LA TRAGEDIA DELLE BACCANTI
OVVERO LA COSCIENZA INQUIETA DI EURIPIDE

Quando un uomo è abile nel parlare, su qualunque argomento può sostenere una lotta di parole

Euripide


UN CONFRONTO CON LE EUMENIDI DI ESCHILO

Oreste inseguito dalle Erinni. Il rimorso di Oreste. opera di William-Adolphe Bouguereau - 1862

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Adriano Torricelli

Praticamente nessuna delle tragedie rimasteci ha per protagonisti, o comunque per personaggi principali, degli dei: le uniche due eccezioni a questa regola sono costituite dalle Baccanti di Euripide e dalle Eumenidi di Eschilo.

Ma Eumenidi e Baccanti non sono legate tra loro solo dall’analogia appena sottolineata, ovvero dal fatto di mettere in scena come (co)protagonisti del dramma degli dei, costringendoli a interagire con gli uomini e – nel caso delle Eumenidi – ad accettarne i decreti. Anche ad una lettura superficiale infatti, appare chiaramente come esse siano tra loro per molti versi opposte e speculari sul piano dei contenuti. A un’analogia semplice se ne aggiunge quindi una per differenza, per così dire.

Ma prima di entrare nel merito di un confronto, mi pare opportuno riassumere brevemente la trama della tragedia di Eschilo che qui ci interessa. Opera conclusiva dell’unica trilogia giunta fino a noi (l’Orestea), le Eumenidi ci presentano un Oreste prigioniero, dopo l’assassinio della madre Clitemnestra, delle antiche dee della vendetta familiare, le Erinni, che proprio sua madre ha scatenato contro di lui dall’oltretomba. Avendo agito per ordine di Apollo, Oreste è sotto la protezione di quest’ultimo, il quale tuttavia non è in grado da solo di neutralizzare gli attacchi delle dee che lo perseguitano (“vecchie fanciulle nate in un tempo lontano”). L’opera si delinea quindi come una lotta tra le antiche divinità ancestrali e terrestri, le Erinni, portatrici di un’idea ancora primitiva di giustizia, e le più giovani divinità olimpiche, rappresentate da Apollo e da Atena.

La situazione drammatica subisce una svolta quando Oreste, dietro consiglio dello stesso Apollo, si reca ad Atene, la città della dea Atena, dove viene istituito un tribunale per giudicarlo. Tale tribunale determina (seppure con il margine di un unico voto, dato in ultimo proprio da Atena) l’assoluzione dell’imputato dal crimine di matricidio.

Nella scena conclusiva, le Erinni – pur sconfitte in tribunale – vengono solennemente scortate dal popolo ateniese in un luogo sotterraneo, adatto alla loro natura di divinità infere, dal quale convertite in Eumenidi (ovvero in divinità tutelari) veglieranno sui destini della città.

È facile accorgersi di come quest’opera segua in qualche modo una parabola opposta a quella descritta in precedenza: in essa difatti sono le divinità solari, Atena e Apollo, portatrici di un’idea moderna di giustizia, a prevalere su quelle terrigene e arcaiche, rappresentanti della legge ancestrale della vendetta. L’ordine e la razionalità hanno dunque qui la meglio sul disordine e sull’oscurità, mentre l’umano (nella sua dimensione politica) si avvicina al divino al punto da imporre ad esso – come si è visto – sia i propri mezzi di giustizia (il tribunale) che le proprie decisioni (il proprio verdetto).

Approfondiremo meglio tra poco le tappe e le modalità di questo avvicinamento. Ciò che vogliamo ora sottolineare invece, è come le Baccanti rappresentino il momento culminante di un percorso concettuale opposto a quello eschileo, così ben rappresentato dalle Eumenidi. In quest’opera di Euripide difatti, trova espressione in una forma estrema una tendenza già presente nel suo predecessore, Sofocle: quella, per così dire, a porre una distanza incolmabile tra uomo e dio. Tendenza della quale è un esempio chiarissimo l’Edipo re, un dramma in cui il peccato dell’eroe tragico non è prodotto né della sua intenzionalità (agendo egli in modo del tutto inconsapevole, ed essendo inoltre predestinato alla colpa) né di quella dei suoi avi (ovvero di una maledizione gravante sul suo ghenos, come nel caso dell’Orestea). Tale opera, al pari delle Baccanti, sembra dunque un manifesto dell’”incomunicabilità” tra uomo e dio, ovvero dell’impossibilità per il primo di comprendere le motivazioni alla base delle decisioni del secondo.

Se quindi l’Orestea, e in particolare la tragedia conclusiva di essa, le Eumenidi, rappresentano in qualche modo un’idea umanizzata del divino, attraverso l’avvicinamento di quest’ultimo ai criteri etici e conoscitivi (basati sulla ratio) dell’uomo, le Baccanti al contrario rappresentano forse l’espressione più estrema della separazione tra dimensione umana e dimensione divina a cui i tragici posteriori a Eschilo siano giunti.

Il pathei mathos di matrice eschilea (ovvero la possibilità dell’uomo di giungere alla conoscenza attraverso il dolore) non ha qui semplicemente più senso: l’uomo non può infatti in nessun modo comprendere il dio, assoggettarlo ai suoi parametri conoscitivi. Egli deve al contrario rassegnarsi al fatto di non poterlo comprendere. È questa l’idea di pietà religiosa che inizia ad emergere (o forse sarebbe meglio dire, a riemergere) a partire dalle tragedie di Sofocle, trovando infine a mio giudizio una delle sue espressioni più chiare nelle Baccanti di Euripide. Secondo questa tendenza, è proprio la pretesa dell’eroe tragico di sapere ciò che ne costituisce l’elemento di hybris, di tracotanza, il mancato riconoscimento della potenza e della trascendenza divine. L’unico sapere concesso all’uomo infatti è – socraticamente – il sapere di non sapere.

La crisi della razionalità (e della civiltà) classica si manifesta dunque principalmente, nel genere letterario della tragedia, nel sovvertimento della concezione religiosa eschilea del rapporto tra umano e divino, secondo l’inversione di tendenza appena descritta.

Le Baccanti di Euripide e il declino della polis classica - Il percorso dell'idea di Sophrosyne - La rivincita degli esclusi


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 01/05/2015