LE ASTRAZIONI DELLA MATEMATICA NELLA TEORIA DEGLI INSIEMI

IDEE PER UNA SCIENZA UMANA E NATURALE


LE ASTRAZIONI DELLA MATEMATICA NELLA TEORIA DEGLI INSIEMI

La matematica è una scienza dicotomica, non dialettica. Per un matematico è molto importante che A non sia non-A. Per un filosofo invece tutto è possibile. La matematica presume di dare certezze, ma sono quelle dell'intelletto, non della ragione. La ragione infatti deve tener conto di un elemento che in matematica viene completamente e necessariamente trascurato: la libertà.

Ci si convince di questo anche da una semplice analisi della teoria degli insiemi. In genere i manuali scolastici danno due definizioni di "insieme": è finito se è possibile elencare tutti i suoi elementi; è infinito se non è possibile elencarli tutti.

Se qui la matematica inserisse il concetto di "tempo" (aggiungendolo allo "spazio"), si dovrebbe affermare che un insieme finito può, col tempo, diventare infinito e viceversa. Dipende da una qualche condizione. Cioè un approccio dialettico non è mai categorico. Addirittura si dovrebbe arrivare a dire che, poste determinate condizioni, un insieme finito può essere, nello stesso tempo, infinito.

La matematica dovrebbe chiedersi quali siano le condizioni che permettono una trasformazione così importante e, per certi aspetti, così straordinaria, almeno rispetto al suo tradizionale modo di ragionare.

Se la matematica non riesce a trovare queste condizioni nel suo apparato categoriale, dovrebbe andarle a cercare altrove, nella filosofia o nell'ontologia o nell'etica. In ogni caso non dovrebbe assumere un atteggiamento autoreferenziale, anche perché, in tal modo, finisce con l'impoverire i propri contenuti, allontanando da sé le persone che la considerano ostica. Le cose troppo astruse, inevitabilmente stancano.

Ma procediamo. La teoria degli insiemi afferma che un insieme privo di elementi è vuoto. Davvero nella realtà esistono insiemi del genere? E se anche esistessero, sarebbe davvero significativo saperlo? Un insieme reale potrà essere vuoto di taluni elementi, ma non può esserlo di tutti. Proprio perché l'insieme è coestensivo, coessenziale ai propri elementi.

Non esistono, se non in maniera convenzionale, degli elementi che "fanno" un insieme, ma è l'insieme che permette agli elementi di esistere e quindi di definirsi. "Fare" vuol dire "determinare", ma un insieme non è la "somma" di più elementi, se non in senso molto lato. Gli elementi fanno ciò che in realtà serve all'insieme per esistere. Se gli elementi non fanno ciò che viene richiesto, è perché si sta formando un nuovo insieme, dentro quello precedente, che ha pretese non solo di coesistenza, ma addirittura di sovrapposizione.

E qui ovviamente la matematica non può usare concetti come "buono" o "cattivo", ma possono, anzi devono farlo altre discipline. Ecco perché è importante che la matematica resti aperta al confronto con la dialettica. Proprio per evitare eccessive semplificazioni, che difficilmente troverebbero riscontri reali. La decontestualizzazione fa perdere il senso della realtà, per quanto affascinante possa essere per il libero pensiero.

Si noti, p.es., questa definizione: "Due insiemi sono uguali se sono formati dagli stessi elementi". In natura non si verifica mai una cosa del genere. Al massimo due insiemi possono essere equivalenti, non perfettamente uguali. È qualcosa di assolutamente innaturale o di completamente artificiale che possano esistere due insiemi composti da elementi identici. Persino nella produzione in serie, del tutto automatizzata, escono fuori i cosiddetti "difetti di fabbricazione".

La matematica arriva a queste definizioni arbitrarie perché, essendo dicotomica, cioè abituata a scomporre le cose, non parte dal generale per arrivare al particolare, ma fa il processo inverso. Così facendo, cioè preferendo definire preventivamente, in modo preciso, quali sono i singoli elementi di un insieme per poterlo individuare, alla fine ottiene un insieme che è appunto valido solo in matematica.

Nella realtà il processo è esattamente opposto: gli elementi possono essere individuati e definiti solo dall'insieme che li contiene. È il tutto che dà senso alle parti e le parti non hanno mai la stessa importanza. Invece per la matematica l'ordine con cui vengono individuati gli elementi di un insieme non ha alcuna importanza.

D'altra parte se si esclude dallo spazio il tempo, non si può pensare che tra i singoli elementi di un insieme vi possano essere delle priorità. Quando la matematica parla di proprietà caratteristica degli elementi di un insieme, non considera questa rappresentazione più significativa di quella per elencazione; anzi, la mette sullo stesso piano anche di quella rappresentazione grafica chiamata "i diagrammi di Eulero-Venn", che è particolarmente astratta, in quanto dentro una linea chiusa gli elementi dell'insieme possono essere disposti come si vuole: l'importante, infatti, è che stiano dentro. Non a caso la matematica preferisce quest'ultima rappresentazione, in quanto le permette di creare tutta un'altra serie di insiemi e sottoinsiemi che rendono la teoria ancora più astrusa.

Viceversa, il prodotto cartesiano fra due insiemi, che ha bisogno di equazioni per dare risultati significativi, viene messo per ultimo, poiché non soddisfa tutte le precedenti condizioni: p. es. non gode della proprietà commutativa (AxB ≠ BxA) o non permette di usare per motivi di chiarezza il diagramma di Eulero-Venn quando gli elementi dei due insieme sono più di tre o quattro.

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Vediamo ora i rapporti tra logica e teoria degli insiemi. In Europa occidentale, a partire dalla filosofia greca antica (vedi p.es. quella di Parmenide), la logica si è sempre caratterizzata per essere una specie di matematica. È logico ciò che è vero o falso, senza vie di mezzo. Come appunto in matematica, dove a un determinato problema si deve trovare una determinata soluzione, pur potendo seguire strade differenti. Se la soluzione non si trova, si dice che il problema è irrisolvibile, cioè i suoi presupposti, le sue ipotesi di partenza non offrono condizioni sufficienti per poterlo risolvere in maniera adeguata, razionale.

Questo carattere meccanicistico della logica è stato applicato non solo alle scienze esatte (fisica, chimica, ecc.), ma anche alla grammatica e, quando assume la forma sillogistica, anche a tutte le scienze umanistiche. Lo stesso principio della dialettica si avvale della procedura sillogistica, per quanto con Hegel la dialettica sia diventata il metodo con cui tenere uniti degli opposti che si attraggono (in quanto l'uno ha bisogno dell'altro) e si respingono (in quanto ognuno possiede una specifica qualità o identità).

Siccome anche la teoria degli insiemi tratta il tema della logica, è impossibile non parlarne. Se sia la logica figlia della matematica o il contrario, è molto difficile stabilirlo. In Europa occidentale la matematica (aritmetica e geometria di Talete e di Pitagora) e la logica di Parmenide sono nate quasi contemporaneamente, nell'ambito della filosofia della natura e dei ceti mercantili. E sono entrambe delle astrazioni o, se si preferisce, delle semplificazioni, in quanto nessuna delle due scienze sapeva cogliere la realtà nella sua complessità dialettica, nei suoi aspetti sociali contraddittori.

La differenza tra logica e matematica sta unicamente nel fatto che la prima non fa calcoli coi numeri, ma solo coi ragionamenti. Cioè la logica non si preoccupa di notazioni simboliche, di operazioni con riga, squadra e compasso, nonché di tabelle di numeri e formule prestabilite. La logica è persuasiva in forza del suo ragionamento stringente, rigoroso, apparentemente ineccepibile. Si avvale di proposizioni di senso compiuto o di enunciati chiaramente veri o falsi. Non possono essere considerate proposizioni logiche le opinioni, le previsioni su fatti futuri, le domande, le esclamazioni, i comandi. Tutto va argomentato e rapportato a situazioni che si presumono reali, tant'è che la risposta può essere soltanto vera o falsa.

La logica bandisce dalle sue argomentazioni i linguaggi figurati, le espressioni simboliche, le metafore, cioè praticamente il 95% del linguaggio umano, o comunque proprio quelle espressioni linguistiche che più e meglio ci distinguono dagli animali e dagli strumenti artificiali che ci diamo per la nostra esistenza quotidiana (dall'acceso-spento per la luce al linguaggio binario in campo informatico). La logica si trova anche nello studio della grammatica, che in Occidente viene svolta come se fosse una matematica.

In un certo senso dovremmo considerare la matematica un'applicazione della logica. Però si potrebbe anche sostenere il contrario, e cioè che la matematica è uno svolgimento particolare della logica, che avviene per mezzo di numeri e di simboli. La logica, in senso stretto, andrebbe insegnata agli adolescenti, cioè a coloro che non si sono ancora formati un pensiero dialettico sulla realtà. I giovani, essendo inesperti, hanno bisogno di sicurezze, e la logica è lo strumento più semplice per acquisirla, anche perché si avvale di proposizioni atomiche concatenate, composte, ognuna, da un solo predicato.

Il massimo della complessità viene appunto raggiunto quando si combinano tra loro le proposizioni atomiche, che così diventano molecolari. È una complessità alquanto minimale. Persino i connettivi che si usano per comporre tra loro le proposizioni, possono operare al massimo su due o tre proposizioni alla volta. Nei test strutturati, dove la risposta è vera o falsa, le proposizioni devono essere molto semplici come costruzione sintattica, non devono dare adito ad ambiguità semantiche, devono anzi prevedere una risposta univoca, assolutamente certa. In tal senso la teoria degli insiemi si presta a un affronto logico proprio perché è concettualmente povera, priva di sfumature.

Che la logica sia una specie di forzatura linguistica, lo si comprende con un minimo di buon senso. Prendiamo p.es. questa frase: "Non credo che non andrò a Parigi". È una doppia negazione: la regola vuole che sia in realtà un'affermazione, cioè è un modo di dire che mi recherò sicuramente a Parigi. Eppure ho usato un verbo particolare: "credere", che, per sua natura, non dà certezze, tant'è che è il verbo preferito dalle religioni, quelle che si giustificano sulla base della "fede".

Supponiamo ora di avere due proposizioni unite dalla congiunzione "e". La tabella parla chiaro: se sono entrambe vere, il risultato finale sarà vero. Ma se anche una sola è falsa, il risultato sarà falso. Cioè anche se una delle due è vera, alla fine diventa falsa. La logica è inequivocabile, ma la psicologia direbbe, in tal caso, che si è verificato una sorta di "effetto alone" e si è, per così dire, ripristinato il principio della presunzione di colpevolezza, usato ai tempi dell'Inquisizione.

Si dirà che nella "disgiunzione inclusiva", quella col connettivo "o", vale la regola contraria, e cioè che il risultato finale è falso soltanto quando entrambe le proposizioni sono false. Il problema è che non si dovrebbe permettere al linguaggio umano d'essere determinato da connettivi così minimalisti come "e" e "o". Nella realtà ogni affermazione va discussa. Non possiamo permettere che la cosa più difficile di questo mondo: la ricerca della verità, possa essere assoggettata a responsi di tipo oracolare, dove il confine tra il misticismo e il comando militare è debolissimo.

Anche perché si rischia di cadere in assurdità, come quella della "disgiunzione esclusiva", dove se due proposizioni sono entrambe vere o false, il risultato finale sarà sempre di falsità. Se io dico: "O vieni o parto senza di te", che senso ha che la logica sia così categorica quando l'interlocutore deve ancora prendere una decisione? E se lui (o lei) mi lasciasse partire per poi raggiungermi subito dopo? E se dicesse di voler venire con me e poi si pentisse d'averlo fatto?

Non possiamo essere così astratti da credere che le relazioni umane sono soltanto bianche o nere. Generalmente, anzi, hanno molte sfumature di grigio. Si pensi al fatto che nell'"implicazione materiale" (quella, per intenderci, del tipo "se a allora b"), qualunque cosa si dica è sempre vera, ad eccezione di un solo caso, quello in cui la prima proposizione è vera e la seconda è falsa. Chissà perché se accade il contrario, il risultato è vero. Cioè nel caso in cui io dica: "Se sono miope, allora vedo bene da lontano", e la prima è vera, mentre la seconda è falsa, sto dicendo una falsità. Ma se io dico: "Se vedo bene da lontano, allora sono miope", supponendo che la prima sia falsa, e la seconda sia vera, come in effetti è, allora il risultato è vero! Eppure le proposizioni sono state semplicemente cambiate di posto.

Dove sta l'assurdità di questo modo di ragionare? Nel fatto che si pretende di attribuire la verità o la falsità di una proposizione a prescindere dall'altra. La stessa cosa si fa in grammatica, quando si pretende di dire che una frase è di senso compiuto semplicemente avendo un soggetto e un predicato. Questo significa impoverire enormemente il linguaggio umano, cioè ridurlo a un linguaggio-macchina.

Con la "coimplicazione materiale" si raggiunge l'eccesso, poiché in tal caso vi è anche la possibilità che il risultato sia vero pur essendo due proposizioni entrambe false: "potrei volare se e solo se fossi un'aquila"!

Sull'argomento ho già scritto due libri: uno dedicato alla grammatica, l'altro dedicato a Wittgenstein. In quest'ultimo ho esaminato soprattutto la differenza tra "tautologie" (le espressioni sempre vere) e "contraddizioni" (le espressioni sempre false). Rimando a quelli per non ripetermi. Qui vorrei vedere invece un altro argomento. gli enunciati aperti e gli insiemi.

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Gli "enunciati aperti" rappresentano il tentativo disperato di rendere più flessibile una logica troppo schematica. Ma il risultato lascia molto a desiderare. In pratica si usano delle incognite, chiamate "variabili", associandole a un insieme, in modo tale che solo il predicato è chiaro: gli argomenti incogniti sono appunto degli enunciati aperti.

È una cosa che può servire ai motori di ricerca del web, i quali, avendo troppi dati da archiviare, cercano di fornire, come risultato, non "la" verità, ma un "insieme" di verità, un insieme che appartiene a una sorta di "dominio" più generale, il quale è l'insieme dei valori che è possibile attribuire alle variabili, indipendentemente dal fatto che rendano la proposizione vera o falsa. Cioè cos'è che decide della scientificità di una qualunque tabella? È la denominazione univoca delle colonne e delle righe, ma mentre per quest'ultime basta mettere dei numeri consecutivi e illimitati, per le colonne bisogna scegliere delle intestazioni che siano, a un tempo, univoche e significative sul piano semantico.

Facciamo un esempio. Voglio cercare un docente (il dominio), che insegni storia in un liceo (insieme di verità) con 40 anni di esperienza (il predicato). Anzitutto il dominio, preso in sé, è valido in ogni caso, cioè anche a prescindere dal fatto che il docente appartenga a un liceo. È piuttosto l'insieme di verità che qualifica il valore del dominio. Ma il problema è: riusciremo a trovare un docente liceale di storia con così tanto servizio? Siccome l'enunciato è aperto, il report, temendo di non soddisfare la precisa richiesta dell'utente, fornirà anche l'elenco dei docenti che hanno meno di quarant'anni di servizio. Andando avanti, il motore passerà ai docenti di storia non liceali; poi passerà a quelli di italiano, che in molti istituti hanno la loro disciplina abbinata alla storia, e così via. Insomma, non potendo la logica essere stringente, andrà per approssimazione. Qui non sarà come in quello splendido libro di A. Koyrè, Dal mondo del pressappoco all'universo della precisione, ma il contrario. Non a caso, dopo aver parlato di enunciati aperti, la teoria degli insiemi giunge a trattare un argomento ancora più vago: i quantificatori.

Essi hanno la caratteristica di essere o universali (p.es. "tutti gli uomini sono mortali", per cui ogni elemento x appartenente agli insiemi degli uomini ha la proprietà d'essere mortale) o esistenziali (p.es. "qualche animale ha le ali", per cui almeno un animale x di questo insieme ha la proprietà di... "volare"? E la gallina, col suo gallo e i suoi pulcini, dove li mettiamo?).

Il punto, infatti, è proprio questo, che quando la matematica si mette a far la logica, rischia di sconfinare nella banalità. La matematica assume concetti filosofici astratti, già ambigui in filosofia, e finisce o con lo scoprire l'acqua calda o col non voler prendere atto che la vita è piena di eccezioni, molte delle quali prodotte artificialmente dall'uomo. Se proprio si vogliono usare concetti come "universale" o "esistenziale", si usino campi non attinenti alla matematica, la quale richiede dimostrazioni concrete, circostanziate, valide appunto in quanto contestuali a determinati presupposti.

Più interessanti sono le relazioni di due insiemi, non necessariamente distinti, che si usano con grande vantaggio nella costruzione dei database: le relazioni uno a uno (ad ogni elemento dell'insieme A è associato un solo elemento dell'insieme B: p.es. ogni persona ha un codice fiscale diverso), uno a molti (ogni singolo elemento si collega a molti elementi di un insieme diverso: p.es. ogni persona legge più genere di libri), molti a uno (molti elementi possono collegarsi a un solo elemento di un insieme diverso: p.es. molte persone votano un solo partito), molti a molti (molti elementi di un insieme si collegano a molti di un altro: p.es. una persona può avere più appartamenti in multiproprietà e ogni appartamento può avere più proprietari).

Tuttavia le cose non sono così semplici: sia perché prima di fare un database bisogna pensarci bene e considerare tutte le possibili eccezioni, guardando attentamente la realtà, avvalendosi dell'aiuto di qualcuno, poiché ogni errore compiuto non sarà indolore; sia perché nella vita le cose cambiano e non c'è database che tenga. Presumere di poter intabellare tutte le situazioni, gli oggetti, i fenomeni, le identità ecc., come faceva Bacone, è semplicemente folle. Né si può pensare di correggere una relazione senza andare a modificarne un'altra. I database sono un groviglio di fili intrecciati e non hanno la proprietà di autocorreggersi (al massimo riescono ad autoaggiornarsi, aggiungendo nuovi dati alle tabelle).

I difetti di queste infinite relazioni li vediamo già oggi nei motori di ricerca "generalisti": sono talmente tante le informazioni che ormai non si trova più nulla di preciso. E ci si illude che le prime cose che si trovano siano migliori di quelle successive, semplicemente perché - stando almeno all'algoritmo di Google - appaiono le più ricercate. Davvero il destino dei motori è quello di restare "generalisti"? Ma anche se si è specializzassero, col tempo non rischierebbero lo stesso di diventare così ingombranti da risultare poco efficaci? È l'idea stessa di "sapere intabellato" che non funziona. Riempire le tabelle di quante più informazioni possibili, quando nella vita pratica ne bastano molte meno, è un difetto che ci trasciniamo dietro dai tempi delle enciclopedie illuministiche.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Scienza -  - Stampa pagina
Aggiornamento: 14/12/2018