fino a quando cioè non viene distrutto dalle operazioni belliche nel 1939.

All’inizio del XX secolo gli inceneritori europei vengono chiusi, a causa di costi considerevolmente più bassi e un’efficienza più alta usando come fonti di energia il carbone, il gas e il petrolio, invece di rifiuti.

I problemi occorsi ai primi inceneritori non fanno rinunciare dall’uso di questo metodo di trasformazione. Vengono introdotti nuovi progetti, la temperatura di combustione innalzata e i camini costruiti più alti. Negli anni 30 si costituiscono così i fondamenti della tecnologia per gli impianti, che sono prevalsi fino ai nostri giorni.

Negli anni tra le due guerre mondiali, e subito dopo la seconda guerra mondiale, sono costruiti diverse centinaia di inceneritori in tutto il mondo; nei soli USA circa 700. La popolarità dell’incenerimento decresce all’inizio degli anni ’50, perché sostituiti da un metodo più economico, la discarica.

All’inizio degli anni ’70, soprattutto in Europa, viene promossa l’idea di un ricorso massiccio all’incenerimento. Intanto la composizione e la quantità dei rifiuti sono radicalmente cambiati. All’inizio, i principali componenti sono cenere e scarti alimentari. Ora è presente più carta, cartone e contenitori di plastica, generati da un aumento della produzione del confezionamento, soprattutto di contenitori usa e getta. Il calo della cenere deriva dal riscaldamento centralizzato impiegato nelle città, fondato soprattutto sull’uso del gas.

La prima città che adotta questa strategia è Londra, dopo che nei primi giorni di dicembre 1952, per eccezionali condizioni atmosferiche, il riscaldamento basato su stufe a carbone stermina, in pochi giorni, 4.000 londinesi.

Dicevamo che il valore energetico del rifiuto cresce e il processo d’incenerimento diventa più efficiente. Può essere ottenuta più energia, mentre si producono meno residui. Per i sostenitori degli inceneritori, questo è, allora come ora, un argomento in favore della "utilizzazione dei rifiuti come fonte di energia", includendo anche gli impianti produttori di calore nelle città. Inoltre, le crisi energetiche costituiscono un ulteriore incentivo per utilizzare "il carburante da rifiuti", riducendo il consumo di combustibile convenzionale, segnatamente carbone e petrolio.

Negli anni ’70 l’incenerimento sembra essere la soluzione ai problemi causati dai rifiuti tossici, non solamente provenienti da processi industriali, ma anche contenuti nei rifiuti urbani. Questo atteggiamento è una conseguenza della politica prevalente all’epoca, centrata principalmente sul controllo dell’inquinamento, piuttosto che sulla sua prevenzione, anche perché si suppone che l’ambiente sia in grado di assorbire un certo quantitativo di sostanze tossiche, senza effetti collaterali.

I fattori citati, così come una convinzione che la tecnologia d’incenerimento sia pienamente sviluppata, spingono a credere che nel futuro gli inceneritori avrebbero sostituito l’altro metodo, le discariche.

Sempre negli anni ’70, viene pianificato l’introduzione massiccia d’inceneritori per rifiuti tossici, montati su navi, e ancora oggi in Internet si trovano dei progetti in tal senso.

La prima nave di questo tipo è la Mathias I, dal 1969 proprietà della Germania. Nel giro di vent’anni vengono costruite otto di queste navi, tre delle quali operative fino al 1991.

L’esatto ammontare dei rifiuti inceneriti in questo modo è rimasto sconosciuto. L’ultima statistica accessibile, datata 1985, ci dice che 105.709 tonnellate di rifiuti clorurati, provenienti da 10 paesi dell’Europa occidentale, sono stati inceneriti nel Mare del Nord.

Fin dall’inizio ci sono stati seri problemi con il funzionamento e il controllo delle navi-inceneritori, e, come conseguenza, sono state proibite negli USA, nel Mediterraneo e nei paesi baltici. Infine, alla Conferenza dei Ministri dei paesi del Mare del Nord del 1992, è stata approvata una risoluzione in cui le navi-inceneritore sono state bandite a partire dal 31 Dicembre 1994.

Dalla seconda metà degli anni 70 cominciano ad emergere notizie allarmanti sull’inquinamento causato dagli inceneritori. Ci si trova di fronte a grandi emissioni di diossina, furani e metalli pesanti, soprattutto cadmio e mercurio. L’esame degli inceneritori, completata negli anni 80, conferma che sono la principale fonte di emissione di sostanze tossiche.

Un inceneritore produce 263 sostanze chimiche diverse, delle quali solo una dozzina vengono ricercate nelle analisi.

La sostanza più pericolosa emessa è la diossina, che si forma, principalmente, quando i composti clorurati vengono bruciati in presenza di ossigeno.

La storia dei composti clorurati di sintesi inizia a Midland (Michigan, USA), ad opera del Signor Dow, fondatore della Dow Chemical, che nel 1900 scopre il modo di separare industrialmente il sale da cucina in sodio e cloro.

In un primo tempo il cloro viene considerato un sottoprodotto inutile, ma ben presto si scopre come unirlo a idrocarburi derivati dal petrolio, originando così un gran numero di composti che dal decennio 1930-40 in poi costituiscono un’imponente produzione industriale di solventi, pesticidi, disinfettanti, materie plastiche ecc. Questi composti clorurati, tanto durante il processo produttivo quanto in seguito a combustione, liberano alcuni sottoprodotti indesiderati tra i quali le diossine. Diossina è il nome comune usato per indicare le dibenzo-p-diossine e i dibenzofurani. Si tratta di sostanze distribuite ovunque come contaminanti ambientali persistenti.

Si conoscono 210 tipi diversi tra diossine (73) e furani, strettamente correlati per caratteristiche e tossicità.

Diciassette di queste molecole sono considerate estremamente tossiche per l'uomo e gli animali, e la più tossica di tutte è la TetraCloroDibenzoDiossina (TCDD).

La TCDD allo stato cristallino è una sostanza solida inodore, di colore bianco, con punto di fusione di 307 °C, termostabile fino a 800 °C, liposolubile – cioè si lega ai grassi -, resistente ad acidi ed alcali.

La TCDD dà luogo a un’ampia gamma di effetti tessuto-specifici come, ad esempio: induzione a trasformazione in tumori, tossicità a carico del sistema immunitario, del fegato, della pelle e azione mutagena ed embriotossica.

Data la loro solubilità negli oli e nei grassi, piuttosto che nell'acqua, le Diossine e i Furani, tendono a spostarsi dall'ambiente verso i tessuti grassi e negli organi come il fegato e a bioaccumularsi negli organismi viventi.

Gli uomini, occupando una posizione di vertice nella catena alimentare, sono i più esposti all'accumulo dei composti clororganici, che, anche se possono resistere a qualsiasi tipo di escrezione ed alterazione biochimica naturale, vengono eliminati dal corpo umano seguendo tre vie: il sangue, il liquido seminale e il latte materno.

I composti clororganici sono quindi trasferiti da una generazione all'altra, in dosi probabilmente maggiori. I feti ricevono una buona dose di sostanze clororganiche attraverso la placenta. Una volta nati i bambini ne ricevono dosi ancora maggiori con il latte materno, perché queste sostanze tossiche si sono accumulate nel corpo della madre.

Le istituzioni sanitarie hanno introdotto dei "limiti" di riferimento per tentare di "pesare" gli effetti dell’esposizione umana a queste sostanze. Cioè qualcuno, tecnico e/o politico, stabilisce i parametri cui corrisponde l’accettazione d’ufficio per cui qualcun altro sarà esposto al rischio, in nome di un presunto interesse collettivo.

L’OMS, visti i nuovi dati sulla cancerogenicità delle diossine, consiglia un limite compreso tra 1 e 4 miliardesimi di milligrammo per chilogrammo di peso corporeo.

In base ai dati di un’indagine ARPA condotta nella provincia di Ravenna, reperibile nel suo sito internet regionale, se una mamma mangia 100 gr di prosciutto trasmette con il latte al suo neonato il triplo della diossina che può ingerire in un giorno, e questo solo per aver ingerito un etto di prosciutto.

Gli inceneritori sono la maggior fonte di inquinamento di TCDD e, come abbiamo già detto, producono emissioni nell’atmosfera, rifiuti solidi e liquidi.

I rifiuti solidi sono costituiti dalla cenere, dalla polvere e dai filtri, che richiedono un particolare trattamento prima di essere smaltiti in discarica. Le ceneri e le polveri sono il 28-35% del rifiuto prima dell’incenerimento: quindi un impianto che trasforma 100.000 tonnellate all’anno di rifiuti, produce a sua volta tra 28 e 30.000 tonnellate di ceneri e 5.000 tonnellate di polverino, che vanno poi smaltiti in discarica. Anzi il polverino, vista l’alta concentrazione di sostanze come la diossina, prima va inertizzato, cioè viene generalmente conglobato nel cemento, impacchettato in grandi sacchi, e poi depositato in discarica di 2C. Altro che smaltimento dei rifiuti da parte dell’inceneritore.

L’inceneritore produce anche rifiuti liquidi, che necessitano a loro volta di un costosissimo trattamento.

I sostenitori degli inceneritori spesso affermano che in quelli di nuova generazione le emissioni in aria sono sotto controllo, fondando questa affermazione su tre assunti insostenibili, cioè che ci sono accettabili livelli di emissioni per tutti gli inquinanti rilasciati, le emissioni in aria sono accuratamente misurate, e, dato che sono misurate continuamente, sono nei limiti accettabili.

La conoscenza delle vere emissioni di un inceneritore richiede un continuo monitoraggio: i più pericolosi inquinanti sono raramente monitorati in continuo.

La tecnologia per il monitoraggio continuo ed in tempo reale per le emissioni di mercurio esiste, ma raramente è impiegata.

Per le diossine ancora non esiste, anche se attualmente è disponibile un sistema di monitoraggio quasi continuo che è utilizzato in poche nazioni, e in Italia dall’inceneritore di Bolzano che, oltretutto, mette i dati rilevati a disposizione dei cittadini attraverso un sito internet dedicato.

Attualmente, anziché un monitoraggio in continuo, gli inceneritori generalmente sono soggetti a uno o due test delle emissioni al camino all’anno. Ogni test consiste in un singolo campione di 6 ore. Questo campione è poi assunto come rappresentativo per le emissioni dell’anno. In realtà, gli studi mostrano che questo test può sottostimare drasticamente le emissioni di diossina, registrando circa il 2% del vero totale, cioè per avere un dato reale bisogna moltiplicare il valore riportato dalle analisi per 50.

Una ragione di questa inaffidabilità delle analisi è che la produzione di diossina non è continua, la maggior parte viene prodotta nei picchi di emissione durante l’accensione o lo spegnimento, o in condizioni "perturbate" quando cioè si esce dalla normalità: può essere un’infornata di rifiuto umido che causa un calo della temperatura del forno, o un fuoco fuori controllo o un’esplosione nel forno. I test sulla diossina non sono quasi mai realizzati in queste circostanze, cosicché i periodi del picco di produzione sono esclusi dal test.

Le alte temperature del forno, necessarie per la distruzione della diossina, determinano la volatilizzazione del mercurio, e questo porta ad un incremento della formazione dell’ossido di azoto, che è chimicamente neutro e abbastanza difficile e costoso da rimuovere.

L’approccio standard è di iniettare ammoniaca o urea, ma questo metodo è efficace solo per il 60%. L’iniezione di ammoniaca, d’altra parte, sembra incrementi le emissioni del particolato fine, che, come sapete, è molto pericoloso per la salute umana.

Una volta nell’ambiente l’ossido di azoto si converte in biossido di azoto, che è il maggior responsabile dello smog fotochimico.

Un abbassamento delle temperature del forno ridurrebbe la quantità di ossido di azoto prodotto, ma aumenterebbe la formazione di diossina.

Uno dei principali mezzi di riduzione delle emissioni di diossina e mercurio nell’aria, è la combinazione dell’iniezione di carboni attivi e filtri. Le particelle di diossina sono troppo piccole per essere fermate dai filtri ordinari e il mercurio è generalmente in forma gassosa. Così le particelle di carbone vengono iniettate nei gas esausti, il carbone fornisce una superficie su cui il mercurio si può condensare e le particelle di diossina possono coagularsi nel gas esausto freddo. Le particelle del carbone sono sufficientemente grandi per essere intrappolate nei filtri. L’iniezione di carbone diminuisce le emissioni in aria, ma causa, inevitabilmente, la formazione di ceneri volatili che contengono molta più diossina di quella che si sarebbe volatilizzata dal camino.

Alcuni inceneritori, particolarmente quelli grandi, sono uniti a una caldaia e a una turbina per catturare una parte del vapore generato e convertirlo in elettricità. Questi vengono definiti termovalorizzatori.

I sostenitori argomentano che tali impianti prendono un rifiuto inusabile, e, incenerendolo, lo convertono in una risorsa.

Ma gli impianti di termovalorizzazione sperperano più energia di quanta ne catturino, dato che ogni oggetto che diventa rifiuto racchiude più energia del calore rilasciato quando è incenerito: il valore calorifico della maggior parte delle cose, è una piccola parte della sua energia incorporata: si pensi all’energia usata per estrarre e lavorare la materia prima, per il trasporto ecc., che è condensata nell’oggetto. Tutta l’energia incorporata è perduta quando una cosa viene bruciata nell’inceneritore.

In un termovalorizzatore, solo circa il 35% del valore calorifico del rifiuto è recuperato per essere trasformato in energia elettrica. Dove gli inceneritori sono collegati a un sistema municipale di distribuzione del vapore per il teleriscaldamento, può essere recuperato un 40% del valore calorifico. In ogni caso questi sistemi richiedono un grande investimento di capitali e sono, naturalmente, scarsamente efficienti nel riscaldamento.

Ma c’è un’altra contraddizione palese: il rifiuto è di proprietà della comunità, l’elettricità generata dall’inceneritore è di proprietà della società di gestione, e rivenduta alla comunità.

D’altra parte il riciclo degli oggetti evita i costi energetici per l’estrazione di altro materiale grezzo, così come l’energia per il trasporto e la lavorazione.

Il riuso, eliminando la lavorazione, fa risparmiare molta energia: va detto che della cosa se n’è occupato anche Marx nel Capitale.

"Lo stesso dicasi per l'altra grande categoria di economie fatte nelle condizioni di produzione. Intendiamo dire la ritrasformazione degli scarti della riproduzione in nuovi elementi di produzione sia nel medesimo che in un diverso ramo industriale, il processo tramite il quale essi vengono reimmessi nella produzione e quindi nel consumo produttivo o individuale. Anche questo genere di economia […] è la conseguenza del lavoro sociale su vasta scala. Da qui deriva quell'accumulazione in massa degli scarti, che li fa nuovamente oggetto del commercio e quindi nuovi elementi della produzione. Solo essendo scarti di una produzione collettiva e quindi della produzione su grande scala, essi divengono così importanti per il processo produttivo.

Restano depositari di valore di scambio. […] nella misura in cui possono essere fatti di nuovo oggetto di commercio, riducono il costo delle materie prime nel cui calcolo viene incluso sempre il normale scarto delle materie stesse ovvero la quantità che in media deve considerarsi persa durante la loro lavorazione. Il ribasso dei costi di questa parte dal capitale costante aumenta `pro tanto' il saggio del profitto […].

(Karl Marx, Il Capitale, Edizione integrale, A cura di Eugenio Sardella, Roma, I Mammut, Grandi tascabili economici, Newton, 1996, Libro terzo, Il processo complessivo della produzione capitalistica; Prima sezione, La conversione del plusvalore in Profitto, p. 963)

Questo ragionamento è poi stato ripreso dai giapponesi, in particolare da Michio Morishima, profondo conoscitore del pensiero di Marx – è stato il primo a darne una parziale formalizzazione matematica - insegnante alla London School of Economics, e principale ispiratore del toyotismo, da cui nascerà l’idea di "Zero rifiuti".

Il termine "Zero rifiuti" ha origine nell’industria giapponese che ha avuto grande successo, in particolare con il concetto di controllo di qualità totale (TQM). Essa è influenzata da idee come ‘zero difetti’, l’approccio di estremo successo di produttori come Toshiba, che hanno raggiunto risultati come meno di un pezzo difettoso ogni milione. Quindi questa idea trae origine dal ragionamento che Karl Marx faceva un secolo e mezzo fa!

Appare evidente allora che per uscire dalla logica o bruciarli o seppellirli, bisogna puntare sul riciclo.

Ma anche il riciclo attualmente presenta degli svantaggi. Primo fra tutti il costo. Secondo una recente indagine di un’organizzazione che si oppone agli inceneritori, per ogni addetto di un inceneritore, sono necessari 20 addetti per un impianto di riciclo.

Le cause di questa non economicità sono diverse.

Innanzitutto le enormi masse di capitali investiti di inceneritori, sottraggono di fatto investimenti che potrebbero far scendere significativamente i costi del riciclo. Inoltre le industrie non producono beni facilmente riciclabili, e questo fa lievitare i costi del reimpiego. Per poter efficacemente attuare la politica del riciclo, da una parte è allora necessario sottrarre risorse destinate agli inceneritori, e dall’altra le industrie devono progettare beni facilmente riciclabili.

La scelta degli inceneritori è legata al cambiamento del quadro tariffario, e agli incentivi previsti per la produzione di energia elettrica dai rifiuti che l’attuale governo ha concesso per il 100% dei rifiuti inceneriti, drogando così il recupero energetico rispetto al recupero di materia: altro che economia di mercato!

Per quanto riguarda il cambiamento del quadro tariffario, Hera nel bilancio 2003 affermava che " […]le norme regionali escludono dal ‘ recinto di regolamentazione ‘ gli impianti di smaltimento; per il conferimento dei rifiuti a tali impianti, quindi, non si applica una tariffa valutata al costo ma un ‘ prezzo ‘ concordato con gli enti locali (e, in futuro, con le ATO)."

Inoltre nel corso dello Studio di Impatto Ambientale per la cosiddetta terza linea, cioè il nuovo inceneritore che Hera vorrebbe costruire a Forlì, quella che inizialmente era stata presentata come "centrale di termoutilizzazione rifiuti solidi urbani", nel corso della relazione diventa un "impianto di termoutilizzazione di rifiuti urbani e speciali non pericolosi" (SIA pag. 87 Sezione A), e per l’esattezza si chiede di poter bruciare ben 200 tipologie diverse di rifiuti non urbani. E la parte più appetitosa, come indicato nel Piano dei rifiuti della Provincia di Forlì, sono i fanghi di verniciatura.

Per renderci conto di quali quantità parliamo, provate a guardarvi attorno e addosso, e vedrete che praticamente non c’è superficie che non sia verniciata. Quindi stiamo parlando, solo per la Provincia di Forlì, di 46.000 tonnellate annue in tempo di recessione industriale, di rifiuti tossici con altissima concentrazione di solventi, il che li rende un rifiuto molto appetito per il loro grande potere calorifico.

Ma per poter organizzare la raccolta di questi rifiuti le strade sono due: o si raccolgono direttamente potenziando il personale addetto, o ci si appoggia a un impianto di stoccaggio, vendendo gli accessi: cioè ad ogni impianto di stoccaggio viene venduta la possibilità di poter conferire un certo quantitativo di rifiuti all’inceneritore.

Visto che Hera non potenzia il proprio personale, la seconda sembra l’ipotesi più plausibile. Ma questa ipotesi ha insita il pericolo che si possa aggirare il divieto di importazione dei rifiuti facendo di Hera l’oligopolista dello smaltimento dei rifiuti nel nord-centro Italia con dei guadagni enormi.

La questione degli inceneritori è così importante per la credibilità economica di Hera, che la holding ha speso per i progetti di 4 nuovi inceneritori la bellezza di 2,4 milioni di Euro (pagina 45 bilancio 2003), cioè per produrre qualche centinaio di pagine di carta Hera ha investito mediamente 600.000 Euro, ossia 1 miliardo e 200 milioni di lire. Questo la dice lunga sulla volontà del gruppo di attuare, nonostante tutto e tutti, la sua scelta strategica.

È giunto il momento che noi comunisti poniamo con forza il problema dello sviluppo industriale.

Non si può più permettere che il capitalismo globale produca, come finora ha fatto, nuove molecole senza preoccuparsi degli effetti che queste hanno sull’uomo e sull’ambiente, facendo pagare lo smaltimento di queste molecole agli utilizzatori finali, cioè noi.

I guasti provocati da questa irresponsabilità sono sotto gli occhi di tutti. Inoltre per lo stesso prodotto paghiamo tre volte: all’acquisto, con le spese sanitarie che dobbiamo sostenere per gli effetti che hanno sulla nostra salute, e infine per lo smaltimento una volta diventato rifiuto.

Dobbiamo anche cambiare atteggiamento mentale nei confronti dei rifiuti.

Come diceva Barry Commoner, la prassi ambientale corrente è un ritorno all’atteggiamento del medioevo di fronte alla malattia, quando questa – e con essa la morte – era considerata uno scotto inevitabile, un debito da pagare a causa del peccato originale.

Questo tipo di filosofia è stato ora rielaborato in forma più moderna: un certo livello di inquinamento e un certo rischio per la salute sono il prezzo inevitabile da pagare per i vantaggi materiali offerti dalla tecnologia avanzata.

Noi invece dobbiamo dire che l’inquinamento come tale non è più accettabile.

La cosa da fare ora è disegnare una strategia dello smaltimento dei rifiuti sostenibile. Il fallimento delle autorità addette allo smaltimento a realizzare un qualsiasi serio progresso in termini di ‘riduzione, riuso, riciclo’ è sotto gli occhi di tutti. Attualmente la loro strategia si basa sullo ‘smaltimento integrato dei rifiuti’, fondato su una previsione di un livello massimo di riciclo del 40% ed un incremento continuo nella produzione di rifiuti urbani, che, come è stato largamente dimostrato, inquinano l’ambiente.

Le politiche dello smaltimento integrato dei rifiuti formalmente hanno come obiettivo la loro minimizzazione, riciclo e compostaggio, ma in realtà si risolvono con l’incenerimento.

L’investimento di capitali di cui necessitano costituisce un ostacolo reale per la minimizzazione, riuso e riciclo dei rifiuti per almeno una generazione. Gli inceneritori danno una facile soluzione al problema dei rifiuti, ma che blocca innovazione, l’immaginazione e gli incentivi.

La prima e più ovvia domanda di chi è messo di fronte al concetto di ‘Zero rifiuti’ è, ‘Può essere realizzato?’.

Il termine Zero rifiuti ha origine, come abbiamo visto, nell’industria giapponese in particolare con il concetto di controllo di qualità totale (TQM), ed è influenzata da idee come ‘zero difetti’: produttori come Toshiba hanno raggiunto risultati di meno di un pezzo difettoso ogni milione. Per i rifiuti urbani, Zero rifiuti si fonda sulla riprogettazione dell’intero ciclo di vita dei prodotti.

La giusta domanda da fare, quindi, non è se Zero rifiuti è un’opzione raggiungibile, ma se può essere usato come scelta politica per liberarci dallo smaltimento integrato e confutare i pregiudizi, attualmente molto diffusi, sulla minimizzazione e sul riciclo.

Il primo obiettivo della strategia Zero rifiuti è quello, appunto, di ridurre a zero la tossicità dei rifiuti.

E' necessario individuare la fonte della tossicità, sostituendola con alternative non tossiche. Il che implica una produzione pulita con l’eliminazione della produzione e uso di materiali chimici tossici, la riprogettazione dei prodotti e sistemi produttivi che eliminano le immissioni di sostanze tossiche.

I prodotti non immissibili sul mercato… quelli che non possono essere usati o consumati in modo sicuro per l’ambiente, e che per i quali non esiste una sicura tecnologia di riciclo, non devono più essere prodotti. Si deve cioè puntare ad avere sistemi industriali che producano materiali migliorati, piuttosto che degradati: in una parola, qualità.

La strategia per arrivare a Zero rifiuti è un’aggiunta di valore incorporato nei rifiuti con l’applicazione di nuove tecnologie durante il riuso.

Un esempio è l’uso della lolla, la buccia del riso. Originariamente queste ponevano un problema di smaltimento perché incombustibili, sono state riutilizzate come sostituto del polistirene come materiale da imballaggio per prodotti elettronici, ed anche come materiale ignifugo nelle costruzioni.

Dunque per poter realizzare Zero rifiuti è necessario avere a monte una produzione pulita, una continua ricerca tecnologica tanto per il riciclo dei rifiuti, quanto per la riprogettazione di prodotti facilmente riciclabili.

Ogni produttore deve essere responsabile di quanto immette nell’ambiente, fino al ciclo finale di vita del suo prodotto.

Non possiamo essere noi a pagare la loro irresponsabilità in termini di salute e conseguenti spese sanitarie e ambientali: loro lucrano, loro pagano! Questa deve essere la nuova regola.

E si badi bene che questa cosa in parte già accade.

Infatti questi principi sono già applicati ai farmaci, si tratta di estenderli a tutta la produzione industriale.

Fondamentale, come abbiamo visto, è la ricerca e l’innovazione tecnologica.

Come le vicende storiche di questo ultimo quarto di secolo hanno ampiamente dimostrato, Karl Marx non si sbagliava. Uno dei punti cardine del suo ragionamento sul capitalismo è che quando un capitalista entra in un nuovo mercato, non necessariamente un luogo fisico – può anche trattarsi di una nuova linea di penne a sfera – agisce in condizioni di quasi monopolio. Ma quando i concorrenti acquisiscono una tecnologia migliore e più efficace, che produce cioè a minor costo, il capitalista iniziale vede contrarsi sensibilmente il proprio profitto. A questo punto ha due scelte: accettare la sfida tecnologica, investire in ricerca per avere sempre nuova tecnologia a disposizione *, oppure comprimere i salari trascurando l’innovazione tecnologica.

Naturalmente la seconda strada è quella che il capitalista inevitabilmente adotterà se non è costretto altrimenti dalle lotte salariali dei lavoratori. E la storia di questi anni è prodiga di questi fatti.

E' evidente che scegliendo la strada della compressione dei salari si ha un beneficio immediato in termini di concorrenza, ma si condanna l’azienda, e con essa l’intero sistema paese, ad uscire in fretta dal novero dei paesi industrializzati perché quelli in via di sviluppo, proprio per poter crescere, investono cifre enormi in ricerca: ma questo al capitalista importa poco perché, come la cronaca ci ha spesso ricordato, quando realizza buoni guadagni li deposita nei paradisi fiscali.

Quindi non si può contare sull’etica del capitalismo, ma piuttosto sulla forza delle lotte dei lavoratori. Ed anche per avere una soluzione praticabile del problema dei rifiuti la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie sono assolutamente indispensabili.

Quindi, il futuro nasce dalle lotte dei lavoratori!


*) Che è quanto gli USA fanno da molto tempo. Lì il principale investitore in ricerca è lo Stato, soprattutto attraverso i militari che detengono la maggioranza dei brevetti in tecnologie strategiche, e che cedono per lo sfruttamento civile a società a loro collegate e quando il gap tecnologico è sensibile. Per i computer, per esempio, è trent’anni cioè non viene commercializzata tecnologia se non c’è un vantaggio di almeno trent’anni. Quindi i computer che usiamo ora sono quelli utilizzati per andare sulla Luna nel 1969. (torna su)

Fonte: Calendario del popolo


Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Scienza -  - Stampa pagina
Aggiornamento: 14/12/2018