OVIDIO, ARACNE (VI libro delle Metamorfosi)

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LA SPOSA NEL MONDO GRECO (secc. VII-IV)

Nei secoli dal VII al IV a.C., nel mondo greco, con le precisazioni che faremo, la donna, o almeno la sposa legittima, cioè quella data, dopo l’"eggùe" dal suo "kùrios" insieme con la dote, al marito, veniva considerata un "dono grazioso". Lo statuto della sposa e delle ricchezze che l’accompagnavano era molto diverso ad Atene, città dell’apertura e del cambiamento, rispetto a Sparta, città della chiusura e dell’immobilismo, proprio perché le due città avevano una diversa concezione della comunità cittadina e della sua composizione.

A quel tempo vi erano "città calde" e "città fredde", secondo una classificazione del Levi-Strauss.

Le "città fredde", come Sparta, avevano deciso di conservare l’organizzazione in case e di limitare l’appartenenza alla comunità cittadina ai soli possessori di terreni.

Le "città calde", come Atene, posero fine alla struttura per case e rifiutarono di limitare l’appartenenza alla comunità cittadina ai possessori di terre.

Nelle città fredde la sposa era padrona della sua persona e del suo corredo matrimoniale, mentre nelle città calde la sposa, legata ad una dote in denaro, era sottoposta all’autorità maritale.

Potremmo dire, insomma, che la donna fu vittima dell’invenzione della democrazia.

Nell’Iliade e nell’Odissea vengono descritte molto bene le società strutturate in "case separate".

L’"oikos", la casa, era un elemento simbolico che rappresentava: la casa stessa, il suo contenuto, il proprio pezzo di terra ed il bestiame.

La casa omerica è dunque un oggetto simbolico anche se essa è soprattutto l’abitazione.

Essa è importantissima per la persona e per determinarne la condizione sociale: per avere un nome bisognava essere riconosciuti dal padre, appartenere ad un gruppo di residenti liberi di una casa.

Nelle società omeriche i non liberi non avevano una casa, un nome, un padre.

Se la casa era importante per determinare un gruppo residenziale, la terra permetteva la costruzione della gerarchia dei gruppi residenziali.

Il possesso di un lotto di terreno permetteva l’integrazione con la comunità: casa e terra erano, quindi, ricchezze particolari che determinavano lo status giuridico-sociale e lo statuto.

La casa era fondata sul matrimonio legittimo e si perpetuava attraverso matrimoni legittimi: la donna che metteva al mondo figli legittimi, a differenza delle altre donne, aveva, nel bene e nel male, un‘esistenza sociale riconosciuta.

La donna sposa, per la logica delle cose della società di allora, faceva parte delle ricchezze, poiché era colei che provvedeva alla riproduzione.

Nelle società omeriche l‘intero gruppo residenziale si fondava sul matrimonio legittimo e si perpetuava imponendolo.

Statuti e beni erano trasmessi per via ereditaria e solo i legittimi eredi ne potevano usufruire; infatti, solo ai figli legittimi era destinata l‘eredità, agli illegittimi era riservata solo la quota del bastardo e non godevano di nessuno statuto.

Vi erano, quindi, delle regole rigidissime per quanto riguardava la sessualità a scopo riproduttivo, mentre non vi erano vincoli per la sessualità edonistica: le grandi case omeriche erano piene di concubine e di prigioniere.

Tutte le regole imposte tendevano a scoraggiare la poligamia, forse perché si temeva un ingrandimento delle grandi case o un‘esplosione demografica.

Tre concetti fondamentali aiutano a capire la società delle case:

le case non si intersecavano: i figli maschi rimanevano in esse, le figlie femmine andavano in mogli in altre case;

le case si perpetuavano: se una casa aveva solo figli maschi, essa si perpetuava accogliendo delle nuore; se, invece, aveva solo figlie femmine, essa si perpetuava accogliendo generi;

le case si segmentavano: alla morte del padre, quando i figli si dividevano l‘eredità e si insediavano separatamente nella casa; oppure quando un padre prendeva un genero.

Le case omeriche, quindi, sembravano praticare due tipi di matrimonio: quello "da genero" e quello "da nuora", che sono tipici della società omerica.

Tali due tipi di matrimonio implicano entrambi: il "dono grazioso" di una sposa, legata a delle ricchezze e l‘incorporazione del coniuge "mobile" nella consanguineità della casa che lo riceve.

Il concetto di sposa e di matrimonio si è poi evoluto, nel mondo greco, dalla configurazione dell‘epoca omerica a quella del periodo classico.

In proposito vi sono due ipotesi più accreditate ed entrambe legate, per metodiche opposte – cogliendo una le affinità e l’ altra le differenze – alla formazione ed evoluzione delle varie "pòleis", le città-Stato, del periodo in esame.

La prima ipotesi individua una relazione fra l’apparire delle città e la scomparsa della regalità e la ristrutturazione dei gruppi sociali.

Le "case separate" omeriche cedono il posto alle "case che si collegano fra loro": cambia, cioè, l’organizzazione sociale.

Nelle società strutturate in "case che si collegano fra loro" è la sovrapposizione delle case che salda il gruppo sociale trasformandolo in un insieme indivisibile.

La città comincia ad esistere con l’instaurarsi della parentela fra cognati.

Questo processo di ristrutturazione delle case scaturisce da una riorganizzazione del sistema della riproduzione legittima:

la sposa viene data dalla sua casa a quella del marito affinché egli possa assicurare la sua continuità;

la dote o "deriva patrimoniale" segue la sposa che rimane per tutta la vita titolare delle ricchezze donate dalla sua famiglia. Lo sposo è solo un usufruttuario, essendo, in realtà i beni dotali destinati ai figli generati dai due sposi e tali beni, provenienti dalla casa della madre, sono il segno concreto della loro appartenenza alla casa della madre. Non si tratta più di una filiazione complementare, bensì di una doppia filiazione;

il collegamento fra le case rende superflue le procedure dei matrimoni della nuora e del genero e l’integrazione del coniuge mobile nella casa che lo accoglie. Gli sposi cessano di essere consanguinei per diventare affini.

In tutte le "pòleis", oramai, due sono gli schemi matrimoniali seguiti: il matrimonio della figlia che ha un fratello e il matrimonio della figlia che non ha un fratello.

La seconda ipotesi tiene conto delle differenze che il "dono grazioso" della sposa presenta tra le due città tipo di Atene e Gortina (cui sono assimilabili Chio, Teo, ma, soprattutto, Sparta).

Essa propone di stabilire una correlazione tra la scelta del sistema matrimoniale e quella del sistema politico.

La riconversione delle società a "case separate" in società a "case che si collegano" non vuole rimettere in discussione i principi cardine dell’organizzazione delle società omeriche:

la gerarchia del gruppo residenziale è fondata sul possesso di ricchezze che danno uno statuto, quali la casa (segno concreto della libertà) e l’ appezzamento di terra (segno concreto dell’integrazione nella comunità \ collettività ormai "pòlis");

la riproduzione legittima assicura tanto la trasmissione ereditaria quanto la successione.

Quelle città che, come Gortina e Sparta, hanno scelto di conservare questi principi organizzatori hanno scelto di legare le loro figlie alle particelle della terra della comunità.

Queste città, pertanto, sono state portate a pensare il loro dispositivo matrimoniale a partire dal matrimonio da genero delle società a "case separate" e a fare della donna un membro della comunità, padrona della sua persona e dei suoi beni.

Le case cittadine, che rappresentano solo una parte dell’insieme dei residenti, si collegano e trasmettono il loro bene comune (la terra della città) ai loro figli legittimi, senza distinzione di sesso.

Altre città, come Atene, hanno scelto, in un certo momento storico, di rifiutare la gerarchia della società organizzata per case; le case cittadine, che rappresentano la totalità dei residenti, si collegano trasmettendo ai loro figli legittimi, senza distinzione di sesso le ricchezze che esse contengono. In tal modo la città si può aprire anche a coloro che non posseggono terra civica.

Quello che comunque emerge e che colpisce la nostra sensibilità affinata ai problemi femminili (in una società dove la pari opportunità fra i sessi è oramai conquista riconosciuta), è la considerazione che presso la "pòlis" per eccellenza democratica e culturalmente avanzata, quale Atene, la donna sposa vive una vita segregata e vegetativa.

In verità Atene era una "pòlis" creata da uomini per uomini, che escludeva le mogli non solo dall‘attività politica, ma anche da quella sociale, religiosa e culturale.

Il mondo, regno e prigione, della sposa ateniese era la casa, anzi la "gunaikonìtis" e tutti gli avvenimenti esterni ad essa riguardavano l’uomo e solo l’uomo.

Viceversa presso Sparta, Gortina, Chio, Teo, Lesbo, città di cui abbiamo testimonianze storiche, il discorso si atteggia alquanto diversamente.

Le donne in generale, ma anche le spose, godevano di una maggiore libertà, non vincolate alle precipue funzioni di procreazione e di amministrazione della casa, libere di frequentare palestre, scuole, danze, cori, teatri, vita culturale, religiosa, sportiva, anche pubblica, pur con l‘esclusione di tutti i diritti politici e di governo.

Il perché di questa differenza, abbiamo visto, sta forse nelle diverse scelte effettuate nel contesto della trasmissione del patrimonio e dell’adozione delle forme di sviluppo economiche attuate dalla "pòlis".

Come già detto, presso Sparta e Gortina la cittadinanza veniva trasmessa insieme alla terra: cittadino era chi possedesse della terra nell’ambito dell’agro della polis.

Tra l’altro tali scelte hanno comportato come conseguenza coatta, sovente, l’endogamia proprio per evitare la dispersione del patrimonio immobiliare della "pòlis" e la disgregazione del tessuto sociale originario della città stessa.

Così la donna che, sia pure in misura meno garantita rispetto ai maschi della famiglia, poteva anch’essa ereditare la terra, vedeva automaticamente riconosciuto il suo status di cittadino con la connessa maggior tutela della sua condizione anche da sposata: ricordiamo ancora una volta che le era conservata la proprietà del bene dotale, mentre il marito ne era solo usufruttuario.

Presso Atene, invece, l’evoluzione del matrimonio monogamico non solo non favorì la donna, quanto, invece, aumentò l’emarginazione femminile.

La condizione della donna ateniese divenne assolutamente subordinata al padre prima, al marito poi, al figlio o ad altro parente, in caso di vedovanza.

Ciò parallelamente alla nascita di una città–stato dalla struttura di tipo maschilista, un vero "club di uomini" da cui erano escluse, oltre agli schiavi, agli stranieri, ovviamente le donne.

Abbiamo visto, riconducendo il discorso sul piano della disamina delle scelte che hanno determinato una tale organizzazione societaria, che in Atene prevalsero un sistema ereditario femminile ed un sistema dotale legati al denaro ed ai beni mobili.

La donna non ereditava terre che, fra l’altro, non davano più "tout-court" il diritto alla cittadinanza, ma passava essa stessa, come un qualunque oggetto, vero "oikourèma", dalla potestà del padre a quella dello sposo.

Tale sistema si adattava bene di sicuro ad una città come Atene dall’economia vivace e dinamica, dai molteplici contatti, dai commerci veloci e legati a capitali facilmente reperibili, da spostare in vari settori.

Furono le riforme matrimoniali e politiche di Solone a segnare storicamente il transito dalla società "a case separate" all’Atene "pòlis" più evoluta.

Aristotele ha ritenuto che tali riforme furono determinate dall’esigenza di ripianare i contrasti fra ricca minoranza nobile, proprietaria terriera potente e dominante e massa di poveri che non avevano terra propria.

Atene è assurta a prototipo e paradigma del mondo classico anche in virtù del fatto che di tale popolo e di tale periodo abbiamo un maggior numero di testimonianze rilevanti oltre che per quantità anche per qualità.

Grazie a tali contributi il carattere della donna greca è stato formato e modulato sullo schema della donna ateniese dell’età classica.

E va detto che il matrimonio monogamico non favorì la donna: padrone era l’uomo.

La donna non sceglieva mai ed arrivava al matrimonio quasi sempre senza aver visto il suo futuro marito.

L’uomo si sposava per un unico scopo: la procreazione di figli legittimi.

Il matrimonio d’amore non esisteva, anzi il matrimonio era un vero e proprio contratto in cui tutti gli obblighi erano a carico di una sola parte.

Infatti il marito poteva ripudiare la moglie e tenersi i figli, con la sola formalità di una dichiarazione in presenza di testimoni ed al solo patto di restituire la dote o pagarne gli interessi.

Al contrario l’istanza di divorzio presentata dalla moglie veniva raramente accolta; era sempre necessaria una decisione del giudice, motivata da sevizie gravi o da notoria infedeltà.

A tale ultimo proposito va detto, comunque, che l’ infedeltà del marito veniva comunemente ammessa dal costume, potendo egli avere concubine e cortigiane.

Si attribuisce a Demostene l’affermazione: "…abbiamo cortigiane per il nostro piacere, concubine per essere ben curati e mogli perché ci diano figli legittimi e siano guardiane fedeli del focolare".

Va altresì ricordato che il contratto di matrimonio fa appartenere la donna alla comunità cittadina ponendola sotto la tutela di un altro cittadino, e colui che la dà garantisce che ella sia nata da un padre e da una madre appartenenti entrambi alla comunità cittadina, secondo le clausole del decreto di Pericle: "…per essere oggetto di un contratto di matrimonio una donna deve essere cittadina di nascita. Colui che la dà deve essere un cittadino … ( omissis )".

Le condizioni del contratto, dunque, garantivano che la donna data in sposa fosse di nascita cittadina, pur se non attestanti la legittimità di essa.

Quanto alla "deriva patrimoniale", ossia alla dote, va detto che il suo significato non è di univoca interpretazione.

Ad una prima superficiale analisi, la dote è il segno concreto dell’ascendenza materna e della doppia filiazione: vero "punctum dolens" dei matrimoni, se nell’ età omerica era l’ assillo del giovane che voleva sposare una fanciulla – ricordiamo che solo in casi eccezionali la sposa era ceduta senza pretendere dote da parte del richiedente (esempio di Agamennone ed Achille nell‘Iliade) – in età classica era la croce dei genitori che volevano trovare uno sposo per la figlia.

La dote naturalmente era amministrata dal marito, il quale, però, doveva restituirla in caso di divorzio; in tale ipotesi, e soprattutto quando essa era cospicua, la dote costituiva un‘arma di difesa della donna e un deterrente per improvvisi e pericolosi colpi di testa del marito.

Ad un’analisi più raffinata la dote si dimostra anche un mezzo materiale, uno strumento per integrare nella città le figlie che sono state, dalla loro nascita, messe ai margini della famiglia.

Il giorno del contratto la dote, costituita da colui che separa dal proprio capitale tale deriva, viene conferita alla sposa e comprende essenzialmente beni nascosti (cioè denaro ed investimenti che producono interessi, quali ipoteche sui mobili in affitto, immobili in affitto, …).

In Atene c’è la cosiddetta "diverging devolution", ma, mentre il ramo femminile è messo in circolazione col denaro, i figli maschi conservano tutti i beni apparenti, cioè beni di produzione, casa di abitazione, terra e schiavi.

Si preferivano unioni entro il "ghènos" familiare in modo che la dote della figlia non finisse in altre famiglie, cosicché non erano infrequenti matrimoni fra zio e nipote.

Per la donna greca, in particolare per quella ateniese, il matrimonio era un atto di obbedienza alla volontà paterna, un fatto naturale ed ovvio, una legge fisica determinata dalla tradizione, sancita dalle leggi, riconosciuta necessaria da tutti per la vita e lo sviluppo della "pòlis" e del cittadino.

Per quanto riguarda l’età in cui le fanciulle greche prendevano marito, sembra che cadesse fra i sedici e i quindici anni, mentre per i giovani era poco frequente e ritenuto anche inopportuno un matrimonio prima dei trent’anni.

La ragazza che andava in sposa consacrava ad Artemide, alla vigilia delle nozze, la sua bambola.

Platone e Aristotele consigliavano, per le fanciulle, un‘età più matura, cercando di correggere, nelle loro legislazioni ideali, quella che per i due filosofi era una criticabile norma pratica: spesso una ragazza si trovava sposata ad un uomo molto più vecchio di lei.

D’altra parte è pur vero che il matrimonio per la fanciulla greca ed ateniese in particolare era il solo mezzo per realizzarsi, avere una propria vita di donna, di madre, di padrona di casa.

La condizione di nubile, nel mondo greco in esame, significava il fallimento e l’annullamento completo della donna che non aveva più fine né senso e diventava un essere inutile nel panorama della "pòlis".

Paventando ciò, Licurgo a Sparta aveva stabilito pene per i celibi ed Atene incoraggiava il matrimonio come dovere morale di ogni buon cittadino.

I genitori di una figlia in avanti con gli anni, quando temevano che ella "ànandros polià partheneùetai (rimanesse vergine canuta )" ricorrevano come "extrema ratio" alla mediatrice perché trovasse ad accasare la povera fanciulla e allontanasse il pericolo di dover mantenere una zitella in famiglia.

Vero è che nessuna legge obbligava un padre o un fratello a sposare una figlia o una sorella posta sotto la propria autorità: ma l’ opinione pubblica considerava espressione di incapacità e criticava ferocemente quei congiunti che non dotavano la donna e non le procuravano un matrimonio.

Quando col matrimonio la sposa entrava nella casa del marito, l’ attendevano innanzi tutto i due doveri sopra citati: la procreazione dei figli, la direzione e l’amministra-zione della casa.

"Méter", " madre", e "oikodéspoina", " padrona di casa", sono i suoi appellativi.

L’uomo greco non chiedeva alla moglie di essere la compagna della propria vita, né pretendeva da lei comprensione, interessamento, grazia, amore, i tesori del suo cuore e le doti della sua intelligenza; la moglie in fondo non era che la persona di cui l’ uomo aveva bisogno per assolvere il suo dovere sociale e biologico di riprodurre la specie e perpetuare la famiglia per il "ghénos" e la "pòlis" e di cui poteva fidarsi nell‘affidarle l’ incarico di "tirare avanti la casa" il meglio possibile.

Con queste esigenze è naturale che diffidasse della donna colta, dai pensieri troppo alti per una femmina; preferiva una fanciulla alla buona, poco istruita, che avesse visto, udito e cercato di sapere il meno possibile, ma che fosse fornita di "sophrosùne", che possiamo tradurre approssimativamente con "saggezza" o con "buon senso", ma che, in effetti, indica il complesso delle doti necessarie per essere una buona moglie, quindi la continenza, il pudore, la fedeltà, l’osservanza dei propri doveri di madre e padrona di casa.

Fra moglie e marito c’era, quindi, una netta divisione di incarichi, di compiti, di mentalità e di prassi che non potevano trovare, se non eccezionalmente, un punto di mutuo scambio, di proficua interferenza in cui si sommassero e si completassero gli sforzi dei due coniugi, i quali rimanevano, per così dire, su due binari paralleli che ognuno di loro percorreva, il più delle volte con l’indifferenza inevitabile di coloro che vivono in due mondi diversi, che non possono comunicare.

Di qui l‘incomprensione dell‘uomo greco nei confronti della donna, la quale diventava facilmente oggetto degli strali avvelenati e crudeli, di facezie, maliziose e paradossali, di accuse rabbiose da parte di poeti e scrittori, i quali, pur nella loro esagerazione letteraria, erano tuttavia portavoce di quella comune incomprensione; perciò il cosiddetto misoginismo greco delle fonti letterarie non fu soltanto un atteggiamento folkloristico o individuale, ma un motivo che si collegava a forme reali di vita e di pensiero.

Nella "gunaikonìtis" la sposa greca, o meglio, la sposa ateniese, metteva alla luce i suoi bambini, li nutriva, li allevava, giocava con loro quando non aveva la possibilità di pagarsi una balia o una nutrice.

Dal gineceo essa doveva amministrare e dirigere la casa nelle cento piccole cose tra cui ad esempio le maggiori erano la vigilanza sugli schiavi, il cibo, gli interminabili lavori domestici.

E’ facile, quindi, immaginare che la sposa rimanesse imbarazzata nelle prime settimane e forse anche nei primi mesi di matrimonio, specie se molto giovane.

Nella casa paterna di solito aveva imparato a tessere, a filare, a ricamare, aveva ricevuto esortazioni dalla madre, la quale aveva cercato di prospettarle i piccoli gravosi problemi inerenti la direzione di una casa, ma essa probabilmente non era preparata alla vera e propria gestione di una casa.

La donna di casa svegliava gli schiavi al mattino presto e assegnava loro i vari compiti.

Alcuni dovevano svolgere i loro lavori fuori, altri, invece, rimanevano in casa; ma era necessario che trovassero già pronte le suppellettili e gli arnesi necessari in modo che non si perdesse tempo e che tutto procedesse con rapidità e ordine.

La padrona di casa era direttamente responsabile delle provviste alimentari che doveva amministrare attentamente, distribuendo la giusta quantità necessaria alla preparazione del pranzo giornaliero, evitando sciupii e sperperi inutili; ciò che mancava in casa, lo mandava a comprare nell’"agorà" da un’ancella, molto spesso vecchia e fidata, oppure se ne occupava direttamente il marito.

Generalmente le case più agiate avevano una buona scorta di vino, olio, grano, che spesso veniva macinato nella casa stessa, così da avere una certa quantità di farina sempre pronte, e che pertanto doveva essere conservata nei luoghi più asciutti della dimora, mentre per il vino erano indicati i locali più freschi; e tutto questo rientrava nei compiti dell’"oikodéspoina".

Naturalmente, quando l’amministrazione lasciava a desiderare, il marito poteva chiudere la dispensa a chiave, amministrando tutto di persona, o per mezzo di uno schiavo fidato.

Per quel che riguarda la cucina, la padrona di casa agiata non era solita armeggiare con fornelli e pentole: l’incarico era devoluto ad una serva capace ed esperta nella preparazione delle vivande.

La sposa meno ricca invece provvedeva direttamente all’allestimento dei cibi che dovevano essere quasi tutti preparati, come le focacce di farina, che poi essa doveva cucinare al forno o in altro modo, come legumi, piselli, lenticchie, spesso triturati e variamente manipolati prima di essere cotti, come le verdure e l’immancabile pesce.

La padrona di casa, inoltre, doveva occuparsi e preoccuparsi della biancheria tutta della casa e dei vestiti propri e dei familiari. Doveva, inoltre, pensare al bucato – di solito fatto in casa dalle serve, ma anche in lavanderie pubbliche -, alla stiratura della biancheria e delle vesti, alla loro sistemazione, ben ripiegate, in apposite casse, allestite dalla stessa padrona di casa con sostanze vegetali profumate e dal potere antiparassitario.

Se qualcuno in casa si ammalava, a doversi prendere cura di lui era proprio la padrona di casa che fungeva, allora, anche da medico e da infermiera non solo per il consorte ed i figli, ma anche per gli altri occupanti della casa, schiavi compresi.

Quando qualcuno moriva era compito della donna prestare le ultime cure alla salma.

Inoltre, come appartenente al "ghénos" del marito, aveva l’obbligo di prendere parte a tutte le cerimonie religiose della famiglia.

Oltre a tutte queste incombenze, l’attività più impegnativa e distintiva della moglie, "padrona" della casa greca, era la lavorazione della lana, la tessitura e il ricamo, arti che apprendeva già nella casa paterna sotto la guida della madre.

Aprendo qui una parentesi va detto che, dopo aver dato al marito i figli desiderati, la madre poteva allevare i maschi fino ai sette anni e le figlie fino al matrimonio, ma mentre a Sparta sappiamo che le fanciulle frequentavano almeno le palestre, che a Teo e a Chio andavano anche a scuola come i maschi, ad Atene invece non potevano assolutamente uscire dall’ambito domestico: niente palestra, né scuola.

L’unica educazione era impartita dalla donna: era la madre che insegnava alle ragazze a leggere, a danzare, ma, soprattutto, a lavorare la lana, a tessere e a ricamare, con le nozioni ricevute a sua volta nella casa paterna, perpetuando così situazioni, gesti, abitudini, senza possibilità di mutamenti e di varietà.

E’ notorio che la donna ateniese non aveva una grande cultura e spesso sono citati esempi di spose noiose e colleriche (vedi Santippe); non "noiose", ma diremmo oggi - invece - depresse e stressate per la vita chiusa, ritirata, monotona, ripetitiva, gravosa di compiti minuziosi, umili ed alienanti.

Una volta sposata la donna di casa greca, se la casa del marito era grande e ricca, poteva trovarsi a dirigere un piccolo laboratorio in cui veniva lavorata la materia greggia (lana o lino) e trasformata in tessuto per vesti, biancheria, tappeti, coperte, etc., di uso domestico.

La tessitura era un’arte antichissima praticata dalle donne greche fin dalla più antica età.

Ricordiamo che Omero creò la figura di Penelope, che tesseva di giorno e disfaceva l’ordito di notte, traendo ispirazione dal culto delle virtù domestiche e dell’amore della sposa, fedele al marito lontano.

Per concludere una curiosità: la donna greca non aveva niente da invidiare alle donne di oggi per la cura della persona: faceva il bagno in casa, si tingeva i capelli, si profumava con profumi costosi ed esotici, si truccava con cura, si adornava di orecchini, collane, braccialetti, si vestiva con attenzione, quasi sempre però al chiuso della sua prigione dorata, e neanche tanto: del "gunaikonìtis".

A conclusione di questa breve disamina si può sicuramente convenire che nella Grecia omerica e nell’ Atene classica non esisteva uguaglianza fra uomini e donne e, men che meno, fra mariti e spose legittime.

La condizione della sposa, dunque, così discriminata per effetto soprattutto dell’adozione degli indirizzi matrimoniali illustrati, era pessima, grama, priva di qualsiasi gratifica estranea a moduli e modelli maschilisti, soprattutto se rapportata a quella dei precedenti periodi minoico e miceneo ed e quella dell’antica Sparta.

Se si eccettua la scelta monogamica più che poligamica, essa è molto vicina a quella di molte realtà orientali, mediorientali e terzomondiste dei giorni d’oggi.


LE DEE GRECHE

La mitologia greca e quella romana sono davvero affascinanti e popolate di dei.

Gli dei greci sono più divertenti perché più umani, più coinvolti in sentimenti ed umane vicende.

Infatti, malgrado la loro immortalità unita ad un insieme di poteri straordinari, quali la forza, la velocità, l'invisibilità, la capacità di volare, uomini e dei sembrano vivere un regime di parità in fatto di sentimenti o stati d'animo come la voluttà, la passione, il desiderio, la vanità, l'invidia, la gelosia, l'ambizione, la possessività, la collera, la pietà, la paura, il desiderio, la felicità, la vendetta, l’amore e l’odio, ecc..

Sebbene ciascuna delle due specie segua il proprio destino, il genere di vita dei mortali fa riferimento a quello degli dei, così prossimi, così simili da essere immaginati come "esseri che hanno la stessa forma della stirpe umana".

Il mondo degli dei greci è molto affollato (solo le divinità olimpiche sono dodici): ZEUS, ERA, POSEIDONE (dio del mare), DEMETRA, APOLLO, ARTEMIDE, AFRODITE, ARES, ERMES (dio dell’astuzia e del commercio), ATENA, EFESTO ed ESTIA; immortali abitanti dell'Olimpo, nutriti di ambrosia, di nettare, di fumo, non hanno sangue, ma ben altri umori impregnano la loro carne sotto la bella pelle; non muoiono, ma ciò non impedisce loro di temere la morte; sono "akedees", cioè esenti da preoccupazioni, e tuttavia si curano di molti affari impegnandosi senza sosta a fianco degli uomini.

Questo quadro piuttosto chiaro e simpatico della vita degli dei greci, mostra una natura più umana che divina; ma la meraviglia che può scaturire interessandosi di questi immortali, aumenta nel confrontare il comportamento di alcune dee greche che manifestano in modo preponderante alcuni sentimenti prettamente femminili.

Ma andiamo con ordine: dunque, Crono (tempo), figlio di Urano e Gea (terra), evirò il padre e divenne Signore del mondo.

Sposò Rea ed ebbe molti figli che divorava appena nati per paura di essere detronizzato, come gli era stato predetto.

Ma Rea riuscì a nascondere uno dei figli, ZEUS, che, non appena fu abbastanza grande, costrinse il padre a restituire i fratelli ingoiati e poi lo precipitò nel Tartaro.

Zeus sposò poi la sorella ERA e diventò Signore dell'Universo stabilendo la sua dimora sul monte Olimpo.

ERA fu protettrice dei matrimoni, del parto e della monogamia.

Generò EFESTO (dio del fuoco), ARES (Dio della guerra), ILIZIA ed EBE (dea della giovinezza e coppiera degli dei prima di GANIMEDE).

Perennemente in lite con Zeus per i suoi tradimenti, Era occupava il suo tempo perseguitando le amanti, i figli illegittimi del marito e nemici vari: ERACLE (Ercole latino), figlio di Zeus e di ALCMENA; IO, tramutata dal Dio in giovenca per sottrarla alle ire di lei; SEMELE, spinta dalla Dea a chiedere a Zeus di mostrarsi nel suo vero aspetto che, comparendole tra tuoni e fulmini, la uccise; i Troiani, per vendicarsi di Paride che aveva scelto AFRODITE come la più bella delle dee.

Insomma, Era è rappresentata come una donna che "sa il fatto suo", come una donna innamorata di suo marito e che fa di tutto per piacere alla persona che ama e che amerà per sempre perché non desidera altro che il suo amore.

Infatti, trascurata da Zeus, marito e fratello impegnato negli affari degli uomini, recita una scena di provocazione sessuale da cui traspare un animo squisitamente femminile.

Dapprima si accinge ad una accurata toilette nutrendo e profumando artificialmente la secca, disidradata e arida pelle; poi si orna di gioielli, bei vestiti e di tutto ciò che serve ad ingentilire il suo corpo che, più che divino, appare ormai come il corpo di una bella ed elegante donna.

Ma l'operazione non finisce qua; infatti Era, non ancora soddisfatta perché, pur apparendo bella ed abbigliata, mancava del potere di suscitare il desiderio sessuale, decide di impadronirsi del nastro di Afrodite (specialista nelle arti della camera da letto), in cui si trova concentrato tutto quel che serve a sedurre e, grazie all'aiuto della Dea dell'Amore, riesce a domare suo marito, il quale resta addirittura stupito dal forte desiderio che ha di fare l'amore con sua moglie; un desiderio perfino più forte di quello provato a suo tempo per IO, DANAE, EUROPA, SEMELE, ALCMENA, DEMETRA e per la stessa ERA quando lo aveva sedotto.

Dunque, il fatto che Zeus si meravigli di desiderare così tanto sua moglie, dimostra come l'amore degli dei fosse tanto effimero ed intermittente quanto quello dei mortali, perché, anche per gli dei, dopo il matrimonio, il rapporto amoroso spesso cessa di essere passionale come la prima volta, divenendo una sorta di abitudine, ed Era e Zeus, rappresentano appunto gli stereotipi della donna fedele ed innamorata e dell'uomo traditore e rubacuori.

Ma il desiderio amoroso non ha catturato solo Era o il solo Zeus, ma anche AFRODITE, figlia di Zeus e Dione (oppure generata dalla spuma del mare nel quale erano caduti gli organi genitali di Urano, evirato da Crono), la quale era la dea della Bellezza e dell'Amore; fu sposa di Efesto ed amante di Ares con il quale generò Eros (dio dell'Amore), Antero, Deimo e Fobo; di Adone e di Anchise con il quale generò Enea.

Protesse i Troiani durante la guerra di Troia, e poi Enea, perché Paride l'aveva scelta come la più bella fra le dee.

Infatti, Afrodite infliggeva ai viventi le pene dell’amore per riderne e si vantava di domare gli dei dell’Olimpo; Zeus, non sopportando questo suo vanto, la trasformò da seduttrice in sedotta, facendola restare abbagliata dal corpo del giovane Anchise fino al punto di innamorarsene, relegandola, quindi, in una posizione uguale a quella dei mortali di fronte al desiderio.

E poi ancora DEMETRA, figlia del titano Crono e di Rea, quindi sorella di Zeus ed Era, era la dea della fecondità della terra.

Ebbe una figlia da Zeus, Kore (Persefone) che fu rapita da Ade (dio dell’Oltretomba e anche lui figlio di Crono e Rea) e portata nell’oltretomba.

Demetra era così disperata che trascurò la terra che divenne arida ed incolta.

Proserpina fu infine liberata dall’intervento di Zeus, ma Ade, prima di lasciarla andare, le fece mangiare i chicchi di una melagrana che l’avrebbero costretta a tornare da lui per quattro mesi all’anno.

In primavera, quando Proserpina era con lei, Demetra era così felice che faceva crescere fiori e frutti, ma quando Proserpina tornava nell’oltretomba, in autunno, il dolore che Demetra provava faceva morire le piante ed apriva le porte dell’inverno.

ERIS, figlia della notte, era la Dea della discordia, rappresentata come un genio alato.

I suoi figli erano rappresentati come la personificazione di concetti: Pon (Fatica), Lethe (Dimenticanza), Limos (Fame), Algos (Dolore) e Horkos (Giuramento) e, non ultima, ATE, avuta con Zeus, era la dea delle imprese e degli errori; essa fu bandita dall’Olimpo perché aveva ingannato Zeus e fu la causa dell’odio tra Agamenone e Achei durante la guerra di Troia gettando la mela d’oro con la scritta "alla più bella" tra i convitati alle nozze di Teti e Peleo.

La mela che Paride, figlio di Priamo e re di Troia, donò ad Afrodite ricevendone in cambio l’amore di Elena.

Infine, a conferma della identificazione immaginaria e non che i mortali hanno degli dei in relazione agli elementi ed alle situazioni, nonché vizi e virtù che circondano la sfera delle emozioni e della umana e quindi mortale comprensione, possiamo citare ancora:

ATENA, nata dalla testa di Zeus, era la dea della guerra che portava alla vittoria (di qua l’appellativo Nike=vittoria), della saggezza, dell’intelligenza, della giustizia, delle arti e dei mestieri.

Protettrice dell’agricoltura e del commercio e di ogni aspetto del vivere civile, divenne divinità cittadina per eccellenza soprattutto di Atene e dell’Attica.

ARTEMIDE, figlia di Zeus e Latona, sorella di Apollo (dio della salute, dell’ordine, del vaticinio, della musica e della poesia), era la dea della caccia e della natura selvaggia. Era rappresentata armata di arco e freccia.

Vergine, era anche protettrice delle giovinette.

ECATE (Luna), era la dea delle strade, dei crocicchi e dei fantasmi notturni, sovrintendeva agli incantesimi e proteggeva streghe e maghi.

Dunque, nell’immaginario collettivo gli dei rappresentavano le convinzioni; la natura; i sentimenti; il piacere ed il dolore; la vita e la morte; e, pertanto, erano simboleggiati a immagine e somiglianza dell’uomo stesso, non soltanto fisicamente, ma anche, e forse soprattutto, come un concentrato di pensieri, azioni e reazioni, istinto e meditazione, vizio e virtù, squisitamente e magnificamente umani.


La forza delle dee

Le credenze dell’antica Grecia portavano spesso a pensare che entità superiori intervenissero nel corso della vita degli uomini.

Le divinità che abitavano l’Olimpo, infatti, manipolavano le azioni umane per il raggiungimento dei loro fini.

In particolare le dee, animate dal desiderio di primeggiare e di essere venerate dagli uomini, non esitavano a punire coloro che intendevano sfidare la loro autorità, ma sapevano anche essere benevole con chi si dimostrava rispettoso nei loro confronti.

Anche Posidone, dio che possiede la Terra, si scontra con potenti dee, ed è sempre sconfitto da queste donne.

Ad esempio, quando la città di Atene si riunì per scegliere la divinità poliade tra Atena e Posidone, poiché in Attica le donne, per volontà di Cecrope, sedevano in assemblea con gli uomini e avevano i loro stessi diritti politici, consacrarono la vittoria ad Atena, in quanto la parte femminile disponeva di un voto in più.

La sfida tra Atena e Posidone per i diritti sull’Attica riprende sotto il regno di Eritteo.

La città di Eleusi, capeggiata da Eumolpo, figlio di Posidone, sotto consiglio di quest’ultimo muove guerra ad Atene, difesa da Eritteo.

Gli ateniesi decidono di consultare l’oracolo di Delfi per sapere come assicurarsi la vittoria, e così comprendono che è necessario il sacrificio di una delle figlie di Eritteo.

Questi torna dalla moglie Prassitea, sicuro che la donna si ribellerà alla terribile ingiunzione dell’oracolo, ma sottovaluta la forza dell’amore di una madre che per il bene della città sa versare il sangue della sua stessa carne.

Forte del sacrificio offerto agli dei, Eritteo uccide Eumolpo, causando la disfatta di Eleusi.

Posidone, adirato per la morte del figlio, uccide Eritteo, facendolo precipitare in una crepa da lui stesso causata nella rocca dell’Acropoli.

Atena nomina allora Prassitea, unica sopravvissuta della sua famiglia, sacerdotessa del suo culto poliate: ella è l’esecutrice della volontà della dea.

Il vero eroe di questa tragedia è la stessa Prassitea, è un’esecutrice della giustizia, è lei che prende le decisioni nel momento in cui bisogna agire, è completamente opposta ad Eritteo, il quale è interamente travolto dal destino.

Atena, nata dalla testa di Zeus, è una donna che non si connota esclusivamente per la sua bellezza o per il suo ruolo di generatrice, ma per virtù quali la saggezza e la forza, che delineano una nuova figura femminile.

Dea della saggezza e della guerra, rivolta ad instaurare i valori della giustizia, improntò sempre le sue azioni, anche le più audaci, ad un senso di cauta riflessione; tuttavia, quando si vedeva offesa nelle sue virtù, conosceva bruschi impeti d’ira.

La dea eccelleva nelle opere squisitamente femminili.

Molto infatti si vantava della propria abilità nel filare la lana, nel tessere e nel ricamare stoffe, al punto da ritenere che nessuno potesse eguagliarla.

C’era però in Lidia una fanciulla di nome Aracne che, espertissima del ricamo, andava dicendo in giro che avrebbe sfidato la stessa Pallade.

La dea furiosa, sotto le spoglie di una rugosa vecchietta, si recò dalla fanciulla e tentò di dissuaderla dal suo provocatorio atteggiamento.

Ma in nessun modo Aracne, fiduciosa nei suoi mezzi, depose la sua arroganza; allora la dea le si rivelò e le propose una gara.

Pallade ricamò sulla tela lo splendore dell’Olimpo e la divina maestà degli dei, la fanciulla invece rappresentò nel suo ricamo le avventure amorose di Zeus.

La bellezza del lavoro di Aracne era pari a quello della dea, che non poté non ammirarlo, ma non riuscì nello stesso tempo a sottrarsi ad un impeto di collera, per cui, adirata per tanta insolenza, distrusse la tela ed i fusi della fanciulla e trasformò questa in ragno, condannandola con ciò a tessere per sempre una tela dai fili sottilissimi, la cui trama a malapena si scorge.

Racconta Ovidio nelle Metamorfosi: " ... Atena …] poscia partendo la spruzza con sughi di magiche erbette: subito il crine toccato dal medicamento funesto cadde e col crine le caddero il naso e gli orecchi: divenne piccolo il capo e per tutte le membra si rimpicciolisce: l'esili dita s'attaccano, invece dei piedi, nei fianchi: ventre è quel tanto che resta, da cui vien traendo gli stami e, trasformata in un ragno, contesse la tela di un tempo" .

Un’altra dea che non esitava ad affermare la propria autorità è Hera.

In quanto sposa di Zeus, divenne di diritto la regina di tutti gli dei, signora dell’Olimpo, madre di tutti i mortali.

Espressione della moglie modello, la divina signora era casta e fedele, ma nello stesso tempo gelosa e ostinata.

"…dei venti favorevoli, per tornare a vedere moglie e figli, dopo dieci anni, i Greci che invasero questa terra. Quanto a me, devo cedere innanzi a Hera argiva e ad Atena, che di tutto fecero pur di sconfiggere i frigi, e abbandonare la regale Ilio e i miei altari." (Euripide, Troadi, vv. 15-25)

Ritenendo a buon diritto di essere la più potente e la più maestosa fra le dee, rifiutandosi di essere screditata dagli ingegni e dalle infedeltà di Zeus, spesso scendeva sulla terra per punire le Ninfe che avevano suscitato l’interesse di Zeus.

Così accadde nei confronti di Io, come pure di un’altra ninfa, Eco.

Costei suscitò la gelosia della dea che non esitò a mostrare la sua potenza punendola: la condannò a ripetere in eterno le ultime parole che udiva.

In un’altra occasione scatenò la sua tremenda ira contro Endimione, un bellissimo pastore figlio di Zeus e di Calice, che aveva offeso la sua divina maestà: la dea lo abbandonò ad un sonno eterno in una grotta del monte Latino.

Come capitava alle altre dee, anche Afrodite era spietata nel colpire coloro che le rifiutavano ossequio; come accadde ad Ippolito.

"… quanti abitano entro il Ponto e i limiti di Atlante e vedono la luce del sole, quelli che rispettano il mio potere io (li) proteggo, mentre quelli che sono superbi verso di noi io (li) rovino" (Euripide, Ippolito, vv.3-6)

A Trezene, nella casa di Pitteo, viveva il giovane Ippolito, figlio di prime nozze di Teseo.

Questi trascorreva le sue giornate cacciando, dedito al solo culto della casta Artemide, coltivando nel cuore una sorta di ostilità nei confronti dell’amore e delle donne. Afrodite si sentì offesa da quest’atteggiamento e decise di punirlo: la dea instillò una potente passione d’amore nell’animo di Fedra, la giovane sposa di Teseo e matrigna di Ippolito.

La regina, non potendo soddisfare la passione che la divorava, si ammalò.

Solo alla nutrice, in un attimo di debolezza confessò la sua disgrazia.

La donna allora, cercando di aiutarla, diede avvio a molte sciagure.

Avvicinò infatti Ippolito e lo mise al corrente di ciò che la sua signora sentiva per lui.

Veemente fu la reazione dell’aspro e acerbo giovane, che per Fedra, e per tutte le donne, seppe trovare solo parole di profondo disprezzo.

Furioso, Ippolito abbandonò la reggia.

Troppo grande fu per Fedra l’oltraggio, si suicidò, non prima però di aver lasciato uno scritto in cui accusava Ippolito di averle usato violenza.

Mentre avvenivano questi fatti, Teseo tornava dopo una lunga assenza. Dinanzi alla schiacciante prova di questo scritto non prestò fede alle dichiarazioni di innocenza del figlio ma lo maledisse e lo esiliò con un bando da Trezene.

Subito la maledizione si avverò: Ippolito venne travolto dai cavalli del suo cocchio, atterriti dall’apparizione di un mostro che Posidone aveva fatto sorgere dal mare.

Il giovane straziato venne portato dinanzi al padre, e prima che morisse la stessa dea Artemide venne a proclamare la sua innocenza. Ippolito spirò sereno e finalmente la vanità di Afrodite fu soddisfatta.

Afrodite, dea della bellezza e dell’amore, nata dalla spuma del mare, approdò sul guscio di una conchiglia sull’isola di Cipro, in cui si diffuse molto il suo culto.

Venerata in particolar modo per la sua bellezza, è tuttavia molto astuta, proprio contando sulla sua qualità caratterizzante riesce a piegare gli uomini al proprio volere.

All’apparire di Afrodite, nel cuore degli esseri umani si scatenavano tumultuosi e fervidi impeti d’amore, che non si smorzavano nemmeno dinanzi ai rischi e ai pericoli: il troiano Paride si invaghì di Elena e non la riconsegnò agli Achei se non dopo che la sua patria fu distrutta; Didone, regina di Cartagine, vistasi abbandonata da Enea, presa da una follia amorosa si suicidò.

Al contrario di Afrodite, Artemide chiese al padre Zeus di concederle una vita libera da ogni passione, lontana da ogni legame sentimentale.

L’unico amore che doveva esserle riservato, desiderio profondo ed irrinunciabile, era quello verso la natura, che si esprimeva nelle lunghe scorribande notturne, dedicate alla caccia, nelle selve silenziose, ma ricche di vita, celata allo sguardo altrui.

Uniche sue compagne inseparabili le Ninfe che, come lei, erano votate ad una vita casta, di semplici costumi, vergini bellissime armate di arco e saette, così come la stessa Artemide, che queste armi recava sempre con sé, prezioso dono dell’arte dei Ciclopi.

Zeus permise che la fanciulla, dea dolce e tenera, ma volitiva, sicura di sé e di animo indipendente, conducesse la sua vita secondo i propri desideri.

Artemide sapeva però al tempo stesso punire le ninfe in modo inflessibile, se si sottraevano alle regole da lei stessa imposte.

In particolare era attenta al fatto che nessuna di esse venisse meno al giuramento di castità, o che comunque indulgesse ad un atteggiamento frivolo.

Si racconta infatti della Ninfa Callisto che non seppe opporsi al fascino di Zeus.

Accondiscese la fanciulla ai desideri del re degli dei, da cui ebbe il figlio Arcas.

Artemide, con la compiacenza di Hera, trasformò la ninfa in orsa, poi si diede ad una caccia mortale, la scovò e la uccise.

Zeus, impietositosi, l’assunse in cielo sotto forma di costellazione, con il nome appunto di Orsa.

Il poeta latino Ovidio, raccogliendo antiche tradizioni, espone in versi la spietata vendetta che Artemide trasse nei confronti di una fanciulla, la bellissima Chione.

Costei osò menare vanto dinanzi ad Artemide di essere più bella di lei e di annoverare tra i suoi pretendenti addirittura Hermes e Febo.

La dea, scossa da un moto di sdegno, volle punire in modo esemplare la sfacciata fanciulla.

Le vibrò contro un dardo che le trapassò la lingua e la gola, lasciandola morire in un confuso gorgoglio di sangue che a fiotti ella vomitava dalla tremenda ferita.

Identica determinazione mostrò Artemide nei confronti di Atteone.

Questo giovane, prode guerriero e cacciatore, mentre errava tra i boschi, malauguratamente si imbatté nella dea nel momento in cui questa stava nuda per immergersi in una fonte.

Osò guardarla. Si soffusero di rossore le guance della vergine, e per pudore e per sdegno.

Artemide non perdonò l’incauto. Lo trasformò prima in cervo e poi gli aizzò contro i suoi cani, che fecero scempio delle carni di lui.

E la dea assisteva muta, immobile, sorda agli strazianti bramiti dell’animale, che moriva orrendamente dilaniato.

"[ Artemide attinse l'acqua che aveva ai piedi e la gettò in faccia all'uomo, inzuppandogli i capelli con quel diluvio di vendetta, e a predire l'imminente sventura, aggiunse: «Ed ora racconta d'avermi vista senza veli, se sei in grado di farlo!». Senza altre minacce, sul suo capo gocciolante impose corna di cervo adulto, gli allungò il collo, gli appuntì in cima le orecchie, gli mutò le mani in piedi, le braccia in lunghe zampe, e gli ammantò il corpo di un vello a chiazze. Gli infuse in più la timidezza. Via fuggì l'eroe, figlio di Autònoe, e mentre fuggiva si stupì d'essere così veloce. Quando poi vide in uno specchio d'acqua il proprio aspetto con le corna, «Povero me!» stava per dire: nemmeno un fil di voce gli uscì. Emise un gemito: quella fu la sua voce, e lacrime gli scorsero su quel volto non suo; solo lo spirito di un tempo gli rimase […] lo avvistarono i cani. Melampo e Icnòbate, quel gran segugio, per primi con un latrato diedero il segnale (Icnòbate di ceppo cretese, Melampo di razza spartana). Poi di corsa, più veloci di un turbine, si avventarono gli altri … quei cani da ogni parte l'attorniano e, affondando le zanne nel corpo, sbranano il loro padrone sotto il simulacro di un cervo: e si dice che l'ira della bellicosa Diana non fu sazia, finché per le innumerevoli ferite non finì la sua vita." (Ovidio, Metamorfosi)

Un altro esempio di vendetta di Artemide ci è dato dalla vicenda di Niobe, figlia di Tantalo, che, fiera dei suoi figli, si insuperbì a tal punto da affermare che la sua prole era degna di ammirazione più dei figli di Letò: Artemide e Febo.

Letò affidò ai suoi figli il piacere della vendetta. Niobe annichilita dal dolore, stette in lacrime tra i cadaveri dei suoi figli, lasciati insepolti per nove giorni, perché gli dei avevano pietrificato i Tebani per non consentire loro di dare ai morti gli onori funebri.

Alla fine Zeus ne ebbe pietà. Consentì che i corpi fossero seppelliti e trasformò la donna in rupe, sul monte Sipilo: ancora oggi, al soffio del vento, quella roccia geme e stilla lacrime.

Altrettanto decisa troviamo la dea quando si trattò di punire le empietà di coloro che avevano trascurato il suo culto, come capitò nei confronti di Oeneo, re di Calidone.

Sulle terre di questo re, che aveva omesso di offrirle primizie, la dea scatenò la ferocia di un grosso cinghiale e tale flagello durò fino a quando il coraggio dell’eroe Meleagro non ebbe ragione della fiera.

Di Admeto, invece, che pure si era macchiato della stessa colpa, la dea si vendicò terrorizzandolo: gli fece trovare accanto nel letto un groviglio di serpi striscianti.

Durante l’ansiosa ricerca della figlia, anche Demetra ebbe l’occasione di punire l’irriverenza di alcuni e di premiare la devozione di altri.

Il re degli Inferi Ades voleva prendere in moglie Core, figlia di Demetra.

Zeus allora gli consigliò di rapirla, poiché la fanciulla difficilmente avrebbe acconsentito alle nozze con la prospettiva di trascorrere il resto dei suoi giorni nel regno dei morti.

Così Ades, mentre la fanciulla era intenta a raccogliere fiori, improvvisamente uscì da una fenditura nel terreno e la condusse con la forza con sé.

Demetra, non vedendo tornare la figlia, si pose disperata alla sua ricerca. Per nove giorni la dea, senza mai concedersi alcun ristoro, andò errando sulla terra, finché il suo pianto non commosse il re degli dei, che le rivelò l’accaduto.

Cercò di tranquillizzarla, giustificando tutto quanto era avvenuto con la straordinaria forza d’amore che aveva travolto Ades.

La terribile notizia esacerbò maggiormente l’afflizione di Demetra. Irritata contro Zeus che aveva disposto di sua figlia senza nemmeno interpellarla, non volle tornare più sull’Olimpo e abbandonò il suo solito aspetto di dea, assumendo le sembianze di una vecchia decrepita, si coprì di cenci e riprese a percorrere villaggi e campagne, senza meta, come una mendicante vagabonda, sperando di consumare il suo dolore a furia di stenti e privazioni.

Giunta ad Eleusi, esausta, fu accolta dal re Celeo e per manifestare la sua riconoscenza predilesse il figlio di costui Trittolemo al quale insegnò tutti i segreti dell’aratura e della semina.

E’ a lui infatti che si attribuisce la diffusione nel mondo dell’agricoltura e della civiltà che ad essa è connessa. Trittolemo divenne il primo sacerdote di Demetra, in onore alla quale istituì ad Eleusi sacri riti e solenni feste.

Demetra, una volta istituito il suo culto, lasciò Eleusi per riprendere il proprio vagabondaggio.

Ma il suo cuore non era mutato, e il suo pensiero era sempre fisso alla sua Core, al modo di riaverla con sé, alla vendetta che voleva prendere contro Zeus.

Il mezzo per ottenere queste due cose tanto agognate era tuttavia nelle sue mani, e Demetra lo mise in opera: siccome ella era la dea dell’agricoltura, con un solo gesto della sua mano divina rese infruttuosa la terra, per un anno intero non si raccolse più né un filo d’erba né alcun prodotto della Terra.

La razza degli uomini era destinata a morire di fame e a scomparire dalla faccia del mondo.

"…con mano spietata spezzò gli aratri che rivoltano le zolle, furibonda condannò a morte uomini e buoi insieme, e impose ai seminati di tradire le speranze in essi riposte avvelenando le sementi. La fertilità di quella regione, decantata in tutto il mondo, è smentita e distrutta: le messi muoiono già in germoglio, guastandosi per troppo sole o troppa pioggia; stelle e venti le rovinano, con avidità gli uccelli ne beccano nei solchi i semi; loglio, rovi e inestirpabile gramigna soffocano il suo frumento." (Ovidio, Metamorfosi)

Zeus se ne preoccupò e mandò Iris, la messaggera divina, a placare la sua ira; ma Demetra non si placò e restò sorda alle suppliche insistenti che Iris le rivolse a nome del re degli dei. Fu Zeus che dovette scendere a patti.

Fu inviato l’astuto Hermes ad Ades per ottenere che Core tornasse a rivedere la luce del sole. Il malinconico dio dell’Averno accondiscese, purché poi sua moglie potesse tornare a lui.

Si decise allora che Core per sei mesi avrebbe dimorato nel regno dei morti, assumendo il nome di Persefone, e per altri sei mesi, invece, sarebbe stata accanto alla madre col nome di Core.

E’ evidente che il ritorno di Persefone alla luce rappresenta il gioioso risveglio della natura a primavera.

Dalle varie vicende qui narrate emerge un nuovo tipo di donna: una donna del tutto moderna che entra nell’ambito delle competenze dell’uomo e in alcuni casi gli si sostituisce egregiamente; basti pensare ad Atena guerriera o ad Hera che sfida Zeus concependo una figlia senza il suo intervento quando lo scoprì incinto alla testa di Atena.

Queste donne sono anche capaci di intervenire nei disegni divini: consapevoli del proprio potere, rifiutano di accettare passivamente ogni decisione presa dal re degli dei.

Vi sono poi tre donne, le Moire, figlie di Zeus e Temi, dee del Fato: Cloto, Lachesi, Atropo. Persino il signore dell’Olimpo, che pure le ha generate, non può sfuggire al loro volere.

Sia nei confronti delle altre divinità, sia nei confronti degli uomini le dee sono capaci di provare odio, amore, rabbia, sentimenti di vendetta; tutte le passioni che infiammano i loro animi risultano essere mortali, più che divine: molte di loro erano quasi del tutto umane, eccetto che per nascita.

L’insediamento di Zeus come dio padre al di sopra di tutti gli altri dei rappresenta sì la vittoria del principio della famiglia patriarcale, però questo principio viene intaccato dalla potenza delle divinità femminili, un’eredità della società matriarcale che precedette l’avvento del matrimonio.


RUOLI MASCHILI E FEMMINILI NELLA TRAGEDIA

Introduzione

Per parlare dei ruoli femminili nella tragedia, occorre fare una premessa sulla condizione delle donne nell’età classica.

Tutti sono d’accordo sul fatto che la condizione della donna nell’Atene classica era d’inferiorità legale e politica, mentre riguardo alla sua posizione sociale esistono diverse opinioni.

Alcuni studiosi ritengono che le donne fossero disprezzate e tenute in uno stato di segregazione di tipo orientale, altri affermano che fossero rispettate e avessero una libertà simile a quella goduta dalla maggior parte delle donne attraverso i secoli, almeno fino all’avvento del movimento femminista.

Altri studiosi sono invece dell’avviso che le donne vivessero segregate ma che fossero lo stesso stimate dagli uomini, tanto è vero che a loro era affidato il governo della casa.

La divergenza d’opinioni è dovuta alla natura delle testimonianze consultate.

Studiosi quali Gomme e quanti si sono posti sulla sua scia, basandosi prevalentemente sulle testimonianze della tragedia classica e ritenendo che le eroine fossero modellate direttamente sulle Ateniesi del V secolo a.C., concludono che le donne erano rispettate e non vivevano segregate.

Lacey, che rifiuta esplicitamente le testimonianze della tragedia poiché non rappresenta gente comune in una famiglia normale, ed Ehrenberg, che riconosce valore testimoniale solo ad Euripide, mentre considera Eschilo e Sofocle meno vicini alla realtà, dipingono un quadro più infelice della condizione della donna.

Le donne di Eschilo.

Il comportamento degli uomini e delle donne è esplorato in molte tragedie, pur non essendone sempre il tema principale.

Da sempre il comportamento femminile è contraddistinto da docilità e modestia. Ismene nell’Antigone, Tecmessa nell’Aiace, Deianira nelle Vergini trachinie, e le coreute nella tragedia rappresentano le donne normali.

Le eroine che si allontano da questo stereotipo talvolta sono definite "mascoline", una definizione che di certo non può essere considerata un complimento per una donna.

Le eroine, come gli eroi, non sono persone normali.

Mentre la maggior parte delle donne si sottomette docilmente, alcune eroine come Clitemnestra, Antigone, ed Ecuba, per raggiungere i propri fini, acquistano tratti del sesso dominante. Tale fenomeno è stato definito dallo psicanalista Adler "protesta mascolina".

L’Orestea si annuncia fin dal principio sotto il segno di un’ambigua confusione dei sessi. La prima connotazione di Clitemnestra è, infatti, quella della virilità.

"Così comanda il cuore nell’attesa di una donna di virili propositi" afferma inizialmente la sentinella (10,1).

La donna non femminile, che usurpa le funzioni del maschio, domina tutto l’Agamennone: Clitemnestra governa la città in assenza d’Agamennone, e la governa non diversamente da un uomo, con la forza e l’intelligenza.

Il coro n’è dominato e ammirato quando Clitemnestra spiega come ha predisposto lo stratagemma del fuoco. Eppure, anche se il suo intendimento è quello di un uomo saggio (351), la sua condizione femminile è più volte esplicitamente ricordata in quasi tutte le invocazioni del coro (317,351, etc.).

Due tratti vanno però notati particolarmente. Il primo è il suo rapporto con Egisto. Costui ha piuttosto una figura di paredro che d’amante, si potrebbe dire di concubino della regina, conquistato non conquistatore.

La passività d’Egisto è ripetutamente sottolineata con il tratto che più di ogni altro lo accomuna ad una donna: il non aver partecipato ad alcuna impresa eroica, l’esser rimasto in casa.

Domestico (oikouros) è la marca distintiva di Egisto (1225, 1626) e anche leone imbelle (leon analkis) e donna (gyne).

Dunque la relazione tra Clitemnestra ed Egisto appare capovolta rispetto ai canoni normali.

Il secondo tratto distintivo di Clitemnestra: Clitemnestra resta l’unico personaggio intrepido nella generale atmosfera di paura, presente già nel discorso proemiale della sentinella e ripresa poi nelle premonizioni del coro per proseguire negli interventi del soldato, di Agamennone e di Cassandra, Il timore è estraneo ai suoi discorsi.

Soltanto alle fine, dopo l’assassinio, ella accenna alla paura ma per dirsene immune:

"Voi mi tentate come donna insensata, ma io parlo con cuore intrepido (atrestoi kardiai) a chi lo sa" (1401-2); e poco dopo afferma: "l’attesa della paura (phobou elpis) non entrerà nella mia casa finché nel mio focolare accenderà il fuoco Egisto, benevolo a me come in passato. Egli è non piccolo scudo al mio coraggio".

L’uomo ucciso da una donna ed ucciso con il ferro, doppia trasgressione: è il punto supremo di una klimax di estraniazione di Clitemnestra dal proprio sesso, di usurpazione delle prerogative del maschio.

Tanto più significativo dunque il rientro di Clitemnestra nella femminilità, che si avvia nelle ultime scene dell’Agamennone (riconoscimento del ruolo maschile di Egisto) e che prosegue nelle Coefore.

Tutta l’azione della seconda tragedia è mossa da una paura notturna di Clitemnestra, da un sogno terrificante, che la induce a far sacrificare sulla tomba di Agamennone.

La paura è entrata nel palazzo, la donna senza timori è atterrita; alla luce del focolare sono succedute le tenebre della notte.

L’ultima occorrenza di phobos nell’Agamennone (1434) e la prima nelle Coefore (35) scandiscono questo capovolgimento.

La reintegrazione di Clitemnestra nel suo ruolo femminile trova sanzione suprema nel momento del suo assassinio: " Abbi dunque rispetto di questo seno" (897), esclama Clitemnestra, indicando ad Oreste il proprio petto.

Vedere in Clitemnestra l’androgino o nell’Orestea l’incubo del matriarcato non appare esauriente. Clitemnestra non è solo la donna-uomo, è anche la donna-demone.

"Affermi che questo è un’opera mia. Non dire che io sono la moglie di Agamennone. Sotto l’immagine della donna di questo morto è l’antico aspro demone vendicatore (alastor) di Atreo che ha fatto pagare il tremendo banchetto, sacrificando quest’uomo a quei bambini" (1497-1503).

Nelle Coefore Clitemnestra ed Egisto sono indicati come mostri: "Hai agito bene - è il coro che cerca di confortare Oreste dopo il matricidio - non aggiogare la tua bocca ad una voce maligna, non maledirti, dopo che hai liberato tutta la città argiva, mozzando la testa ai due serpenti (duoin drakontoin)" (1049).

E’ tuttavia un’inutile consolazione: Oreste è ormai preda dell’orrenda visione delle Erinni "dagli oscuri chitoni, con le chiome intrecciate di fitti serpenti (pyknois drakousin)" (1049).

La continuità Clitemnestra-Erinni appare esplicitamente rappresentata all’inizio delle Eumenidi. Qui l’incubo di Oreste acquista consistenza spettacolare: il coro delle Erinni si manifesta in tutto il suo orrore, e a incalzarle nel loro accanimento infernale è lo spettro di Clitemnestra.La demonizzazione della donna appare qui scenicamente compiuta.

Le donne di Sofocle

L’Antigone inizia con i lamenti delle figlie di Edipo per le leggi emanate dal tiranno Creonte. Il loro fratello Polinice è morto, ma Creonte ha proibito di seppellirne il cadavere per punirlo del tradimento della terra natia.

Mentre Antigone preme perché il fratello venga seppellito, la sorella Ismene tenta di dissuaderla affermando: "Noi nascemmo donne, e ciò significa che non siamo destinate ad opporci agli uomini" (61-62). Essa si serve spesso del verbo phyo, intendendo che per natura le donne non possono competere con gli uomini.

Creonte rivela una particolare ostilità per il sesso opposto. I suoi pregiudizi sono patriarcali. Egli non riesce a comprendere l’amore di suo figlio Emone per Antigone e considera una moglie "un campo da arare" (569).

Antigone però per due volte tenta di dare sepoltura al fratello finché non viene sorpresa dalle guardie mentre seppellisce Polinice contro gli ordini della città e così viene chiusa in una grotta sotterranea per ordine di Creonte.

Nel suo penultimo discorso Antigone spiega di essere disposta a morire per un fratello, ma non per un marito o un figlio.

Un certo numero di studiosi ha giudicato spurio il discorso, ritenendo anormale anteporre il fratello al figlio, eppure nel contesto dell’Atene classica la scelta di Antigone è ragionevole. Le madri non avrebbero potuto essere legate ai loro figli come è oggi la madre ideale. L’elevata mortalità dei bambini piccoli avrebbe scoraggiato la formazione di solidi legami tra madre e figlio. Inoltre l’autorità patriarcale affermava che il figlio apparteneva al padre. Egli lo teneva in caso di scioglimento del matrimonio, mentre la donna tornava sotto la tutela del padre o, se questo era morto, del fratello. Quindi il legame fratello-sorella era molto forte.

La preferenza per il fratello è anche caratteristica della donna mascolina, il cui rifiuto del ruolo tradizionale di moglie e di madre può essere la conseguenza del fatto che forze esterne le inibiscono manifestazioni di tenerezza o di istinto materno.

Alla fine Antigone ritorna a un ruolo femminile tradizionale. Rimpiange di dover morire vergine, nubile e senza figli (917-18), e si suicida dopo essere stata sepolta viva da Creonte. Nella mitologia classica il suicidio rappresenta un modo di morire femminile e un po’ codardo.

L’incapacità di Creonte di comprendere l’ineluttabilità del dualismo tra maschi e femmine conduce alla morte di Antigone e al suo annientamento. La moglie di Creonte muore maledicendolo.

Inoltre, in una società in cui ci si attende che i figli maschi mostrino obbedienza filiale, Emone antepone Antigone al padre, trafiggendosi sul cadavere di lei.

Antigone e molte altre tragedie mostrano le conseguenze della sopravvalutazione delle qualità dette maschili (dominio, conquista, eccessiva attività mentale) a spese di quegli aspetti della vita detti femminili (istinto, amore, vincoli familiari), che distruggono uomini come Creonte.

L’ideale era l’armonia tra valori maschili e femminili, subordinando i secondi ai primi.

Le donne di Euripide

Ecuba è la protagonista di due tragedie d’Euripide: Ecuba e Troiane.

Vi ritornano alcune connotazioni proprie della tradizione: la vecchiaia, la maternità ferita, le sventure che, dopo una vita fortunata, si succedono fino a quella suprema della schiavitù.

Fulcro drammatico di entrambe le tragedie, il personaggio presenta dall’una all’altra una differenza fondamentale: nell’Ecuba agisce, nelle Troiane si lamenta.

Sempre però è peculiare la tensione, la contraddittorietà tra mater dolorosa, la vecchia che piange i propri morti, e l’abilissima argomentatrice dialettica: si ricordino nell’Ecuba il discorso sui rapporti tra divinità e legge, nelle Troiane l’agguerrita discussione con Elena.

Alla critica, questa vecchia in lutto, ripiegata sul proprio dolore, che improvvisamente si trasforma in accorta parlatrice, è sempre apparsa come una figura poco coerente e di conseguenza drammaticamente poco riuscita.

Clitemnestra ed Ecuba: due esempi di trasgressione. Apertamente terrificante il personaggio di Clitemnestra, molto inquietante, anche se in parte coinvolto nel compatimento, quello di Ecuba.

La trasgressione femminile conosce però altri modi, in cui l’iniziativa della donna non si pone affatto sotto il segno della vendetta cruenta, ma al contrario di un destino di vittima.

La flotta greca è ferma in Aulide per la mancanza di condizioni favorevoli alla navigazione; è necessario, spiega l’indovino Calcante, che il condottiero di tutti, il grande Agamennone, sacrifichi la propria figlia per propiziarsi gli dei. La drammatizzazione di questo mito costituisce l’Ifigenia in Aulide euripidea.

Agamennone chiama in Aulide Ifigenia per darla in moglie, così egli fa credere, ad Achille. L’inganno viene scoperto. Clitemnestra tenta di impedire l’uccisione della figlia, quindi il colpo di scena: Ifigenia si offre volontariamente al sacrificio per il buon esito della spedizione.

Analoga offerta era stata quella di Macaria (Eraclidi) e di Polissena (Ecuba): "A me la grande Grecia tutta or guarda, da me dipende il viaggio della flotta e la distruzione dei Frigi e che non più in avvenire i barbari possano rapire dalla felice Grecia le donne, dopo aver pagato il disastro di Elena rapita da Paride. Tutto questo con la mia morte realizzerò, e mia sarà gloria beata per aver liberato la Grecia" (Iph. A. 1378-84).

Un’immagine di sé, della propria libertà come bene supremo, della propria gloria eterna nel cadere per la patria. Tutte queste motivazioni, pur diverse tra loro, sono riconducibili ad una concezione della morte tipicamente maschile. Vi è una sorta di usurpazione di ruolo nel difendere la patria e nel procurarsi la gloria, che la tradizione gnomica considera compiti dell’uomo.

Medea rappresenta una delle più grandi figure dell’arte di Euripide e della poesia di tutti i tempi.Creatura di passioni e di istinti, che si direbbero disumani se lei non fosse così potentemente e intimamente donna la cui ragione serve solo a renderla consapevolmente feroce, senza porre un freno all’animo indomito.

Già prima, innamorata di Giasone, non ha esitato a uccidere, per lui, il padre ed il fratello. Gli stessi figli gli sono cari non perché li abbia partoriti, ma perché sono pegno dell’amore di lui.

Ora questa natura selvaggia è minacciata in qualcosa di più importante dell’amore, la sua stessa vita. Ciò che la sconvolge non è la gelosia, sebbene furiosa, ma è l’istinto di conservazione: non si uccide o uccide Giasone, ma elimina ciò che è di ostacolo tra loro.

E arriva all’ultimo e più atroce delitto, quando i figli sono resi da lei inconsapevoli strumenti di vendetta.

Tuttavia Medea giganteggia nella poesia con la dedizione assoluta e totale verso l’uomo che l’ha resa donna, con la lotta disperata contro tutto e tutti e più ancora contro se stessa, con gli impulsi indomabili e la debolezza di una donna abbandonata.

Di fronte a lei, Giasone non è che un pover’uomo, orgoglioso della sua mascolinità: il poeta è riuscito a lasciare tale figura nella mediocrità della sua scialba persona.

Anche nella scena finale, nella quale il poeta sembra quasi volergli far guadagnare la simpatia degli spettatori mostrandolo oppresso e distrutto da tanta sventura, anche allora Giasone non riesce a destare pietà e rimane anzi piuttosto ridicolo, con le sue vane imprecazioni contro Medea che si leva alta nel cielo, superba di spietata ferocia, e che, pur carica di orrori e di delitti, rimane una creatura splendidamente viva di verità e poesia.

Fedra, con l’atroce Medea e la mite Alcesti, costituisce la grande triade delle creazioni femminili di Euripide.

Che ella sia lo strumento della vendetta di Afrodite contro Ippolito, che la dea stessa le abbia ispirato l’incestuoso e impossibile amore, è proprio ciò che la rende più nobile nell’impari lotta contro la dea; una lotta nella quale ella tuttavia salva l’onore.

Ciò che costituisce la poesia della figura di Fedra e la sua vera novità, è la grandezza di questo suo amore vietato, che invano ella vuole negare a se stessa prima che agli altri e di cui soffre tutta l’ineluttabile potenza ed amara dolcezza.

Ma, pur vittima di Afrodite, saprà tener fede al suo dovere, saprà rispettare il talamo nuziale: non farà come altre donne che, che dedite ad amori colpevoli, osano fingere e ingannare i mariti.

La lotta della ragione contro la passione, la rivolta dell’anima contro l’oppressione della morale convenzionale, il diritto della donna al suo amore, amore per il quale morrà non potendo viverne, fanno di Fedra una figura eterna.

Quanto Fedra è poeticamente vera e viva, Ippolito è soltanto una costruzione intellettualistica e raziocinatrice. Entrambi però hanno in comune l’intima coerenza, la dedizione totale al rispettivo opposto destino: ma mentre Fedra è vittima di una potenza troppo forte, Ippolito è consapevole volontà.

Conclusione

I personaggi femminili della tragedia greca sono personaggi "autenticamente" drammatici, molto più che quelli maschili: la loro grandezza è nel fatto che i drammi da esse vissuti sono i drammi che da sempre esse vivono.

Le passioni, i dolori, le attese e le speranze di queste creature ci ricordano quelle che oggi come ieri le donne vivono in ogni latitudine.

Questo è il segno della grandezza artistica dei tre tragici greci.


IL RUOLO RELIGIOSO DELLA DONNA A ROMA

Nel vasto panorama della religione romana la donna svolgeva sempre un ruolo secondario, addirittura occupava una posizione marginale, essendo esclusa da culti religiosi e frequentando talvolta santuari suburbani.

Le funzioni sacerdotali pubbliche spettavano esclusivamente agli uomini, sacerdoti o magistrati, che tenevano le liturgie pubbliche e custodivano i doveri religiosi dello Stato e il potere do formulare ed interpretare il diritto sacro.

Sacerdoti e magistrati avevano l’incarico di enunciare la volontà divina e di esaminare e porre rimedio ai problemi religiosi. Inoltre i grandi sacerdoti erano eletti nei comizi.

Alle stesse cerimonie religiose le donne non prendevano parte come a quella dedicata alla dea Dia il cui potere e la cui funzione erano rappresentate da uomini ossia dal flamine e da confraternite; così avveniva anche per le liturgie in onore di Cerere, Flora e di altre divinità romane.

Anche all’interno dei culti domestici il ruolo di primo piano era svolto dagli uomini che celebravano i sacrifici per l’intera famiglia. Anche i grandi ruoli domestici erano dominati dagli uomini: nelle feste dei morti, sia in febbraio che in maggio e nei funerali, gli uomini pronunciavano gli elogi, celebravano i sacrifici e guidavano i cortei.

Esistevano cerimonie cui era vietato che le donne partecipassero, così come i prigionieri e gli stranieri: Paolo Diacono, epitomatore del dizionario di Festo, racconta che il littore le allontanasse gridando.

Alle donne, come riporta Plutarco, era imposto anche il divieto di macerare i cereali e di preparare le carni, divieto che risaliva al ratto delle Sabine ed al patto stipulato in seguito tra Roma e i Sabini.

Tale divieto riguardava i momenti principali dei due più importanti settori alimentari, cioè la molitura dei cereali e lo scarico delle carni. La proibizione, che le donne non potessero svolgere delle attività di macelleria, coincideva con la loro esclusione dallo svolgere sacrifici; specificamente il divieto della molitura dei cereali impediva alle donne l’utilizzo di un ingrediente necessario al sacrificio (la farina di farro designata con il termine di "farina rituale").

Infine le donne non potevano bere vino puro; infatti venivano allontanate dal sacrificio proprio perché il vino simboleggiava l’offerta sacrificale per eccellenza e poneva gli uomini in contrasto con gli dei.

La donna dell’antica Roma appare, quindi, in quanto tale, incapace di celebrare i culti religiosi che diventavano pertanto a tutti gli effetti compiti degli uomini.

Ma in realtà l’esclusione delle donne non risultava assoluta, come del resto testimoniano le parole di Plutarco secondo cui la molitura dei cereali e la preparazione delle carni erano impedite alle donne solo se svolte per il proprio marito. Si tratta di un divieto che, nell’intento di liberare le spose romane dai compiti materiali (eccetto la tessitura), valeva esclusivamente nell’ambito familiare, privato e non di certo pubblico.

Esistevano di fatto delle eccezioni nell’antica religione: la prima, rappresentata dalle Vestali, ossia dalle sacerdotesse pubbliche che costituivano appunto un’eccezione nel mondo sacerdotale romano, proprio in quanto questo erano quasi interamente composto da uomini.

Le sei vergini vestali avevano l’incarico di mantenere, sotto l’autorità della grande vergine Vestale, il focolare pubblico nel santuario di Vesta. Le Vestali iniziavano il loro servizio prima della pubertà e lo svolgevano per trenta anni, di cui dieci dedicati all’apprendimento, dieci al servizio vero e proprio e dieci all’insegnamento. Vivevano in una casa adiacente al santuario ed erano sottomesse all’obbligo della verginità che, per un voto di astinenza sessuale totale, coincideva con la pudicizia della matrona romana, fedele ad un solo uomo ed austera nel contegno. Esse dovevano rappresentare la natura della Dea di cui celebravano il culto; quindi dovevano essere esempio della sua purezza.

Le Vestali divenivano tali nel corso di una cerimonia, simile ai riti del matrimonio romano, in cui il Pontefice Massimo le sceglieva ricevendole dalle mani del padre. La Vestale durante tutto il servizio portava la cuffia rossa e la pettinatura a sei trecce della matrona romana ed era, inoltre, sottoposta al Pontefice Massimo (che esercitava su di lei lo stesso potere di un "pater familias") il quale poteva punire duramente le sacerdotesse qualora fossero state colpevoli dello spegnimento della fiamma del fuoco di Vesta o fossero venute meno al voto di castità (epotevano essere anche seppellite vive).

Sotto molti punti di vista le Vestali somigliavano agli uomini in quanto si occupavano della tostatura, frantumazione e molitura delle spighe di farro da cui preparavano "la mola salsa", una farina rituale che veniva sparsa sugli animali condotti al sacrificio e su ogni altra offerta fatta agli dei (da questo, il termine "immolare" = "in molare: cospargere di mola). Le Vestali prendevano parte, come gli uomini, a tutti i grandi sacrifici e, come testimoniano diverse fonti, anche alle offerte di vittime animali, tanto è vero che esse possedevano un coltello sacrificale, la "secespita", e detenevano quindi a tutti gli effetti i poteri di fare sacrifici.

Tuttavia le Vestali non erano né matrone né fanciulle, erano di fatto tutte e due insieme ed erano anche in un certo senso uomini per tutta una serie di privilegi di cui godevano: potevano testimoniare in tribunale, avere un littore, sfuggire alla tutela di un padre o di un marito, disporre liberamente dei propri beni.

Lo statuto sessuale delle Vestali era piuttosto ambiguo e questo era forse il motivo per cui esse potevano godere di privilegi destinati agli uomini.

Oltre alle Vestali avevano la possibilità di compiere sacrifici… la sposa del flamine di Giove e quella del re dei riti sacri, rispettivamente la Flaminica di Giove (Flaminica Dialis) e la Regina Sacrorum. Mentre il flamine sacrificava a Giove ogni mese il giorno delle idi (13 o 15), la flaminica offriva al dio tutti i giorni di mercato un ariete. La Regina Sacrorum, invece, offriva nelle calende (1° giorno di ogni mese) una scrofa o un agnello a Giunone.

Nonostante ciò né la Flaminica Diale, né la Regina dei riti sacri potevano essere considerate come vere e proprie eccezioni alla regola, in quanto i loro poteri derivavano, forse, ancora una volta, del loro statuto.

Infatti i Flamini e il Rex Sacrorum, a differenza degli altri sacerdoti, le cui funzioni non dipendevano da categorie sessuali o domestiche, erano sacerdoti proprio in quanto domini, cioè uomini con una vita familiare completa, ossia necessariamente con una moglie. La coppia flaminale formava un’unità indivisibile e il suo servizio era maggiore proprio in quanto servizio di una coppia e non di un individuo (il flamine infatti lasciava il suo compito alla morte della moglie).

La stessa cosa avveniva per la Regina e il Rex Sacrorum, a testimonianza del fatto che i poteri sacrificali di tali sacerdotesse derivavano dai legami con i mariti.

Ancora altri sacerdozi femminili erano quelli delle Vergini Salie, complemento femminile dei Salii, che svolgevano processioni guerriere all’apertura e alla chiusura di un periodo di guerra.

Delle Vergini Salie si sa poco o nulla: in particolare che offrivano un sacrificio nella Regia e portavano l’"apex" (cuffia a punta) e il mantello militare dei Salii.

LE LITURGIE MATRONALI

Gli esempi più numerosi di condotta sacerdotale "autonoma" e di sacrifici compiuti da donne provengono da culti celebrati dalle matrone di cui se ne riportano taluni.

None Caprotine e Matronalia

Nel corso di alcune feste tradizionali, le matrone offrivano "sacrifici non cruenti".

Infatti alle None Caprotine, in cui celebravano la fecondità femminile (7 luglio), le donne libere e le serve sacrificavano a Giunone del latte di fico; invece ai Matronalia (1 marzo) le matrone offrivano fiori a Giunone per l’anniversario del suo tempio sull’Esquilino. Nello stesso giorno, inoltre, i mariti pregavano per la loro salute e regalavano loro denari e doni per le piccole spese che esse adoperavano soprattutto per organizzare il banchetto per gli schiavi maschi della loro famiglia (le spiegazioni antiche di questa festa riguardano soprattutto la nascita di Romolo e la fecondità delle donne).

I Matralia

Ai Matralia (11 giugno) le matrone di buona famiglia si recavano al tempio di Mater Matuta, sul Foro Boario, in cui prima introducevano eccezionalmente una schiava, la quale in seguito cacciavano violentemente, e poi prendevano in braccio e coccolavano i figli delle loro sorelle raccomandandoli alla dea. Si tratterebbe, dunque, della rappresentazione del mito di Aurora, interpretato dalle matrone, che caccia le tenebre notturne, interpretate da una schiava, e che porta nel mondo liberato dalle tenebre il sole. In ogni caso, da questi esempi, possiamo dedurre che la presenza delle donne era necessaria per la celebrazione dei grandi rituali pubblici, in quanto trattavano della fecondità.

Festa di Venere Verticordia e di Fortuna Virile

Celebrata il 1 aprile, comprendeva come rito principale un bagno che le donne facevano prendere alla statua di Venere Verticordia, che si pensava volgesse i loro cuori verso la castità e verso il compimento dei loro doveri matrimoniali; poi la statua veniva di nuovo adornata con i suoi gioielli e fiori. In seguito anche le donne si bagnavano nelle terme con mirto e durante questo bagno esse rivolgevano suppliche e glorificavano con un’offerta di incenso Fortuna Virile, consumando un beveraggio composto di latte, miele e papavero. Insomma con il suo fascino Venere Verticordia rendeva possibili le unioni sessuali ed in ciò favoriva gli effetti positivi che la donna provocava nell’uomo.

La festa del primo giorno del mese di Venere consisteva in un’invocazione di Venere Verticordia e di Fortuna Virile da parte delle donne di "ogni rango" e di ogni condizione, che chiedevano alle dee unioni coniugali o sessuali coronate da successo.

Fortuna Muliebris

Il 6 luglio le matrone si recavano al quarto miglio della via Latina per sacrificare a Fortuna Muliebris. Secondo la leggenda, la sacerdotessa di questo culto era una matrona maritata in prime nozze.

La storia, che gli antichi raccontano circa questo culto, pone la fondazione del santuario di Fortuna Muliebris nel contesto della guerra contro Coriolano: di fronte all’impotenza degli uomini, le donne guidate dalla madre e dalla moglie di Coriolano, si recarono in processione nel suo campo e riuscirono a fargli togliere l’assedio. Per commemorare questo evento, le autorità romane decisero di accordare alle donne un privilegio che desiderassero: esse chiesero che un santuario di Fortuna Muliebris venisse costruito sul luogo che era stato il teatro del loro successo e che ogni anno avessero il diritto di celebrarvi un sacrificio. In tale contesto l’aspetto più significativo è rappresentato dal fatto che le matrone agivano come uomini nella guerra come nel culto effettuando sacrifici.

Pudicitia

Nel culto di Pudicitia (castità matronale), le matrone si comportavano come un gruppo che poteva prendere decisioni, concedere e sottrarre diritti. Secondo la tradizione una patrizia, che aveva sposato un plebeo, fu esclusa dal culto di Pudicitia perché era decaduta. In segno di protesta l’esclusa fondò un nuovo culto destinato a "Pudicitia plebeia", riservato alle donne della plebe, in cui il regolamento del culto accordava alle matrone fedeli allo sposo il diritto di sacrificare. Tuttavia, come gli altri riti in cui venivano coinvolte matrone, questi sacrifici erano celebrati a porte chiuse senza la presenza maschile.


www.andriaroberto.com/Donne%20&%20Dee.htm


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Antica
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Aggiornamento: 01/05/2015