RIFORMA LABORATORIALE DELLA SCUOLA

PER LA RIFORMA DELLA SCUOLA
pubblica laica territoriale


RIFORMA LABORATORIALE DELLA SCUOLA

I

La scuola dovrebbe essere composta da un numero consistente di laboratori, anzi dovrebbe essere fatta solo di laboratori, in cui lo studente impara non uno ma tanti mestieri, a seconda delle esigenze della società.

Il passaggio da un laboratorio a un altro dovrebbe avvenire quando si raggiungono adeguate competenze per svolgere con sufficiente padronanza un determinato mestiere.

L'ideale sarebbe che tutti sapessero fare tutto, almeno a livello accettabile (in quanto la scuola non deve creare dei "professionisti"). Però si può anche accettare l'idea che tutti, per poter scegliere la propria futura professione, si esercitino nel maggior numero possibile di attività. La scuola dovrebbe diventare il luogo privilegiato del tirocinio a vasto raggio, in cui i docenti sono anzitutto insegnanti di un mestiere.

Una volta raggiunte le adeguate competenze "scolastiche" per svolgere una determinata mansione, non ha più senso, per lo studente, continuare a frequentare il relativo laboratorio: deve passare ad altro.

Nell'arco di un decennio l'allievo deve aver maturato un complesso di conoscenze e abilità su molte attività pratiche, di cui poi sceglierà, nel mondo del lavoro, quella più conforme alla sua natura (che può voler dire: indole, inclinazione, interesse, motivazione ecc.). Una scelta ponderata può essere fatta solo se prima s'imparano tante cose, teoriche e pratiche.

Nell'arco di una mattinata dovrebbe essere sufficiente frequentare un laboratorio, al massimo due. Un altro laboratorio ancora nel pomeriggio. Sono gli studenti che si devono spostare da un laboratorio all'altro, dove l'insegnante li attende (e per "insegnante" occorre intendere un professionista del mestiere, non semplicemente un "laureato": è la competenza in un mestiere che abilita a insegnarlo, salvo il fatto che tutti gli insegnanti devono avere capacità di svolgere anche un ruolo psico-pedagogico, avendo a che fare con soggetti in via di formazione, con problematiche specifiche all'età adolescenziale).

I laboratori possono essere tanti, ma la loro tipologia non può essere decisa dai soli insegnanti. La scuola fa parte di un territorio, anzi una vera scuola dev'essere territoriale (e non astrattamente o centralisticamente statale), e sono i componenti del suo territorio locale che decidono cosa a scuola bisogna apprendere e cosa invece va considerato superato.

Occorre in tal senso un osservatorio territoriale per il mondo del lavoro, che monitori costantemente le esigenze locali e che s'interfacci continuamente con la scuola. La scuola va collegata al territorio sulla base di questo osservatorio locale, in cui confluiscono le esigenze del mondo del lavoro, che va interpellato periodicamente.

Le esigenze ovviamente non possono essere solo di tipo "produttivo", poiché una comunità locale vive anche di arte e di cultura. I laboratori non devono rispondere soltanto a esigenze pratiche, ma anche a esigenze estetiche o artistiche (come p.es. la musica, la danza, il canto, la recitazione, l'espressione grafica ecc.), senza dimenticare quelle ludiche, sportive, ricreative (quante attività economicamente non produttive insegnano a usare la tattica, la strategia, l'organizzazione, la simulazione, la memoria, l'intuito, il rischio calcolato, l'improvvisazione e molte altre cose ancora?).

In altre parole la scuola ha il compito di valorizzare i talenti di ciascuno, secondo un ampio ventaglio di possibilità operative, direttamente mirate a svolgere una determinata attività o utili soltanto indirettamente. E in questa valorizzazione una parte delle attività dev'essere obbligatoria, un'altra parte invece a scelta del diretto interessato, nel rispetto di un monte ore comune.

Posto questo, occorre risolvere un altro problema: come valorizzare la diversità dei vari livelli di apprendimento. Gli esseri umani non sono macchine tutte uguali, che devono produrre le stesse cose negli stessi tempi.

Bisogna offrire a tutti un insegnamento rispondente alle proprie capacità di apprendimento. I percorsi devono per forza essere personalizzati per gruppi di livello. Dovrebbero esistere quindi medesimi laboratori almeno di primo e di secondo livello, e il passaggio dall'uno all'altro dovrebbe avvenire previo superamento di uno specifico test abilitativo.

Non ha senso mettere insieme ragazzi con capacità molto diverse, poiché per non svantaggiare uno si finirà inevitabilmente col danneggiare l'altro. In presenza di livelli di apprendimento molto diversi, il docente si crea sempre nella sua mente un livello medio standard, che finirà col danneggiare i più capaci.

Finito il corso dell'apprendimento laboratoriale, il docente avrà il compito di certificare le competenze acquisite da parte di ogni singolo allievo (cioè le conoscenze unite alle abilità e alle capacità d'imparare ad imparare). Non ha alcun senso "bocciare", come si fa nelle scuole odierne, dove addirittura l'insufficienza in talune materie obbliga alla ripetenza anche in quelle che invece risultavano sufficienti.

Il certificato delle competenze indica i livelli effettivamente raggiunti in ogni singola esperienza laboratoriale. Questo certificato dovrebbe essere utilizzato dall'impresa, dall'ufficio, dall'ente, dall'agenzia, dall'azienda che vuole assumere del personale, per poter fare una scelta la più possibile mirata (anche per adeguare la remunerazione in rapporto alle reali capacità dimostrate).

L'aspetto teorico di ogni apprendimento laboratoriale dev'essere finalizzato a rispondere alle esigenze che di volta in volta s'incontrano. La teoria deve rispondere alle domande della pratica, per migliorarne la qualità (che è forma e sostanza).

La teoria deve servire per ridurre al minimo gli errori, per avere uno storico su cui riflettere, per programmare degli obiettivi, per discutere sulla loro fattibilità, sulla loro mancata realizzazione, sulla necessità di una loro riformulazione...

La teoria non può riguardare soltanto il contenuto di un'attività pratica da acquisire, ma anche le relazioni tra i componenti che devono eseguire tale attività. La teoria non può essere solo disciplinare (di contenuto, didattico o scientifico, per apprendere conoscenze, abilità, competenze), ma dev'essere anche psico-pedagogica, poiché l'essere umano non è una macchina, non è - come si diceva una volta - "un vaso da riempire". E la sua particolare creatività, che può impiegare nell'azione lavorativa (e che la macchina ovviamente non può avere), emerge meglio quando si affrontano le cose anche sul piano emotivo o motivazionale.

La separazione della teoria dalla pratica non comporta solo la morte della teoria, ma anche la morte della pratica. La scuola oggi è prevalentemente il luogo della teoria, dove la pratica è ridotta al minimo. E' il luogo della teoria fossilizzata, inutile e ripetitiva, mentre la pratica, nel migliore dei casi, è una mera simulazione.

Se si vogliono fare delle simulazioni, queste devono essere le più realistiche possibili (p.es. con programmi che riproducono la conduzione di un qualunque veicolo a motore). Con l'uso dell'informatica si possono fare simulazioni a qualunque livello, su qualunque argomento.

A scuola si devono studiare cose che servono a realizzare degli obiettivi.

II

Quando da adolescente frequentavo Comunione e liberazione e leggevo i testi di Giussani, una delle frasi che bisognava fissarsi bene in mente era: "La cultura è la riflessione sopra un'esperienza in atto". Dopodiché ci si chiedeva come vivere questa esperienza e, di tanto in tanto, anzi, abbastanza frequentemente, ci si confrontava per rifletterci sopra. La verità di questo assunto ci pareva evidente anche leggendo i testi di Barbiana.

Ora, la scuola odierna, privata o statale, fa una cosa del genere? riesce davvero a ricomporre il diviso? Secondo me no. E il motivo è molto semplice: nella scuola, privata o statale, vige la separazione tra cultura e vita, il che trasforma la cultura in un astratto nozionismo.

A scuola si trasmettono contenuti la cui applicazione, nei migliore dei casi, è simulata; di regola viene affidata alla buona volontà che lo studente dovrebbe manifestare nella vita privata, anzi, viene addirittura demandata alla sua futura professione. Noi docenti insegniamo cose che qualcuno, quando lo studente entrerà nel mondo lavoro, dirà che non servono quasi a nulla per fare carriera, soprattutto quelle di tipo etico; cose che anzi è bene dimenticare, se davvero si vuole emergere.

Nella separazione di cultura e vita i licei, che ancora risentono dell'impostazione gentiliana, eccellono. Forse gli istituti che più hanno cercato di superare questo cronico gap della scuola italiana sono stati i Professionali, ma la loro attuale situazione è desolante, e non solo perché qui si concentrano gli elementi meno motivati allo studio, ma anche perché con la riforma Gelmini l'uso dei laboratori è stato ridotto al minimo e solo qualche disciplina teorica fa da supporto all'attività pratica.

Forse i Corsi di Formazione professionale gestiti dalla Regione sono quelli che meglio hanno superato il divario tra teoria e pratica, ma sono anche quelli dove il livello di cultura generale è bassissimo. Là dove ci si concentra a far imparare un solo mestiere, si toglie anche la possibilità d'apprendere tutto ciò che potrebbe servire per fare altri mille mestieri.

Forse il problema più grave della scuola italiana è che ogni disciplina procede per conto proprio: le programmazioni non s'incrociano mai, se non casualmente, e in ogni caso non esiste neppure l'idea di una programmazione interdisciplinare, cioè un affronto comune di medesimi argomenti, visti da angolazioni scientifiche differenti. La separazione della cultura dalla vita ha prodotto anche la separazione assoluta delle materie d'insegnamento.

Ogni docente è solo coi propri allievi. Persino là dove, come alle Elementari, le maestre (o i maestri) potevano confrontarsi ogni fine settimana su quanto avevano fatto, ora, con la reintroduzione del maestro unico, s'è tornati alla monade di Leibniz.

Andando avanti così, la scuola rischia di diventare la cosa più inutile di questo mondo, tanto più che i titoli, ai fini dell'inserimento lavorativo, sembrano avere un'importanza del tutto irrisoria.

Insomma, la scuola andrebbe rifatta completamente: quanto meno bisognerebbe agganciarla alle esigenze del territorio, creando continue sinergie tra il fuori (il mondo del lavoro) e il dentro (la progressiva formazione). Bisogna ricomporre il diviso partendo dai bisogni, ma per fare una cosa del genere non siamo neanche all'ABC.

Premessa da mettere in fondo

La scuola insegna davvero poco di utile. E' per lo più un centro sociale, una forma di badandato da parte dei docenti, che permettono ai genitori di collocare i loro figli in tutta tranquillità, in un posto più sicuro della strada o anche della propria abitazione, quando si è fuori per lavoro.

Per i giovani invece è un modo per formarsi il carattere, per crescere a livello comportamentale, in quanto bisogna pur sapere come stare in un gruppo di coetanei e come relazionarsi con un adulto che non sia un proprio parente. Se l'utilità della scuola deve stare solo in questo, allora sì, essa è utile.

Se infatti guardiamo le abilità di base: leggere, scrivere e far di conto, queste le hanno già imparate alle elementari, anche se in parte le hanno disimparate alle medie, e quel che non s'è appreso alle elementari, sarà impossibile recuperarlo alle superiori. Se dopo dieci anni di grammatica, non si è capaci di fare un tema sufficientemente corretto, gli errori rimarranno tali per sempre.

Nella scuola italiana non c'è apprendimento di abilità o competenze da spendere nella società. I docenti al massimo impartiscono nozioni astratte, che troveranno una loro qualche concretizzazione solo nel mondo del lavoro, nel migliore dei casi, e in una forma che la scuola non può certo sapere, anche se appunto cerca di immaginarselo astrattamente, illudendosi che a un certo titolo di studio possa corrispondere un lavoro più o meno adeguato.

In realtà la scuola non è "maestra di vita" e non ha la più pallida idea di che fine faranno i propri studenti; non è in grado di prevedere nulla neppure delle proprie eccellenze. Tutto sembra essere affidato al caso o, al massimo, alle conoscenze e raccomandazioni.

La scuola non serve a rendere la società più efficiente, proprio perché essa non risponde a precise esigenze dell'ambiente e del territorio in cui essa opera. La scuola statale è un corpo estraneo calato dall'alto in un tessuto sociale che non riesce a interagire in maniera organica con esso. L'interazione è sempre e solo relativa alla fase della socializzazione dei ragazzi o di maturazione psico-pedagogica, un settore nel quale l'Italia pensa di essere la prima della classe, ma il fatto che da noi i giovani restino in casa fino a 30 anni dovrebbe farci riflettere. Di qui tutti i rapporti col Sert, con l'Asl, coi Consultori, con le comunità terapeutiche, con gli psicologi dell'età evolutiva...

Il rapporto col mondo del lavoro è rimandato a data da destinarsi, è circoscritto a periodi molto brevi di stage, in cui s'impara molto poco, essendo simulazioni estemporanee di basso livello professionale. Forse l'aspetto migliore di questi stage sono i gemellaggi con scuole straniere, dove però l'apprendimento della lingua (che pur nelle nostre scuole studiano per molti anni) resta sempre a livello elementare.

Non è singolare che non esistano da nessuna parte degli osservatori del mondo del lavoro che permettano un'interazione tra scuola e aziende, agenzie, enti e quant'altro?

Fonti


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Formazione
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Aggiornamento: 10/02/2019