LA GRECIA TRA ORIENTE E OCCIDENTE
Storia ed evoluzione della Grecia classica


Il senso mitico dell'immagine scolpita

Pier Paolo Vaccari

Baldassarre Peruzzi, Apollo e Marsia, 1509-11, affresco, Sala del Fregio, Villa Farnesina, Roma

Una volta giunto in quelle estreme lontananze, nelle quali le Gorgoni dormono il loro sonno, Perseo, ben tutelato dai doni divini, scopre attorno a sé un paesaggio popolato dai corpi degli infelici che lo hanno preceduto e che hanno avuto la disgrazia di guardare in faccia le tristi sorelle.

Umori, sentimenti, passioni, tutto ciò che è un uomo, bloccato lì in quei corpi, in eterno: a metà di un gesto, sul volto ancora le ultime illusioni, i sogni raggelati, gli occhi aperti, sbarrati.

Energia rappresa in un corpo immobile, ambigua espressione di una vita, di più vite, di un mondo lontano; suggestione di un rapporto nel quale rischiare di essere catturati in modo esclusivo, al di fuori del tempo.

Ma Perseo è ben protetto dai doni degli dèi e non ha la stessa sorte di quegli sventurati; allorché si trova al cospetto di Medusa l’immagine di lei gli giunge riflessa dallo scudo di Athena.  E’ attraverso la riflessione quindi, che quell'immagine gli giunge elaborata e privata della virulenza originaria.

Egli potrà allora staccare quella testa, con la spada ricurva a ciò predisposta, e riporla nella sacca fornitagli da Hermes, il ladro.

Ma dovrà poi sempre portare con sé quel fardello pericoloso e minaccioso, col quale convivere e fare i conti in ogni istante.

Da allora in poi sarà un vero eroe.

Ora, quei corpi pietrificati nella valle delle Gorgoni cosa sono se non kouroi?

Tutta la vicenda ci induce a immaginare la genesi della scultura proprio in quanto pietrificazione, fissazione.

Solo in un secondo momento essa diverrà rappresentazione.

Il mito ci sembra documentare tale nascita.

Ci stiamo muovendo in un museo; a un tratto ci sentiamo come investiti da una violenta onda d’urto, ci voltiamo, un kouros troneggia nella penombra: l’Apollo Milani del museo fiorentino, un kouros attico del VI secolo.

L'energia trattenuta in quelle membra bloccate sembra chiedere all’attonito spettatore un riscontro, un perfezionamento, una ragione d’essere, una celebrazione rituale. Tutto quel che sta attorno non conta, non esiste. Fra cento altre opere, questo è l’unico testimone e portatore di un evento iniziatico, irripetibile, chiuso in se stesso, arcano.

Scultura come pietrificazione, fissazione, appunto.

L'osserviamo meglio, è forse da considerarsi primitiva, arcaica, quella rigidità, quella immobilità trattenute? No davvero, la sapienza esecutiva di innumerevoli particolari ce lo conferma in modo eloquente, questo stile è univoco: esso ci dà la condensazione simbolica di tutto ciò che è un uomo.

Tuttavia la storia segue il suo corso evolutivo: cominciano i giri di danza, le volute della fantasia, i flussi e i riflussi; le passioni si stemperano, cambiano volto e espressione, si configurano nei modi più vari; si attinge alla convivialità.

Ecco che le figure perdono quella loro ieraticità e la scultura può atteggiarsi a rappresentazione.

Da momento rituale, evocativo, fine a se stesso, si trasforma in un discorso che prosegue e si sviluppa nel tempo.

Quell'energia, prima condensata e trattenuta nella pietra al massimo livello, comincia a sciogliersi e circolare nei corpi all’interno della composizione medesima e a generare movimento.

Non si può per la verità far a meno di constatare come fra i due momenti sussista obbiettivamente un decadimento energetico, una decadenza.

Che coinvolge anche e soprattutto l'osservatore, nel primo caso inequivocabilmente attore del dramma, nel secondo ormai solo più uno spettatore.

Non più coinvolto, in quanto ormai nulla gli viene richiesto, se non di apprezzare o commentare una scena che si svolge di fronte a lui, ma che è del tutto indifferente alla sua presenza.

Il kouros invece inizia un movimento, che solo chi guarda può portare a compimento. In un certo senso è un vero idolo.

I due momenti, o aspetti, o passaggi, convivono nei musei e nella storia dell'arte, ma quale distanza di contenuti e significati!

Dalle profondità dell'immaginario, portatori di messaggi solo in parte noti o intuiti, emergono i kouroi a documentare nella loro umiltà un passaggio straordinario dell'esperienza umana.

Come Cleobi e Bitone, i due giovani di Argos morti per beneficio di Hera, le cui statue votive ritrovate nei depositi di Delphi emergono a conferire suggestiva concretezza al fantasioso racconto di Erodoto.

Questa esplorazione sul senso mitico della scultura ci stimola anche un accostamento alle parole scandalizzate di S. Paolo dopo essere stato ad Atene: “Non ho mai visto una città così piena di idoli!”.

La sua reazione è certamente aderente al decalogo del Sinai, prima della manipolazione cristiana.

E per la verità non sembra affatto fuori luogo, tenuto conto delle profonde implicazioni mitiche, dal punto di vista veterotestamentario, quando il dio di Mosè aveva esclamato: “Perché io sono geloso!”.


Aggiungo al testo di Vaccari una mia brevissima nota sul mito della Gorgone

La pietrificazione cui nel mito della Gorgone s'incorre guardandola non è altro, da un lato, che la rappresentazione della piena consapevolezza della propria negatività, e dall'altro la testimonianza (in sé falsa ma tipica del fatalismo greco), che il limite soggettivo sia insuperabile. Essa corrisponde alla trasformazione in una statua di sale della moglie di Lot, ma in questo caso Lot costituiva appunto l'alternativa positiva.

La Gorgone invece è l'allegoria della disperazione, cioè il terrore di chi vede solo la profondità del proprio male. Essa è il frutto di una concezione pessimista e fatalista della vita, in cui il destino è visto come nettamente superiore alla libertà umana.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Antica
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Aggiornamento: 01/05/2015