LA TRAGEDIA DELLE BACCANTI
OVVERO LA COSCIENZA INQUIETA DI EURIPIDE

Quando un uomo è abile nel parlare, su qualunque argomento può sostenere una lotta di parole

Euripide


LE BACCANTI DI EURIPIDE E IL DECLINO DELLA POLIS CLASSICA

William-Adolphe_Bouguereau_(1825-1905)_-_The_Youth_of_Bacchus_(1884)

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Adriano Torricelli

Non è sapienza il sapere,
Né andare col pensiero
Oltre l’orizzonte della morte.
Il tempo è breve:
Chi segue l’immenso
Perde l’attimo presente.
Così vivono i pazzi,
Così vivono, per me,
Gli uomini perversi.

Euripide, Baccanti

Ci sono uomini che per mancanza di esperienza o per stupidità distolgono lo sguardo da tali fenomeni come da «malattie popolari», beffeggiandoli o compatendoli nella coscienza della propria sanità: questi pover’uomini neppure sospettano l’aspetto cadaverico e spettrale che assumerebbe questa loro «sanità» quando passasse impetuosa accanto a loro la vita ardente degli esaltati da Dionso.

Friedrich Nietszche, La nascita della tragedia

Che i tragici siano, assieme ad Omero, una delle più alte espressioni della letteratura antica è cosa nota. Le loro opere, soprattutto le migliori, ci parlano con la stessa intensità di lavori scritti secoli più tardi da autori altrettanto grandi, quali ad esempio – tanto per restare nell’ambito del teatro – Marlowe e Shakespeare. In questo articolo voglio soffermarmi su un’opera particolare del corpus delle tragedie greche: le Baccanti. Tale opera infatti, nonostante l’importanza che riveste all’interno del percorso umano e di pensiero di Euripide e nonostante la sua notevolissima altezza poetica, rimane oggi relativamente sconosciuta alla gran parte dei lettori.

Scritta attorno al 406 a.C., ovvero negli ultimi anni di vita del suo autore, durante il soggiorno a Pella presso la corte del sovrano macedone Archelao, a molti è piaciuto immaginare che le Baccanti siano state anche l’ultima opera composta dal tragico ateniese. Quel che è certo tuttavia, è che essa costituisce ai nostri occhi – per ragioni che adesso vedremo – l'atto conclusivo stesso della grande stagione teatrale ateniese.

In quest'opera Euripide rinuncia a quello stile spiccatamente introspettivo e psicologico che caratterizza più o meno la totalità delle sue tragedie (facendone così un anticipatore della sensibilità letteraria moderna), per soffermarsi invece sulla propria personale concezione del Cosmo e dell’esistenza umana, qui come altrove dominata da forze oscure e incomprensibili, le quali però, anziché costituire un contraltare alla potenza divina, ne costituiscono al contrario una chiara manifestazione.

Ed è proprio su quest’ultimo aspetto che cercherò di soffermarmi in questo articolo, dal momento che esso è, quantomeno a mio giudizio, l’elemento che distingue più recisamente quest'opera tanto dalla precedente produzione euripidea, quanto più in generale dall'insieme delle tragedie rimasteci, rendendola del tutto unica nella storia del teatro antico.

Se è vero difatti che anche nelle altre opere di Euripide centrale è il tema della follia e dell’irrazionale, ovvero – come diremmo oggi – della potenza travolgente dell’inconscio, è anche vero però che in esse una tale presenza è pur sempre avvertita come una deviazione umana dalla giusta misura, dal comportamento corretto o razionale (sophrosyne).

L’autore quindi, pur interrogandosi senza risposta sul perché dell’indifferenza divina al Male che attanaglia gli uomini, non pone mai in discussione (quantomeno, mai fino in fondo) il fatto che tale fattore distruttivo e disgregativo provenga in ultima analisi proprio dagli uomini, anche qualora questi siano indotti all’errore dagli stessi dei. Questi ultimi dunque, si collocano in un aldilà assoluto che rende le loro azioni e le loro decisioni molto spesso incomprensibili ai mortali, ma che al tempo stesso tiene fermo – nonostante alcuni cedimenti – il principio che li vede come i supremi garanti di un inflessibile, per quanto misterioso, principio di ordine e di giustizia. L’angosciosa domanda sul perché del Male dunque, non implica che questo sia imputabile – se non in modo apparente – agli dei.

L'opera di cui intendiamo qui occuparci allora, risulta tanto più rivoluzionaria in quanto in essa l’autore sembra rinunciare definitivamente all’idea che vi sia una forza ordinatrice alla base del Cosmo. Bacco, il vero protagonista della vicenda narrata, colui che tiene segretamente le fila di tutti gli eventi (anche di quelli a lui avversi), è difatti la divinità che più di tutte tra i greci rappresenta il Caos, il Disordine distruttore e (ri)generatore. Ma se non esiste un Ordine alla base del Cosmo (…e la parola Cosmos in greco significa appunto ordine o armonia) allora all’origine di esso non può che esservi la Tùche, il Caso. Dio e disordine dunque finiscono per identificarsi.

Non a torto quindi, le Baccanti sono apparse a molti – e in primis proprio a Nietzsche – come una sorta di canto del cigno di quello spirito dionisiaco da cui il genere letterario della tragedia era sorto ma da cui, in particolare proprio con Euripide, si era prematuramente discostato, attraverso la ricerca ossessiva delle cause (aitìai) del divenire, attraverso l’analisi puntigliosa dei moti dell’anima umana nelle sue infinite sfaccettature e nei suoi infiniti turbamenti.

Le Baccanti ci appare dunque, come una portentosa ed esplicita dichiarazione di fallimento degli ideali dell’Umanesimo greco, di quello spirito razionalistico e apollineo che aveva costituito il pilastro stesso della civiltà classica nelle sue più alte espressioni artistiche e filosofiche, nonché in ultima analisi il discrimine tra essa e le fasi più arcaiche della storia greca. (Quanto ai periodi post-classici, il discorso è più complesso: se anche per essi non si può parlare difatti di mero irrazionalismo, si deve tuttavia riconoscere la sostanziale evoluzione della razionalità greca in un senso tecnico e specialistico, molto distante dallo spirito filosofico-teoretico dei pensatori classici.)

Ma le Baccanti non sono a mio avviso solo una dichiarazione (per quanto forse non del tutto consapevole) di fallimento, bensì anche l’intuizione di un nuovo inizio, di quella nuova e prolifica contaminazione tra Occidente e Oriente le cui basi saranno da lì a poco poste dalle conquiste geografiche di Alessandro Magno e dalla nascita dei Regni ellenistici, fucina di un’inedita fusione politica e culturale tra la civiltà greca e le vicine civiltà mediorientali.

Euripide, insomma, sembra profetizzare attraverso questa tragedia il fatto che il futuro della civiltà greca si trovi ormai al di fuori di se stessa, in quelle lontane regioni asiatiche (dalle quali appunto proviene Bacco) dalla cui contaminazione essa sarà vivificata, a patto ovviamente che sappia deporre quell’orgoglio che la porta a chiudersi superbamente nelle proprie certezze ormai stantie, e che nella nostra tragedia è splendidamente esemplificato nei personaggi di Penteo, Agave e Cadmo, nonché almeno in parte di Tiresia.

Un confronto con le Eumenidi di Eschilo - Il percorso dell'idea di Sophrosyne - La rivincita degli esclusi


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 01/05/2015