LA STORIA ANTICA
dal comunismo primitivo alla fine dello schiavismo


STORIA DELL'AGRICOLTURA ANTICA

Antico aratro egizio, circa 1200 a.C

Premessa storiografica

Per milioni di anni, quando la Terra era ricoperta di foreste, gli uomini sono stati cacciatori-raccoglitori e le donne esperte di piante e di erbe.

Tutti gli storici ritengono che l'uscita dalla foresta abbia costituito un progresso fondamentale dell'umanità, perché ci ha portato a una forma di organizzazione del tutto diversa, non dipendente al 100% dai cicli della natura.

Dapprima abbiamo iniziato a coltivare la terra: è vero, ma dopo aver abbattuto enormi estensioni di foreste. Poi abbiamo addomesticato taluni animali selvaggi, allevandoli per le nostre esigenze e facendo addirittura incroci inesistenti in natura: è vero, è stato appunto così che abbiamo tolto loro qualunque forma di libertà. Infine abbiamo edificato le città: sì, ma dopo aver inventato infinite discriminazioni tra uomo e uomo, tra uomo e donna, tra uomo, donna e natura, tra forte e debole, tra giovane e anziano, tra ricco e povero, che tutte le religioni si preoccuparono doverosamente di giustificare.

Oggi è forse giunto il momento di relativizzare questo progresso e di chiedersi se non sia il caso di fermarsi, di guardarsi indietro e di recuperare qualcosa che s'è perduto.

Gli storici guardano la realtà con gli occhi del presente e quando lo giustificano sono detti "conservatori"; quando invece pensano a un futuro migliore, qualitativamente diverso, vengono detti "progressisti". Ma chiunque s'azzardasse a dire che l'epoca d'oro dell'umanità è stata quella delle foreste passerebbe per pazzo, o quanto meno per eccentrico, antistorico...

Da molti e molti secoli il passaggio dall'epoca primitiva, tribale, venatoria, forestale, boschiva, montanara, nomade, alla civiltà fluviale, marittima, agricola, stanziale, urbana, mercantile viene considerato così naturale e necessario che anche chi dice di preferire l'agricoltura all'industria, l'autoconsumo al mercato, non può non nutrire profondi pregiudizi verso ciò che si è abbandonato. Uscendo dalle foreste l'umanità - viene detto dagli storici - non ha perduto nulla: ci ha soltanto guadagnato.

Noi non riusciamo neppure a immaginarci un pianeta completamente ricoperto di foreste, di vegetazione lussureggiante, tant'è che continuiamo a sostenere che i tanti deserti che ci affliggono non sono stati provocati dagli uomini ma dai mutamenti climatici.

Quando gli studiosi parlano dell'evoluzione dell'uomo primitivo, paragonano sempre l'uomo delle foreste alle scimmie. Infatti, dicono, l'uomo inizia a diventare "umano" quando "esce" dalle foreste, quando entra nelle savane, nelle praterie. E' qui che inizia a camminare nella posizione eretta, che inizia a usare le mani in modo intelligente, trasformando gli oggetti naturali in strumenti di lavoro.

Questo modo di vedere le cose serve soltanto a giustificare il passaggio dalla foresta all'agricoltura e all'allevamento, e dall'agricoltura alla città, poiché la città è il luogo privilegiato della nostra esistenza.

Se la Terra fosse stata un pianeta molto piccolo ci saremmo accorti prima dell'assurdità di questa storiografia, proprio perché le nostre devastazioni ambientali sarebbero state così grandi da minacciare la nostra stessa sopravvivenza. Invece con un pianeta così grande la nostra stupidità ha bisogno di molto più tempo per ricredersi.

Le foreste sono state tagliate per far posto all'agricoltura (e si continua a farlo ancora oggi, molte volte neppure per l'agricoltura, ma per un semplice allevamento di animali da macello, oppure per avere legname da vendere). Una volta tagliate, le foreste non sono più ricresciute; al loro posto si sono formati i deserti, non solo là dove prima esistevano le civiltà, ma anche là dove le stesse civiltà, al di fuori dei loro confini, sfruttavano le foreste per avere beni a buon mercato (legname, frutta, cacciagione, pellicce...). La distruzione delle foreste è stato un cataclisma soprattutto per le civiltà più deboli, quelle non in grado di opporsi alla forza delle civiltà cosiddette "antagonistiche".

Il grande deserto del Sahara ne è un classico esempio: civiltà di ogni lingua, cultura e tradizione, a partire da quella egizia, hanno sfruttato le foreste di quel territorio fino a farlo scomparire del tutto in maniera irreversibile.

Coltivazione seminomade del taglia e brucia

Il "taglia e brucia" è la tecnica agricola più antica del mondo, usata per migliaia di anni sin da quando l'uomo uscì dalla foresta.

E' infatti sufficiente scegliere una porzione di foresta (o di savana o di prateria) e incendiarla. Nello spazio ottenuto s'inizia la coltivazione intensiva di varie piante, finché diminuisce la fertilità naturale del suolo, che ad un certo punto viene abbandonato per cercare altri appezzamenti da disboscare e sfruttare.

Il villaggio, in tal caso, deve per forza essere nomade. Tuttavia, dopo un certo numero di anni, il coltivatore torna a lavorare il primo lotto di terra, divenuto di nuovo fertile spontaneamente, grazie alla natura, e il ciclo ricomincia.

Generalmente la scelta del lotto veniva fatta molto accuratamente, accompagnata spesso da riti magici. Ma dalla semina in poi la coltivazione era compito esclusivo delle donne, che si servivano, generalmente, di un bastone da scavo, con cui praticare dei buchi nel terreno, per piantarvi dei semi. Gli uomini invece preferivano dedicarsi alla caccia e alla pesca, ai commerci, all'artigianato, alla manutenzione degli oggetti del villaggio.

Nei campi le piante crescevano come nelle foreste, cioè tutte mescolate, senza divisioni in filari, e si evitava soprattutto la monocoltura o le colture troppo semplificate, non in grado di reggere a un attacco di parassiti.

La varietà di piante doveva essere massima, così come la superficie coltivata. Le foglie crescevano in maniera stratificata, a seconda del tipo di piante. Spesso si lasciavano sopravvivere degli alberi per far tornare fertile il terreno dopo averlo abbandonato.

Questo tipo di coltivazione ovviamente funzionava quando poche persone (tra loro imparentate, generalmente) avevano a disposizione una vasta estensione di terre.

Orticoltura a irrigazione intensiva

L'orticoltura a irrigazione intensiva nasce quando gruppi di montanari preistorici dell'area del Kurdistan abbandonarono le loro colline per recarsi nelle pianure acquitrinose della Mesopotamia, dove il Tigri e l'Eufrate (che nascevano appunto nel loro territorio) rendevano impossibile qualunque attività agricola, a causa delle loro periodiche esondazioni.

Perché siano andati a vivere in una zona così inospitale, agli inizi del Neolitico, resta un mistero. Sappiamo soltanto che fu a motivo di quella scelta che ad un certo punto nacque la cosiddetta "civiltà".

All'inizio si limitarono a seminare nel fango lasciato dalle piene. Il limo di quei fiumi, ricchissimo di sostanze fertilizzanti, dava dei raccolti prodigiosi. Il loro esempio fu presto imitato dagli agricoltori del Nilo e dell'Indo.

Il secondo passo fu ancora più importante: si decise di non far dipendere la propria sopravvivenza dalle inondazioni dei fiumi, ma di deviare una parte delle loro acque verso una rete di canali artificiali, da dove poi veniva distribuita ai campi coltivati, secondo tempi e modi prestabiliti.

Nasceva così la coltivazione intensiva del suolo, ovvero l'agricoltura a irrigazione permanente. Inevitabilmente s'impose per la prima volta l'assoluta sedentarietà dei coltivatori.

Per far fruttare i campi si cominciò a usare non solo il limo e l'acqua, ma anche la sarchiatura, la concimazione tramite escrementi umani e animali, oppure usando le ceneri, la mota dei canali e degli stagni, la spazzatura, erbe particolari ecc., fino al drenaggio vero e proprio e alla rotazione delle colture.

Là dove s'era preferito coltivare il riso, come in Cina, Indocina, Indonesia, Birmania, Filippine ecc., distruggendo completamente la foresta tropicale, si dovette provvedere col sistema del terrazzamento, che è sicuramente la più evoluta forma di orticoltura a irrigazione intensiva, anche perché è quella che permette di nutrire il maggior numero di persone per chilometro quadrato di terreno.

Infatti col sistema del "taglia e brucia" circa 100 famiglie, per sopravvivere, dovevano avere a disposizione almeno 1.200 ettari di terra; ma se le stesse persone avessero coltivato riso, gliene sarebbero bastati 25 ettari. Tuttavia una risaia, per ettaro, poteva richiedere fino a 400 giornate lavorative; e il lavoro, molto faticoso, necessitava di un numero enorme di persone.

Agricoltura dell'aratro e della rotazione dei terreni

Il vero simbolo dell'agricoltura europea e medio-asiatica è però l'aratro, soprattutto per la coltivazione del frumento.

L'aratro trainato da un bue o da un cavallo è stata la prima macchina rurale inventata dall'uomo. Con essa si potevano lavorare terre anche molto difficili, in poco tempo e con pochi contadini.

La terra era destinata a subire una trasformazione radicale. L'intenso sfruttamento imponeva una rotazione delle colture. Ogni anno una parte dei campi doveva essere lasciata riposare (si metteva cioè "a maggese"), anche se, in luogo del frumento, i contadini potevano coltivare altre piante commestibili ("da rinnovo"), come le patate, il granoturco ecc., le cui radici raggiungevano strati ancora più profondi, non sfruttati. Oppure vi lasciavano pascolare gli animali domestici.

Il vantaggio era che il rapporto tra "terre a frutto" e "terre a maggese" non era più, come nel "taglia e brucia", di 1:4, ma diventava di 1:1. L'aratro rendeva possibile molte eccedenze.

Questo nuovo strumento meccanico era generalmente di due tipi: uno per i climi secchi, dove la terra è leggera e friabile e bisogna evitare che l'umidità giunga in superficie e si disperda; l'altro invece è per i climi piovosi, dove si ha bisogno di rovesciare le zolle, per impedire che l'eccesso di umidità faccia marcire il seme.

Il primo aratro era "a chiodo", o meglio "a forcella", in quanto, mentre gli animali da tiro venivano aggiogati al ramo più lungo, quello più corto invece tracciava dei solchi nel terreno, senza rovesciare le zolle. Il secondo aratro era detto "a vomere" e doveva fare l'operazione opposta: con la sua lama di ferro doveva penetrare in profondità, favorendo il rovesciamento e l'evaporazione delle zolle. Un aratro del genere aveva bisogno della trazione di almeno tre animali da tiro, se la terra era molto arida.

Davanti ai buoi, a fare da guida, c'era un giovane che teneva con una cordicella il primo paio di bestie affinché quella di sinistra non uscisse dal solco e le sferzava con una frusta perché tutte quante tirassero l'aratro in sintonia per fare meno fatica.

Ovviamente per la coltivazione del frumento non bastava il solo aratro: ci voleva anche l'erpice, che serviva per frantumare le zolle, asportando le erbacce dal suolo arato (col tempo verrà sostituito da un apposito frangizolle formato da un pesante rullo).

La semina veniva fatta a mano dal contadino, che gettava i chicchi di grano "a pioggia" tra i solchi. Poi vi era una lotta senza sosta contro gli uccelli predatori, i parassiti, le calamità naturali e le devastazioni procurate dagli eserciti in guerra.

Ecco perché la mietitura era sempre una gran festa, cui seguiva la necessaria trebbiatura, per separare il chicco dalle spighe, per arrivare poi alla sua trasformazione in farina.

Nell'antichità ogni famiglia macinava il frumento per conto proprio, utilizzando mortai di pietra. Solo in un secondo momento si passò a uno specialista: il mugnaio, che si serviva di un mulino, la cui macina veniva fatta girare o da un animale o dall'acqua o dal vento. La farina così ottenuta poteva essere cotta con o senza lievito. E fu così che nacque il pane.

Quando nasce l'agricoltura nasce anche l'allevamento, e ovviamente anzitutto quello degli animali più piccoli: polli, tacchini, pecore, capre, maiali, ma anche cavalli, cammelli, lama, asini, vacche, che potevano essere usati anche come scorta di cibo per tutto l'anno.

A volte gli animali diventavano così importanti, come p.es. la vacca indiana, che s'impose il divieto di macellarla: le vacche infatti trainavano l'aratro e il carretto, fornivano il latte (che poteva essere trasformato in burro e formaggio) e il loro sterco veniva usato come combustibile da cucina, per non parlare del fatto che vacche e buoi in India si nutrivano di niente, e ancora oggi è così.

Fonti


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 01/05/2015