DISINCANTAMENTO E NUOVA MENTALITA'

IDEE PER UNA SCIENZA UMANA E NATURALE


DISINCANTAMENTO E NUOVA MENTALITA'

Il fatto che Francesco Bacone, con la sua Nuova Atlantide, sia stato tra i primi a parlare esplicitamente della natura come di un "nemico da debellare", da piegare ai propri bisogni, non deve farci pensare che prima dell'epoca moderna (capitalistica) non si avesse con la natura un rapporto di dominio. Alla formazione dei grandi deserti dell'area mediterranea ha contribuito certamente il disboscamento selvaggio dell'epoca schiavistica e feudale.

Però è fuor di dubbio che l'idea "faustiana" di strappare alla natura, con la forza della scienza tecnologica, tutti i suoi segreti, s'è imposta nettamente solo con l'avvento della rivoluzione industriale, che ha trovato nel positivismo l'espressione ideologica più adeguata allo scopo.

Bacone aveva esaltato la figura dell'inventore, vero benefattore del genere umano, colui che sa soggiogare le necessità imposte dalla natura. Nel dire questo, non aveva fatto altro che portare alle più logiche conseguenze le filosofie empiriste dei francescani inglesi che avevano dissolto la Scolastica: Ruggero Bacone, Duns Scoto e Guglielmo di Ockham, per i quali non solo la fede doveva restare del tutto separata dalla ragione, ma anche la ragione, per essere credibile, doveva lasciarsi completamente sottomettere dall'esperienza concreta. Le basi della moderna scienza furono poste nell'Inghilterra basso-medievale.

Quando Marx, scrivendo il Capitale, analizzò il macchinismo, si rese facilmente conto che, sotto l'industrializzazione borghese, non è più la macchina un mezzo dell'uomo ma il contrario. La scienza è talmente incorporata nella tecnica che l'operaio diventa un mero esecutore di azioni ripetitive, privo di quella competenza specialistica un tempo vanto dell'artigiano. Tant'è che l'imprenditore tende a investire sempre più nel capitale fisso (obbligato, in questo, anche dalla concorrenza), proprio per automatizzare il più possibile i processi lavorativi, rendendo quasi irrilevante la funzione della forza lavoro.

Per risolvere questo rapporto alienato, di competizione dell'uomo con le macchine, sarebbe stato sufficiente - secondo il socialismo scientifico - socializzare la proprietà dei mezzi produttivi. In tal modo gli operai non avrebbero avuto salari da fame, né sarebbero stati espulsi dai processi produttivi: non ci sarebbero stati né sfruttati né disoccupati. Le macchine, anzi, producendo ricchezza per tutti, avrebbero permesso a chiunque di godere di molto tempo libero da dedicare alla propria creatività.

Marx non pose mai in dubbio che, attraverso il macchinismo, l'uomo dovesse soggiogare la natura. Prima che si formi una coscienza ecologica negli ambienti della sinistra europea, si dovrà attendere ancora un altro secolo.

Oggi quel che di sicuro gli ambienti più illuminati dell'Europa hanno capito, anche se si è ben lontani dall'agire in maniera conseguente, è che non basta statalizzare i mezzi produttivi per ottenere un rapporto equilibrato tra uomo e natura. In quei settant'anni di socialismo da caserma, realizzato nell'Europa orientale, si è proceduto a una tale devastazione della natura come mai era stato fatto nei millenni precedenti.

L'occidente capitalistico ha esultato quando il socialismo è imploso, ma questo non ha affatto implicato la necessità di ripensare il rapporto fra lavoro produttivo ed esigenze riproduttive della natura. Riguardo all'obiettivo di realizzare una democrazia borghese alternativa a qualunque forma di socialismo, il rispetto della natura, ovvero la tutela ambientale, continua a svolgere la parte di Cenerentola.

Rispetto agli inizi del Novecento, allorquando si sviluppò in fabbrica la catena di montaggio, ideata da Taylor e realizzata da Ford, per avere una produzione di massa a costi contenuti, oggi, di diverso, c'è soltanto una cosa, che questi lavori alienanti tendono ad essere delocalizzati nelle aree periferiche del capitalismo mondiale, dove, per un qualunque salario, si può trovare un qualunque lavoratore.

L'occidente (Usa, Giappone, Europa occidentale, ecc.) si sta trasformando sempre più in un'area post-industriale, ove domina il terziario e la finanziarizzazione del capitale, cioè le speculazioni di borsa e il credito internazionale.

Se in quest'area del pianeta si vuol trovare qualcosa di significativo riguardo al macchinismo, bisogna limitarsi alle riflessioni intellettuali dei filosofi e dei sociologi, i quali, già a partire da A. Comte e M. Weber, hanno sempre associato lo sviluppo tecnologico della scienza allo sviluppo dell'ateismo. La tecnicizzazione dell'uomo e della cultura ha prodotto una progressiva rimozione degli elementi religiosi persino nella vita privata dei lavoratori e dei cittadini (che, a volte, vengono recuperati quando, per motivi di età, ci si deve ritirare dal mondo produttivo).

Tuttavia, quel che molti filosofi e sociologi borghesi non comprendono è che la rimozione dell'elemento religioso dal lavoro ha soltanto "laicizzata" la tendenza magica a cercare la perfezione in qualcosa che sta al di fuori di noi. Ieri, quando dominava la religione, questi elementi estranei erano dio, la chiesa, i sacramenti, la grazia ecc.; oggi sono la scienza, la tecnica, il mercato, lo Stato ecc.

Non crediamo più ai miracoli della fede soltanto perché abbiamo trasformato la ragione scientifica in una nuova religione. Ci siamo "disincantati" nei confronti di cose ultraterrene in cui dovevamo credere, nonostante la loro invisibilità, e ci siamo "reincantati" nei confronti di cose che, pur essendo molto terrene, funzionano in una maniera che ai più appare del tutto misteriosa. Davvero il progresso tecnico-scientifico ha prodotto un significativo mutamento della mentalità?

SCIENZA, TECNICA E SOCIETA': UN RAPPORTO ALLA RESA DEI CONTI

Lo scienziato e filosofo tedesco F. Dessauer, morto nel 1963, era così abbacinato dall'idea di progresso scientifico che equiparava l'invenzione a una vera e propria opera artistica, senza preoccuparsi di sapere quali conseguenze potesse avere sull'ambiente una determinata invenzione. Guardava le cose in maniera estetica, meravigliandosi del fatto che una sintesi tecnica fosse di molto superiore alla somma delle sue singole parti.

Non meno ingenuo era il filosofo e pedagogista statunitense J. Dewey, morto nel 1952, per il quale lo sviluppo tecnico-scientifico tendeva a ridurre le condizioni di rischio tipiche dell'esistenza umana e quindi ad aumentare con successo il controllo sull'ambiente.

Quando gli intellettuali esaminano la scienza e la tecnologia in maniera del tutto separata dai conflitti sociali della società in cui esse si sviluppano, fanno esercizio soltanto di una grande superficialità, al punto che a volte vien da chiedersi se la loro ingenuità sia davvero in buona fede o non sia piuttosto un paravento per mascherare l'interesse privato dei potentati economici che, per i loro profitti, hanno appunto bisogno di determinate scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche. Tale superficialità è senza dubbio più evidente negli Usa che nell'Europa occidentale, forse perché questo paese non è stato pesantemente devastato da due guerre mondiali.

Forse il primo filosofo che ha cominciato a mettere in discussione il valore progressivo della razionalità strumentale, quella indifferente all'etica, è stato F. Nietzsche, che ha tolto il velo alla presunta fondazione "scientifica" della civiltà moderna, sostenendo che in realtà si trattava di una pura e semplice volontà di dominio dell'uomo sulle cose. Ma il suo contributo si fermò qui.

Né, d'altra parte, diede maggiori input, per trovare un'alternativa praticabile, quella corrente spiritualistica rappresentata da H. Bergson e J. Maritain, per la quale l'homo faber poteva tornare ad essere sapiens a condizione di accettare una sorta di "umanesimo teocentrico". Una corrente, questa, del tutto moralistica, in quanto non metteva assolutamente in discussione lo sviluppo in sé della tecnologia, ma solo il suo uso non finalizzato al bene comune, senza rendersi conto, in ciò, che non esiste alcuna neutralità della scienza in sé, in quanto, da quando esistono le civiltà urbanizzate, essa si è sempre posta al servizio delle classi dominanti.

Cioè il problema non sta semplicemente nel lavorare sulla coscienza degli scienziati e degli utilizzatori delle loro scoperte, ma anche sul tipo di sistema sociale che porta gli uni e gli altri a produrre cose non conformi a natura, ma finalizzate oggettivamente a riprodurre antagonismi sociali.

Il marxismo non cadde certamente in questa ingenuità. Marx individuò subito che, sotto il capitalismo, la tecnologia è finalizzata alla conservazione dei rapporti di sfruttamento tra capitale e lavoro. Tuttavia egli non mise mai in discussione, né lo fecero Lenin e Gramsci, che scienza e tecnica dovessero continuare a essere un potente fattore di sviluppo delle forze produttive, a prescindere dalle ricadute ambientali. Secondo i classici del marxismo scienza e tecnica avrebbero favorito l'umanizzazione del lavoro e la libera creatività dell'individuo solo se preventivamente si fosse realizzata la socializzazione dei mezzi produttivi. Risultava estraneo al marxismo il problema dell'impatto tecnologico sulla natura, la quale continuava ad essere considerata come un semplice oggetto da sfruttare.

Forse il primo che ha iniziato a rivalutare il ruolo della natura in rapporto all'essere umano è stato M. Heidegger, morto nel 1976, il quale ha visto in questo dominio incontrollato dell'uomo sulla natura la fine della stessa umanità. Solo che, da buon filosofo, non ha saputo opporre altra alternativa a questa folle corsa verso la tecnicizzazione del nostro rapporto con la natura e tra noi stessi, che il misticismo del pensiero poetante, l'unico, secondo lui, capace di recuperare il senso dell'essere e del suo mistero indicibile.

La Scuola di Francoforte, che riprende in parte le idee del marxismo, arriva a sostenere che una società fortemente tecnologizzata, cioè in grado di controllare persino le mentalità e i modi di vivere, diventa inevitabilmente totalitaria, anche in assenza di un'ideologia politica specifica, tant'è che, sotto questo aspetto, è impossibile fare differenza tra capitalismo e socialismo stalinista e post-stalinista. Pertanto il problema sta sempre più diventando quello di ripensare gli stessi criteri dello sviluppo tecnico-scientifico, a prescindere dall'uso che se ne può fare.

Tuttavia, quando si tratta di procedere in questa direzione, non si riesce a fare altro che accentuare l'analisi critica, senza riuscire ad essere efficacemente propositivi. P.es. per E. Severino lo sviluppo abnorme della tecnologia non è che la conseguenza di un nichilismo metafisico di origine greca, per il quale l'essere è niente e il divenire è tutto. Di qui la sua idea di ritornare a Parmenide, per il quale solo l'essere è, il non-essere non è: una soluzione, come si può facilmente vedere, molto autoritaria.

Migliore di quella severiniana è l'idea di G. Anders, per il quale l'unica alternativa al faustismo e alla superbia prometeica, che portano sicuramente a una fine catastrofica della specie umana, è quella di elaborare un discorso filosofico sulla tutela ambientale, sottoponendo le necessità dell'economia a quelle dell'ecologia.

Di parere opposto però è il filosofo tedesco A. Gehlen, per il quale una specie umana senza tecnologia sarebbe già estinta, essendo morfologicamente inferiore agli animali. Semmai l'uomo deve sbarazzarsi del sistema sociale massificato, per poter appunto usare la tecnologia in maniera libera, affermandosi come individuo.

In sintesi, si può dire che non c'è modo di risolvere i problemi inerenti al rapporto tra scienza, tecnica e società, se non si parte dal presupposto che all'origine di questo rapporto vi è la formazione di civiltà urbanizzate e schiavistiche, postesi in antagonismo a tutte le civiltà precedenti, siano esse di tipo stanziale o nomadico.

Le basi di un rapporto egemonico dell'uomo nei confronti della natura sono state poste 6000 anni fa, anche se lo sviluppo impetuoso della tecnologia è sorto solo 500 anni fa, con la nascita del capitalismo industriale. Nessun discorso può essere fatto sulla scienza o sulla tecnica, senza fare, contestualmente, un discorso sulla società.

La tecnologia ha cominciato a imporsi in maniera rilevante quando, nello sfruttamento del lavoro umano, è finito il rapporto personale tra il proprietario e il nullatenente, e si è imposto quello giuridico basato sulla libertà personale formale. La tecnologia è diventata una necessità per continuare a sfruttare il lavoro in assenza di una coercizione extra-economica.

Oggi però, oltre a fare queste constatazioni di fatto, dovremmo arrivare a dire che anche quando avessimo risolto il problema dell'emancipazione umana dallo sfruttamento del capitale (sia esso privato o statale), resterebbe ancora da precisare che ciò non può essere considerato sufficiente per impostare in maniera equilibrata il rapporto dell'uomo con la natura. Il rispetto delle esigenze riproduttive della natura dobbiamo arrivare a considerarlo superiore al rispetto delle esigenze produttive dell'essere umano.


Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Scienza -  - Stampa pagina
Aggiornamento: 14/12/2018