LA GRECIA TRA ORIENTE E OCCIDENTE
Storia ed evoluzione della Grecia classica


LE ORIGINI E LA NATURA DELLA DEMOCRAZIA IN GRECIA

“Democrazia” è un termine di cui oggigiorno si tende ad abusare, soprattutto per alludere alla superiorità della civiltà europea rispetto al resto del mondo, nonché talvolta come giustificazione di azioni militari ai danni di stati “pericolosi” per la salute, la stabilità e l’avanzamento della civiltà (ovvero, di nuovo, della democrazia) dell’intero pianeta.

Anche per questa ragione, ci sembra interessante cercare di delineare il percorso che nel corso dei secoli portò alla nascita dei primi regimi democratici nell’antica Grecia. Comprenderlo infatti, non significa soltanto comprendere le lontanissime origini delle attuali forme di governo democratiche, ma anche mettere a fuoco alcuni aspetti peculiari della cultura e della società occidentali, che con una tale forma di organizzazione politica ebbero ed hanno una relazione molto forte, costituendone sia l’humus generatore sia – e in misura per nulla trascurabile – un effetto o una conseguenza.

Un altro aspetto che cercheremo di mettere in luce, sono le profonde differenze che – pur nell’indiscutibile continuità storica – separano le democrazie attuali da quelle delle origini. Soprattutto, balza all’occhio come le democrazie odierne tendano a spostare sempre di più il concetto di libertà individuale dall’ambito della partecipazione politica (dimensione collettiva) a quello della libertà personale (dimensione privata), in particolare – secondo l’esplicita teorizzazione di alcuni economisti e sociologi moderni – a quello dei consumi. A questo proposito, vogliamo citare a mo’ di esempio un brano di un grande sociologo austriaco, Ludwig von Mises, che nel suo celebre saggio Socialismo affermava:

“La società capitalistica è la realizzazione di ciò che potremmo chiamare la democrazia economica. [...] Quando diciamo che la società capitalista è una democrazia di consumatori, noi intendiamo affermare che il potere di disporre dei mezzi di produzione, che appartengono agli imprenditori e ai capitalisti, può essere acquisito solamente attraverso la consultazione dei consumatori, consultazione che si tiene ogni giorno sulla piazza del mercato. Ogni bambino che preferisce un giocattolo a un altro mette il suo voto nell’urna, ed è questo che alla fin dei conti decide chi sarà eletto capitano d’industria. Certo, in questa democrazia non c’è l’uguaglianza di voto; alcuni hanno più voti. Ma il maggiore potere elettorale, derivante dalla maggiore disponibilità di reddito, può essere acquisito e mantenuto solo mediante la prova dell’elezione.[...] La ricchezza degli uomini d’affari è, pertanto, sempre il risultato di un plebiscito dei consumatori. [...] Nelle decisioni che prende come consumatore l’uomo medio è più informato e meno corruttibile di quanto non lo sia come elettore alle elezioni politiche. Ci sono, si dice, gli elettori che quando devono decidere tra il libero scambio e il protezionismo, il gold standard e l’inflazione, non sono capaci di valutare tutte le implicazioni della loro decisione. Il compratore che deve scegliere tra diversi tipi di birra o marche di cioccolato ha sicuramente un compito più facile.” [corsivi miei]

D’altronde, tra una simile idea di democrazia (democrazia di consumatori) e la tendenza teorica cui fa riferimento Moses Finley nel suo La democrazia degli antichi e dei moderni, laddove parla delle moderne teorie elitiste della democrazia, secondo le quali, ad esempio,

“l’apatia politica è un “segno di comprensione e di tolleranza nei confronti della diversità degli uomini” e ha “un benefico effetto sul tono della vita politica” perché “più o meno efficacemente fa da contrappeso a quei fanatici che rappresentano il vero pericolo della democrazia liberale” “[Finley cita qui W. H. Morris]

esiste un’evidente affinità.

Se la prima idea difatti tende a trasportare la decisionalità popolare dall’ambito propriamente politico (Mises si affretta a sottolineare poco più avanti come certe difficili questioni di politica economica non possano essere risolte dalla gente comune!) a quello economico inteso essenzialmente come libertà di consumo, la seconda afferma invece l’inevitabilità e la necessità dell’esistenza di una massa politicamente apatica e, complementariamente, di ristrette oligarchie politiche nei confronti delle quali la prima gode di uno sporadico e infondo velleitario diritto di scelta attraverso le consultazioni elettorali.

A proposito di questa tendenza della democrazia verso l’apatia politica, ne vedremo le prime manifestazioni proprio nel mondo greco, quando parleremo degli sviluppi delle città-stato a partire dalla tarda classicità. In tali periodi infatti, anche se un numero sempre maggiore di stati si munì di una costituzione democratica, si svilupparono in realtà delle oligarchie cittadine sempre più chiuse e la politica, richiedendo competenze sempre più specifiche, tese a divenire una vera e propria professione anziché, come in passato, un’attività alla portata dell’intera popolazione.

Qui avanti dunque, cercheremo innanzitutto di ripercorrere il cammino che portò la civiltà ellenica a “scoprire” la democrazia come soluzione di governo statale. Per fare questo, dovremo prendere in considerazione anche gli altri sistemi politici che presero piede in Grecia, e da cui appunto la democrazia sorse. Riserveremo inoltre un’occhiata veloce anche alle strutture e alle tradizioni politiche dominanti nel Vicino Oriente, rispetto alle quali la democrazia si pose in un’antitesi ancora più forte rispetto agli altri sistemi politici ellenici.

IL PERCORSO CULTURALE E POLITICO DEI GRECI

Divideremo l’argomento trattato in questo capitolo in quattro paragrafi, ognuno corrispondente a una fase dello sviluppo storico della civiltà greca antica:

  • il primo sarà dedicato al cosiddetto periodo oscuro (con un breve accenno alla precedente epoca micenea);
  • il secondo all’età arcaica;
  • il terzo all’epoca classica;
  • l’ultimo all’epoca tardo-classica e a quella alessandrina o ellenistica.

L’argomento centrale sarà la trasformazione istituzionale e politica conosciuta dal mondo greco nel corso dei secoli, vista peraltro nella sua interconnessione sia con i fenomeni sociali ed economici che con quelli culturali. Quanto a questi ultimi, essi saranno anche utilizzati – nella forma delle testimonianze letterarie – come fonti della ricerca e della ricostruzione storiografica, ovvero come utili tracce della mentalità, del pensiero e della sensibilità dominanti in un dato periodo e luogo, oltre che delle condizioni materiali e dell’organizzazione politica di esso.

Come già detto, il discorso non potrà limitarsi alla democrazia, ma dovrà per forza di cose (come meglio vedremo nel corso dell’articolo) estendersi anche ad altre forme di governo: sia cioè a quelle interne alla Grecia, sia (seppure più superficialmente) a quelle dominanti nel Vicino Oriente.

(a) Il periodo oscuro

“L’avventura greca è figlia della fame.”
Pierre Lévêque

La prima civiltà di cui si abbia notizia in Grecia è quella micenea (all’incirca XVI-XIII secolo a.C.), fondata – come già quella cretese, e prima di essa quella egizia e in genere quelle vicino-orientali – sul rigido controllo da parte dello stato delle attività economiche e sull’incameramento dei beni eccedenti le esigenze immediate della popolazione in depositi pubblici (proprietà statale).

Già a quei tempi però, grosse differenze sussistevano tra gli stati greci o occidentali e gli stati del Vicino Oriente, differenze che determinavano – e ancor più avrebbero determinato in futuro – due situazioni abbastanza diverse. Le dimensioni relativamente ridotte dei regni micenei (comunque più estesi delle future città-stato) tendevano infatti ad attenuare la piramidalità e la rigidità delle strutture politiche e sociali tipiche delle vicine regioni orientali. Tra i sovrani e i loro vassalli (nobili guerrieri, nonché proprietari di terre) vigevano ad esempio nel mondo miceneo rapporti molto più stretti e familiari di quelli che vi erano, ad esempio, tra il Faraone egizio e i suoi funzionari/amministratori locali. La tendenza greca a costituirsi in una società di liberi individui, in contrapposizione alle società fondate su poteri assoluti e su masse politicamente asservite tipiche del vicino mondo orientale (dispotismo asiatico), iniziava già allora a delinearsi, seppure in una forma ancora attenuata rispetto ai secoli successivi.

Si può dire che l’individualismo fu un carattere essenziale del mondo greco già a partire dalla fase più arcaica della sua storia, e che esso fu determinato molto probabilmente dalla natura estremamente frastagliata dei suoi territori e quindi – soprattutto per l’epoca – dalla loro difficile governabilità attraverso poteri centralistici e dispotici di stampo asiatico. Gli stati centralizzati d’Oriente trovavano dunque nel vicino mondo greco, che pure avevano potentemente influenzato, una copia abbastanza sbiadita. Tuttavia, è indubbio che la civiltà micenea e, prima di essa, quella cretese furono largamente debitrici di molti dei propri caratteri a quelle vicino orientali.

Ma il vero “salto di qualità”, ossia la trasformazione in qualcosa di radicalmente alternativo rispetto al Vicino Oriente, il mondo greco lo fece solo nel cosiddetto periodo oscuro, un’età il cui inizio si collocò attorno al XIII secolo. Nel corso di esso infatti, e forse anche del successivo, le ripetute invasioni di popoli di stirpe greca, ricordati poi come dori, provenienti dalle zone a nord della Grecia civilizzata, posero fine o comunque destabilizzarono in modo sostanziale le strutture della precedente civiltà micenea.

Fu attraverso tali eventi traumatici che vennero poste le basi della successiva civiltà classica. E ciò sia perché – come vedremo – l’anarchia politica e sociale che ad esse seguì fu un ingrediente essenziale alla base della nascita, qualche secolo più tardi, delle città-stato; sia perché, indebolendone l’economia e la civiltà, tali eventi isolarono per forza di cose il mondo greco da quello vicino orientale, determinandone un’evoluzione indipendente e originale rispetto ad esso.

E quando, a partire dall’VIII secolo, la civiltà greca riprese ad avere frequenti contatti con l’Oriente, traendone peraltro, come già era accaduto in passato, preziosi spunti di avanzamento, il tempo aveva oramai consolidato i caratteri che la contraddistinguevano dalle regioni circostanti.

Le invasioni doriche diedero molto probabilmente il colpo finale al mondo miceneo, la cui decadenza era avviata già da parecchi decenni a causa delle continue guerre e rivalità tra stati. Esso venne da tali eventi pressoché spazzato via. Le sue antiche strutture sociali, ad esempio, furono fortemente ridimensionate, e l’istituto regale, che vi era a base, iniziò un processo di decadenza che ne decretò la scomparsa quasi ovunque già all’inizio del periodo arcaico (VIII secolo). La vita culturale poi, si imbarbarì in modo impressionante: la scrittura scomparve totalmente, mentre gli scambi commerciali e in genere le comunicazioni divennero molto più radi che in passato (le devastazioni e la povertà rendevano infatti le vie di transito estremamente pericolose).

Scrive a tale proposito Moses Finley (La Grecia dalla preistoria all'età arcaica): “Possiamo a buon diritto affermare che con i palazzi [ovvero i centri del potere regale nelle società micenee e minoiche] crollò la particolare struttura sociale piramidale dalla quale essi erano stati creati. [...] E il palazzo scomparve in modo così radicale che mai più esso comparve nella storia greca.” [corsivi miei]

In particolare gli stati micenei conobbero, soprattutto in alcune zone dove le invasioni doriche o comunque gli stravolgimenti a esse legati furono più violenti, un’accentuata tendenza a disgregarsi e a dividersi in piccoli sottoregni autonomi. Ebbe inizio così di un periodo di anarchia sociale simile per molti aspetti a quello del medioevo cristiano (da cui l’espressione medioevo ellenico) che lo storico Rosario Villari così descrive: “il legame tra monarchia e feudalità era basato su una sorta di contratto che metteva i singoli contraenti sullo stesso piano. Da qui nascevano parecchi inconvenienti: instabilità politica, contrasti tra le due parti, mancanza di un indirizzo unitario nella politica dello Stato, anarchia.”

Fattori questi che, pur con le inevitabili differenze del caso, ritroviamo anche nel periodo di cui stiamo trattando. In più, per ciò che concerne quest’ultimo, dobbiamo considerare anche l’assenza pressoché totale delle città (quelle micenee furono tutte, con poche eccezioni tra cui Atene, cancellate o ridotte a villaggi) nonché spesso di insediamenti stabili, sostituiti dalla vita pastorale.

Può apparire strano, ma proprio a partire da questo quadro di desolazione e miseria (molto maggiore rispetto a quello caratterizzante i vicini stati orientali negli stessi periodi) presero forma coi secoli i caratteri fondamentali della civiltà greca classica, in tutta la sua modernità e il suo splendore. Sempre Finley, ad esempio, ci ricorda che “il futuro dei greci [dell'età oscura] non si trovava negli stati burocratici, incentrati attorno al palazzo, ma nel nuovo tipo di società che venne elaborandosi dalle comunità impoverite che sopravvissero alla grande catastrofe.”

(a.1) Una società a due livelli; l’etica “agonale” dell’aristocrazia guerriera

Le società del periodo oscuro erano almeno tendenzialmente ‘a due livelli’: da una parte vi erano infatti i nobili/guerrieri, ovvero i grandi proprietari terrieri, e dall’altra i piccoli proprietari indipendenti, in realtà però per molti aspetti asserviti ai primi. Il legame che univa tra loro i membri di un medesimo territorio era – almeno presumibilmente – clanico, ancor prima che etnico. Il ghenos (ovvero la famiglia in senso allargato, la stirpe) era infatti ciò che accomunava idealmente gli individui di una medesima comunità.

Ai due livelli di cui abbiamo appena parlato corrispondevano inoltre due culture differenti, pressoché opposte tra loro. Questo fenomeno si può riscontrare sia nella religione che, più in generale, nell’universo di valori propri di tali classi.

Le divinità agricole venerate dalla popolazione minuta, di sesso prevalentemente femminile (un ricordo delle quali rimase, ad esempio, nella Demetra del pantheon classico), si contrapponevano infatti a quelle solari e maschili dell’aristocrazia guerriera.

Ciò poiché il popolo, che viveva faticosamente dei prodotti del proprio lavoro, divinizzava istintivamente la Madre-Terra, mentre l’aristocrazia (che demandava ad altri i lavori agricoli e si dedicava alla guerra e alle attività di comando) trovava nelle divinità olimpiche (le quali avrebbero finito per prevalere nei secoli successivi), nel loro temperamento bellicoso e vanesio, un ideale di comportamento e una “santificazione” dei suoi stessi valori.

Da una parte vi era dunque il popolo, i cui membri come vedremo conducevano per forza di cose una vita semplice e si sostenevano vicendevolmente, dall’altra le classi nobiliari la cui esistenza era improntata agli eccessi e all’ambizione di conquista.

Ma quel che distingueva veramente il mondo greco dalle vicine civiltà orientali non era tanto il solidarismo che vigeva tra le classi popolari (e che caratterizza da sempre la vita di ogni comunità povera) ma l’esasperato spirito di competizione che divideva gli esponenti della nobiltà.

Anche altre civiltà del mondo antico conoscevano un’accesa rivalità tra i membri dell’aristocrazia, la cui ragione d’essere stava nel desiderio di ciascuno di essi di incrementare il proprio potere e le proprie ricchezze, spesso attraverso l’amicizia del sovrano che poteva essere fonte di grandi privilegi. Ma solo nel mondo greco un tale sentimento divenne la base stessa dell’etica, il principio direttivo del comportamento dei ceti aristocratici.

Di questo tipo di atteggiamento mentale sono state date diverse definizioni: Jacob Burckhardt, ad esempio, parlò di “spirito agonale” (agon in greco significa infatti lotta, guerra, competizione), mentre Eric R. Dodds definì icasticamente quella greca “civiltà di vergogna”. Quel che è certo è che, mai come in Grecia, la figura del maschio combattente divenne un ideale di comportamento sistematicamente e rigorosamente perseguito.

Per sondare le profondità di questo spirito possiamo rivolgerci al più celebre poema omerico, l’Iliade, prima opera letteraria della civiltà occidentale, e ai suoi personaggi. Ettore ad esempio, nel famoso episodio dell’incontro con la moglie Andromaca e con il figlioletto, dice:

“Ho tremendamente vergogna dei Troiani e delle Troiane se mai dovessi fuggire come un vile lontano dalla guerra” e

“ho imparato a essere valoroso sempre e a combattere fra i Troiani in prima fila, cercando di conservare la gloria di mio padre.”

e più avanti, nella preghiera che esprime per suo figlio:

“O Zeus e voialtri dei, concedete che anche questo mio figlio sia, quale appunto sono io, illustre tra i Troiani, e del pari valente per il suo vigore [...] ed un giorno qualcuno possa dire di lui, quando torna dal campo di battaglia: costui è molto più forte del padre; porti egli le spoglie cruente dopo aver ucciso il nemico e la madre si rallegri in cuore”.

Già da questi brevi passi (così come da molti altri) si possono evincere i caratteri fondamentali dell’etica greca del periodo oscuro. Prenderne atto è importante, tra l’altro, perché essi (seppure ovviamente in forma aggiornata) sopravvissero anche in età classica e costituirono una delle basi essenziali di tale civiltà.

Il tema fondamentale dell’etica aristocratica è, senza ombra di dubbio, quello dell’onore o della gloria (kleos). È un valore primario e totalizzante, che implica il timore del giudizio della comunità, dei propri simili, e diviene principale forza morale e sprone dell’azione personale. Un tale desiderio di riconoscimento sociale poi, travalica anche, e di molto, la brama di ricchezze materiali. Sempre dalla lettura dell’Iliade, emerge chiaramente come i bottini di guerra (causa di tante contese tra i principi achei, oltre che dell’evento centrale di tutto il poema omerico: il rifiuto di Achille di partecipare alla guerra contro il nemico comune dei Greci) abbiano molto più valore in quanto segno tangibile del potere e del prestigio tributato a coloro che li ricevono, che non come semplici beni materiali.

Oltre a questo senso dell’onore, e ad esso strettamente connessa, vi è poi la volontà dell’eroe di crearsi un seguito sociale, delle clientele private che siano strettamente legate a lui, sia per riconoscenza per i favori ricevuti che per il carisma che da egli promana e che è attestato da imprese che sono sotto gli occhi di tutti. In quest’ottica, anche la vendetta assume un significato centrale, in quanto risposta che l’eroe (o comunque colui che si ispira a tali ideali) dà a coloro che cercano di insediare e mettere in discussione il suo prestigio.

Ma a queste componenti puramente individuali se ne aggiungono altre, che vedono un legame molto forte tra l’eroe o la persona e il suo gruppo di appartenenza, ovvero – come si è già detto – il suo ghenos o la sua stirpe. Da notare che quest’ultimo concetto può essere considerato in un senso più o meno allargato: nel primo finisce per comprendere un intero popolo e un’unica comunità politica, in quanto almeno idealmente appartenente ad un’unica stirpe; nel secondo invece coincide con la famiglia, intesa nel senso decisamente più ristretto del gruppo dei consanguinei, dei parenti.

In quest’ultimo caso, il concetto di ghenos rimanda all’idea della solidarietà tra i membri di una medesima casata, ovvero di un’unica discendenza nobiliare. È in questo contesto che si collocano le eterie, o società nobiliari, che tanta importanza ebbero nella vita politica dell’età arcaica e di quella classica e post-classica.

Le eterie (da etàiros, compagno) erano delle associazioni di nobili consanguinei il cui fine era la conquista del potere politico. Ognuna di esse era di solito in guerra con una o più rivali. Esse erano dunque espressione e risultato della frattura tra membri dell’aristocrazia di una medesima comunità, che si combattevano per il potere. Le eterie erano inoltre divise al loro interno tra differenti gradi di prestigio e potere, e ciò anche se ciascun affiliato traeva vantaggio dall’aderirvi, pur dovendo osservare rigidi cerimoniali e obblighi inderogabili.

Uno di questi obblighi era quello della vendetta: l’eteria non poteva infatti tollerare alcuna mancanza di rispetto nei confronti dei propri membri, soprattutto di quelli di più alto lignaggio. La vendetta era perciò un obbligo dell’intera comunità a difesa sia del proprio onore che di quello dei suoi membri. Nelle eterie nobiliari si scorge quindi una logica simile a quella solidaristica e cooperativista tipica della gente comune, di cui parleremo tra poco. E ciò anche se non si deve dimenticare che esse erano, prima di tutto, espressione di quel desiderio d’onore e prestigio sociale che permeava la cultura nobiliare in tutti i suoi aspetti.

Rafforzando l’aspetto di clandestinità originario, le eterie divennero poi molto spesso, nel periodo delle poleis vere e proprie, dei poteri occulti paralleli a quelli dello stato, attraverso i quali le diverse fazioni nobiliari erano in grado di influenzare anche pesantemente la vita di quest’ultimo.

(a.2) La vita e la mentalità della gente comune

Fin qui ci siamo soffermati sulla concezione aristocratica dell’esistenza, ma non si deve dimenticare che anche il popolo, la massa dei poveri o della gente comune, aveva una mentalità, degli stili di vita e un’organizzazione sociale propri.

Certo, data la scarsità delle fonti in proposito (il primo autore che ci dia una qualche informazione su come si svolgesse la vita popolare è Esiodo, che tuttavia scrisse in un periodo successivo di alcuni secoli a quello di cui qui vogliamo trattare), su questi temi sappiamo ancora meno che su quelli trattati nel precedente paragrafo. D’altra parte, tutto lascia presumere che in questo stadio della storia greca la vita sociale fosse ancora molto semplice e primitiva. Essa doveva essere ancora di carattere tribale, priva cioè di poteri stabili e di una vera e propria organizzazione politica.

Il potere del sovrano, come si è già detto, era stato pesantemente ridimensionato dalla disgregazione seguita alle invasioni doriche e all’imbarbarimento della vita sociale e culturale. Ai nobili, di cui abbiamo appena parlato, si contrapponevano le classi umili, tra i cui membri vigeva un regime comunitario e una logica associativa e cooperativa. La povertà diffusa infatti, rendeva necessaria tra di essi la solidarietà e l’aiuto reciproco.

Alla smodata ricchezza degli aristocratici, si contrapponeva la povertà degli umili contadini (cosa questa, vera anche nel Vicino Oriente). Al mondo dorato e opulento dei primi, si contrapponeva quello umile e sofferente del popolo; alle religioni olimpiche e solari delle classi aristocratiche, contraddistinte da un pantheon di dei immorali e prepotenti, quelle materne e salvifiche degli umili lavoratori della terra!

La religione fu ovviamente un aspetto essenziale della cultura delle popolazioni antiche, e la differenza tra queste due diverse forme di religiosità lascia intravedere quanto distanti dovessero essere i modi di vita e di sentire di queste due classi.

Anche se della religiosità popolare sappiamo davvero pochissimo (possiamo fare delle illazioni su di essa sulla base dei periodi successivi, che conosciamo molto meglio) non è assurdo credere che tale religiosità avesse un carattere misterioso e iniziatico, e che tendesse ad avallare l’idea di una ricompensa dopo la morte delle fatiche e dei soprusi subiti in questa vita – o che in ogni caso fosse fondata su riti magici e iniziatici che dovevano dare all’adepto, in una vita successiva, l’accesso a uno stato di felicità e di pace estraneo alla condizione terrena.

Molto probabilmente sia i culti misterici attestati per il periodo classico e post-classico (ad esempio, ad Atene, i riti elusini), sia alcune divinità del pantheon classico (ad esempio quelle legate alla terra, come Demetra, o al culto della natura, come Dioniso) furono un’eredità della religiosità popolare di questi periodi primitivi della storia greca.

Un aspetto paradossale su cui vale la pena di soffermarsi è come la religiosità “solare” delle classi aristocratiche fosse in realtà molto più buia e pessimistica, in particolare riguardo alla vita dopo la morte, di quella delle classi umili, che nella religione trovavano un conforto alle fatiche e ai soprusi quotidiani e, in qualche modo, la speranza in una vita migliore. Al contrario, la concezione aristocratica considerava l’esistenza dell’uomo come una fugace apparizione destinata a cadere presto nel nulla, la cui unica (ma poco consolante) chance di eternità stava nel lasciare dietro di sé un durevole ricordo (convinzione da cui, ovviamente, discendevano il culto della gloria e dell’onore).

La similitudine tanto spesso ricorrente nell’Iliade di Omero, e nella tradizione poetica successiva, tra le generazioni umane e le foglie, accomunate da una analoga caducità, o la famosa affermazione che Omero pone in bocca al fantasma di Achille nell’Odissea: “preferirei essere vivo, anche schiavo del più umile dei padroni, che essere il principe dei morti”, ci danno un’idea del profondo pessimismo della visione aristocratica, in particolare in merito al problema della vita dopo la morte. Al contrario, pur nella consapevolezza dell’iniquità dell’esistenza, le classi popolari erano a loro modo anche portatrici di valori vitalistici positivi.

In ogni caso, in entrambe queste forme di religiosità emerge la consapevolezza – tipicamente greca – della fragilità e della grandezza dell’uomo, e l’aspirazione a una condizione di stabilità ed equilibrio cui si affianca la coscienza dell’irrimediabile caducità della vita umana. Una visione problematica che pare contenere già i semi di molti aspetti della cultura greca classica più matura.

(a.3) La guerra come valore e monopolio dell’aristocrazia

Infine, un’altra differenza essenziale tra popolo e aristocrazia stava nel differente rapporto con la guerra.

Può apparire strano agli occhi di noi moderni, abituati a considerare quest’ultima come un dovere e una tragica incombenza, che in tali società essa fosse vista invece come un privilegio, un segno di distinzione sociale. Ma la cosa non deve del tutto stupirci, a ben vedere. Vi sono essenzialmente due ordini di ragioni che giustificano questo fatto.

Innanzitutto vi è un fattore sociale, presente peraltro – seppure con esiti molto differenti – anche nel vicino mondo orientale. Armare il popolo infatti avrebbe potuto essere molto pericoloso, data la condizione di minorità in cui esso era tenuto! Anche per questo la guerra era il “lavoro” dei nobili, mentre la gente comune doveva dedicarsi soprattutto all’agricoltura, e più in generale allo svolgimento di attività pacifiche.

Anche nei grandi stati medio-orientali vi era questo problema, ma l’ampiezza e la ricchezza dei territori permettevano ai sovrani e ai loro funzionari di acquistare le prestazioni di eserciti mercenari, spesso stranieri e quindi del tutto disinteressati alle implicazioni che le loro attività avrebbero avuto per le popolazioni locali.

Inoltre, gli eserciti dovevano essere attrezzati, e i piccoli sovrani feudali della Grecia non avevano certo i mezzi economici necessari a questo scopo. (Su questo discorso torneremo avanti, quando parleremo della polis arcaica e della trasformazione di essa in direzione della democrazia). Al contrario, i poteri statali dei vicini imperi asiatici disponevano di solito di sufficienti ricchezze per adempiere a questa incombenza.

Le motivazioni appena descritte, di carattere essenzialmente pratico, contribuiscono a spiegare la fondamentale estraneità del popolo alla guerra, ovvero il fatto che essa rimanesse sostanzialmente un “affare dei nobili”, i quali non a caso costituivano una vera e propria classe guerriera in seno alla società (per inciso, anche nel Vicino oriente i re si vantavano spesso di essere grandi generali e condottieri, mentre tra gli alti funzionari vi era una categoria – quella militare – specializzata nella guerra. Ma il mestiere di combattere era comunque svolto prevalentamente da soldati mercenari di estrazione popolare).

Vi era tuttavia anche un altro ordine di ragioni, di carattere più spiccatamente culturale, che determinava questa ripartizione delle mansioni sociali.

Il bisogno delle classi alte di distinguersi da quelle inferiori non poteva infatti passare attraverso molti canali. In assenza delle scienze e delle arti, al tempo ancora pressoché sconosciute (se si esclude la poesia, ovvero la composizione ad opera degli aedi di opere celebrative delle azioni guerresche dei nobili, che era comunque considerata più che altro un mestiere, al pari delle arti plastiche), l’unico valore che potesse creare un chiaro discrimine tra nobili e plebei era appunto la guerra, l’azione violenta vista come prova di coraggio e di valore personale che innalzava il singolo al di sopra degli altri membri della comunità.

D’altra parte, la boria dei nobili nei confronti del popolo e del lavoro manuale che esso doveva svolgere (al tempo peraltro, dato il basso livello di sviluppo tecnologico, davvero massacrante) fu un tema costante di tutto il mondo antico, e non solo di quello greco.

Vedremo meglio più avanti le pesanti ripercussioni che tale atteggiamento ebbe sugli sviluppi sociali e politici di quest’ultimo. A questo riguardo, osserva giustamente Chester G. Starr (Storia del mondo antico) come non vi sia da stupirsi se, in un mondo in cui tutto o quasi il lavoro doveva essere svolto attraverso la forza fisica – seppure spesso con l’aiuto degli animali – una delle principali rivendicazioni aristocratiche fosse appunto quella di non dover praticare attività di questo tipo e di potersi dedicare invece ad attività superiori, quali appunto – specialmente nei periodi più antichi – quelle inerenti alla guerra.

(a.4) Società e cultura

Vogliamo cercare adesso di riassumere quanto detto, dedicando particolare attenzione a un tema fin qui solo sfiorato, quello cioè del rapporto di influenza reciproca che sussisté tra i dati culturali e i dati sociali sopra delineati.

Il nostro racconto è iniziato un po’ arbitrariamente con le invasioni (comunemente dette doriche) che, nel XIII secolo, diedero avvio alla cosiddetta età oscura della storia greca. La Grecia, già povera di suo (soprattutto se paragonata ai grandi imperi del Vicino Oriente), venne da tali eventi gettata in uno stato di instabilità politica e di arretramento culturale e sociale che ne determinò un ulteriore impoverimento.

Il progressivo sgretolamento dell’organizzazione statale micenea determinò, soprattutto in certe zone, uno stato sempre meno latente di anarchia feudale e di conflitti tribali. Il sovrano, ridotto difatti a un primus inter pares, non aveva più gli strumenti materiali e morali per tenere a freno lo spirito naturalmente ambizioso dei potentati locali, che per tale ragione tendevano sempre più a combattersi.

Fu molto probabilmente in questo clima di anarchia e di disordine generalizzati, che prese forma quello “spirito agonale”, quel culto dell’onore e dell’affermazione individuale che segnò non solo il periodo oscuro ma più in generale, pur con inevitabili trasformazioni, tutte le stagioni della storia greca. Un così accentuato spirito di competizione poi – fondamentalmente estraneo alle élites funzionariali dei vicini stati asiatici, stabilmente asservite al potere direttivo del sovrano – favoriva una recrudescenza di quello stesso disordine sociale e politico che l’aveva creato.

Ma in un tale atteggiamento mentale – che a tutta prima potrebbe apparire solo negativo – era latente anche uno dei caratteri più prolifici del mondo greco. Il sentimento dell’indefinita libertà umana, l’idea di potersi spingere sempre oltre i confini già raggiunti, l’ansia della ricerca e della scoperta sarebbero infatti germogliati nei periodi successivi in quelle grandi creazioni che hanno fatto dei Greci i padri della moderna civiltà europea.

Possiamo dire che l’esasperato individualismo e l’estrema ambizione che caratterizzarono i Greci, resero un tale popolo – assieme peraltro ad altri, come ad esempio i fenici, ma con un’intensità ancora maggiore – il prototipo di un’umanità sempre protesa verso il nuovo, verso l’indagine e la scoperta, in contrasto con la passività, il materialismo e il conservatorismo mentale e politico dei vicini popoli asiatici, per tradizione assuefatti al pesante giogo della schiavitù al Re e allo Stato.

E proprio in un tale spirito inquieto, ci è dato di scorgere i semi di quella vita culturale che il popolo greco seppe sviluppare e – almeno da un certo momento in avanti – diffondere in tutto il mondo mediterraneo.

Accanto allo spirito agonale della nobiltà, abbiamo poi rilevato la presenza di un altro tipo di mentalità, peraltro ancora più difficile da decifrare data la pressoché totale mancanza a riguardo di fonti scritte: quella del popolo.

Caratterizzata da un’estrema rassegnazione alle privazioni e alla povertà, tale mentalità era senza dubbio il prodotto del secolare asservimento delle masse popolari allo strapotere economico e politico della nobiltà terriera, la quale inoltre deteneva su di esse anche il privilegio delle armi.

Al pari di quella agonale e nobiliare anche questa concezione, la cui caratteristica morale era un più accentuato spirito di fratellanza e solidarietà tra i propri membri (nonché, in un ambito propriamente religioso, un’istintiva venerazione per la Madre-Terra), contribuirà a dare forma alla civiltà ellenica dei secoli successivi.

Mostreremo infatti, nei prossimi paragrafi, che le fasi arcaiche e classiche della storia greca furono, soprattutto nei loro aspetti politici, risultato in gran parte dell’incontro tra queste due diverse ed opposte ispirazioni.

(b) La civiltà greca arcaica

“Qualcuno dei Sai si vanta dello scudo,
arma perfetta, che presso un cespuglio abbandonai non volendo;
ma ho salvato la vita. Che m’importa di quello scudo!
Vada in malora! In seguito me ne procurerò uno non peggiore.”

Archiloco

“Bella è la morte, nelle prime file cadendo
d’un valoroso che pugna per la sua patria.”

Tirteo

“Lasciamo perdere le lotte dei Titani o dei Giganti
o dei Centauri – vecchie favole –
o le contese civili. Non ci migliorano.
Occupiamoci sempre, invece, degli dei.”

Senofane

Abbiamo descritto l’età oscura come un’era di frazionamento territoriale e di grande imbarbarimento della società. Effettivamente lo fu, ma si deve anche dire che essa conobbe differenti fasi. In particolare, a partire dal IX secolo iniziò per la civiltà ellenica una stagione ascendente, una sorta di primavera che preluse alla vera e propria rinascita culturale e politica dell’età arcaica che ebbe inizio con l’VIII secolo.

Durante questa età, il mondo greco conobbe alcune trasformazioni fondamentali, che possiamo così schematizzare: una nuova espansione coloniale (le due precedenti ondate si erano verificate l’una durante il periodo miceneo, l’altra nei secoli successivi alle invasioni doriche ed essenzialmente come loro conseguenza); un potente sviluppo dell’artigianato e del commercio; una rinascita dei contatti con le vicine culture orientali, da cui la civiltà greca ricevette in particolare due prodigiose invenzioni: la scrittura alfabetica (dai Fenici) e la moneta (dai Lidi). Una delle conseguenze di questi cambiamenti fu la rinascita, dopo i secoli oscuri segnati dalla barbarie, dello stato, nella forma delle città-stato.

Quanto a queste ultime poi, cruciale – come vedremo – nella loro storia fu l’apparizione degli eserciti oplitici, che contribuirono in modo decisivo a mutarne la struttura politica e sociale in direzione di una maggiore partecipazione delle classi popolari alle attività di governo.

Anche se la presente ricerca vuole soffermarsi essenzialmente sulle trasformazioni politiche avvenute nel mondo greco tra VIII e VII secolo, questo argomento non può essere considerato isolatamente dagli altri fattori che abbiamo appena menzionato. Non deve quindi stupire il fatto che un grande spaziò sia qui dedicato ad essi, e che solo verso la fine del capitolo ci si occupi di temi propriamente politici e istituzionali.

(b.1) La trasformazione del mondo greco tra VIII e VII secolo

(b.1.1) la colonizzazione

Come abbiamo già accennato, verso il IX secolo la Grecia conobbe un primo miglioramento delle proprie condizioni economiche e sociali. Esso era dovuto probabilmente alla relativa stabilizzazione della situazione politica, a qualche avanzamento nelle tecniche agricole e a una conseguente crescita della produzione e del benessere. Ma tali miglioramenti comportarono anche un aumento della popolazione e, con ciò, una carenza ancora maggiore di terre rispetto ai periodi precedenti.

Da qui l’accrescersi dei conflitti sociali, e non solo tra poveri e ricchi ma anche tra gli stessi membri dell’aristocrazia, i quali spesso (ma questo era di sicuro un problema più antico) vedevano assottigliarsi le loro proprietà terriere per questioni ereditarie. Così, a un certo punto, l’emigrazione parve una soluzione naturale e necessaria. Osserva Pierre Lévêque che nella storia greca:

“sotto l’apparente improvvisazione si scorge una costante: la stretta necessità per il genio degli uomini di supplire alla povertà delle risorse naturali, d’inventare nuovi mezzi per evitare l’autarchia, generatrice di morte”

– un giudizio questo, che si adatta benissimo anche all’evento della colonizzazione dell’VIII secolo, che fu appunto una tra le più grandiose imprese poste in essere dai Greci per sfuggire alla miseria e alla fame.

Per tale ragione, tra VIII e VII secolo, un po’ da tutta la Grecia (con la sola eccezione, forse, dell’Attica edel Peloponneso) presero avvio spedizioni, capeggiate solitamente da nobili (i quali ovviamente aspiravano a ricoprire nei nuovi territori un ruolo analogo a quello ricoperto nelle terre d’origine), alla ricerca di luoghi favorevoli per un insediamento stabile. Tali spedizioni si indirizzarono tanto a occidente della Grecia (sulle coste italiane, siciliane e spagnole) quanto a oriente (sia verso regioni già civilizzate come l’Egitto, dove col consenso degli stati ospitanti furono fondate alcune città-empori, che divennero floridi centri di interscambio con la madrepatria; sia verso regioni ancora “vergini”, come ad esempio quelle situate in prossimità del Ponto Eusino, dove su territori sottratti alle popolazioni locali furono fondati insediamenti politicamente indipendenti).

(b.1.2) i traffici e la produzione specializzata

L’evento della colonizzazione fu la premessa essenziale per la nascita della civiltà classica e, prima che si essa, di quella arcaica o pre-classica, come ben dimostra il fatto che per molto tempo le cosiddette colonie – soprattutto quelle asiatiche – costituirono l’avanguardia stessa del progresso sociale e culturale ellenico.

Dalla fondazione delle colonie il mondo greco ricevette un enorme impulso verso lo sviluppo dei traffici. Dal Vicino Oriente infatti provenivano manufatti finemente lavorati che suscitavano gli appetiti dell’aristocrazia, ma che richiedevano anche una classe mercantile che si impegnasse ad acquistarli e trasportarli. Mentre da altre zone (sia orientali sia occidentali), meno sviluppate ma spesso ricche di materie prime a buon mercato, provenivano beni primari (ad esempio il grano delle regioni del Ponto Eusino), che si riversavano poi sui mercati delle nascenti città-stato aumentando la disponibilità di beni di consumo e abbassandone i prezzi.

Ovviamente tali beni venivano scambiati sia con prodotti agricoli sia con manufatti provenienti dalle regioni della Grecia propriamente detta, o dalle sue colonie. Per questo il commercio diede notevole impulso, oltre che alla nascita di una nuova classe mercantile e affaristica, anche a quella di una classe di artigiani specializzati con sede nelle nascenti città da una parte (celebri in tutto il mondo divennero, ad esempio, i vasai attici e corinzi) e a quella di colture agricole specializzate, in contrasto con la più antica economia di sussistenza, dall’altra (la Grecia produceva grandi quantità di olio e vino che scambiava poi soprattutto con granaglie).

(b.1.3) la scrittura e la moneta

Ma dalle più evolute e raffinate civiltà del Vicino Oriente non giunsero in Grecia solamente prodotti di alto artigianato, ma anche nuovi preziosi spunti culturali (come ad esempio i rudimenti della scienza geometrica) e nuove e prodigiose invenzioni. In particolare, come già detto, dal Vicino Oriente i Greci ricevettero la scrittura alfabetica (e ciò anche se una più antica forma di scrittura, detta lineare A e B, si era largamente diffusa nel mondo egeo già nel periodo minoico e miceneo, eclissandosi poi completamente nelle epoche oscure del medioevo ellenico) e la moneta (ovvero piccoli e maneggevoli blocchetti di metallo – argento, oro, elettro, alle volte anche ferro – di forma cilindrica, il cui valore di scambio era fissato con esattezza e garantito dall’autorità dello stato).

Entrambe queste invenzioni ebbero conseguenze epocali sulla civiltà ellenica, tanto da costituire – soprattutto la seconda, dal momento che la prima in passato era già esistita – un vero e proprio spartiacque nella sua storia.

La scrittura alfabetica, basata anziché su simboli o ideogrammi sulla riproduzione diretta dei suoni linguistici (e inventata, pare, dai fenici a partire dal XVIII secolo a.C.), si caratterizzava rispetto alle precedenti forme di scrittura per una maggiore velocità e praticità. Essa pose le basi non solo per una registrazione scritta dei testi e delle idee (senza di essa, ad esempio, Omero o chi per lui non avrebbe potuto comporre e tramandare le sue opere) ma anche, quantomeno sui tempi lunghi, per una notevole democratizzazione della cultura. Tale invenzione dunque, assieme agli elementi già analizzati sopra, contribuì a favorire quel fondamentale processo di diffusione orizzontale del benessere e della cultura che caratterizzò il mondo greco dal periodo arcaico in avanti.

La moneta invece (inventata, secondo Erodoto, da Creso, re della Lidia, nel VII secolo) rese molto più semplici e agevoli rispetto al passato gli scambi commerciali, soprattutto quelli di carattere internazionale, accelerandone notevolmente lo sviluppo. Quanto all’importanza di questi ultimi per il mondo greco, giova qui citare ancora una volta un passo di Lévêque, che scrive: “la Grecia, del tutto incapace di vivere con un’economia autarchica, che le avrebbe procurato un tenore di vita miserabile, si apriva largamente [al commercio internazionale], in tutte le direzioni. Il movimento portava in sé la forza di un’espansione indefinita. […] L’industria e l’agricoltura erano parimenti stimolate ed il commercio diventava la base di un’economia in continuo sviluppo.” [corsivi miei]

(b.1.4) i nuovi orizzonti del mondo greco; l’emergere della lotta di classe e della politica

A partire dall’VIII secolo dunque, nuovi orizzonti sia mentali sia fisici, si aprirono al mondo greco, che ne uscì inevitalmente completamente trasformato.

Ma, oltre a quello appena citato e ad esso molto vicino, vi è anche un altro aspetto su cui è bene soffermarsi, e che Starr così riassume:

“nella vita greca entrò [nei periodi successivi alla grande colonizzazione] un nuovo elemento: lo sforzo consapevole di guadagnare vantaggi economici. Da allora in poi lo spirito economico, se così si può chiamare, diventò un fattore costante e di considerevole importanza nella civiltà ellenica, libera, com’essa era, dal peso di re assoluti e di potenti sacerdoti.” [corsivi miei]

Differenza essenziale tra la civiltà greca quale si andò sviluppando da questo periodo in avanti, e molte delle vicine civiltà asiatiche, non fu infatti la presenza e la centralità dei commerci (i quali infatti, si erano sviluppati molti secoli prima nel mondo asiatico, dove da sempre assolvevano un ruolo economico indispensabile), ma la struttura sociale ad essi sottesa.

Mentre infatti, i grandi stati come l’Egitto avevano sviluppato una vera e propria casta di funzionari preposta allo svolgimento delle attività mercantili (le quali, per tale ragione, rimanevano in gran parte sotto la tutela dello Stato), popoli come i Fenici, caratterizzati da ancora più antiche tradizioni commerciali, avevano sviluppato sin dai tempi più remoti un’aristocrazia mercantile che, attraverso i propri poteri economici e istituzionali, dirigeva le attività commerciali inquadrandole in una struttura sociale già consolidata.

Diversamente in Grecia, almeno in questo periodo, una vera e propria organizzazione statale non era ancora sorta, mentre l’aristocrazia (di carattere ancora essenzialmente guerriero e fondiario) non aveva particolari inclinazioni per i traffici. Essa di solito li disdegnava, tanto da preferire di finanziare le spedizioni altrui piuttosto che farsene direttamente carico (anche se, ovviamente, vi furono numerose eccezioni a questo trend generale!) Del resto, delegando tali attività ad altri soggetti sociali, essa non faceva altro che ribadire il proprio disprezzo nei confronti di ogni occupazione manuale e pratica.

Inoltre, almeno inizialmente, i ceti aristocratici dimostrarono scarso interesse anche per i guadagni derivanti dal commercio, che con piacere lasciavano quindi a quei plebei che si specializzavano in attività di mercato, preferendo ad essi le proprie antiche rendite fondiarie. Questi avventurieri del commercio avevano così la possibilità di arricchirsi attraverso la propria iniziativa economica indipendente, e di porre di conseguenza le basi della propria emancipazione dallo strapotere dei ceti nobiliari.

È dunque evidente, che gli sconvolgimenti economici conosciuti dalla civiltà greca a partire dall’VIII secolo in conseguenza dell’affermazione di queste trasformazioni di carattere mercantilistico, portarono tale civiltà a svilupparsi in direzione di un dinamismo sociale fino ad allora sconosciuto non solo ad essa ma anche al vicino mondo orientale: in direzione cioè di una accentuata lotta politica e sociale tra l’antica aristocrazia terriera e i ceti commerciali e artigianali emergenti, nonché (lo vedremo tra poco) tra queste due classi e una sempre più consistente fascia di popolazione (teti) espropriata dei propri già modesti appezzamenti terrieri. Tutti meccanismi questi, che rimasero fondamentalmente estranei alla storia delle vicine regioni orientali, nelle quali, per tutta una serie di ragioni già sommariamente delineate, non ebbero mai luogo turbamenti dell’organizzazione politica e sociale paragonabili a quelli appena descritti.

(b.1.5) la nascita della polis

Riflesso in gran parte delle trasformazioni alle quali si è appena accennato, fu la nascita delle poleis, ovvero delle città in senso proprio: luoghi di aggregazione di una parte sempre più consistente della popolazione per lo svolgimento sia di alcune attività economiche (artigianato, traffici e mercati) che di quelle politiche.

Polis era in origine il nome dato alla cittadella fortificata nella quale si rifugiavano gli abitanti delle campagne circostanti in caso di guerre e assedi. Al di fuori di essa non vi erano, appunto, che campagne e villaggi. Essa inoltre, probabilmente, era anche sede delle attività decisionali dell’aristocrazia e delle cerimonie di culto dedicate alle divinità del territorio.

Il fattore che conferì sempre maggior peso a una tale realtà fu senza dubbio, almeno inizialmente, la crescita delle attività di scambio, riflesso dell’aumento della produttività e del benessere che prese avvio nelle ultime fasi dell’età oscura.

L’agorà o piazza pubblica, che nei secoli successivi sarebbe divenuta il centro nevralgico della città-stato, sorse appunto come luogo di commercializzazione del surplus prodotto nelle campagne e nei villaggi. Con la colonizzazione inoltre, il flusso delle merci aumentò in modo notevolissimo, e con esse aumentarono anche la produzione artigianale e agricola specializzate, finalizzate in buona parte all’esportazione.

Attorno alla cittadella antica (la quale nei periodi successivi sarebbe divenuta l’acropoli, ovvero la città alta) si andarono così sviluppando sia un’intensa vita sociale che una serie di nuove strutture architettoniche. Proiettandosi oltre la dimensione dei semplici villaggi, il mondo greco iniziava ora a sviluppare delle vere e proprie città.

Le trasformazioni economiche appena descritte inoltre, portarono alla nascita di nuovi ceti, sia commerciali/artigianali che nullatenenti. Un fenomeno questo, che portò a un’ulteriore crescita dei centri urbani, i quali divennero tra l’altro la sede della lotta politica tra le due principali forze sociali del tempo: la classe dei nobili da una parte, e quella dei “nuovi ricchi” (cioè di quel ceto emergente che attraverso la propria iniziativa indipendente aveva conquistato un consistente potere economico e una decisa autonomia e che, proprio per tale ragione, si accingeva ora a rivendicare anche maggiori diritti decisionali o politici) dall’altra.

Proprio una tale situazione di accresciuta conflittualità e complessità sociale fu la base dei primi tentativi di pianificazione, attraverso leggi scritte, della vita politica del mondo greco. Le istituzioni ancora primitive dell’età tribale, nella quale era la forza più che la legalità a contare, iniziavano ora a lasciare il posto a quelle della polis, della città-stato vera e propria. Contemporaneamente, sorgeva il concetto stesso di cittadinanza: ovvero dell’essere cittadini, del godere del diritto di decidere assieme ad altri cittadini in merito alle sorti dello stato.

Oltre che centro economico, la polis diventava dunque gradualmente anche il luogo dello scontro e della concertazione degli interessi soprattutto dei ceti più influenti della società, il centro politico in cui venivano prese le decisioni riguardanti la città e i suoi territori circostanti. Nasceva così la città-stato.

(b.1.6) gli eserciti oplitici

Ma l’emergere dei profondi cambiamenti nella vita sociale e politica del mondo arcaico ai quali abbiamo appena accennato (e cioè, in sintesi, la nascita di veri e propri centri urbani e il progressivo ampliamento sociale della base politica) non deve essere imputato soltanto, e forse neanche principalmente, a fattori di carattere economico, ovvero all’estendersi dei mercati e della produzione specializzata. Sarebbe una indebita forzatura voler vedere in atto, nei secoli di cui stiamo parlando, meccanismi eccessivamente simili a quelli che, sul finire del moderno medioevo, portarono alla nascita di una vera e propria borghesia mercantile, base con le proprie attività di un radicale rivoluzionamento della mentalità e degli stili di vita del mondo europeo.

Un evento che invece, nel corso del VII secolo, diede un apporto decisivo ai cambiamenti di cui abbiamo appena parlato (e dei quali parleremo ancora avanti) fu la nascita di una nuova tecnica di combattimento, che si contrapponeva in modo radicale a quella, ancora incentrata sul ruolo della cavalleria e della nobiltà, dei secoli precedenti. Essa fu molto probabilmente inventata in Laconia, a Sparta, uno stato la cui espansione coloniale – a differenza di quella degli altri stati greci – fu diretta essenzialmente verso l’interno, anziché verso l’esterno, della madrepatria.

Al contrario di altre, la Laconia era infatti una regione abbastanza ricca e fertile da bastare a se stessa, seppure senza poter garantire ai suoi abitanti un tenore di vita eccessivamente alto. Esisteva però, ad ovest di essa, un’altra regione fertile, la Messenia. Anziché partire alla ricerca di terre remote, gli spartani preferirono dunque con una lunga guerra sottomettere gli abitanti di questa regione, appropriandosi, attraverso tributi, di una parte consistente dei prodotti del loro lavoro. (Anche se, per precisione, va detto che anche Sparta conobbe una sia pur modesta espansione coloniale in Italia, dove fondò la città di Taranto).

Per raggiungere questo traguardo gli spartani non soltanto lottarono stoicamente conto i propri nemici, ma escogitarono anche un nuovo tipo di formazione militare, la falange oplitica. Basata su una fortissima coesione tra i propri membri, che non erano più nobili cavalieri armati alla leggera bensì soldati appiedati e protetti con uno scudo e una pesante corazza di metallo, la falange oplitica ebbe, oltre all’effetto di rivoluzionare il modo di fare la guerra, anche quello di imprimere una svolta decisiva all’organizzazione interna delle nascenti città-stato.

Accadde infatti, che la parte di popolazione che poteva pagarsi l’attrezzatura necessaria per entrare a fare parte della falange oplitica, e che apparteneva appunto a quelle fasce benestanti che insidiavano il predominio della nobiltà, potesse in conseguenza di tale rivoluzione rivendicare diritti politici molto più ampi rispetto al passato. Il fatto di costituire un baluardo essenziale (soprattutto da che la falange oplitica si diffuse in tutto il mondo greco) per la difesa e la tutela dell’integrità della comunità e dei suoi territori, dava difatti a essa una “forza contrattuale” che in passato, anche considerato il maggior potere economico raggiunto, non aveva mai avuto.

Possiamo quindi affermare, riassumendo quanto abbiamo detto fin qui, che nel periodo arcaico i fattori economici, legati all’emergere di sempre più vaste attività di mercato, e quelli militari, legati alla nascita e all’affermazione della falange oplitica come nuova base dell’organizzazione bellica, contribuirono parallelamente all’estensione della base politica e decisionale della società e all’ampliamento della città come luogo di nuove attività economiche e politiche, nonché come centro direttivo dell’intero territorio statale.

In più, è bene osservare come gli eserciti oplitici contribuissero, in ragione dell'etica egualitaria che vi era a base, a rafforzare il senso di solidarietà e di reciproca identificazione tra i membri di quelle classi medie che ne componevano le fila. Tali eserciti erano infatti strutturati in modo che ogni soldato proteggesse il fianco del suo vicino, e ciò al fine di mantenere intatta la solidità della falange contro la forza d'urto del nemico. Attraverso l'appartenenza a un tale organismo perciò, le classi medie riaffermavano ulteriormente quei valori legalitari ed egualitari dei quali si facevano fautrici anche a livello politico e che costituivano la base della loro etica e della loro condotta di vita.

Anche nell'organizzazione militare dunque, troviamo in atto trasformazioni volte a limitare la disparità tra i membri della comunità, ovvero a rafforzare il sentimento d'appartenenza dei singoli individui a un corpo sociale basato su una fondamentale parità di diritti e di doveri, in opposizione all'etica individualistica ed elitaria prevalente nei periodi precedenti. “Il combattimento è ormai possibile solo in formazione serrata: per il guerriero non si tratta più di far rifulgere il proprio valore personale con grandi prodezze, ma di tenere bene il proprio posto tra i due vicini, brandendo la lancia con la destra e proteggendosi con lo scudo tenuto nella sinistra.” (Lévêque)

(b.1.7) i teti e il diffondersi della povertà

Fin qui abbiamo parlato della trasformazione economica del mondo greco tra VIII e VII secolo soprattutto in termini di estensione della ricchezza e del benessere. Ma non fu affatto soltanto così. Anzi, proprio nel VII secolo si collocò il momento culminante di un processo di impoverimento dei piccoli proprietari terrieri le cui origini – come vedremo – risalivano ancora all’età oscura.

Molti si sono chiesti come mai un tale fenomeno di pauperizzazione si collochi proprio in un periodo di fondamentale arricchimento sia spirituale che materiale della civiltà greca.

Tra le tante spiegazioni che si è tentato di dare, vi è quella legata all’emergere dell’economia monetaria. Secondo alcuni infatti, la diffusione della moneta e del calcolo economico sarebbero stati all’origine di una maggiore inflessibilità in campo tributario. Coloro che avevano contratto dei debiti – cioè di solito i piccoli possidenti – si sarebbero in altri termini trovati in una posizione sempre più difficile, sempre più pressati a saldare i loro debiti da parte dei loro creditori e, di conseguenza, sempre più spesso ridotti in miseria. È tuttavia difficile scorgere in un tale fattore, che comunque molto probabilmente ebbe un suo peso, la causa più profonda del drastico impoverimento dei piccoli proprietari terrieri verificatosi nel VII secolo.

Piuttosto si può ipotizzare che esso costituisse un elemento peggiorativo di un problema molto più profondo e antico, quello cioè della divisione ereditaria delle terre, il cui inizio coincise con l’inizio dello stesso periodo oscuro, e che nel corso dei secoli conobbe un costante inasprimento.

Un tale problema (che peraltro non riguardò solo la gente comune, ma anche la nobiltà) trovò, come si è visto, una parziale soluzione nel fenomeno della colonizzazione. Ma mentre gli aristocratici, anche quando perdevano parte della loro eredità, ne conservavano comunque largamente a sufficienza per il proprio mantenimento, al contrario la povera gente per le stesse ragioni andava incontro ad una serie di sempre più gravi difficoltà di sopravvivenza. Perciò molto spesso i piccoli proprietari si indebitavano con quelli più grandi (e i prestiti, al tempo, erano di solito fatti a tassi di usura) finendo in seguito, data l’impossibilità di saldare le proprie pendenze, per perdere il possesso delle proprie terre, a volte divenendone semplici gerenti, altre volte essendone allontanati e altre ancora venendo addirittura venduti come schiavi.

Mentre quindi le proprietà dei ricchi e dei nobili tendevano ad ampliarsi, quelle della gente comune finivano inesorabilmente per contrarsi e molti piccoli possidenti si riducevano al rango di nullatenenti. Da qui la nascita e lo sviluppo di un vastissimo problema sociale, che proprio nel VII secolo conobbe il suo apice. In un tale secolo infatti, il fenomeno dei proprietari caduti in miseria (i cosiddetti teti) ridotti a mendicare un salario come lavoratori a giornata nelle campagne o nelle città, conobbe il suo momento di massima gravità, contribuendo inoltre ad incrementare la popolazione dei nascenti centri urbani.

Il peso di queste crescenti masse di poveri non poté peraltro non farsi sentire, e anche pesantemente, nelle scelte politiche delle classi dirigenti, ovvero della cittadinanza ufficiale. I teti infatti, pur privi ovviamente di diritti politici, non mancavano di far pesare le proprie rivendicazioni in vari modi, a volte anche con la violenza. Quel che essi giustamente chiedevano (e che qualche volta, come vedremo, riuscirono ad ottenere) era: una redistribuzione più equa delle terre, un annullamento anche solo parziale dei debiti e l’abolizione della pratica abominevole della schiavitù per debiti.

Quanto ora detto ci permette dunque di aggiungere un altro importante tassello al ritratto precedentemente fatto della vita politica greca (descritta come una lotta tra la vecchia nobiltà terriera e le nascenti classi “borghesi” e imprenditoriali). Anche le classi povere infatti, seppure in modo non ufficiale, ebbero un loro peso nella vita politica del mondo greco arcaico e, successivamente, di quello classico ed ellenistico.

(b.2) Sviluppi culturali e politici del mondo greco nell’età arcaica

Qui avanti tenteremo, anche attraverso l’analisi di alcune fonti primarie (Omero, Esiodo e i poeti lirici), di esaminare gli aspetti principali della trasformazione culturale – e in seconda battuta anche di quella politica – del mondo greco arcaico. Non che, a nostro giudizio, i cambiamenti politici siano un effetto diretto di quelli culturali – ché anzi essi sono entrambi, almeno in buona misura, espressione della trasformazione dell’organizzazione materiale della società. Sarà tuttavia qui nostro interesse prevalente lo studio della trasformazione della mentalità e del modo di concepire l’esistenza avvenuto in questo periodo, mentre nel prossimo paragrafo ci dedicheremo specificamente alle sue forme di organizzazione politica.

Mostreremo dunque come la civiltà preclassica, e in seguito quella classica, furono il risultato dell’incontro tra due mentalità – l’una essenzialmente agonale, l’altra essenzialmente cooperativa – che nei secoli precedenti erano rimaste distinte. Un tale incontro infatti poteva verificarsi solo all’interno della città-stato: luogo di convivenza di classi sociali diverse, unite però dalla consapevolezza di appartenere ad una medesima realtà politica e quindi da valori almeno in parte condivisi.

(b.2.1) l’Iliade d’Omero: il rimpianto del passato

È ormai quasi universalmente accettata l’idea che Omero sia un personaggio mitico, come del resto molti altri personaggi della storia greca. Ma i miti, se ben interpretati, possono contenere molti indizi sulla verità dei fatti. In particolare, si narra che egli fosse un poeta originario della Ionia, ovvero di quella parte della costa anatolica antistante ad Atene che i Greci avevano iniziato a colonizzare molto prima dell’VIII secolo.

I Greci vissuti in quelle zone, relativamente distanti dalla madrepatria e circondati spesso da popolazioni ostili, erano forse più affezionati degli altri al bagaglio di leggende della loro terra e quindi più gelosi custodi di esse. Oltre a ciò la Ionia fu, nel periodo di rinascita del quale stiamo parlando, una della regioni greche più vitali sia sul piano del commercio che su quello della cultura.

È dunque assai probabile che fu proprio in Ionia che vennero raccolti e conservati (da un certo momento in avanti anche attraverso la scrittura) molti componimenti mitologici e celebrativi dei secoli precedenti, alcuni dei quali peraltro risalenti addirittura al periodo miceneo. L’Iliade e l’Odissea sono quindi due lunghe raccolte di canti opera di diversi aedi, ma legati tra loro da temi comuni, e (soprattutto nel caso dell’Odissea) organizzati in base a una trama ben articolata.

Il fatto di costituire il prodotto finale di un percorso poetico durato secoli spiega poi molte delle incoerenze che le caratterizzano: ad esempio la convivenza di aspetti tipici della civiltà micenea (uno per tutti, le armi in bronzo) con altri tipici dell’età oscura (le armi in ferro), i quali invece nella storia reale non poterono coesistere.

Inoltre, questi due poemi rivelano una diversa concezione di fondo, quasi certamente espressione del periodo e delle convinzioni dei loro rispettivi redattori. In base a questa osservazione, possiamo affermare che l’Iliade tradisce una visione delle cose più primitiva rispetto all’Odissea. Mentre infatti la prima è scritta (probabilmente ancora all’inizio dell’età arcaica) nel segno del rimpianto della civiltà guerriera del periodo oscuro, nella seconda invece si scorgono già chiaramente i segni di una sensibilità più moderna: segni che peraltro accomunano quest’opera, seppure molto alla lontana, agli altri autori analizzati in questo stesso paragrafo.

Cominciamo dall’Iliade. Abbiamo già citato alcuni brevissimi stralci di quest’opera nel precedente paragrafo, cercando di descrivere l’animo dell’uomo del periodo oscuro, i valori che guidavano e davano forma alla sua esistenza. Abbiamo visto come questi vivesse in una dimensione più pubblica che privata, tutto proiettato verso la gloria e il riconoscimento del proprio valore da parte dei suoi simili.

In effetti, l’Iliade è il poema che maggiormente riflette la temperie del periodo oscuro, ragion per cui si potrebbe dire che – ai fini del nostro discorso – non vi siano più ragioni per parlarne. Qui di seguito infatti, vogliamo più che altro ricapitolare quanto già detto aggiungendovi qualche osservazione, dal momento che i concetti fondamentali sono già stati esposti.

Oltre che dell’onore, si deve osservare come l’Iliade sia il poema della forza fisica celebrata come strumento di imposizione nonché – in qualche modo – come fondamento del diritto, inteso nel senso primitivo della vendetta per i torti (gli affronti) subiti. La ragione, anche solo come strumento di sopravvivenza fisica, ha in esso un ruolo del tutto secondario, si potrebbe dire quasi inesistente! Odisseo e le sue arguzie, ad esempio, vi compaiono in modo solo sporadico (anche se il personaggio in sé è tra quelli più ricorrenti dell’intera opera). Lo stesso episodio del Cavallo di Troia, pur cruciale nella vicenda della guerra narrata, non compare nell’Iliade bensì nell’Odissea.

Quanto agli dei olimpici (che spesso peraltro interagiscono direttamente con i personaggi del poema), essi risultano privi di qualsiasi senso di giustizia, e il loro comportamento è fondamentalmente analogo a quello dei loro omologhi terreni, altrettanto sfrontati e pronti a prevaricare i propri simili e a pretendere il rispetto per se stessi.

Ma al fondo di questo poema scorre anche una vena sotterranea di pessimismo cosmico: tutto – gli uomini semplici, gli eroi e gli stessi dei – è sottoposto all’inesorabile Destino (tuche) filato dalle Parche, che qualcuno (come ad esempio Achille) può conoscere in anticipo ma non modificare.

A differenza degli dei immortali, gli eroi dell’Iliade sono, pur nella loro grandezza, profondamente fragili, e non è certamente un caso che il protagonista di tutta l’opera, Achille, sia assieme il più potente e temibile, ma anche il più infelice dei Greci, consapevole del destino di morte che proprio sotto le mura di Troia presto lo attenderà.

Il sentimento di assoluto pessimismo che si riflette in quest’opera, del resto, doveva essere più che naturale nell’aristocrazia guerriera dell’epoca oscura, costantemente esposta dalla spaventosa frequenza delle guerre al pericolo della morte in battaglia. Unica consolazione alla precarietà della propria esistenza doveva essere per essa la speranza del ricordo nei tempi a venire: da esso e solo da esso infatti, sarebbe venuto un misero raggio di luce a rischiarare la tetra esistenza del defunto.

In ultimo, ai fini del nostro discorso, si deve osservare una volta di più come in questa visione pessimistica fossero già presenti per molti versi i semi di quell’atteggiamento e di quella mentalità problematica che avrebbero caratterizzato la civiltà greca dei secoli successivi.

(b.2.2) l’Odissea di Omero e l’opera di Esiodo: la Grecia all’epoca della colonizzazione

Abbiamo qui accomunato l’opera Esiodo e l’Odissea di Omero per una ragione molto semplice, che entrambe – pur nelle enormi differenze che le separano – sono espressione di un clima culturale decisamente mutato rispetto a quello che traspare dall’Iliade.

(b.2.2.1) l’Odissea

Sarebbe sbagliato dire che i temi dell’Odissea, passata a sua volta alla storia come opera di Omero, siano del tutto in disaccordo con quelli del precedente poema. Anche in essa infatti, sono ampiamente presenti l’esaltazione della figura del guerriero, ovvero del maschio combattente, il mito della nobiltà del sangue e quello della regalità assoluta. Ma questi temi sembrano anche essere superati da altri, di natura molto diversa.

Odisseo, personaggio principale del poema, è definito, sin dai primi versi del primo canto, come un “eroe ingegnoso” e un “gran giramondo”, definizioni che ci introducono subito ai temi fondamentali della prima parte dell’opera: quelli della curiosità, dell’indagine e soprattutto dell’astuzia.

Balza all’occhio la differenza con l’Iliade, nella quale la forza fisica prevale in modo assoluto sulla ragione. Qui, al contrario, più del vigore animalesco conta la sottigliezza del pensiero, il tempismo nel prendere le decisioni in situazioni estreme, in una parola la sagacia. Per la prima volta nella letteratura greca, dunque, la ragione assume la dimensione di valore assoluto, e questo suona quasi profetico, visti i poderosi sviluppi intellettuali che caratterizzeranno il mondo ellenico nei secoli futuri.

Assieme all’intelletto il poema esalta poi, quantomeno implicitamente, la capacità dell’uomo di divenire l’autore del proprio personale destino (anche se l’antico fatalismo non è del tutto superato). Il pessimismo ontologico dell’aristocrazia guerriera sembra dunque essere qui mitigato da una visione decisamente più ottimistica.

Gli dei poi, che nell’Iliade si divertono ad assistere alle disgrazie e alle sofferenze umane e che parteggiano per diletto o per ripicca per l’una o per l’altra parte, qui si riuniscono invece a consesso per deliberare – in base a criteri di giustizia ed equità – sulla sorti del protagonista, che sanno essere ingiustamente perseguitato da Poseidone: una bella differenza dunque da quelli, spregiudicati e immorali, dell’Iliade!

Infine, al posto dei combattimenti qui troviamo i viaggi. E in essi è dato forse di scorgere un’eco della grande “diaspora” greca dovuta alla colonizzazione dell’VIII secolo (ma anche, si intende, a quelle precedenti). Così come, al posto del valore del coraggio e della forza fisica troviamo quello, apparentemente più pacifico, della civiltà in opposizione allo stato ferino (un contrasto splendidamente esemplificato nel IX canto dalla dicotomia Odisseo-Polifemo) nonché, tra le righe, la presunzione greca (poi europea) della propria superiorità rispetto agli altri popoli.

Nella seconda parte dell’opera, in cui Odisseo torna clandestino in patria riuscendo alla fine a riaffermare i propri diritti regali, emergono altri temi, molti dei quali senza dubbio ancora più lontani dall’universo semantico dell’Iliade.

Essenzialmente possiamo ridurli a due: il valore intimistico della famiglia e degli affetti, e quello della patria, dell’onore e della regalità (temi presenti anche nel poema precedente, ma che qui assumono sfumature nuove).

Anche la figura della donna, inoltre, che nell’Iliade era relegata al ruolo di ornamento e di simbolo di potere maschile, acquista qui un significato molto più alto. A partire da Penelope, vera eroina femminile del poema, per arrivare a Nausicaa e a Calipso, essa assume uno spessore psicologico e poetico inedito, che peraltro tenderà nuovamente a perdersi nella letteratura dell’età classica, espressione di una civiltà maschilista e misogina.

Ma l’Odissea è ricca anche di descrizioni che rimandano ad un mondo senza dubbio molto più complesso e articolato rispetto a quello dell’età oscura: quello delle nascenti città-stato. A tale riguardo osserva, per esempio, Pierre Lévêque che: “La sovranità nell’Odissea appare chiaramente come un’istituzione nuova: la sovranità delle poleis, temperata dalla presenza di una potente aristocrazia.”

Se questa osservazione è vera, allora la lotta tra Odisseo e i rapaci pretendenti al trono di Itaca, i proci, sarebbe essenzialmente la trasfigurazione poetica di quella ben più reale tra il sovrano e una nobiltà terriera sempre pronta ad eliderne il prestigio e magari a prendere il suo posto.

(b.2.2.2) Esiodo

Leggendo Esiodo entriamo in un mondo molto diverso da quello descritto nei poemi omerici, un mondo fatto non più di eroi ma di gente comune, quel popolo negletto e immiserito di cui abbiamo più volte parlato, sia a proposito dell’età oscura che dell’età arcaica.

Ma, a dispetto di ciò, le due opere di Esiodo a noi giunte (Teogonia e Opere e Giorni) hanno con l’Odissea anche alcuni elementi in comune. Ovviamente si tratta di affinità molto vaghe, sul piano dei contenuti più generali, ma tanto più importanti se si considera la lontananza del nostro autore (umile possidente terriero vissuto alla fine dell’VIII secolo in Beozia, una regione priva di sbocchi sul mare e dipendente da un’economia prevalentemente agraria) dal mondo sia fisico che spirituale dell’Odissea.

La Teogonia è un’opera che cerca di definire una sorta di albero genealogico degli dei, di porre ordine tra la massa estremamente eterogenea delle divinità accumulatesi nel corso dei secoli e aventi le origini più diverse. Essa dunque probabilmente costituiva, nelle intenzioni dell’autore, un tentativo di razionalizzare il mondo della fede nonché di superare la divisioni tra i membri della società in materia teologica (e non si dimentichi che le diverse concezioni religiose erano in gran parte espressione delle differenze di classe all’interno della società).

Secondo questo tipo di interpretazione, quest’opera può essere perciò letta come una conseguenza della crescente unità che si andò determinando, a partire dall’VIII secolo in avanti, sia (orizzontalmente) tra le varie regioni che componevano il mondo greco, sia (verticalmente) tra le classi che ne componevano la struttura sociale.

Opere e Giorni è invece un poemetto didascalico che Esiodo dedica a suo fratello Perse, al quale dispensa una lunga serie di consigli sul ‘buon vivere’ (“O Perse, tu ascolta Giustizia e la violenza non favorire”). Esso rivela quindi presumibilmente molti aspetti della mentalità e degli stili di vita propri del luogo e della classe sociale da cui il suo autore proviene ed è molto più interessante del precedente ai fini del nostro discorso.

I temi che, almeno a nostro giudizio, sono in esso maggiormente significativi sono quelli inerenti gli dei, visti come inflessibili custodi della giustizia; il lavoro (è difatti presente in Esiodo una vera e propria etica del lavoro, del tutto inconcepibile tra i membri delle classi aristocratiche); la sana competizione tra persone della stessa condizione (segno, come vedremo, dell’emergere di uno spirito agonale anche in seno alle classi umili).

Già nell’Odissea gli dei avevano conosciuto una parziale conversione morale, ma non erano certo ancora divenuti i supremi custodi dell’ordine e della giustizia, anche perché tale opera era – come l’Iliade del resto – destinata molto probabilmente ad allietare i banchetti dell’aristocrazia e in genere gli eventi conviviali. Le opere di Esiodo, al contrario, erano caratterizzate da uno spirito decisamente austero, e avevano come scopo essenziale quello di educare i propri uditori.

Nella visione esiodea, gli dei sono riuniti in una gerarchia molto rigida, culminante nella figura di Zeus, il quale, dice ad esempio l’autore,

“facilmente dona la forza, facilmente abbatte chi è forte, facilmente umilia chi è grande e l’umile esalta, facilmente raddrizza chi è storto e dissecca chi è florido”.

Il destino umano, improntato alla sofferenza e al lavoro, è del resto giustificato come la conseguenza di un peccato originale, quello di Prometeo che ingannò Zeus e che, rubandolo agli dei, consegnò agli uomini il fuoco. Per tale ragione il Padre degli dei, dopo aver punito Prometeo nel modo che tutti sanno, inventò la donna (Pandora), la quale fece dilagare nel mondo tutti i mali costringendo gli uomini a vivere nel dolore e nella fatica!

Nella visione esiodea dunque, ogni cosa ha una precisa ragion d’essere, nulla avviene a caso o per il capriccio di qualcuno. Ed è difficile non vedere come essa sia, per molti versi, l’erede della concezione e della religiosità popolare dei secoli oscuri. Certo, vi sono tra esse anche delle differenze: ad esempio il fatto che Esiodo abbia fatto propria la fede nelle divinità olimpiche e posto in loro subordine quelle terrestri, che in origine dovevano essere state invece l’oggetto esclusivo della religiosità delle masse. Oppure il mutato ruolo della donna, che diviene per Esiodo la “sorgente di tutti i mali”, mentre nelle culture egee primitive e, seppure certamente in grado minore, in quella popolare del periodo oscuro aveva ricoperto un ruolo socialmente positivo.

Dal tema della dannazione, della cacciata dal paradiso terrestre, si passa poi a quello del lavoro: la vita è intesa da Esiodo esclusivamente come impegno e fatica, in linea con quella che da secoli doveva essere l’esistenza dei piccoli possidenti terrieri, che vivevano prevalentemente di un’economia autarchica, e che in più erano spesso sottoposti ai capricci dei “re mangiatori di doni”, come li definisce l’autore, ovvero di una nobiltà ingorda e rapace che non si faceva certo molti scrupoli ad abusare del proprio potere.

Ma dal discorso di Esiodo emerge anche un’idea nuova rispetto al passato: quella della contesa. Egli parla per l’esattezza di due tipi di contesa: l’una giusta e l’altra degna di biasimo.

La prima è quella che segue le regole della giustizia, che è onesta e “risveglia chi è pigro al lavoro […] e il vasaio [rende] geloso del vasaio, e il fabbro del fabbro, il mendico del mendico, il cantore del cantore.” Basata sulla sana competizione, sul rispetto delle regole, essa non entra in conflitto con il principio di equità e di giustizia, poiché premia chi è maggiormente degno di essere premiato. In essa vediamo forse la traduzione sul piano ideale di uno stile di vita mutato rispetto al passato, di una società più dinamica, nella quale attraverso l’iniziativa economica personale è data anche agli umili la speranza di un sia pur timido miglioramento delle proprie condizioni.

La cattiva contesa è invece quella che non segue le regole della “retta giustizia che, venendo da Zeus, è la migliore”; è quella di chi, come Perse, cerca di impadronirsi di ciò che non gli spetta “prodigando i tuoi [di Perse] omaggi ai re mangiatori di doni, i quali a giudicare con questa giustizia sono ben disposti.”

Ed è appunto quest’ultima componente, nella quale già si realizza una prima fusione tra lo spirito agonale delle classi alte e quello di giustizia delle classi popolari, e che inoltre preannuncia gli stessi fondamenti etici della polis matura fondata sulla lotta tra individui giuridicamente eguali, ciò che rende più interessante e degno di nota ai nostri occhi il pensiero di Esiodo.

Dunque, se volessimo riassumere in poche parole quanto abbiamo detto in questo paragrafo, dovremmo affermare l’emergere nei testi qui analizzati di due sfere di idee tra loro complementari: da una parte quella che tende alla valorizzazione dell’ingegno, della ragione e quindi della dignità dell’uomo; dall’altra (soprattutto in Esiodo) quella che afferma il principio della competizione sociale, non più appoggiato però – come in passato – sul concetto di forza bruta ma su quello di legalità, come basi ideali di un mondo nuovo, che pone fine al lungo periodo di oscurità che l’ha preceduto.

(b.2.3) la lirica: il mezzo espressivo della città-stato

Il periodo arcaico della storia greca conobbe l’emergere di orientamenti in decisa controtendenza rispetto ai caratteri dell’età oscura, orientamenti peraltro già visibili nei testi e negli autori citati e analizzati nel precedente paragrafetto, ma riconoscibili con chiarezza ancora maggiore nell’opera dei cosiddetti poeti lirici.

La poesia lirica è un genere letterario sorto nel VII secolo (ma la cui fioritura si colloca nel corso di un po’ tutta la storia greca) e che costituì la prima vera espressione culturale del nuovo mondo delle città-stato. In essa, intesa non solo come fatto poetico ma anche come evento sociale, possiamo infatti riconoscere i caratteri essenziali della civiltà greca quale emerse dalle trasformazioni avvenute a partire dall’VIII secolo, riassumibili come già detto nella nascita e nello sviluppo delle poleis e nel graduale superamento delle antiche organizzazioni sociali di stampo tribale, basate su legami familiari e clientelari.

I caratteri di questo nuovo mondo furono appunto un nuovo senso della collettività, ovvero il sentimento da parte di classi prima rigidamente separate dell’appartenenza ad una medesima entità politica e sociale, e un nuovo spirito di affermazione personale, che non passava più esclusivamente attraverso la forza fisica e il coraggio guerriero, ma anche attraverso il rispetto delle leggi e della comunità. Altri elementi erano poi la scoperta del valore della ragione, e la rivalutazione della dimensione immanente della vita, contro l’antico spirito d’ascesi indirizzato verso la gloria nel caso delle classi aristocratiche, e verso la salvezza ultraterrena in quello delle classi umili.

L’uomo greco iniziava insomma, dopo lunghi secoli di anarchia sociale e di povertà materiale e culturale, a darsi un nuovo ordine e a riscoprire così il significato della legalità contro quello della violenza, acquisendo al tempo stesso una nuova fiducia in se stesso, nelle proprie capacità critiche, nel valore intrinseco e nella godibilità della propria esistenza terrena.

(b.2.3.1) il poeta e la comunità

Sia dal punto di vista dei contenuti che da quello sociale la lirica non fu affatto un fenomeno ‘monolitico’. Le occasioni all’origine della composizione e della lettura di opere liriche potevano essere di diversi tipi: celebrative (in tal caso il poeta componeva, di solito su commissione, dei versi dedicati a un qualche evento particolare o cerimoniale, solitamente religioso), simposiali (il poeta componeva allora per allietare o arricchire un evento conviviale), agonali (quando più poeti si misuravano in una gara poetica).

Anche i componimenti erano poi di differenti tipi: monodici, nel caso di una poesia di natura soggettiva e intimista (che esprimeva il punto di vista dell’autore su qualche problema a lui particolarmente caro); corali, nel caso della poesia pubblica (il cui oggetto o il cui spunto era costituito da fatti che riguardavano l’intera comunità politica).

Oltre al fatto di non attingere più soltanto al patrimonio dei miti, un altro aspetto che distingue in modo fondamentale la lirica dal genere epico è l’importanza che in essa riveste l’autore, in qualità di persona singola.

Nell’epica, l’aedo (autore del testo) o il rapsodo (suo esecutore) costituivano agli occhi del pubblico un qualcosa di secondario. I loro componimenti infatti dovevano rievocare un patrimonio di miti e leggende il cui valore era già tutto nei soggetti trattati (i cui personaggi, oltre a divertire, costituivano degli esempi di virtù guerriere non esenti da difetti e meschinità), mentre coloro che fungevano da intermediari tra la tradizione e gli spettatori rimanevano sullo sfondo. Ciò era dovuto al sostanziale disinteresse della civiltà che tali opere aveva prodotto verso la persona, verso l’individuo come tale. Essa era infatti tutta proiettata verso l’ideale, l’assoluto, il mito. In quest’ottica, poco importava della personalità dell’autore, il quale probabilmente restava sconosciuto ai fruitori della sua stessa opera.

Al contrario, già con Esiodo e successivamente con i poeti lirici, il poeta iniziava a divenire un soggetto dotato di valore indipendente rispetto ai propri componimenti. Un fatto che è segno di una forte rivalutazione dell’essere rispetto al dover essere, del contingente rispetto all’ideale. La comunità (fosse essa l’intera comunità cittadina, come nel caso della lirica corale, o una più ristretta cerchia di individui, come nel caso della lirica monodica) cominciava a interessarsi all’autore come tale, alla sua sensibilità e alla particolare visione delle cose che esprimeva attraverso i suoi canti.

Ma l’aspetto di rivalutazione dell’individuo non è l’unico che qui ci interessa. La poesia lirica implica infatti anche un nuovo rapporto tra il poeta e i suoi uditori, che a sua volta è la manifestazione di un cambiamento profondo avvenuto nella civiltà arcaica rispetto ai secoli precedenti.

Non solo difatti la comunità si interessa all’individuo, ovvero al poeta, ma quest’ultimo a sua volta si interessa alla comunità, ed anzi ne ha un imprescindibile bisogno, nel senso di trovare in essa l’unico vero termine di confronto. Si crea insomma a partire da questo periodo una dialettica insopprimibile tra individuo e comunità: una dialettica che costituisce l’essenza stessa della città-stato e la cui crisi – non a caso – coinciderà con la crisi di quest’ultima.

Guardando indietro, ai secoli passati, si sarebbe portati a concludere che l’antico spirito individualistico aristocratico si sia fuso con quello delle classi popolari, e che ciò abbia determinato la nascita di una società nuova, in cui queste due componenti – non più separate da una distanza sociale e culturale insormontabile – si richiamano e si completano a vicenda.

Del resto, la compresenza, non solo all’interno di questo genere, ma anche alle volte dei suoi stessi autori, di argomenti intimistici e personali (opinioni, enunciazioni di principi morali, ecc.) e di argomenti di carattere civico (esaltazione o denigrazione di personaggi, eventi e valori di dominio collettivo) conferma la realtà di una tale duplicità e complementarietà di atteggiamenti.

Mentre infatti da una parte la lirica corale (pubblica) si rivolge all’insieme dei privati cittadini, in qualità di soggetti politici attivi ed autonomi, dall’altra e complementariamente la lirica monodica (personale e spesso finanche intima) “non è mai, per il poeta lirico, un colloquio con la solitudine del proprio animo ma, al contrario, un’apertura verso l’esterno, verso i compagni che sanno identificarsi in lui” [corsivi miei] (Marina Cavalli).

Si può dunque inferire da ciò che, all’interno della nuova realtà delle città-stato, la dimensione collettiva rimanda a quella privata così come, a sua volta, quest’ultima rimanda alla prima: ciò che contribuisce a spiegare la coesistenza di tematiche e autori apparentemente tanto distanti all’interno di uno stesso genere e, in ultima analisi, di una stessa stagione culturale. La polifonia che riscontriamo nel genere lirico – peraltro non solo nel periodo arcaico di cui ci stiamo occupando, ma anche in quelli successivi – riflette dunque la ricchezza e la complessità della vita politica e culturale del mondo ellenico.

Se, ad esempio, mettiamo a confronto personaggi come Solone e Tirteo, o come Archiloco e Teognide, possiamo scorgere punti di vista diametralmente opposti tra loro, le cui radici peraltro affondano spesso, prima che nei loro autori, nelle società stesse da cui provengono. Eppure, nonostante tali enormi diversità, essi furono tutti poeti di uno stesso periodo, di una stagione culturale che, pur molto variegata al suo interno, fu comunque caratterizzata da disposizioni comuni.

Solone per esempio, oltre che un riformatore ateniese, fu un grande e rinomato poeta che fece dei valori dell’equilibrio, dell’equidistanza dalle parti in conflitto e quindi del pluralismo la sua filosofia di vita oltre che di azione politica.

Egli anticipava per molti aspetti l’ideologia del periodo democratico, ragion per cui fu in seguito giustamente ritenuto uno dei padri dell’Atene classica. Cantava ad esempio di essersi posto tra le due fazioni (ovvero, l’aristocrazia e le plebi prive di terre) “come pietra di confine”, impedendo così una guerra civile. Egli, inoltre, affermava che “la città perisce per colpa dei potenti, e il popolo / per ignoranza si fa schiavo di un monarca”, ma anche che “è giusto criticare il popolo: / ciò che ora esso possiede, non l’aveva mai visto / nemmeno in sogno!”

Insomma, la poesia e il pensiero di Solone erano un inno alla moderazione e alla libertà personale di fronte a ogni intransigenza ideologica (sia popolare sia nobiliare), oltre che a quello spirito di corpo che doveva legare tra loro i membri dell’intera cittadinanza a prescindere dalle divisioni di classe, e come tali preannunciavano i futuri sviluppi democratici della città ateniese.

All’opposto, la poesia di Tirteo era espressione di una civiltà, quella spartana, spiccatamente guerriera (e in questo molto simile a quella omerica) nonché basata sull’adeguamento incondizionato del singolo alle norme e ai valori imposti dalla comunità.

Il valore della libertà individuale, basilare non solo ad Atene ma anche nel resto del mondo greco, non era qui altrettanto importante. Gli Spartiati difatti, pressati dall’esigenza di tenere in soggezione sia le popolazioni vicine che gli iloti (schiavi di stato) nei propri territori, avevano sviluppato una cultura militare particolarmente inflessibile, che comportava una cieca obbedienza del singolo all’autorità costituita (vedremo avanti la struttura politica e giuridica del regno spartano).

Anche a Sparta però, fortissima era la dialettica tra individuo e comunità, laddove il primo si identificava con la seconda al punto da ambire di sacrificare ad essa la propria giovinezza, nella convinzione – come scrive Tirteo – che

“La morte è bella, quando il prode combatte / in prima fila per la patria. / Ma lasciare la patria e i vecchi campi / e mendicare è più di tutto tremendo / e vagare con la madre e il vecchio padre / e i figlioli piccoli e la sposa”.

Dal confronto tra Solone e Tirteo emerge chiaramente la differenza di assetto politico e ideologico che poteva sussistere tra le diverse popolazioni greche, ma anche al tempo stesso la loro affinità su alcuni punti essenziali: il senso della comunità e dell’appartenenza a una medesima realtà politica da parte di tutti i cittadini, i nuovi valori patriottici e – come vedremo meglio avanti – l’antico desiderio di riconoscimento personale.

Diversa, ma altrettanto radicale, è la contrapposizione tra Archiloco e Teognide, due nobili entrambi caduti in disgrazia ed esiliati dalle rispettive patrie, ma opposti nel contegno verso le proprie origini. Al realismo scherzoso del primo, capace se non di rinnegare almeno di ironizzare sui valori della propria classe (“Qualcuno dei Sai si vanta dello scudo, / arma perfetta, che presso un cespuglio abbandonai non volendo […]”), fa da contraltare il cupo risentimento del secondo verso un mondo nuovo, quello della borghesia cittadina, di un popolo sempre più impegnato ad arricchirsi e di una società “imbastardita” e succube del mito della ricchezza.

Celebri sono i versi coi quali Teognide descrive le città moderne, la loro trasformazione progressiva:

“La città è sempre la città, ma la gente è un’altra, / sono quelli che un tempo – senza legge, senza giustizia – / logoravano una pelle di capra intorno ai fianchi / e pascolavano come cervi, fuori dalle mura”.

Così come evidente appare la sua indignazione per una società a suo avviso corrotta, nella quale gli aristocratici si apparentano molto spesso con i nuovi ricchi, i parvenus, solo per rimpinguare le proprie ricchezze.

“Sola venerazione è la ricchezza: il nobile s’incrocia con il plebeo, / il plebeo col nobile – è l’oro che fa la razza.”

Anche in questo caso dunque, vediamo una contrapposizione netta sul piano dei contenuti, che si accompagna però a una condizione sociale simile (quella del nobile decaduto, appunto). Il contrasto tematico non è perciò qui, come nel caso precedente, imputabile a una diversità oggettiva (quale, appunto, l’appartenenza a società molto diverse tra loro), bensì essenzialmente soggettiva (legata cioè a profonde differenze di personalità).

Infine, non si deve dimenticare la presenza, già all’interno della lirica del VII secolo, di tutta una serie di autori – quali Mimnermo e Saffo – che potremmo tranquillamente definire intimistici e sentimentali.

Quanto a questi due, essi furono entrambi nobili e come tali espressione di una classe che stava perdendo gran parte del proprio antico predominio sociale e politico (vedremo avanti il modo in cui le lotte per il potere presero forma in questo periodo), ma che non per questo poteva dirsi sconfitta e tantomeno estromessa dal potere. Forse anche per questo, molti membri di essa si aprivano (seppure a modo proprio e con alcune ovvie riserve) a questa nuova società, caratterizzata rispetto ai loro standard da una maggiore apertura sociale e culturale e da una maggiore dinamicità.

Al contrario di altri poeti di origini nobiliari (come ad esempio Alceo, o lo stesso Teognide) i quali fecero della lotta in favore della propria classe e contro le rivendicazioni popolari il senso della propria esistenza e della propria opera poetica, sia Mimnermo che Saffo si dedicarono soprattutto alla scoperta di se stessi, della propria interiorità. Con loro dunque, e per la prima volta, il sentimento soggettivo, la visione personale e intima delle cose assurse a tema poetico di valore universale.

Entrambi questi poeti fecero dell’amore (Saffo), o del godimento dei frutti della giovinezza (Mimnermo), il tema principale delle loro opere, nelle quali peraltro introdussero una grande novità, cioè la descrizione dei propri stati d’animo più intimi, delle vibrazioni più segrete del proprio cuore e del proprio corpo.

Mimnermo scriveva ad esempio: “Subito la pelle mi si inonda di sudore, / e mi smarrisco, quando vedo il fiore, / bello e gioioso insieme, di giovinezza”, e Saffo: “Subito mi sobbalza, appena / ti guardo, dentro il mio petto il cuore, / e voce più non mi viene e mi si spezza / la lingua […]”

In questi ed altri autori, dunque, l’antico egotismo aristocratico pare essere messo al servizio dell’analisi psicologica, della conoscenza di se stessi, e quindi della scoperta dell’individuo come tale, a prescindere dalla sua collocazione all’interno di un dato contesto sociale e politico. Eppure, come ricorda Marina Cavalli, “è il confluire nel momento simposiale di queste due precise volontà – riconoscimento di coesione spirituale e apertura alla libera introspezione – che dà ragione dell’ampio spazio dedicato all’autobiografia, o comunque a riflessioni profondamente individuali, nella poesia lirica: solo un uditorio che condivida intimamente le esperienze e le abitudini socio-culturali del poeta può nutrire interesse per i suoi casi personali”. [corsivi miei]

Dunque, la forte complementarietà tra momento personale e momento collettivo fu uno degli aspetti salienti della cultura greca di questo periodo e, con essa, delle sue espressioni letterarie. Tutto ciò può apparire strano a un moderno, abituato per una lunga serie di ragioni a contrapporre queste due dimensioni, sentite l’una come opposta e in qualche modo escludente l’altra. Ma ciò non fu vero per i periodi e i luoghi di cui stiamo parlando, nei quali la scoperta della dimensione politica (che prendeva la forma di uno scontro tra gruppi di potere relativamente piccoli) e quella dell’individuo, del valore della sua singolarità e irripetibilità, andarono di pari passo, attraverso un percorso nel quale tali termini si completavano e – soprattutto – si implicavano vicendevolmente.

(b.2.3.2) altri aspetti della poesia lirica

Altri aspetti insiti nel fenomeno della poesia lirica che qui vogliamo affrontare, sono da una parte quelli agonali e dall’altra quelli analitici. I primi avvicinano tale fenomeno soprattutto alla politica, i secondi invece alla filosofia.

(b.2.3.2.1) la componente agonale

Come evento sociale, la lirica è impregnata dei valori agonali tipici della civiltà greca. Certo, essi si manifestano qui in forme nuove rispetto alla civiltà primitiva descritta da Omero, ovvero in forme “civili”, dal momento che divengono parte integrante della vita stessa della città-stato, la quale dà loro una forma inedita attraverso le proprie leggi e le proprie consuetudini.

Innanzitutto, l’evento poetico è spesso già di per se stesso un evento “agonale”, ovvero – come già si accennava – una gara al termine della quale vi è un vincitore. E quest’aspetto di competizione, fondamentale un po’ in tutta la letteratura greca, si trasmetterà in particolare al teatro, le cui rappresentazioni avverranno sempre nel contesto di un concorso tra autori.

Oltre a ciò, i componimenti sono molto spesso mezzi per celebrare la vittoria di un atleta in una gara sportiva, o la fondazione di un tempio, o più in generale un evento attraverso il quale una persona o un gruppo di persone si mettono in luce agli occhi della cittadinanza.

Al pari della lotta politica dunque, anche la lettura delle opere liriche acquista, oltre a quello intrinseco, anche un secondo significato: essa diviene cioè l’occasione per uno o più membri della comunità politica di imporsi all’attenzione degli altri. E ciò non può apparire per nulla strano, se si considera che quella greca è, ora più che mai, una società in cui più individualità si confrontano tra loro all’interno e per mezzo di una struttura politica definita, di cui la libertà e l’iniziativa personale costituiscon0 un aspetto non solo fondamentale ma addirittura fondante.

Certo, anche in passato – e non meno che ora – quella agonale era stata una componente essenziale della vita sociale greca. Ma adesso essa assume anche sfumature del tutto nuove rispetto ai secoli oscuri.

Per comprendere la differenza che separa queste due stagioni della storia greca, può essere particolarmente indicato confrontare la poetica di Omero (e soprattutto dell’Iliade) con quella di Tirteo, il cantore di quei valori guerrieri che costituirono la base stessa dell’esistenza di Sparta.

Scrive molto bene, a tale proposito, Guido Carotenuto: “La poesia di Tirteo ha creato un nuovo concetto di eroismo. Anche l’eroe omerico combatte e muore per la gloria, ma per la sua gloria, come suprema espressione della sua personalità.  L’eroe di Tirteo muore per la patria, offre la sua vita al sublime ideale della polis. E la patria riconoscente dona al suo eroe onore in vita, immortalità di gloria dopo la morte.” [corsivi miei]

L’eroismo e il culto dell’individuo, insomma, non si collocano più, per così dire, “nel vuoto”, bensì all’interno di una realtà definita, la città-stato, e sono profondamente ed anzi essenzialmente legati alle aspettative che questa nutre verso i propri cittadini. È quindi all’interno della città-stato che tali valori ricevono il loro riconoscimento, la loro gratificazione e la loro stessa ragione d’essere.

Sempre Tirteo, a proposito dell’uomo valoroso in battaglia, cantava:

“Perde la vita cadendo in prima fila / – gloria per la città, il popolo, il padre –, / col petto trafitto, e lo scudo / umbilicato e la corazza. / I giovani lo piangono, e i vecchi / e la città intera lo rimpiange con dolore: / la sua tomba è illustre, e i suoi figli / e i figli dei figli e la stirpe intera.”

Un ottimo commento e una chiara conferma, ci pare, di quanto appena detto.

(b.2.3.2.2) la componente analitica

Il secondo tema su cui vogliamo soffermarci è quello dell’approfondimento analitico. Nella poesia lirica, infatti, si manifesta anche la tendenza ad un’analisi spregiudicata del reale, in tutti i suoi aspetti.

La poesia epica si soffermava sempre sull’insieme: i componimenti epici erano difatti delle specie di litanie che andavano da un punto ad un altro di una trama già fissata, quella della grande narrazione mitica.

Ora invece il poeta – anche quando si soffermava su un evento mitologico – lo faceva comunque con estrema libertà, scegliendo ciò che in esso gli appariva maggiormente degno di attenzione e sviluppandolo a proprio arbitrio.

Abbiamo già visto quali fossero i principali temi affrontati dagli autori lirici, da quelli politici a quelli morali a quelli intimi. Ma – a prescindere dal tipo di tematica trattata – l’autore ne parlava e ragionava sempre con grande spregiudicatezza, come se si trattasse di un fatto reale, concreto, di stretta attualità (e molto spesso, infatti, lo era!)

Spirito d’osservazione, libertà nei temi e nelle tesi sostenute (le quali erano peraltro sempre riflesso della personalità e delle convinzioni personali dell’autore), a volte anche un atteggiamento pragmatico e moralmente disinvolto: era dunque iniziata un’epoca nuova della storia greca: l’epoca della ragione!

(b.3) Principali forme di organizzazione politica dell’età arcaica

Qui avanti vogliamo soffermarci sulle forme d’organizzazione propriamente politica che caratterizzarono il mondo greco nel periodo arcaico. Argomento non facile, data l’estrema varietà di situazioni che lo caratterizzarono. Proprio per questa ragione, la nostra analisi si muoverà essenzialmente su due piani: uno più generale; e un altro invece specificamente legato alla situazione spartana e a quella ateniese.

Infine, faremo alcune considerazioni sulla natura dello stato e della politica in Grecia, con un occhio alle differenze rispetto al mondo vicino orientale.

(b.3.1) Monarchia, oligarchia, tirannide

Anche se la città-stato in Grecia non era sempre esistita, la polis al contrario aveva origini antichissime. Essa era stata in epoca oscura, più che un villaggio al pari degli altri, il luogo in cui si svolgevano le attività decisive per la comunità: da quelle legate al culto degli dei a quelle politiche, che vedevano il re confrontarsi con l’aristocrazia, o meglio con un ristretto Consiglio di nobili (Bulè) che la rappresentava. Infine, fatto per nulla trascurabile, in caso di guerra essa era stata il rifugio dell’intera popolazione.

Con la rinascita economica della Grecia (IX – VIII secolo) la polis iniziò a diventare un centro in cui si riuniva, prima solo saltuariamente, poi in modo sempre più continuativo, una parte consistente della popolazione per scambiare i propri prodotti. Essa iniziava cioè a non essere più monopolio delle classi alte, per diventare un luogo accessibile anche al popolo.

L’entrata di quest’ultimo all’interno delle mura della città – le cui dimensioni e struttura rendevano ancora molto distante da un vero e proprio centro urbano – segnò l’inizio di un lungo processo che culminò nella nascita della città-stato propriamente detta. Tale evento si pose difatti all’origine non solo della partecipazione popolare alla vita politica, ma anche del sorgere di un nuovo concetto di comunità, fondata su leggi scritte (ovvero sul concetto di legalità) e su istituzioni che andavano al di là delle organizzazioni tribali, fino ad allora base della vita associata.

E anche se la democrazia vera e propria era un traguardo ancora molto lontano a venire, a partire da tale rivoluzione la storia greca coincise con un processo – più o meno accentuato, a seconda dei casi – di ascesa e di affermazione politica del popolo e di restringimento dei privilegi delle classi aristocratiche.

Qui avanti cercheremo di ripercorrere questo cammino dalle sue fasi iniziali fino a quelle che precedettero l’età classica.

(b.3.1.1) La monarchia: la prima forma della città-stato

Nella prima fase del suo sviluppo la polis era ancora dominata da uno o più re (basileis). Al di sotto di questi vi era l’aristocrazia (rappresentata dalla Bulè) e al disotto di entrambi il popolo (radunato nell’Ecclesia).

Il potere del sovrano affondava le proprie radici nelle epoche oscure, ma aveva comunque un fondamento e una reale ragione d’essere anche a quel tempo: tale carica infatti si poneva a base e a garanzia dell’unità e della pace dell’intera comunità, fondandosi inoltre, in quanto egli era anche il maggiore possidente terriero, su una ricchezza e una potenza effettive. Il sovrano svolgeva compiti giudiziari, militari e religiosi, ma il suo potere era ben lungi dall’essere privo di limiti. Al suo fianco stava difatti un consiglio di anziani notabili capace di condizionarne le scelte.

La decisionalità politica era dunque essenzialmente frutto della dialettica tra la nobiltà e il sovrano, mentre all’Assemblea popolare (ovvero l’insieme dei piccoli e medi possidenti che avessero raggiunto la maggiore età) spettava di approvare per acclamazione le loro decisioni. A tale scopo, essa si riuniva periodicamente in un luogo pubblico, di solito la piazza della città, dove tali decisioni le venivano comunicate. Se poi l’Ecclesia avesse anche qualche capacità di influenza su di esse è cosa difficile a dirsi, ma tale potere – se pure esisteva – era comunque certamente marginale.

Come si vede, la situazione qui descritta non è molto distante da quella del periodo oscuro, nel quale il popolo era ancora totalmente soggiogato dai poteri nobiliari e dall’autorità del re. Tuttavia, rispetto ad esso, entravano ora in gioco anche degli elementi nuovi: la città o polis come luogo di aggregazione dell’intera popolazione adulta e possidente, e una prima forma di partecipazione di quest’ultima (anche se fondamentalmente ancora in veste di semplice spettatrice) alle attività decisionali delle classi dominanti.

(b.3.1.2) L’oligarchia e il dominio delle classi aristocratiche (eunomia)

In una fase più matura dello sviluppo delle poleis, si ebbe la scomparsa dei sovrani. Tale evento, che nella maggior parte dei casi fu il risultato di un processo graduale e quindi pacifico (e ciò anche perché la carica regale, pur snaturata, continuò di solito a esistere ricoprendo ruoli più specifici), fu determinato essenzialmente da due fattori.

Da una parte infatti col tempo la nobiltà ampliò ulteriormente le sue proprietà terriere, avvicinandosi così alla ricchezza e alla potenza del sovrano e vanificandone le ultime velleità di dominio; dall’altra la città-stato, in quanto entità politica stabile e organizzata in modo collegiale, ne rese sempre più superflua la presenza. Essa aveva difatti oramai sviluppato nuove forme di organizzazione politica, inconciliabili con un potere che (pur con inevitabili condizionamenti) tendeva comunque a decidere tutto dall’alto.

Tuttavia la nobiltà, che aveva appena vinto sul sovrano, si trovava ora di fronte a un nemico ben più temibile: il popolo, il cui peso sociale diveniva col tempo sempre più consistente.

E infatti, i due processi concomitanti – di cui abbiamo già parlato – di arricchimento di una parte di esso attraverso i mercati e di impoverimento di un’altra per ragioni patrimoniali, ne rendevano la presenza politicamente sempre più inquieta e significativa. Se difatti alcuni, in qualità di possidenti ricchi (e in seguito anche di opliti) rivendicavano maggiori diritti politici, altri, soprattutto attraverso la richiesta di redistribuzione delle terre, creavano tensioni sociali sempre più profonde e pericolose per il potere costituito.

La nobiltà, che si era appena impossessata delle leve decisionali della società a scapito dei re, vedeva insomma minato il suo incontrastato predominio ad opera delle classi popolari. È un buon esempio questo – uno dei tanti nella storia – di come il momento di maggiore splendore di una classe sociale possa corrisponda a volte con l’inizio del suo declino.

Certo, indiscutibilmente i nobili ebbero un ruolo politicamente egemone nella storia delle città-stato arcaiche, ma già a partire dall’VIII secolo dovettero convivere con una realtà – quella del popolo, appunto – che progressivamente e inesorabilmente andava minandone l’egemonia sociale e politica.

Segno di una tale elisione del potere nobiliare fu senza dubbio, tra VIII e VII secolo, la nascita delle prime legislazioni scritte, ad opera dei primi legislatori.

Costoro, a quanto pare, erano figure pacificatrici elette col consenso sia dei nobili che dei plebei, quindi dell’intera cittadinanza. Ma attraverso la loro opera essi negavano all’aristocrazia guerriera un privilegio di cui aveva goduto per alcuni secoli: quello di amministrare a suo capriccio la giustizia e la vita della società. Mentre fino ad allora infatti, le leggi erano state tramandate oralmente all’interno delle grandi famiglie (le quali perciò le avevano facilmente manipolate sulla base delle proprie convenienze), a partire dall’opera di tali legislatori, appunto in quanto scritte, esse divennero un patrimonio comune dell’intera comunità.

Il che non significa chiaramente che, soprattutto se paragonate a quelle delle età successive, tali leggi fossero particolarmente favorevoli al popolo. Ma il fatto stesso di essere fissate una volta per sempre ed esposte pubblicamente costituiva per quest’ultimo un’enorme conquista, tanto che possiamo dire con Pierre Lévêque che “l’opera dei grandi legislatori segna una data fondamentale nella storia del diritto e assicura il primo trionfo del demos sui nobili.”

Eppure, nonostante tutto ciò, quest’epoca di essenziale predominio fu guardata dalla nobiltà dei periodi successivi con grande nostalgia, anche se proprio in essa prese corpo quella secolare lotta tra aristocratici e plebei (ovvero tra ricchi e poveri) che, in forme ovviamente aggiornate, avrebbe caratterizzato tutti i successivi periodi della storia greca, fin oltre l’età ellenistica.

Di tale lotta troviamo i segni – come abbiamo già ricordato – nei versi di molti poeti lirici del VII secolo. L’esempio più celebre è costituito senz’altro da Teognide, il quale tra le altre cose si lamentava dell’ingresso nella città di soggetti “che un tempo – senza legge, senza giustizia – / logoravano una pelle di capra intorno ai fianchi / e pascolavano come cervi, fuori dalle mura”: in altre parole per l’ingresso nelle mura urbane del popolo, della povera gente.

Anche Alceo poi, nobile costretto all’esilio proprio da uno di questi legislatori, un certo Pittaco di Mitilene, mostra nei suoi versi grande acredine sia verso il popolo che verso i suoi difensori. In un frammento, per esempio, egli canta con gioia la morte di uno di essi. (“Era ora! Bisogna prendere la sbornia. / Si beva a viva forza: è morto Mirsilo.”)

Ed è sempre in questo periodo, che la nobiltà – ancora detentrice dei più rilevanti poteri politici, ma al tempo stesso consapevole della propria difficile condizione – elabora quegli ideali etici ed estetici attraverso i quali cerca di dare una giustificazione alla propria supremazia politica. Ricorda a tale proposito Giudo Carotenuto come “nel momento in cui cominciano ad avvertire la crisi che va investendo la loro posizione di privilegio, i nobili rendono a se stessi consapevoli le basi della loro ideologia nei principi della kalokaghatìa, della sophrosyne, della aretà, quasi per opporre un’estrema resistenza alle nuove forze sociali che li minacciano”.

Ed è altresì interessante osservare come questi ideali di saggezza, equilibrio e moderazione (dei quali peraltro parleremo ancora), sarebbero stati in seguito, almeno in parte, fatti propri da quelle stesse classi che stavano guadagnando terreno a spese della nobiltà. Il che peraltro ci induce a riflettere, una volta di più, su come la città-stato fosse per molti aspetti una realtà unitaria, basata cioè su valori trasversali, accettati da tutti i suoi membri senza rilevanti distinzioni di rango o di classe. La città-stato fu insomma il risultato della confluenza e dell’amalgama in un unico luogo fisico di diverse componenti ed apporti culturali, ciò che creò – pur nelle inevitabili diversità di fondo – quell’ambiente relativamente omogeneo che fu una delle basi essenziali del suo buon funzionamento.

Nonostante i conflitti di cui abbiamo appena parlato, comunque, si può dire che l’età arcaica fu rispetto alle successive quella maggiormente dominata da sistemi politici eunomici, basati cioè sul “potere dei pochi”, dei “migliori” (aristoi), dei nobili. (Eunomia infatti in greco significa “buona (eu) legge (nomos)”, ovvero legge della minoranza o della nobiltà).

Soprattutto nella prima fase di questa età (diciamo all’incirca l’VIII e la prima metà del VII secolo), a prevalere nettamente furono infatti i sistemi oligarchici, nei quali il potere era detenuto da pochi (oligoi) mentre la maggioranza della cittadinanza rimaneva, anche se non del tutto esclusa, comunque sostanzialmente ai margini della decisionalità politica vera e propria. Solo a partire dal VII secolo, come vedremo, iniziarono a diffondersi le tirannidi, espressione tra l’altro dell’ansia di affermazione politica e sociale delle masse popolari.

Infine, anche al fine di sostanziare quanto appena detto con dei dati concreti, vogliamo fare un breve cenno alle più rilevanti trasformazioni istituzionali che ebbero luogo nel mondo greco durante questa prima fase dello sviluppo delle città-stato.

Tali cambiamenti furono essenzialmente di due tipi: da una parte vi fu una trasformazione radicale della carica del sovrano a vantaggio dei poteri politici della nobiltà e dei suoi organi di governo; dall’altra vi fu un ampliamento dei poteri politici popolari, attraverso in particolare l’istituzione di cariche elettive che accrebbero di molto l’influenza dell’Ecclesia.

Quanto al primo punto, il titolo regale – come si è già visto – non venne quasi mai cancellato dalle trasformazioni politiche in corso, ma piuttosto convertito in una carica che, a vita o a termine che fosse, era comunque sempre circoscritta a un qualche aspetto o a una qualche funzione specifica della vita civile (da quelle militari, come per esempio a Sparta, a quelle sacerdotali o di altro tipo). In ogni caso – ciò che del resto era stato vero anche in precedenza – a ricoprire tale carica erano sempre esponenti della classe nobiliare, i quali dopo l’eventuale scadenza del mandato entravano a far parte del Consiglio degli anziani o dei notabili (Bulè o Gerousia) ovvero del principale organo politico dell’aristocrazia.

Veniamo ora al’Ecclesia. Essa conobbe in questo periodo due sviluppi concomitanti e per molti versi opposti. Da una parte infatti, il maggior peso politico acquisito dal popolo (soprattutto dalle fasce più benestanti) incoraggiò rispetto al passato una maggiore partecipazione da parte degli aventi diritto alle riunioni pubbliche. Dall’altra, e parallelamente, il processo di impoverimento e di proletarizzazione di buona parte della popolazione minuta (formazione dei teti) diminuì il numero di coloro che facevano veramente parte dell’Ecclesia, in quanto essi erano appunto selezionati sulla base di criteri patrimoniali. Né fu un caso se, da un certo momento in avanti, almeno per le città-stato più popolose, le riunioni iniziarono a non tenersi più nell’agorà, ormai divenuta troppo angusta, ma in luoghi esterni al vero e proprio tracciato urbano (ad Atene, per esempio, il colle della Pnice).

Un altro aspetto essenziale di queste trasformazioni istituzionali fu poi la nascita di magistrati eletti dal popolo, alle volte attraverso il metodo ancora primitivo dell’acclamazione, altre invece attraverso un vero e proprio voto popolare. Tali magistrati, in virtù soprattutto della propria posizione intermedia tra l’Ecclesia e gli organi di governo nobiliari (a loro volta elettivi), potevano infatti (e anzi dovevano) vigilare contro il pericolo di un eccessivo accentramento dei poteri tra una ristretta élite di cittadini.

Dei cambiamenti istituzionali appena descritti, vedremo alcuni esempi concreti quando parleremo dei casi di Sparta e Atene.

(b.3.1.3) La tirannide e l’ascesa delle classi popolari

Molto spesso, anche se non sempre, il dominio politico dell’aristocrazia tra VII e VI secolo venne insediato dall’avvento delle tirannidi.

Contrariamente ai legislatori che, pur ostili al potere incontrastato della nobiltà, venivano comunque elevati alla propria carica attraverso regolari elezioni (e infatti Aristotele li definisce “tiranni a tempo determinato”), i tiranni veri e propri erano personaggi che si imponevano alla comunità con la forza, di solito attraverso una guardia armata personale composta da soldati mercenari, con la quale dopo la presa del potere si difendevano dal pericolo di attentati e aggressioni.

Ma il fenomeno della tirannide non ebbe, almeno in questo primo periodo, connotati soltanto negativi. Ciò poiché, pur in contrasto con le tradizioni della città-stato, essa assolse il compito di favorire l’affermazione economica e sociale delle classi popolari (soprattutto di quelle emergenti) stabilendo, anche con confische ed espropri ai danni delle grandi proprietà, un maggior equilibrio patrimoniale tra i cittadini ricchi e quelli poveri. In tal modo, i tiranni ridiedero spesso dignità alla povera gente, ponendo i presupposti di un’ulteriore affermazione del demos in campo politico (ad Atene, per esempio, la caduta della tirannide coincise con l’inizio delle riforme di Clistene, primo atto della vera e propria instaurazione democratica).

Se volessimo individuare il motivo per cui – specialmente in epoca arcaica – tanto frequenti furono i colpi di mano dei tiranni, non potremmo che trovarlo nell’impossibilità obiettiva per le classi popolari di scardinare un sistema di potere ancora dominato politicamente dall’aristocrazia, e fondamentalmente concepito (nonostante alcune concessioni, anche importanti) a vantaggio di essa. Il tiranno difatti – che solitamente era un membro della nobiltà locale, più raramente un avventuriero esterno – si faceva interprete di un malessere diffuso soprattutto tra il popolo, e aveva nell’appoggio di quest’ultimo il fattore essenziale alla base della propria stabilità.

Non si deve tuttavia dimenticare che molti tiranni (tra i quali Pisistrato d’Atene o Pittaco di Mitilene) brillarono per mitezza ed equilibrio, e seppero almeno in certa misura mettere d’accordo tra loro le controparti politiche, conquistandosi il rispetto di parte almeno della classe di cui erano nemici.

Quanto all’aspetto istituzionale, i tiranni di solito non modificarono in modo rilevante l’assetto degli stati nei quali si insediarono. Piuttosto, essi si limitarono a ricoprire cariche di grande prestigio e a dare ai propri uomini (spesso di estrazione non nobiliare) magisteri cruciali per il controllo dello stato, riuscendo così a dominarne la vita politica senza alterarne la struttura.

Ma le tirannidi sono un fenomeno interessante anche perché espressione dei profondi stravolgimenti sociali ed ideologici che attraversavano la Grecia tra VII e VI secolo. La conflittualità tra l’aristocrazia e la nascente “borghesia” infatti, trovava la sua traduzione sul piano politico in quella tra regimi aristocratici e tirannici. Non a caso, le oligarchie erano nemiche giurate delle tirannidi e Sparta – stato guida della Lega del Peloponneso, la coalizione oligarchica per eccellenza – fece della lotta contro tali regimi uno dei punti fermi della sua politica internazionale (essa aiutò ad esempio gli ateniesi a liberarsi dalla tirannide di Ippia, anche se un tale evento ebbe poi conseguenze non pronosticate né certo desiderate).

I tiranni d’altra parte, seppure di solito di estrazione aristocratica, erano i prototipi stessi dell’individuo che si ribella all’ordine vigente e ne scardina gli automatismi e le logiche di potere, e come tali ispiravano grande ammirazione nei parvenus di recente ricchezza, divisi da profondi contrasti di carattere ideologico dalle élite dominanti. Inoltre, essi portavano spesso avanti una politica coloniale che favoriva lo sviluppo commerciale e dava ai ceti emergenti nuove e cospicue occasioni di arricchimento. Infine e non in ultimo, i tiranni cercavano di solito, nei limiti del possibile, di arricchire la città con nuovi edifici e monumenti: un fatto da cui molti imprenditori locali, che riuscivano ad accaparrarsi gli appalti pubblici, traevano grandi vantaggi economici.

I regimi tirannici insomma, entavano in forte sintonia tanto con un clima di ribellione sociale e politica serpeggiante nelle città-stato (e in particolare, più orientate in senso mercantilistico), quanto – come già Aristotele notava nella sua Politica – con gli interessi economici delle classi imprenditoriali emergenti. (Le quali, del resto, come vedremo tra poco parlando della storia ateniese, proprio in questo periodo acquisivano in molti stati maggiore importanza politica attraverso l’introduzione di criteri censuari per l’accesso alle cariche amministrative.)

In sintesi, si può quindi dire che l’etica della ricchezza e dell’affermazione attraverso il lavoro – in opposizione a quella aristocratica basata sulla stirpe e sulla nascita – trovò una traduzione mirabile, anche se indubbiamente ulteriormente perfettibile, nelle politiche economiche e sociali portate avanti dai tiranni.

Ciononostante, sarebbe un errore credere che questi trovassero il loro più solido sostegno politico in una massa di persone pur sempre relativamente ristretta, qual era appunto quella costituita dai nuovi ricchi e dalle “classi medie”. Al contrario, tale sostegno proveniva ad essi soprattutto dai possidenti più poveri (la cittadinanza minuta), quando non addirittura dagli stessi teti. Classi che, oberate dai debiti e dalle necessità, erano pronte – anche attraverso mezzi illeciti – a favorire l’insediamento di individui spregiudicati (demagoghi) che promettessero loro un miglioramento delle proprie condizioni materiali.

Non vi è dubbio, d’altra parte, che i tiranni in genere non amassero particolarmente la “plebaglia”, come dimostra ad esempio il fatto che tendessero a impedirne l’accesso all’interno delle mura della città. Ma è anche vero che essa conobbe sotto di essi un si pur modesto miglioramento dei propri standard di vita, che ripagò molto spesso con un’accanita fedeltà politica. Né furono rari casi come quello di Pisistrato, il quale acquisì il favore e il sostegno delle masse popolari attraverso promesse che finì poi per non mantenere, se non in misura trascurabile, per lanciarsi in imprese espansive che avvantaggiavano invece soprattutto le classi imprenditoriali emergenti.

Dunque, volendo dare un giudizio d’insieme su queste prime tirannidi (l’ondata successiva si collocò nel periodo tardo-classico, ed ebbe caratteri ben più dispotici e violenti) possiamo dire che esse furono espressione di un ambiente in profonda trasformazione, ovvero dell’individualismo spregiudicato di una classe – quella affaristica e imprenditoriale, appunto – che desiderava a tutti i costi affermare i propri interessi e i propri orizzonti all’interno di stati che, nonostante le innegabili aperture politiche e istituzionali dei periodi precedenti, restavano ancora comunque fondamentalmente oligarchici, aristocratici ed eunomici.

Si può concludere allora che tali regimi assolsero, nella storia politica greca, un ruolo progressivo, sia poiché favorirono un’ulteriore affermazione in ambito politico di classi che per molti versi ne restavano ancora escluse, sia perché riequilibrarono almeno in parte quelle grandi sperequazioni di ricchezza fondiaria che minavano la pace e la stabilità delle società dell’epoca, ancora essenzialmente agricole.

(b.3.2) Un modello assoluto: Sparta

In un episodio della Guerra del Peloponneso di Tucidide, alcuni ambasciatori Corinzi debbono perorare la causa della guerra contro Atene di fronte ai cittadini spartani. La differenza essenziale tra i due principali sistemi politici e sociali della Grecia viene da essi stigmatizzata in un modo semplice ed efficace: gli Spartani infatti sono definiti “lenti”, gli ateniesi “veloci”.

Le due definizioni stavano ovviamente a significare l’una il conservatorismo degli spartani, i quali avevano conservato pressoché inalterate le proprie istituzioni originarie, l’altra invece il dinamismo degli ateniesi, la cui storia al contrario era stata ricca di trasformazioni sia interne (sociali, economiche e politiche) sia esterne (formazione dell’impero marittimo). Non a caso Atene e Sparta si ponevano, agli occhi dei loro connazionali, come i due poli di una dialettica che caratterizzava l’intero mondo delle città-stato greche: quella tra l’assoluta eunomia od oligarchia, e – anche se essa fu il traguardo di secoli di aspre lotte interne – l’assoluta isonomia, ovvero la democrazia.

In effetti, Sparta era il luogo in cui i sistemi oligarchici nella loro forma più antica (quelli sorti cioè con la scomparsa del potere dei sovrani) si erano meglio conservati: a differenza di tale città-stato infatti, tutti gli altri stati greci, anche quelli più conservatori, avevano col tempo conosciuto delle trasformazioni, delle modernizzazioni. Né una tale unicità spartana deve essere ritenuta causale, dal momento che i fattori alla base di quelle trasformazioni (ovvero essenzialmente: la moneta, il commercio e il diffondersi del nuovo spirito imprenditoriale) a Sparta non avevano mai potuto penetrare, se non in modo molto superficiale, in particolare nella vita sociale e nei costumi dell’aristocrazia dominante (gli spartiati) che sola deteneva le redini del potere politico.

Inoltre – fatto questo, del tutto inusuale per tutte le altre città-stato greche – i membri dello stato spartano vivevano in una condizione di forte eguaglianza giuridico-politica e, in gran parte almeno, patrimoniale, quale premessa necessaria per conservare la propria coesione di fronte al pericolo, costantemente presente, di una ribellione delle popolazioni asservite sia dentro che fuori i propri confini.

D’altronde, l’esigenza di mantenere un saldo dominio su popoli soggiogati da antichissima data (in gran parte dal tempo delle invasioni doriche, avvenute tra XIII e XII secolo) aveva determinato a Sparta un’organizzazione sociale rigidamente stratificata, la quale costituiva l’immagine stessa dell’oligarchia nella sua forma più ‘pura’, ovvero di una società basata sull’idea della stirpe e su criteri di nascita che inibivano ogni forma di dinamismo sociale.

Quello spartano era un sistema tripartito. In esso, vi erano innanzitutto gli spartitati, che costituivano la casta dominante (l’unica a godere dei diritti politici); al di sotto degli spartiati, vi erano poi i perieci (letteralmente, “quelli che abitano (oikeo) attorno (perì)”) cui erano delegate attività come l’artigianato o il commercio; ed infine, al di sotto di tutti, vi erano gli iloti che coltivavano le terre degli spartiati e che infondo altro non erano che degli schiavi di stato.

Qui avanti parleremo di questa città-stato da tre differenti punti di vista, i quali si integrano e si completano tra loro: quello genetico; quello strutturale o sociale; quello politico e istituzionale.

(b.3.2.1) Il percorso genetico di Sparta

Lo stato spartano – o meglio ciò che lo precedette – sorse dall’invasione e dall’espropriazione violenta delle regioni della fertile Laconia (la valle dell’Eurota) da parte dei Dori. Questi ultimi sottomisero le popolazioni achee che li avevano preceduti, riducendole in gran parte in schiavitù o comunque in una condizione di forte minorità. Già molto tempo prima delle guerre contro la vicina Messenia, dunque, la società spartana aveva iniziato a fondarsi sull’asservimento di popolazioni costrette a lavorare a vantaggio dei propri membri.

Ma un tale ordinamento richiedeva anche, per forza di cose, una grande coesione sociale tra i componenti dell’aristocrazia dominante, la cui vita si organizzò perciò molto presto attorno ad alcuni centri d’aggregazione stabile che ne rimarcavano la distanza dalle popolazioni sottomesse, soprattutto da quelle schiavizzate. Molto probabilmente dunque, in questa regione, la cittadella primitiva (la polis) costituì da subito l’epicentro di un processo di assembramento non occasionale, bensì stabile, dell’intera popolazione possidente. A partire da queste considerazioni si può quindi osservare come, in Laconia, le città – seppure in una forma particolare, caotica e poco strutturata – si affermassero prima che nel resto della Grecia e che ciò avvenisse inoltre per ragioni di natura più militare e difensiva che economica.

Gli spartiti inoltre, sin dai tempi più antichi, e con un andamento crescente soprattutto a partire dalla guerra messenica, improntarono tutta la propria esistenza a rigidissimi valori militari e comunitari cui erano iniziati fin dalla prima infanzia, secondo un processo formativo del tutto particolare, chiamato agoghè, che si svolgeva sotto la direzione e la vigilanza dello stato.

Un’altra differenza infine, tra Sparta e le altre città-stato greche (in particolare Atene) fu il precoce superamento dei particolarismi legati alle grandi famiglie nobiliari, ognuna delle quali tradizionalmente deteneva su un territorio determinato un proprio potere, che esercitava ovviamente a spese dell’autorità dello stato. Tali poteri feudali, formatisi in un lontano passato grazie alla debolezza dell’istituto monarchico, non furono altrettanto rapidamente superati dalle altre poleis greche, politicamente dominate da quella stessa aristocrazia terriera che di tali influenze era detentrice. A Sparta invece, i vari capi tribali si trovarono costretti molto presto a sacrificare le proprie ambizioni particolaristiche in nome proprio di quella necessità di coesione che li aveva spinti a federarsi in un vero e proprio stato. Non a caso, tale città costituì agli occhi dei greci lo stato forte per eccellenza e come tale fu spesso anche molto ammirata.

Un residuo delle antiche divisioni territoriali e familiari tuttavia rimase, nella costituzione dei periodi maturi, nella doppia monarchia (diarchia) che vedeva i membri delle due famiglie dominanti dell’aristocrazia – gli Euripontidi e gli Agiadi – ricoprire un ruolo di primissimo piano nella vita sociale dello stato, in qualità di supreme cariche militari.

Sin dalle fasi iniziali della loro storia, quindi, Sparta e in generale le società laconiche furono caratterizzate da una separazione nettissima tra una casta di dominatori e una di dominati; dalla tendenza dei popoli dorici conquistatori a costituirsi in una comunità il più possibile compatta e inattaccabile dall’esterno, a spese dei propri particolarismi interni (e ciò, ovviamente, in risposta al continuo pericolo di ribellioni da parte delle popolazioni sottomesse); da una spiccata attitudine a coltivare valori di carattere militare, basati sull’idea di una violenza organizzata, sistematicamente e incessantemente perseguita.

(b.3.2.2) La società spartana

Quella spartana era – come si è già detto – la società oligarchica e tradizionalista per eccellenza, in quanto fondata non sul censo, che poteva crescere o diminuire a seconda delle circostanze, ma sulla stirpe, che nessun evento poteva modificare. A base di essa vi erano quindi alcune caste chiuse, cui corrispondevano, per così dire, tre “stirpi” o ceppi etnici fondamentali: quello degli spartiati (le popolazioni doriche); quello dei perieci (le popolazioni laconiche, non doriche); e quello degli iloti (le popolazioni achee antecedenti le invasioni del XIII secolo).

Quanto ai primi (sui quali abbiamo più informazioni), essi potevano decadere dal proprio rango e divenire perieci, anche se nessuno che non fosse uno spartiate per nascita poteva divenirlo per meriti personali. Proprio questo aspetto di chiusura d'altronde, avrebbe finito sui tempi lunghi per costituire uno degli anelli deboli di tutta la società spartana, determinando un’elisione progressiva del numero dei suoi cittadini e rendendo sempre più difficoltoso il loro dominio sul resto della popolazione, che per converso tendeva a crescere.

Gli spartiati vivevano nelle zone più fertili della Laconia, nei pressi del fiume Eurota, su territori che, inoltre, avevano il vantaggio di essere naturalmente isolati e protetti da quelli vicini, abitati da popoli sottomessi e quindi ostili. La Laconia tendeva difatti ad essere divisa in tre cerchi concentrici, il più interno dei quali era appunto quello occupato dagli spartiati, quello intermedio invece dai perieci, e l'ultimo o il più esterno dagli iloti.

I perieci dunque, in questo come in altri aspetti della vita sociale spartana, svolgevano un compito cruciale: quello cioè di proteggere gli spartiati dal mondo esterno, da essi giustamente avvertito come una minaccia mortale alla propria integrità.

Lo stato spartano, del resto, inteso più come l'incarnazione della collettività che come un insieme di liberi individui (come invece, almeno indicativamente, accadeva nel resto della Grecia), giocava un ruolo essenziale nella vita di ogni singolo cittadino, guidandone il percorso esistenziale dalla nascita alla morte, spezzandone ogni velleità personale e inquadrandolo in schemi rigidissimi di comportamento.

Centrale – come si è già accennato – in questo percorso di maturazione era l'agoghè, l'educazione dello spartiate, che già a sei anni veniva sottratto alla famiglia e iniziava a condurre un'esistenza comunitaria (egli, ad esempio, mangiava sempre con i coetanei in mense pubbliche) improntata a una disciplina rigidissima, dalla quale apprendeva (o avrebbe dovuto apprendere) l'obbedienza e il rispetto assoluto della comunità e dei suoi valori, la capacità di sopravvivere anche in circostanze estreme e, più in generale, ad essere un perfetto soldato. Non a caso, quello spartano era l'unico popolo di soldati professionisti che la Grecia conoscesse. Per il resto, gli eserciti ellenici erano composti da cittadini che si sottoponevano ai rigori della disciplina militare solo in caso di necessità.

D'altronde, bisogna anche ricordare che il durissimo training formativo che abbiamo appena descritto terminava verso i trent'anni, età nella quale lo spartiate riacquisiva – almeno in parte – la propria libertà personale e poteva accedere alle cariche pubbliche e all'Assemblea, ovvero alla vita politica. Dopo i sessant'anni poi, iniziava per lui un'esistenza relativamente comoda, non priva di agi, che dimostra la venerazione che la società spartana aveva verso gli anziani, incarnazione e testimonianza vivente della tradizione, essenziale in una comunità che faceva della propria immutabilità il primo e il più importante dei suoi caratteri.

Un altro aspetto da considerare è quello riguardante la proprietà delle terre. La società spartana infatti, pur comunistica nel senso che i suoi membri conducevano un'esistenza comune (palestre, mense, assemblee, ecc.), non lo era affatto nel senso della proprietà collettiva delle terre e in genere dei beni. Unica proprietà collettiva erano gli iloti, che venivano distribuiti in quantità eguali tra i membri della comunità. Le terre tuttavia erano ereditarie e quindi private, e inoltre – attraverso matrimoni ed eredità – potevano col tempo accrescersi o diminuire.

L'importanza della ricchezza privata è resa manifesta dal fatto che per essere cittadini spartani era necessario conservare una certa quota di proprietà fondiaria, al di sotto della quale si veniva declassati al rango di perieci. Questa era una delle tante prove cui lo spartiate era sottoposto nel corso della sua vita. Egli doveva, inoltre, essere in grado di badare economicamente a se stesso, di pagare le spese della propria mensa e di quella dei figli, e di offrire alle figlie una dote per maritarsi.

Pur fortemente uniti tra loro dunque (homoioi o Eguali, appunto), gli spartiati non conoscevano il valore della solidarietà e della generosità reciproca: la quantità di ricchezza da essi posseduta era uno dei tanti segni del loro valore personale (altri erano ad esempio l'abilità nella lotta, la forza fisica, il coraggio in battaglia, ecc.) e quindi dell'effettivo diritto di ciascuno di continuare a ricoprire il ruolo di cittadino.

Questo atteggiamento selettivo però (contrariamente a quanto si potrebbe pensare) non portava la società spartana a cercare di integrare i suoi fuoriusciti con elementi provenienti dall'esterno. Ciò era molto probabilmente dovuto non solo ai pregiudizi razziali e alle preclusioni che erano a base di essa, ma anche al fatto che, per quanto predisposti a un’esistenza militare, tali candidati non avrebbero dato garanzia di adattamento ai peculiari stili di vita spartani, fondamento ultimo non solo dell’identità ma anche dell’esistenza materiale di tale società.

Se si considera poi che, col tempo, le differenze patrimoniali si accrebbero enormemente, ne segue necessariamente che anche il numero dei cittadini di pieno diritto finì per calare drasticamente, rendendo così impossibile a Sparta la conservazione sia dei propri domini messenici che della Lega Peloponnesiaca (i quali difatti, furono entrambi persi dopo la sconfitta subita a Leuttra del 371 a.C. dagli eserciti della Lega Beotica).

Ricorda a questo proposito Pierre Lévêque che “alla fine del periodo arcaico siamo ancora lontani dalle scandalose disparità di beni che rovineranno Sparta nel secolo IV. Nell'insieme gli Uguali restano poveri e vivono in una dura austerità. Ma basterà che Sparta si abbandoni alle seduzioni della società mercantili perché tutto l'antico ordine crolli.”

Accanto agli spartiati, cittadini di pieni diritti, vi erano poi i perieci e gli iloti.

I primi erano, come gli spartani, popoli di stirpe lacedemone, i quali per tale ragione, ancora probabilmente ai tempi dell’insediamento dorico sul territorio, erano stati sottoposti ad un regime più blando rispetto a quello riservato agli iloti. Essi non godevano infatti dei diritti politici, ma erano comunque liberi e non schiavi, e inoltre – date le molteplici proibizioni e restrizioni cui era sottoposta la vita degli spartiati – potevano svolgere con profitto, oltre all'agricoltura, anche attività come il commercio e l'artigianato.

Come si è già detto, i perieci costituivano una sorta di “cuscinetto” tra gli Spartani e il mondo esterno. Timorosi delle seduzioni delle attività mercantili, ma anche alla ricerca dei beni che da esse derivavano, questi ultimi lasciavano infatti ai perieci l'onere di svolgerle, traendone poi un vantaggio indiretto attraverso i loro mercati. (Si noti che la moneta in uso a Sparta era in ferro, cosa che rendeva praticamente impossibile agli spartiati esercitare il commercio con il mondo esterno.)

Tutto sommato, dunque, quella dei perieci dovette essere una condizione alquanto sopportabile, forse per molti aspetti addirittura migliore di quella degli stessi spartani. Al pari di questi ultimi poi, anche i perieci avevano il diritto di armarsi e di fare la guerra, seppure in eserciti separati e subordinati a quelli dei dominatori. Anche le popolazioni lacedemoni, non propriamente spartane, godevano inoltre all'interno e all'esterno del mondo greco della fama di grande valore bellico.

Infine – ultimo anello della catena sociale, ma anche vero fondamento della ricchezza della società spartana – vi erano gli iloti.

Dopo le guerre messeniche, avvenute nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. e conclusesi all’incirca nell’anno 715, il numero di essi era aumentato in modo esponenziale. Da quel momento infatti, non vi furono più solo gli iloti della Laconia, ma anche quelli della vicina Messenia, e il rapporto numerico tra iloti e spartiati si stabilizzò probabilmente attorno a un rapporto di uno a dieci.

La vita delle popolazioni asservite a questo regime duro, era materialmente tollerabile. Esse infatti vivevano in zone isolate (anche se, chiaramente, presidiate dagli spartiati), e coltivavano la terra per i loro padroni, cui dovevano versare un consistente tributo (apophorà) in prodotti agricoli. Per il resto godevano di una relativa libertà. E tuttavia, gli iloti non erano in alcun modo difesi dalla legge, ragion per cui erano sottoposti a continui abusi e vessazioni da parte dei loro aguzzini e dominatori. Ricorda Luciano Canfora che “simbolicamente, ma non troppo, gli efori “dichiarano guerra” ogni anno agli iloti, e giovani spartiati fanno il loro tirocinio come guerrieri dedicandosi allo sport della caccia notturna agli iloti, la cui uccisione ha anche – oltre al voluto effetto terroristico – un evidente significato rituale e sacrificale.”

Ma l'importanza di queste popolazioni, dissimulata sotto l'apparenza dell'odio e del disprezzo razziali, è posta in chiara luce dal fatto che, perduta la Messenia, ebbe inizio per Sparta un inesorabile processo di decadenza sia economica, sia politica (sul piano, prima di tutto, del prestigio internazionale) sia infine morale e dei costumi.

Già nei periodi immediatamente successivi alla vittoria su Atene del 404, quando Sparta era si era posta a guida della Grecia intera, il suo antico spirito egualitario aveva iniziato a vacillare sotto il peso dei tributi delle altre città-stato, attraverso cui si era arricchita soprattutto una parte dei suoi cittadini. Ma fu a partire dalla sconfitta di Leuttra (alla quale abbiamo già accennato), da cui fu messa definitivamente in ginocchio, che Sparta iniziò a perdere i suoi connotati originari. Sconfortati dal dilagare della profonda crisi che tale evento aveva innescato, i suoi cittadini caddero infatti vittime di quello stesso “individualismo” che tanto criticavano negli altri greci, e che ovunque aveva determinato intollerabili sperequazioni tra grandi e piccoli proprietari terrieri. Con in più però l'aggravante, a Sparta, dell'assenza di quelle attività che negli altri stati costituivano una fonte di ricchezza alternativa a quella fondiaria, contribuendo a stemperare e a tamponare tali differenze.

Abbiamo fin qui affrontato il tema della società spartana, della sua particolare struttura, senza mai soffermarci – se non in modo molto marginale – sulla sua organizzazione politica ed istituzionale. A conclusione di quanto detto fin qui, vogliamo dunque parlare di quest'ultimo argomento. Ma il nostro discorso si soffermerà esclusivamente sugli spartiati. Per quanto concerne i perieci infatti, anche se sappiamo per certo che essi godevano di notevole autonomia politica, della loro organizzazione concreta non possiamo dire praticamente nulla. Lo stesso vale poi per gli iloti, sempre ammesso che anche a essi fosse lasciata una qualche facoltà d'autogoverno.

(b.3.2.3) La struttura istituzionale dello stato spartano

Anche sul piano delle istituzioni, Sparta rimase sempre estremamente vicina alle fasi più arcaiche del proprio sviluppo, nonché a quelle delle città-stato in generale. La sconfitta storica dei re aveva portato l'aristocrazia, attraverso il proprio organo di controllo, la Bulè, che a Sparta era chiamata Gerousia, a conquistare le principali leve del potere statale. Gli anziani membri di questo “Senato greco” infatti, rappresentanti delle più influenti e ricche famiglie spartane (l'aristocrazia dell'aristocrazia, per così dire), componevano una ristretta camarilla che aveva un peso essenziale nelle decisioni della comunità.

Al di sotto della Bulè vi era il popolo, riunito nell'Assemblea (l'Apella, equivalente spartano dell'Ecclesia), i cui poteri, pur crescendo nel corso del tempo, restarono sempre comunque piuttosto limitati, proprio in virtù di quell'eguaglianza e di quella concordia che dovevano caratterizzare i cittadini spartani, gli homoioi.

I sovrani, dal canto loro, non solo non scomparvero ma continuarono anche a costituire le cariche più importanti e prestigiose dell’intero sistema spartano: ad essi spettava infatti, di guidare gli eserciti in caso di guerra. Inoltre, il fatto di essere due permetteva loro di non lasciare sguarnita e indifesa militarmente la città in caso di conflitti fuori dai propri confini. Anche se uno si allontanava infatti, l’altro poteva restare a presidiare la città vigilando sull’ordine e la pace interni.

Quella dei re era inoltre una carica a vita, e in ciò essa aveva conservato connotati inconsueti per il mondo greco, almeno per quello delle città-stato. La sovranità pura infatti, si era mantenuta solo in quelle regioni – come la Tessaglia o la Macedonia – in cui le città-stato non si erano mai sviluppate e in cui l’organizzazione sociale era di conseguenza rimasta fondamentalmente ferma a uno stadio tribale.

Anche Sparta però conobbe l'esigenza di contrastare il predominio di una ristretta minoranza di cittadini, componenti dell’aristocrazia. E anche a Sparta perciò, come nel resto della Grecia, sorsero magistrature i cui membri erano eletti dal popolo, ovvero dai cittadini riuniti nell’Apella.

A tale scopo venne fondata la magistratura degli efori. Essi – il cui numero era di cinque – erano i supremi “guardiani” (è questo infatti il significato del termine greco eforos) dell'ordine e del corretto funzionamento della società degli spartiati. Eletti attraverso il voto popolare, gli efori costituivano l'anima democratica di uno stato per il resto intrinsecamente oligarchico e reazionario (vedremo più avanti, in che senso si possa parlare di una “democrazia spartana”). Loro compito era appunto quello di vigilare su eventuali abusi di potere, da qualsiasi parte essi provenissero. In realtà però, tali abusi non potevano che provenire dalle cariche più alte e influenti dello stato: i re da una parte, su cui a partire dal V secolo gli efori ebbero una notevole capacità di controllo; e la Gerousia, ovvero l'aristocrazia, dall'altra. Non a torto dunque, anche in tempi recenti, tale carica è stata paragonata a quella dei tribuni romani, come noto difensori dei diritti e degli interessi della plebe di fronte al Senato e alla nobilitas.

Il potere degli efori, d'altronde, conobbe una crescita costante nel corso del tempo, tanto che in epoca classica essi costituivano orami il centro nevralgico dello stato, ed erano di gran lunga l’istituzione più temuta e autorevole della società spartana.

Gli efori inoltre, a differenza dei membri della Gerousia, erano eleggibili senza vincoli di censo o di provenienza familiare e in ciò veniva ribadita la natura democratica ed egualitaria della loro carica. Essi erano quindi, almeno nei primi secoli, i presidi del popolo nella vita politica di Sparta, anche se, col tempo, accumularono poteri tanto smisurati da perdere gran parte di quella valenza democratica e filo-popolare che li aveva caratterizzati nei periodi precedenti.

Dagli efori inoltre dipendevano tutte le magistrature minori, molte delle quali peraltro cruciali nella vita dello stato. Controllandole, essi controllavano quindi la stessa vita politica e civile di Sparta. In particolare, dagli efori dipendevano i magistrati preposti all'educazione dei fanciulli (pedonomoi), cosa che conferiva loro un potere e un prestigio quasi illimitati in una società che – come si è visto – faceva dell'irreggimentazione dei propri membri uno dei presupposti della sua sopravvivenza.

Infine, gli efori erano gli interlocutori privilegiati del popolo, che da una parte li eleggeva e dall’altra, attraverso un proprio organismo rappresentativo (la “piccola Ecclesia”), poteva dialogare e confrontarsi con essi.

L'Apellla infatti (ovvero la grande Assemblea dei cittadini) era troppo vasta per potersi esprimere in modo diverso che attraverso il voto. Essa, ad esempio, non aveva diritto di proporre le leggi ma solo di approvarle o respingerle – cosa che del resto avveniva anche negli altri stati greci. Le uniche funzioni che essa poteva svolgere concretamente, erano appunto quella di eleggere i magistrati e di accettare o rifiutare proposte provenienti da altri organi costituzionali.

Da quanto si è detto, emerge dunque un quadro istituzionale relativamente semplice, quadro che inoltre si mantenne – almeno nei suoi tratti essenziali – pressoché immutato nel corso dei secoli, molto probabilmente anche oltre l'età classica.

Né è difficile osservare, a conclusione di quanto finora detto, come la scelta fondamentale della società spartana (da essa peraltro abbracciata con una determinazione del tutto sconosciuta non solo al resto del mondo ellenico, ma anche a quello extra-ellenico) fosse quella di sacrificare quasi totalmente la libertà individuale dei propri membri, allo scopo di conservarne immutati i privilegi in quanto casta/etnia dominante. In questo, ancor più che in altri aspetti, essa si pose effettivamente agli antipodi rispetto alla sua rivale storica, la società ateniese.

(b.3.2.4) Sparta: uno stato “democratico”?

Dopo quanto finora detto, parrebbe assurdo chiedersi se quella spartana sia stata una società democratica. Eppure, Sparta fu da molti punti di vista la prima vera democrazia del mondo greco. Se infatti con “democrazia” intendiamo un regime di sostanziale eguaglianza tra i membri di una comunità più o meno ristretta, allora possiamo dire, e senza timore di smentite, che Sparta fu una democrazia!

Né questa osservazione è frutto delle elucubrazioni di autori moderni. Al contrario, ricorda Luciano Canfora nel suo scritto sul cittadino, come nel mondo greco la distinzione tra democrazia e oligarchia – ovvero tra sistemi politici isonomici ed eunomici – fosse molto meno scontata di quanto non appaia oggi a noi moderni. In realtà, egli spiega, “ciò che cambia [tra i diversi stati greci] non è la natura del sistema politico, ma il novero dei suoi beneficiari”. Ciò poiché tutte le città-stato erano per loro natura basate sullo sfruttamento di una parte della popolazione, esterna al corpo della cittadinanza ufficiale, a vantaggio di un’altra, che proprio grazie alla prima aveva il tempo e le risorse necessarie per esercitare i propri diritti politici. In quest’ottica dunque, le città greche erano tutte oligarchiche, ovvero basate sul dominio di una minoranza di privilegiati, che pure – come osservava acutamente Aristotele – potevano quantitativamente essere anche una maggioranza.

E sempre Canfora, poco più avanti, ricorda come possa “accadere, scorrendo la letteratura politica ateniese, di imbattersi in elogi della “democrazia” spartana”, e che “addirittura Isocrate, nell’Areopagitico, giunge a proclamare l’identità profonda dell’ordinamento spartano e di quello ateniese”.

Guardandolo da questo punto d’osservazione dunque, il dominio degli Eguali spartani sugli iloti non si distingue in modo sostanziale da quello esercitato dagli ateniesi sulle proprie alleate, o sulle fasce svantaggiate della propria popolazione (schiavi, donne, meteci). Mentre al contrario, il rigido egualitarismo degli spartiati sul piano dei diritti e dei doveri, l’austera morale comunistica e militaristica tra essi in vigore poteva e può tutt’oggi essere giudicata più democratica dell’individualismo e dell’anarchia ateniesi, forieri di grandi differenze sia economiche che di prestigio tra i cittadini, e minanti perciò la loro effettiva eguaglianza politica.

Certo, come si è già mostrato, il prezzo di una tale “omogeneità forzata” era pur sempre molto alto.

Soprattutto – anche se, come abbiamo già detto, a Sparta non vigeva una vera e propria comunione dei beni – erano le differenze patrimoniali a essere più rigidamente tenute sotto controllo. E ciò sia attraverso leggi che imponevano una condotta di vita priva (almeno teoricamente) di agi e beni superflui, oltre che dell’esercizio di qualsiasi attività affaristica (la moneta infatti doveva servire solo come mezzo per soddisfare le necessità quotidiane, senza divenire un fine o un bene in se stessa!), sia attraverso l’espulsione dal corpo della cittadinanza di tutti coloro che decadevano oltre una certa soglia patrimoniale. Tali misure permettevano di mantenere una certa omogeneità economica tra gli spartiati, impedendo così il fenomeno della lotta di classe, fonte di un dinamismo e di una divisione sociali intollerabili per la società spartana.

Tuttavia, già verso la seconda metà del IV secolo questa democrazia era sulla via declino, e le disparità sociali stavano cominciando ad affermarsi in modo perentorio, come ben si evince ad esempio dalla lettura delle Vite di Agide e Cleomene di Plutarco, due re spartani del III secolo – non a caso accostati dall’autore ai Gracchi – che cercarono inutilmente di ristabilire una parte dell’antica eguaglianza patrimoniale tra la cittadinanza, scontrandosi con gli interessi di un ristretto ma potente ceto dominante.

Dopo il collasso seguito alla sconfitta di Leuttra, la “democrazia spartana”, fondata su misure repressive e coercitive paragonabili per molti versi a quelle del cosiddetto “socialismo reale” del XX secolo, non ebbe più alcun seguito. Troppo anacronistica infatti, era oramai la stessa idea di uomo su cui essa si fondava, così come il proposito di respingere fuori dai propri confini trasformazioni sociali e culturali oramai affermatesi in tutto il resto della Grecia, e in parte anche fuori di essa.

Certo, se gli spartani fossero riusciti a mantenere più a lungo il controllo sulla Messenia e sulle popolazioni ilotiche, probabilmente anche i loro peculiari stili di vita avrebbero conosciuto un più lento declino, ma non vi è dubbio che una volta decaduti, almeno in Grecia, essi non avrebbero più potuto risorgere in nessuno stato, nemmeno a Sparta. Mentre al contrario – e questo deve far pensare – la democrazia ateniese, anche dopo la tragica sconfitta del 404, cui fece seguito la fugace instaurazione di un regime oligarchico (il cosiddetto regime dei Trenta Tiranni) e lo smantellamento sia della flotta che dell’impero marittimi, risorse proprio per la decisa e disperata volontà dei suoi stessi cittadini. A proposito di questa “resurrezione democratica”, scrive Luciano Canfora:

“L’Attica aveva rifiutato la “laconizzazione”: la scelta consolidatasi a partire da Clistene era dunque divenuta una struttura profonda della realtà politica ateniese; il sistema basato sulla garanzia ai non possidenti di partecipare alla cittadinanza si era rivelato più forte e durevole dello stesso nesso (originario) tra democrazia e potere marittimo.”

(b.3.3) Atene prima della democrazia

Se Sparta fu lo stato più coeso e unitario del mondo ellenico, e se in questo senso si può in qualche modo definire una democrazia, Atene fu al contrario lo stato pluralista e dinamico per eccellenza, caratteristica nella quale possiamo scorgere le origini e i presupposti della sua futura costituzione – e più in generale della sua “vocazione” – democratica.

Qui avanti cercheremo di fare il punto sull’evoluzione della società attica ed ateniese (e ciò dal momento che Atene fu, in realtà, il centro politico di uno stato comprendente tutti i territori dell’Attica), sia da un punto di vista sociale più generale sia da un punto di vista più specifico: quello istituzionale. Il periodo trattato sarà quello che va dalle fasi precedenti alla nascita della città-stato ateniese fino ai periodi della tirannide dei Pisistratidi. Centrale nella nostra analisi sarà la svolta impressa da Solone a tale storia.

(b.3.3.1) L’evoluzione della società ateniese fino alle riforme di Solone

Per comprendere la vicenda e, in certo modo, il temperamento delle popolazioni attiche, è necessario innanzitutto prendere coscienza dei caratteri fondamentali del territorio sul quale erano insediate. L'Attica era infatti naturalmente isolata dalle regioni vicine da alte catene montuose, fattore a cui era dovuta la sua relativa omogeneità etnica. I rimescolamenti avvenuti nelle zone circostanti (ad esempio, quelli conseguenti alla discesa dei Dori, che si sarebbero poi stabiliti nel Peloponneso meridionale) furono per essa, anche se non del tutto inesistenti, certamente molto attenuati. Non a caso gli ateniesi si definivano autoctoni (che significa “nati dalla stessa terra”) e omogalacti (cioè nutriti con lo stesso latte).

Una tale omogeneità razziale (e l'assenza dei contrasti sociali da essa derivanti) fu decisiva per gli sviluppi storici di quella regione. Ricorda a tale proposito Pierre Lévêque, che “contrariamente a quanto avvenne nel Peloponneso e in Tessaglia, Atene non dovette subire l’assoggettamento di una parte della sua popolazione ad opera dei vincitori; si può vedere in ciò, senza esagerazione, l’origine del sistema sociale relativamente elastico che fu una sua caratteristica costante.” Mentre Moses Finley osserva che: “non solo Atene fu territorialmente la più grande città-stato, salvo Sparta, ma a differenza di quest'ultima essa diventò uno stato unificato senza sudditi all'interno, neppure perieci, per non parlare degli iloti. Tutti gli uomini liberi dall'Attica erano egualmente ateniesi, sia che vivessero nel capoluogo o in Maratona o in Eleusi, o in qualsiasi altra località del contado. Le nette diseguaglianze di classe non erano fondate né su distinzioni territoriali né su distinzioni etniche, ma si ripetevano nei vari demi o distretti dello stato; gli schiavi venivano da altri paesi.”

Anche in Attica certo, esistevano profondi squilibri economici tra classi alte (nobiliari) e classi basse (popolari), i quali, assieme ai tradizionali privilegi dell’aristocrazia, determinavano notevoli diseguaglianze sociali. Ed anzi, come vedremo più avanti, le sperequazioni di ricchezza erano qui ancora più profonde che nel resto della Grecia. Ciò non toglie tuttavia che le popolazioni dell'Attica non conoscessero al proprio interno fratture etniche paragonabili a quelle che laceravano non solo lo stato spartano ma anche, seppure in una forma molto più blanda, la maggior parte delle altre città-stato greche (dove, pur esistendo, esse non determinavano il frazionamento della società in caste chiuse e impenetrabili). Fu dunque proprio la relativa fluidità della società attica uno dei fattori che, assieme ad altri, favorì l'ascesa graduale del popolo alle cariche di governo, attraverso un processo storico che culminò nell'instaurazione di un vero e proprio sistema democratico.

Un altro aspetto strettamente legato alla conformazione territoriale dell'Attica fu la lentezza e la “riluttanza” delle sue popolazioni, frazionate in insediamenti indipendenti disseminati su un ampio suolo, a riunirsi in uno stato unico (sinecismo).

Mentre il sincesimo spartano – come si è visto – fu molto veloce, quello ateniese al contrario fu quanto mai lento e graduale.  Il fattore alla base del primo infatti, mancò in gran parte al secondo. La condizione di insicurezza costante delle popolazioni doriche, costantemente assediate da genti asservite e soggiogate con la forza, non esisteva in una regione come l’Attica, in cui tutto sommato – nonostante le già ricordate disparità economiche – vi era pur sempre una notevole uniformità culturale e un naturale isolamento dal mondo esterno dovuto a confini difficili da valicare. Per tali ragioni, la fusione dei diversi villaggi in una medesima entità politica e territoriale avvenne qui molto lentamente, ovvero soprattutto sotto la spinta dei mercati che, ampliandosi, cercavano centri sempre più ampi e rinomati in cui esercitarsi, in primis ovviamente quello di Atene. La polis ateniese, oltre che un rifugio sicuro per l’intera popolazione della regione, divenne così gradualmente la sede delle principali attività di mercato e, in un secondo momento, politiche del nascente stato attico.

E tuttavia, un tale centro aveva notevoli difficoltà a costituirsi come un’entità forte. I motivi che lo avevano fatto nascere difatti, non condizionavano pesantemente la vita dei singoli villaggi, che continuavano a basarsi in gran parte sull’autoconsumo e che erano inoltre da sempre governati da grandi famiglie decise a conservare i propri poteri territoriali.

Oltre a tutto, lo stesso motore economico alla base dell’unificazione territoriale – le attività di mercato – non rivestiva in tale regione un ruolo analogo a quello che ricopriva in altre, come ad esempio Corinto, nelle quali l’economia mercantile aveva conosciuto un decollo molto più veloce e vigoroso rispetto all’Attica. Infatti, proprio nei periodi in cui, dalle regioni vicine e lontane della Grecia, partivano copiose spedizioni per la fondazione di colonie (le quali avrebbero poi istituito con la madrepatria dei floridi e intensi traffici commerciali), l’Attica rimaneva al contrario ostinatamente richiusa in se stessa, legata ad un’economia essenzialmente autarchica. Per tutto il settimo secolo, ad esempio, nonostante l’alta qualità dei vasi attici, furono quelli corinzi a conoscere la massima diffusione internazionale, e ciò a causa soprattutto della scarsità della produzione ateniese.

Oltre ai fattori appena menzionati, dobbiamo poi considerarne altri che – pur strettamente legati a essi – ebbero comunque un peso indipendente nel determinare gli sviluppi socio-economici, nonché politici, di questa regione. Soprattutto, fu la lotta tra piccoli e grandi proprietari terrieri (questi ultimi, al tempo, ancora prevalentemente nobili) ciò che segnò più pesantemente la vita sociale dell’Attica e di Atene nei suoi periodi più arcaici. L’assenza di colonie in cui poter riversare parte degli scontenti e dei poveri aveva qui difatti ulteriormente esacerbato una situazione di carenza e di graduale concentrazione delle terre che – come si ricorderà – tendeva a minare la stabilità politica di un po’ tutti gli stati ellenici.

Ma questa situazione di estrema conflittualità sociale, anziché inibire l’instaurazione di riforme favorevoli al popolo, finì al contrario per fungere da “motore di avviamento”, per così dire, di una rivoluzione sociale che avvenne in modo graduale nel corso di decenni, o meglio di secoli.

Una delle prime figure a noi note, a farsi interpreti delle esigenze popolari e delle tensioni che attraversavano la società ateniese del suo tempo, fu Solone. Già Dracone (circa un secolo prima) aveva iniziato un’opera di fissazione scritta delle leggi consuetudinarie, della quale però non si sa praticamente nulla, a parte la particolare attenzione riservata alle problematiche della giustizia (ancora oggi, si usa dire “misure draconiane” a significare leggi estremamente dure e repressive, che evocano un’idea di diritto ormai superata). Né ciò fu senz’altro un caso, dal momento che una delle prime manifestazioni della formazione di veri e propri poteri statali fu una prima sostituzione delle autorità centrali ai poteri tribali in materia giudiziaria. Attraverso tali trasformazioni infatti, lo stato iniziava a minare il predominio incontrastato delle famiglie degli eupatridi sui loro stessi territori. La città diveniva così il luogo in cui – almeno teoricamente – le controversie tra i cittadini e i membri della comunità venivano giudicate con imparzialità, sulla base di leggi scritte e di una giustizia realmente egualitaria. (Giova rimandare, a questo proposito, a quanto si è detto precedentemente in merito al valore dell’opera dei primi legislatori per l’emancipazione e i diritti del popolo.)

Ma torniamo a Solone. Per comprendere l’opera di questi però, è necessario fare il punto non solo su quanto egli fece ma anche sulla situazione in cui versava l’Attica ai tempi delle sue riforme. Egli visse a cavallo tra VII e VI secolo, ma in realtà fu uomo più del primo che del secondo di essi. Momento cruciale per la sua missione politica fu senza dubbio il 594, anno in cui, oramai anziano e rinomato tra i suoi concittadini, in qualità di arconte eponimo (cui inoltre erano stati concessi speciali poteri costituzionali) poté operare una vera e propria rivoluzione istituzionale, oltre a porre le linee essenziali di una politica sociale che avrebbe dato i suoi frutti nei decenni successivi.

L’Attica, come si è detto, era percorsa da fortissime tensioni sociali: i grandi proprietari, di origine prevalentemente nobiliare, (la ricchezza commerciale, infatti, non doveva essere particolarmente diffusa in questa regione) avevano consolidato il proprio predominio sulle classi popolari, espropriando molti cittadini dei loro averi a causa dei debiti e riducendoli alle volte in schiavitù, altre volte al rango di nullatenenti, altre ancora assottigliandone molto i possedimenti. La società rischiava perciò di spaccarsi in due pezzi: una massa di poveri o di individui a rischio di povertà da una parte, e una minoranza di ricchi dall’altra. Solo la politica poteva porre rimedio a tale situazione, e ciò andava fatto per il bene della comunità, ancor prima che per i suoi singoli individui. Non a caso Solone dichiarò sempre di agire nel nome della concordia, del senso di responsabilità comune di tutti i membri (maschi) della società, anziché a favore di una determinata fascia di essa.

Come si è già accennato, le sue riforme furono essenzialmente di due tipi: politiche (cancellazione dei debiti e della schiavitù per debiti; diritto di cittadinanza – ovvero di partecipazione all’Assemblea – ai teti; instaurazione di un sistema di governo timocratico, anziché – come in passato e come in molte altre città-stato del tempo – oligarchico/aristocratico), e sociali (ovvero essenzialmente provvedimenti in favore delle classi medie, in particolare attraverso l’incoraggiamento delle attività produttive urbane e commerciali).

Quel che innanzitutto bisogna notare, è il fatto che Solone non tendesse a un’equiparazione vera e propria dei cittadini sul piano dei diritti e della ricchezza (come avveniva, ad esempio, all’interno della casta degli homoioi spartani), bensì da una parte a un alleggerimento delle differenze patrimoniali e dall’altra a dare a molti nuovi cittadini, anche attraverso i nuovi principi timocratici, la capacità di contribuire al governo sulla base delle loro reali possibilità patrimoniali. Oggi diremmo, che egli cercava di dare ai propri concittadini una maggiore possibilità di affermazione in quanto individui, a dispetto di quelle convenzioni sociali arcaiche che volevano il “sangue blu” come base e segno distintivo di prestigio sociale, a prescindere dal valore reale delle singole persone. Potremmo dire, usando un termine moderno ma senza dubbio efficace, che egli avesse in fondo un’idea meritocratica di società.

D’altra parte, dalle testimonianze che ci restano su di lui e dai suoi stessi versi, emerge chiaramente il profilo di un nobile (come, del resto, la maggior parte dei leader politici dei secoli successivi) e come tale assertore, almeno in un certo grado, della superiorità della propria classe rispetto alle classi popolari. Ciò tuttavia non toglie che egli si pose al principio di una rivoluzione che permise gradualmente al popolo (demos) di conquistare maggiori diritti e di avvicinarsi all’aristocrazia sul piano sia politico che sociale. Egli introdusse insomma, con la propria opera politica, quell’elemento di dinamismo che avrebbe caratterizzato in modo più spiccato delle regioni circostanti la società attica nei secoli successivi.

Venendo alle riforme politiche di Solone, e riservandoci di trattarne in un apposito paragrafetto gli aspetti più tecnici, possiamo dire in sintesi che egli impose la remissione dei debiti che affliggevano la parte più povera della comunità, dandole così nuovo ossigeno e interrompendo una spirale che rischiava di soffocare del tutto la classe dei piccoli e medi possidenti a vantaggio di quella dei grandi proprietari. Essa fu chiamata seisachteia, cioè “scuotimento dei pesi”, ovvero dei debiti che opprimevano la parte più povera della popolazione.

Egli non operò tuttavia, quella redistribuzione delle terre che le plebi immiserite chiedevano a gran voce: troppo lontana difatti sarebbe stata una simile misura dalla sua etica e dalla sua concezione aristocratiche. E tuttavia, rese illegale la pratica di privare della libertà e di vendere come schiavi coloro che erano incapaci di saldare i propri debiti in altro modo che con la loro stessa persona.

Inoltre, fatto rivoluzionario non solo per Atene, ma più in generale per l’intero mondo ellenico, Solone diede il diritto di partecipare all’Assemblea anche ai teti (ovvero ai cittadini non possidenti), rendendoli in tal modo parte della fascia più bassa della cittadinanza, dotata dei diritti politici elementari.

Un altro aspetto essenziale della sua opera di riforma politica – che verrà peraltro analizzato meglio più avanti – fu l’instaurazione di un governo di carattere timocratico.

Il termine timocrazia (da timao che in greco significa “avere rispetto, stima”, e cratos che significa “potere” o “autorità”) stava a indicare un sistema nel quale a qualsiasi cittadino era data la possibilità di accedere alle cariche dello stato in proporzione alla sua ricchezza e alla sua conseguente capacità di contribuzione alla vita della comunità (nel mondo delle città-stato infatti, la ricchezza privata si traduceva in gran parte in interventi ed elargizioni di carattere pubblico). Caratteristico di questo tipo di organizzazione sociale era perciò il fatto di porre in secondo piano la nobiltà o la stirpe in favore della ricchezza e del merito personali. Il fatto poi che, soprattutto in una società conservatrice quale quella ateniese del tempo, molto spesso questi due aspetti coincidessero, non toglie molto alla portata rivoluzionaria di una tale trasformazione istituzionale.

Bisogna però, a questo proposito, fare anche delle precisazioni. Non si deve credere difatti che l’Atene di questo periodo fosse particolarmente avanzata rispetto alle altre città-stato elleniche. La storia politica ateniese infatti, almeno fino alla rivoluzione soloniana, coincise – quantomeno nei suoi tratti essenziali – con quella della maggior parte delle altre città-stato greche.

In queste ultime, tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo (spesso come conseguenza dell’instaurazione delle tirannidi), si erano spesso affermate delle costituzioni “aggiornate” o miste: ovvero ancora di tipo oligarchico tradizionale, ma corrette in parte con criteri timocratici. Il che significa che, anche se per legge la maggioranza del popolo non poteva avere accesso alle magistrature e alle cariche elettive, gli esponenti più ricchi e influenti della società, qualunque fosse la loro origine familiare, avevano la possibilità, come riconoscimento del loro valore sociale, di svolgere un ruolo attivo nel governo della città.

Quel che distinse la storia di Atene rispetto al resto della Grecia, fu il fatto che a una tale rivoluzione timocratica (in tale stato peraltro, attuata molto probabilmente in modo più radicale che nel resto della Grecia), seguisse dopo pochi decenni l’instaurazione di un vero e proprio regime isonomico e democratico, basato cioè su una sostanziale equiparazione di tutti i cittadini sul piano dei diritti politici, senza rilevanti distinzioni di ricchezza o di stirpe. Una trasformazione che – come si è già più volte detto – fu grandemente favorita dalla relativa uniformità etnica e culturale della popolazione attica.

Oltre a quelle appena citate, Solone pose in atto anche un secondo gruppo di riforme, che potremmo definire “sociali”, in quanto volte a modificare la struttura e la composizione della società. Riguardo a queste ultime, la sua opera può essere accostata a quella del suo successore, il tiranno Pisistrato. Entrambi difatti cercarono di favorire, contro lo strapotere delle classi nobiliari e fondiarie, l'emergere di nuovi ceti legati ad attività economiche urbane, avendo ben compreso che le riforme richieste con tanta decisione da una parte del popolo (annullamento dei debiti, redistribuzione delle terre, ecc.), pur potendosi forse attuare con grandi rischi e sofferenze, non avrebbero mai potuto costituire un duraturo rimedio al problema della progressiva concentrazione delle terre. Solo la formazione di una solida classe media, che si arricchisse attraverso i traffici e l'industria e fosse proprietaria di ricchezze sufficienti a vivere senza dipendere dalla nobiltà terriera, avrebbe potuto infatti arginare un tale processo. Per tale ragione, sia Solone che Pisistrato si adoperarono – seppure in modi diversi – per favorire e assecondare lo sviluppo di tali classi.

Solone operò prevalentemente in tre settori: quello monetario, quello metrico (dei pesi e delle misure), quello professionale.

Mentre prima delle sue riforme, gli ateniesi si erano appoggiati alla moneta di Egina (un vicino stato col quale, tra l’altro, intrattenevano rapporti fortemente conflittuali), a partire da esse poterono invece utilizzare una propria moneta: la dracma, in futuro mezzo di scambio pressoché universale nell'area mediterranea e egea, almeno fino alla conquista romana. Non che questo cambiamento avesse come unico effetto quello di favorire gli scambi commerciali. Il frazionamento monetario del mondo greco (ovvero il fatto che molti stati pretendessero di battere una propria moneta) era infatti uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo dei traffici al suo interno. Tale scelta però, fu al tempo stesso manifestazione dell'orgoglio nazionalistico di Atene e dell’importanza che andavano acquisendo le attività commerciali tra molti dei suoi cittadini.

Sul piano delle misure poi, regnava una confusione che rendeva complicati e poco agevoli gli scambi commerciali tra gli stessi membri della comunità attica. A ciò Solone pose rimedio imponendo al suo interno delle unità metriche universali sia per i pesi che per le misure spaziali.

Ma il provvedimento principale per la trasformazione dell'Attica in direzione delle attività urbane e dei commerci, fu un'opera sistematica di attrazione degli stranieri ad Atene. Attraverso agevolazioni di varia natura, egli incoraggiava questi ultimi, chiamati meteci, a insediarsi stabilmente o comunque per lunghi periodi all’interno della città. Il fatto poi che essi non potessero per legge acquistare terre (la proprietà di queste era diritto esclusivo dei cittadini a pieno titolo) li costringeva a svolgere attività urbane quali il commercio, l'artigianato o i prestiti. In poco tempo, Atene si popolò così di una nuova classe di “imprenditori urbani”, che con le proprie intraprese incoraggiarono tra i cittadini lo sviluppo di colture specializzate finalizzate a traffici internazionali (una strada peraltro, inizialmente praticata soprattutto dai piccoli e medi proprietari, dal momento che quelli più grandi rimanevano legati all'ideale e alla pratica dell’autosufficienza alimentare). Non vi è da stupirsi dunque, se a partire da Solone Atene iniziò a divenire una città di mercanti e di artigiani e un centro di smercio sempre più rinomato nel mondo egeo.

Con Pisistrato poi, che perseguì una politica di espansione coloniale verso gli Stretti del Bosforo, preziosissimi sbocchi per il rifornimento granario dalle vicine regioni orientali, tale processo di espansione commerciale proseguì a vele spiegate, mentre, come vedremo nel prossimo capitolo, a partire dalle guerre Persiane (478) la capitale dell'Attica si trasformò nella principale potenza marittima (e militare) del mondo greco.

Quanto a Pisistrato, nel suo caso non si può parlare di vere e proprie riforme. I tiranni, difatti, erano di solito tanto sovvertitori dell'ordine sostanziale e delle tradizioni, quanto – per compensazione – conservatori dell'ordine formale, ovvero delle istituzioni. Piuttosto, Pisistrato pose in essere una politica interna ed estera che mirava a guadagnarsi l'appoggio e l'amicizia sia delle classi borghesi-imprenditoriali che di quelle più umili.

A favore dei piccoli proprietari delle montagne (diacri), che avevano dato un appoggio sostanziale alla sua ascesa politica e al colpo di mano che lo aveva portato ad instaurare la tirannide (la quale non fu peraltro mai particolarmente stabile: Pisistrato infatti fu cacciato per ben due volte dalla città e per due volte vi tornò, mantenendovi infine il potere sino alla morte), egli operò molte espropriazioni delle terre nobiliari e istituì un sistema di prestiti di stato che favorì ulteriormente la riconversione delle loro colture a criteri intensivi, favorevoli al commercio internazionale. Egli fu dunque un “democratico” nel senso più letterale del termine, dal momento che seppe sedurre e farsi amico il demos, il popolino, riservandogli attenzioni estranee anche alla politica di un aristocratico – pur non del tutto convenzionale – come Solone.

Ma in realtà Pisistrato fu, oltre che un nemico giurato dei grandi proprietari delle pianure (pediei) e dei loro privilegi, un accesso sostenitore delle classi commerciali e mercantili delle coste (paralii). Furono queste ultime difatti, ancor più che il popolino, le principali beneficiarie delle sue politiche più originali ed innovative: quelle coloniali e marittime. Egli fu il primo uomo politico ateniese a comprendere la necessità per la propria città di dotarsi di una flotta marittima, intuendo i possibili sviluppi nella politica e nell’economia che tale fatto avrebbe comportato.

Con lui Atene avviò un’espansione coloniale ritardata di circa un secolo rispetto alle altre città-stato elleniche, ma il cui vigoroso sviluppo la portò in pochi decenni a divenire una delle maggiori potenze marittime greche (e, dopo le guerre persiane, l’indiscussa protagonista della vita militare, politica ed economica della Grecia orientale).

Una tale espansione fu diretta – come già si è accennato – principalmente verso le regioni del Bosforo e dell’Ellesponto, ponte di accesso alle pianure della Tracia, ricchissime produttrici di grano. Dati i vincoli che le colonie e i territori d’influenza ateniese avevano con la madrepatria, Atene finì così in pochi anni per acquisire una sorta di monopolio sulle merci che da tali regioni affluivano in Grecia, divenendo, a causa della loro importanza, uno dei più ricchi centri del mondo ellenico.

Pisistrato diede insomma, un ulteriore impulso a quel processo di sviluppo delle classi urbane e mercantili che già il suo predecessore Solone aveva avviato con molto profitto. Non è esagerato affermare quindi che questi due personaggi posero i presupposti sociali ed economici della storia ateniese classica, anticipando inoltre – soprattutto il secondo – molti aspetti di quella politica di potenza che fu a base degli sviluppi democratici di essa.

Pisistrato morì tiranno. I suoi figli invece, che avevano ereditato dal padre la città quasi come una “proprietà personale”, no. L’uno (Ipparco) fu ucciso, l’altro (Ippia) esiliato in seguito a un’insurrezione popolare, guidata da una fazione nobiliare (quella degli Alcmeonidi) avversa a quella del tiranno. Né la cosa deve stupire, data l’idiosincrasia dimostrata dal popolo greco – sin dai cosiddetti periodi oscuri – verso ogni forma di potere assoluto. Come infatti ricorda giustamente Pierre Lévêque, “la tirannide portava in sé la cause della propria rovina nella misura in cui le sue riforme contribuivano a risolvere le crisi sociale della quale essa era nata: tutti i cittadini desideravano allora ritornare a un governo regolare, in cui l’esercizio del potere non fosse riservato ad un solo uomo.”

(b.3.3.2) Le istituzioni di Atene dalle origini a Solone

La polis o città-stato si caratterizza da subito come centro dell’attività politica, come luogo di confronto e di scontro, nonché – almeno in parte – di condivisione di valori da parte di due mondi (quello aristocratico e quello popolare) che nelle epoche precedenti erano rimasti tra loro molto più rigidamente separati. (Moses Finley, ad esempio, a proposito delle epoche buie parla di una “assenza delle nette categorie sociali proprie delle società dei tempi posteriori, in particolare di una netta distinzione tra categorie della “libertà” e della “servitù”.” E afferma che solo “la demarcazione fondamentale tra nobili e non nobili è abbastanza chiara. Al di sopra e al di sotto di questa linea le distinzioni appaiono incerte”.)

Un tale processo di convergenza e di reciproca contaminazione, può peraltro essere scorto anche nella storia delle istituzioni, e ciò tanto più quanto più esse sono connotate in senso democratico. Basti, a tale proposito, considerare l’evoluzione della Bulè ateniese: all'inizio organo interamente nobiliare, che gradualmente mutò la propria composizione e struttura, fino a divenire uno dei cardini della costruzione democratica.

La storia delle poleis greche fu dunque quella del graduale avvicinamento del popolo all’aristocrazia, ovvero – nell’ambito specifico della politica – della graduale elisione popolare del monopolio decisionale della nobiltà, attraverso la conquista, tra l’altro, di poteri e istituti che in passato erano stati una prerogativa esclusiva di quest’ultima. Certo, un tale processo di avvicinamento non fu per nulla lineare, né univoco nei suoi esiti, ma comunque vi fu e costituì uno degli aspetti essenziali della vita politica greca del periodo arcaico e classico, che si manifestò ovviamente con intensità crescente quanto più il popolo riusciva a guadagnare terreno rispetto all’aristocrazia.

Veniamo ora a descrivere brevemente l’evoluzione delle istituzioni ateniesi dalla nascita della città-stato fino alle riforme soloniane.

Se ad Atene le istituzioni regali si conservarono a lungo dopo la nascita della città-stato (ovvero una volta avvenuto il sinecismo), ciò fu dovuto non solo all'indole tradizionalista delle popolazioni attiche (un tema del quale abbiamo già avuto modo di parlare), ma anche al fatto che le istituzioni del periodo miceneo (organizzate, come si ricorderà, attorno all'autorità regale) furono qui meno profondamente scardinate che nel resto della Grecia, data l'assenza o quasi su tali territori delle incursioni dei popoli dorici, apportatori di morte, distruzione e sconvolgimenti politici ovunque passarono. Si deve inoltre notare che, almeno nei primi tempi, vi furono ad Atene più re contemporaneamente, ognuno quasi certamente in corrispondenza con una delle famiglie dell’antica nobiltà tribale (gli Eupatridi).

E tuttavia, anche ad Atene i sovrani furono alla fine spodestati. Qui essi furono sostituiti da tre magistrati, chiamati arconti, in carica inizialmente per dieci e successivamente per un anno, i quali frazionavano tra diverse figure istituzionali prerogative (militari, religiose ed esecutive) che un tempo erano accentrate intorno al sovrano. Gli arconti inoltre, in quanto magistrati, erano eletti dall'Ecclesia con un mandato a termine. L’arconte eponimo era tra tutti quello più importante, dal momento che deteneva i più alti poteri esecutivi dello stato; l’arconte basilues era invece la più alta carcica religiosa; l’arconte polemarco infine, quella militare.

Anche ad Atene, come nel resto della Grecia, dopo la caduta dei sovrani le istituzioni principali divennero l'Assemblea (Ecclesia) e il Consiglio degli anziani (Bulè). Mentre però la seconda vide col tempo assottigliarsi i propri poteri, la prima al contrario – da un’iniziale condizione di minorità rispetto all’altra – li vide aumentare, in concomitanza con la trasformazione in senso democratico dello stato.

Quella ateniese d’altronde era, al contrario di altre, una Bulè estremamente “popolosa”, dal momento che, per essere rappresentativa di tutta l’Attica, doveva riunire membri della nobiltà provenienti dai molti distretti di cui tale regione era composta. Proprio per tale ragione, venne presto istituito un organo superiore composto da un più ristretto numero di individui, i pritani, che in sostanza ne dirigevano i lavori.

Tra le altre cose, la Bulè doveva decidere quali questioni andassero sottoposte al giudizio dell'Assemblea, che aveva quindi anche il compito di convocare. Essa inoltre doveva stabilire l'idoneità o meno dei magistrati eletti dal popolo a ricoprire le cariche loro assegnate. Dunque, anche se molte decisioni erano effettivamente prese dall'Ecclesia, la Bulè poteva condizionare – ed anzi, si potrebbe dire guidarein modo sostanziale la vita della comunità. E anche se questi due poteri tendevano a bilanciarsi tra loro, ciò avveniva – almeno inizialmente – con notevole vantaggio per la Bulè.

A partire dalla riforma di Dracone poi, la Bulè ebbe anche il compito di decidere in merito alle questioni giudiziarie più importanti, le quali venivano così sottratte ai poteri tribali locali a favore del potere centrale dello stato. (Per le cause meno rilevanti, invece, esisteva un tribunale minore, quello degli efeti, a sua volta espressione del potere statale.)

Ma la Bulè, tra tutte le istituzioni ateniesi, fu anche quella che nel corso dei secoli conobbe la trasformazione più considerevole. Tralasciando per ora quella che ebbe luogo sotto Clistene verso la fine del VI secolo, dobbiamo qui ricordare l’evoluzione avvenuta sotto l'arcontato di Solone.

Se prima delle riforme di quest’ultimo un tale organo era rimasto un dominio esclusivo degli Eupatridi (ovvero dalle più importanti famiglie nobiliari), da allora in avanti l'accesso ad esso fu regolato invece su criteri censuari o timocratici. Dal momento che, ovviamente, il patrimonio era un segno tangibile di prestigio e di influenza sociale, più esso cresceva, più doveva crescere di conseguenza la possibilità per il singolo cittadino di accedere ad incarichi istituzionali prestigiosi. Così, per la prima volta, con le riforme di Solone anche cittadini non nobili acquisirono la possibilità di entrare a fare parte di quest’organo supremo: un evento, peraltro approvato da gran parte della nobiltà, la cui portata epocale non è difficile immaginare.

Più in dettaglio, le classi di censo stabilite da Solone furono le seguenti: sopra tutti vi erano i pentacosiomedimni (ovvero coloro la cui rendita annuale superava i cinquecento medimni l’anno), subito dopo vi erano i cavalieri (cioè coloro che in guerra andavano a cavallo, e che quindi non erano opliti, e la cui rendita annuale era compresa tra i cinquecento e i quattrocento medimni), dopo questi vi erano gli zeugiti (gli opliti appunto, cittadini le cui entrate erano stimate tra i trecento e i duecento medimni annui), e infine i teti (la cui rendita annua era inferiore ai duecento medimni).

Mentre gli arconti e i tesorieri di stato potevano provenire solo dalla prima categoria, tutti gli altri magistrati potevano essere indifferentemente scelti dalla prima, dalla seconda e dalla terza. Solo i teti rimanevano dunque confinati alla sola Assemblea, alla quale tuttavia non avevano fino ad allora mai avuto accesso.

Ma l'antica Bulè, pur rimpiazzata da quella nuova istituita da Solone (detta dei Quattrocento per il numero dei suoi membri), non scomparve ma continuò a esistere con il nome di Areopago, anche se con poteri molto ridotti rispetto al passato. L’assottigliamento dei poteri di un tale organo fu un fatto costante nel corso dei decenni, che culminò probabilmente con le riforme di Efialte, che ne limitarono la giurisdizione ai soli delitti di sangue.

È evidente dunque, da quanto si è detto finora, che il periodo soloniano costituì lo spartiacque a partire dal quale il popolo iniziò ad acquisire un potere decisionale sostanziale.

Sul piano giudiziario poi, va ricordata la creazione da parte di Solone di un nuovo tribunale, chiamato Elieia, che andava ad affiancarsi a quello, risalente ancora a Dracone, dell’antica Bulè, ora divenuta Areopago. Tale tribunale era definito popolare, in quanto i suoi membri provenivano indifferentemente da tutte le classi di censo. Sua caratteristica essenziale era il fatto di costituire l’ultima spiaggia per imputati già condannati dal tribunale dell’Areopago e da quello degli efeti. Ricorrere ad esso era un po’ quel che è oggi ricorrere in appello.

Anche quest'ultimo fatto dunque, fa risaltare come, con le riforme di Solone, il popolo fece grandi progressi sul piano del riconoscimento politico e civile, mentre la nobiltà – la stessa peraltro, i cui membri componevano le più importanti cariche istituzionali – vedeva vacillare sia i propri poteri politici generali che quelli territoriali, questi ultimi a favore delle istituzioni centrali dello stato che avevano sede in Atene.

Non si deve tuttavia credere che esso avesse oramai smantellato le antiche organizzazioni tribali risalenti al periodo oscuro, per vari ordini di ragioni ancora molto solide e forti. Anche se infatti esso era riuscito ad indebolirle, per molti aspetti doveva ancora scendervi a patti, cercando anzi di mantenere con esse rapporti di fattiva collaborazione. Lo stato infatti, non aveva ancora gli strumenti materiali e l’autorevolezza necessari a esercitare un controllo effettivo sulle campagne e sulle zone esterne ad Atene con l’eccezione, forse, degli altri centri urbani.

Una dimostrazione di ciò può essere scorta nella divisione dei territori statali nelle cosiddette naucrarie, distretti in linea di massima coincidenti con le zone di influenza delle principali famiglie nobiliari. Fu solo a partire da Clistene, che il suolo attico venne ripartito secondo criteri non coincidenti con tali zone, ciò che – come vedremo meglio avanti – determinò la fine sostanziale degli antichi poteri tribali prestatali sul piano politico e amministrativo.

(b.3.4) La politica nel mondo arcaico

A conclusione di quanto detto finora, vorremmo fare alcune considerazioni molto generali sulla politica in Grecia nel periodo arcaico, sulle sue caratteristiche essenziali e sulle differenze rispetto al mondo vicino orientale.

Due ci paiono i caratteri peculiari e distintivi di tale realtà, caratteri che peraltro essa condivise con la successiva età classica: la concezione della politica come lotta, come agone tra diversi individui o soggetti politici; e la presenza di una vasta classe intermedia tra l’aristocrazia terriera e le classi rurali povere.

(b.3.4.1) la politica come lotta sociale, il rischio della stasis e i valori aristocratici

Cominciamo dal primo punto. La città-stato fu, sin dai suoi albori e con un’intensità crescente nel corso dei secoli, il luogo del dibattito e del confronto/scontro tra diverse classi sociali o gruppi di interesse.

La politica come lotta di classe non era a quel tempo concepibile in nessun altro luogo al di fuori del mondo greco, così come del resto non lo era stata nella Grecia dei periodi precedenti. Prima e al di fuori della Grecia arcaica difatti le decisioni riguardanti la vita della comunità erano rimaste appannaggio, se non di un Sovrano dai poteri illimitati, quantomeno di una ristretta cerchia di notabili.

Ci si potrebbe del resto chiedere quali fattori contribuissero allo sviluppo di questo tipo di organizzazione politica, tipicamente greca. Si può tentare di dare una risposta, per quanto incerta e approssimativa, a questa domanda.

Innanzitutto vi fu la ristrettezza dei confini dello stato, che permetteva una vita a stretto contatto tra tutti i suoi abitanti, a prescindere dalla loro collocazione sociale (un fattore che fu ulteriormente favorito dalla nascita della città come luogo di riunione ricorrente della popolazione adulta).

Un altro fattore favorevole a tale sviluppo fu l'assenza pressoché totale, prima della nascita della polis, di un'organizzazione sociale stabile. La polis sorse quindi in un clima di anarchia latente, nel quale le classi popolari ebbero relativa facilità a inserirsi come soggetto politico rilevante, in grado di avanzare delle proprie rivendicazioni – cosa tanto più vera per coloro che, attraverso la propria intraprendenza personale, avessero acquisito una certa ricchezza e un certo prestigio sociale.

Ma in un contesto variegato e conflittuale quale quello appena descritto, erano anche impliciti dei rischi. In particolare, sempre in agguato era il pericolo della stasis, la guerra civile, che infatti fu una costante della storia delle città-stato greche dai loro albori fin oltre l'età ellenistica. La formazione di fazioni in lotta tra loro, di solito (anche se non sempre) con una forte connotazione di classe, teneva la comunità costantemente in bilico tra la pace e la guerra.

Non per caso, molti studiosi hanno osservato come il concetto moderno di pace fosse del tutto sconosciuto al mondo greco antico, sia per ciò che riguarda la vita interna che per quella esterna ai singoli stati. Mentre infatti noi moderni siamo abituati a concepire la pace come una condizione normale, destinata a durare indeterminatamente, e la guerra come una condizione momentanea, al contrario gli antichi – e in particolare i Greci – consideravano la prima come una condizione transitoria, un accordo a termine tra stati, che determinava un interludio tra periodi di belligeranza ritenuti invece normali. Molti storici antichi del resto, ritenevano che nei periodi di pace non accadesse pressoché nulla di rilevante e degno di essere registrato, e quindi se ne disinteressavano. Questa particolare concezione era senza dubbio espressione di quella mentalità agonale che caratterizzava da sempre i popoli greci, ma era anche al tempo stesso il risultato di quell’endemica instabilità politica, sia interna che esterna, che affliggeva le città-stato.

In ogni caso, il fatto stesso della lotta sociale come base della vita della comunità comportava il pericolo costante della guerra civile.

Il rischio era che una o più parti della popolazione si autodesignassero come la “vera” cittadinanza, le uniche eredi dello spirito della comunità di cui facevano parte, e che per tale ragione si sentissero in diritto/dovere di debellare dalla città, eliminandole o mandandole in esilio, le fazioni avverse. Scoppiava allora la guerra civile (stasis), un evento tragico non solo in se stesso, ma anche per gli strascichi che si portava dietro. I membri delle fazioni esiliate difatti, cercavano successivamente di ritornare in patria e di vendicarsi di coloro che li avevano scacciati ed espropriati dei loro beni, ciò che dava adito a nuove lotte intestine, secondo un processo che rischiava di non avere mai termine.

Ogni società sviluppa degli “anticorpi” al proprio interno, per difendersi dalle proprie storture. La città-stato sviluppò il principio dell’equilibrio e dell’equidistanza, come valore sommo dell’esistenza sia individuale che sociale.

I greci avevano inventato diversi nomi e concetti, peraltro strettamente interconnessi tra loro, per designare questa idea fondamentale. È del resto significativo il fatto che tali concetti furono elaborati e formalizzati per la prima volta dai membri delle classi aristocratiche, in un periodo e in un contesto in cui esse godevano ancora di un primato indiscusso all’interno della vita decisionale della comunità, proprio al fine di giustificare il proprio diritto a governare.

Secondo tale visione, le classi aristocratiche, libere dalle cure materiali che affliggevano il resto della popolazione, erano le portatrici naturali di questo tipo di nobiltà, cui davano diversi nomi. I più comuni erano: aretè (virtù, valore), kalokagathia (l’equilibrio del corpo e dello spirito), sophrosyne (assennatezza, prudenza, sanità di mente): concetti che rimandavano tutti, anche se con sfumature diverse, alla capacità di operare in modo conveniente, senza cadere negli eccessi, e che erano intimamente connessi al senso del limite umano. Senza quest’ultimo, gli uomini cadevano inevitabilmente nell’empietà, nella hubris (la tracotanza verso gli dèi), scatenando così lo fthonos theòn (l’ira divina) e la giusta punizione che ne derivava.

Di questa costellazione di concetti troviamo più di una testimonianza non solo nei versi di molti poeti lirici (specialmente di quelli politici, come Solone o Teognide), ma anche in Esiodo e, seppure in forma ancora abbozzata e primitiva, nello stesso Omero.

E non è un caso che nei successivi periodi classici, anche laddove (come per esempio ad Atene) l’aristocrazia aveva ormai definitivamente perduto il monopolio sulla vita politica, tali valori rimanessero uno dei più importanti principi direttivi di quest’ultima. Essi infatti avevano un significato e una portata che andava ben oltre le esigenze ideologiche e di propaganda che avevano portato l’aristocrazia a elaborarli e a formularli, attribuendoseli. Essi costituivano una delle basi stesse del buon funzionamento della città-stato.

L’ideale dell’armonia e dell’equilibrio fu dunque una costante, tanto etica quanto estetica, della polis greca in tutti i suoi stadi evolutivi: dalle fasi più arcaiche fino a quelle classiche e postclassiche. E se ciò avvenne, causa ne fu il fatto che un tale ideale rifletteva una necessità obiettiva in un contesto costantemente dilaniato da fazioni avverse, le quali spesso non si accontentavano di combattersi attraverso i normali strumenti politici, ma ricorrevano a strumenti illegali e clandestini (come le “eterie”, o società segrete) quando non addirittura alla guerra aperta.

(b.3.4.2) le classi medie come base del rinnovamento politico del mondo greco

Alla base dell’originalità pressoché assoluta del mondo politico greco arcaico, vi fu poi anche un altro aspetto, inscindibile peraltro da quello appena descritto: lo sviluppo di una consistente classe intermedia – tanto in senso economico, quanto in senso politico e ideologico – tra i due estremi della nobiltà terriera e delle masse rurali. Un fenomeno questo, che (come già gli antichi avevano compreso) costituì l’origine più profonda della città-stato come forma di organizzazione politica alternativa a quella, ancora essenzialmente feudale, del periodo oscuro.

La centralità nella storia greca di queste classi fu legata in primo luogo al fatto che esse godessero di una solida autosufficienza economica, che le affrancava dalla tradizionale dipendenza dalla nobiltà terriera. Proprio per tale ragione, esse diedero inizio e sostennero in modo sostanziale quel processo di emancipazione della comunità dallo strapotere nobiliare che – come abbiamo già più volte visto – costituì la componente più profonda ed essenziale della vita politica delle città-stato.

È evidente infatti che, anche se il popolo minuto si accodò successivamente a questo trend, accampando a sua volta delle rivendicazioni politiche, un tale fatto fu reso possibile proprio dall’affermazione preventiva di queste classi intermedie, che sole erano in grado, per i motivi appena enunciati, di costituire una reale alternativa politica al tradizionale predominio aristocratico e quindi di scardinarlo.

Merito di tali classi inoltre, fu quello di farsi promotrici di una nuova etica, la quale per molti versi andava oltre sia l’egualitarismo popolare che l’individualismo eroico dell’aristocrazia, che superava e sintetizzava in un’idea superiore. Esse erano infatti promotrici di una concezione della vita basata su una competizione fondata su leggi imparziali e egualitarie, la cui realizzazione in campo economico avveniva attraverso quelle attività commerciali, produttive e di mercato cui tali classi si dedicavano.

Questa particolare visione etica, assieme ai peculiari stili di vita che vi erano legati, finì col tempo per diffondersi anche tra gli altri membri della polis, contribuendo così a creare quell’uniformità morale e materiale che rese possibile la coesione e l’identificazione di tutti i cittadini in un unico organismo sociale e politico, nonché quindi il dibattito e la partecipazione politica al suo interno.

Questo processo di uniformazione del resto della società agli ideali egualitari e isonomici della popolazione media, si può vedere bene nella trasformazione delle élite politiche che ebbe luogo in città-stato come Atene. In esse, l’antica aristocrazia oligarchica tese col tempo a dividersi in due opposte fazioni: da una parte una ristretta minoranza di irriducibili conservatori (i cosiddetti “oligarchi”) i quali, seppure in un contesto mutato, continuavano a perorare la causa della superiorità e del predominio politico dell’aristocrazia sul popolo (eunomia); e dall’altra una nuova e più cospicua leva politica di leader democratici, tra i quali – tanto per fare qualche esempio – Clistene e Pericle, che al contrario divennero i protagonisti della vita democratica della città-stato.

La presenza di una forte classe media, emancipata da poteri superiori e promotrice di un’etica egualitaria in ambito politico, fu dunque un fenomeno tipicamente greco, fondamentalmente assente negli stati del vicino mondo orientale.

Ed è in tali classi che bisogna ricercare le radici più profonde di quell’etica – legalitaria ed egualitaria, ma anche profondamente individualistica e agonale – che caratterizzò la città-stato nei suoi periodi di maggiore splendore. Così come, del resto, la decadenza di tali classi coincise con quella delle stesse città-stato e dei loro valori fondanti.

(b.4) La scoperta della ragione

Senza alcun dubbio la scoperta della ragione fu una delle componenti essenziali nel passaggio della civiltà greca dall’epoca oscura a quella arcaica. Ne abbiamo del resto già parlato, ma sempre in concomitanza con altri temi, come del resto era naturale che avvenisse, essendo questi ultimi ad essa strettamente intrecciati.

Abbiamo già visto come, da molti punti di vista, l’aspetto di novità di quest’epoca rispetto alla precedente risiedesse nel fatto di riunire in un unico luogo fisico (la città-stato) due mondi in precedenza separati.

Ma abbiamo visto anche come essa fosse caratterizzata da elementi radicalmente nuovi rispetto alla cosiddetta età oscura. In particolare, da una rivalutazione della singolarità e del contingente rispetto all’assoluto, dell’essere rispetto al dover essere. Se in precedenza, ad esempio, nella poesia e nelle manifestazioni letterarie i valori eroici erano prevalsi nettamente sugli aspetti intimi e personali, ora invece – nel mutato contesto culturale che si era venuto a creare – anche questi ultimi acquistavano importanza e dignità. Non che lo spirito competitivo o agonale tipicamente greco, che una tale tensione verso l’ideale appunto determinava, fosse oramai cosa del passato: al contrario, esso rimaneva uno dei valori portanti della società greca. Tuttavia, e al tempo stesso, l’individuo scopriva il proprio peso e il proprio valore essenziale in quanto cellula o elemento portante della società.

A proposito di tali cambiamenti, possiamo fare un rapido raffronto tra i due grandi poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea, espressione di sensibilità diverse: più profondamente arcaica il primo, più moderna l’altro. La natura, per esempio, che nell’Iliade appare ridotta a un arido campo di battaglia o al mezzo attraverso il quale gli dei manifestano la propria volontà ai mortali, si trasforma nell’Odissea in un paesaggio variegato, misterioso, pieno di pericoli e di insidie, ma proprio per questo degno anche di essere esplorato. Mentre il difficile tema della diversità tra le culture umane, appiattito nell’Iliade sull’opposizione tra due popoli (e i loro eserciti) in guerra per questioni di onore e di predominio, viene invece nell’Odissea sviluppato attraverso la narrazione degli stravaganti incontri di Ulisse e dei suoi gregari durante le tappe del loro viaggio di ritorno. Infine – altro aspetto fondamentale – in quest’ultima opera fa la sua prima comparsa il mondo familiare, dell’intimità e degli affetti, ancora del tutto assente invece in quella precedente.

Ma una tale rivalutazione della vita nella sua inesauribile varietà, e in tutti i suoi piani (da quelli naturali, a quelli culturali, a quelli interiori), non è l’unica novità di questa stagione culturale. Oltre e complementariamente a una tale attitudine a osservare e, per così dire, a lasciar parlare la realtà, se ne può infatti riscontrare un’altra concernente il modo di collegare ciò che si osserva.

Se in passato l’uomo greco aveva cercato di spiegare i fatti d’esperienza attraverso il mito, struttura narrativa che più che per cause razionali procedeva per personaggi (le forze divine che muovono il mondo sensibile), ora invece iniziava a elaborare una visione del mondo basata su vere e proprie spiegazioni, su ragionamenti di senso compiuto.

È su questo aspetto che vogliamo soffermarci più in dettaglio qui avanti, isolandolo da tutto ciò che, pur a esso legato, vi rimane comunque estrinseco. Una particolare attenzione sarà dedicata alla filosofia, una disciplina che nacque in Grecia proprio in questo periodo e che fu invece del tutto assente nel vicino mondo orientale.

Come abbiamo già visto, anche nella letteratura e nella politica la ragione, l’impulso all’indagine aperta e problematica sulla realtà, ebbe un peso essenziale. Come il poeta indagava e scandagliava impietosamente tanto se stesso quanto la società in cui viveva, giungendo a conclusioni sempre personali e spesso anche in contrasto con la tradizione, così nella vita politica il cittadino si trovava costretto – in contrasto con l’antico uso della forza e dell’arbitrio da parte delle classi più alte – a porre in atto delle vere e proprie strategie che gli garantissero un seguito politico, a volte conciliando tra loro differenti punti di vista, altre volte sostenendo attivamente alcuni interessi a scapito di altri. Anche in questi campi insomma, la ragione tendeva a divenire un aspetto sempre più essenziale dell’agire. E tuttavia, fu nella filosofia (e nelle scienze) che l’impulso al pensiero sistematico formale conobbe le sue espressioni più profonde e audaci.

Prima di inoltrarci in questo argomento, però, ci sembra d’obbligo cercare di individuare, per quanto possibile, quelle che furono le cause alla base del sorgere non solo di questa nuova branca del sapere, ma più in generale di questa nuova attitudine alla conoscenza razionale. In seconda battuta, ci occuperemo delle differenze che sussisterono tra la Grecia e le civiltà del Vicino Oriente in merito ai compiti e agli scopi della conoscenza. In ultimo, appunto, tenteremo di inquadrare le problematiche e il ruolo sociale dei primi filosofi.

(b.4.1) le cause della scoperta della ragione

Se il tema qui affrontato fosse la fine del Medioevo cristiano, allora potremmo parlare di una ri-scoperta della ragione dopo i molti secoli d’oscurantismo religioso che avevano teso a offuscarla. Trattandosi invece dell’epoca arcaica della storia greca, dobbiamo parlare piuttosto di una vera e propria scoperta: è indubbio infatti, che il modo di pensare prevalente non solo nel periodo oscuro, ma anche in quello miceneo precedente, fosse ancora essenzialmente di tipo magico e religioso.

Quella greca fu la prima, e per molto tempo anche l’unica civiltà che – a partire appunto dall’età arcaica – tentò di emanciparsi da una tale impostazione. Essa difatti, cominciò allora a porsi in modo crescente e un po’ in tutti gli ambiti l’obiettivo di giustificare razionalmente i fenomeni d’esperienza, compresi peraltro quelli più complessi, per i quali ancora più forte era la tendenza a ricorrere al soprannaturale, al mito. I greci iniziarono insomma, proprio a partire da questo periodo, a investigare il reale in tutte le possibili direzioni, interiori ed esteriori. E le discipline che inventarono, oltre ovviamente ai cambiamenti che apportarono a quelle già esistenti, testimoniano bene di questo sforzo immane.

Certo, come si è già più volte visto, gran parte delle tecniche e delle conoscenze razionali di cui si servirono (dalla scrittura alfabetica, all’astronomia, alla geometria) non ebbero i propri natali in Grecia, bensì nei più progrediti e ricchi stati del Vicino Oriente. Ciò non toglie tuttavia, che furono proprio i Greci i primi popoli al mondo a tentare di dare alla ragione un valore conoscitivo (almeno tendenzialmente) assoluto, ad ambire cioè a spiegare l’intera realtà attraverso uno strumento assolutamente umano. Un’impostazione questa, che in futuro sarebbe stata uno dei caratteri distintivi della civiltà occidentale, che di quella greca fu fondamentalmente un parto.

Il compito da affrontare qui, è dunque quello di tentare, nei limiti del possibile, di individuare i motivi che furono alla base di una tale svolta.

Perché, a partire dall’età arcaica, iniziò tra i popoli ellenici a manifestarsi una tendenza sempre più spiccata a cercare di spiegare razionalmente la realtà in tutte le sue sfaccettature? E perché, contrariamente che nel Vicino Oriente, tale tendenza portò qui alla nascita della filosofia: disciplina che cerca di spiegare la Totalità con strumenti alternativi a quelli, fondamentalmente irrazionali, forniti dal mito e dalla religione?

Cerchiamo di rispondere anzitutto alla prima domanda. I fattori alla base della scoperta della ragione furono essenzialmente di due tipi: da una parte vi furono le profonde trasformazioni avvenute all'interno della vita materiale e degli orizzonti mentali dei Greci a partire dall'VIII secolo, conseguenza più o meno diretta della grande colonizzazione che coinvolse la maggior parte delle popolazioni elleniche indirizzandosi tanto a est quanto a ovest dei loro precedenti insediamenti; dall'altra vi fu la ripresa dei contatti con gli stati e con le civiltà del Vicino Oriente, vere e proprie fucine di civiltà per il mondo mediterraneo, in particolare orientale.

Quanto al primo ordine di fattori, si ricorderà come le imprese di espansione al di fuori dei precedenti confini (peraltro legate in prima istanza all’esigenza di acquisire nuove terre) favorissero in modo considerevole lo sviluppo dei traffici e la nascita di nuove classi urbane e in genere commerciali, determinando un maggiore afflusso di materie prime dall'esterno e fornendo nuovi mercati di sbocco per i prodotti delle regioni greche.

Anche senza considerare (dal momento che lo abbiamo già fatto) come queste attività e questi nuovi ceti introducessero una concezione del mondo diversa da quelle dei periodi precedenti, non si può comunque non vedere come tali sviluppi comportassero un avanzamento delle tecniche sia produttive sia marittime, e di conseguenza anche un ampliamento degli orizzonti fisici e mentali delle popolazioni greche. Le quali dunque – e veniamo così al secondo punto del nostro discorso – iniziarono a emanciparsi dall'isolamento che le aveva caratterizzate nei secoli precedenti, in più entrando spesso in contatto con civiltà gravide di nuovi e potenti stimoli culturali.

Tutti questi progressi tecnici e materiali, e il conseguente mutamento insorto nelle concrete prospettive di vita di gran parte della popolazione, rinnovarono profondamente questa civiltà, che iniziò a concepire una nuova fiducia nelle proprie forze, anche grazie appunto all'incontro con saperi e idee per lei del tutto nuovi: spunti di sviluppo a cui – con la mentalità duttile e pragmatica che da sempre la caratterizzava – essa si mostrò estremamente ricettiva, sviluppandoli secondo modalità proprie e originali.

Il tema delle influenze culturali esterne rimanda poi a quello che fu l'altro grande fattore alla base dello sviluppo della razionalità nel mondo greco arcaico, vale a dire ai contatti sempre più frequenti con le vicine civiltà orientali. Possiamo elencare i principali debiti dottrinali contratti dal mondo greco con esse attraverso quattro punti: dalla Mesopotamia l'osservazione degli astri (astronomia), dall'Egitto la geometria, dai Fenici la scrittura alfabetica e dai Lidi la moneta.

Né fu certamente un caso che i primissimi filosofi greci fossero tutti di origini ioniche e non propriamente greche. Le coste anatoliche infatti, costituirono a lungo l'avanguardia del progresso sia materiale che culturale degli Elleni. (Mileto in particolare, antichissima colonia d'origine micenea, fu un centro importantissimo per il commercio e per gli scambi culturali con il Vicino Oriente.) Né che essi fossero tutti al tempo stesso dei “sapienti”, ovvero individui che abbracciavano più o meno l'intero sapere del proprio tempo, dal momento che, data appunto la spiccata superiorità culturale delle vicine civiltà orientali rispetto a quelle greche, l'influenza esercitata dalle prime sulle seconde passava più o meno attraverso tutti i campi della conoscenza e delle arti, al tempo peraltro ancora pressoché indistinti tra loro.

E anche se alcuni di questi sapienti (come per esempio Pitagora) cercarono asilo lontano dalle proprie regioni di origine, e in particolare nel sud Italia (Sicilia, Magna Grecia) dove diedero vita a importanti scuole di pensiero, ciò non toglie che la filosofia e più in generale il sapere teorico degli Elleni sorsero non nella madrepatria propriamente detta, né appunto nelle zone occidentali del mondo ellenico, bensì in quelle più orientali della Grecia ionica. Solo a partire dalle Guerre Persiane difatti, la madrepatria cominciò a riacquisire il ruolo politicamente e culturalmente egemone che aveva avuto nei secoli precedenti la grande colonizzazione.

(b.4.2) la Grecia e il Vicino Oriente: due diverse concezioni della ragione

Cerchiamo ora di rispondere alla seconda domanda: al perché cioè proprio in Grecia sia sorta la filosofia, e più in generale una concezione della conoscenza avulsa da ogni interesse pratico e di forte rottura con le credenze del passato.

Il Vicino Oriente, con le sue millenarie tradizioni statali e imperiali (delle quali l’Egitto, la Mesopotamia e l’Impero assiro furono solo le principali estrinsecazioni) era giunto nell’VIII secolo ad un livello di civiltà decisamente superiore alla Grecia e alle regioni ellenizzate. Da sempre fucina di civiltà (Chester Starr, ad esempio, ipotizza che anche lo stato cinese e quello indiano sorgessero per influsso indiretto di quello mesopotamico), sin da tempi antichissimi esso aveva profondamente influenzato il mondo greco ed egeo. Non vi è dunque da stupirsi se, anche in questo periodo, esso assolse un ruolo centrale nella sua rinascita.

I debiti che la Grecia ebbe verso tale mondo li abbiamo già brevemente elencati. Tuttavia, bisogna porre l’accento anche su un altro fatto essenziale, e cioè il differente clima culturale e politico in cui tali progressi ebbero luogo, e la profonda diversità di fondo che ciò finì per determinare.

Per comprendere la ragione di questi sviluppi divergenti, è essenziale considerare il diverso tipo di organizzazione sociale e politica alla base di questi due mondi, e il ruolo che in essi quindi assolveva il sapere.

La ricerca e la speculazione erano, negli stati asiatici, fondamentalmente nelle mani del Re e della Corte, i quali, in qualità di massime autorità politiche, la sostenevano e incoraggiavano nella misura in cui essa era funzionale alle loro esigenze di gestione dei territori e delle popolazioni. Ricorda ad esempio Lévêque, che nell’ambiente spirituale del palazzo orientale “[la speculazione] resta un fatto di sottomissione al re”. La conoscenza razionale aveva quindi in queste regioni un'impronta prevalentemente empirica e applicativa (la geometria ad esempio nacque in Egitto, dove particolarmente urgente era il problema di misurare le superfici coltivate) restando comunque, anche laddove ciò non era vero, strettamente legata alle tradizioni e alle consuetudini, ovvero mantenendo una natura prevalentemente conservativa. Per tutte queste ragioni, la scienza vicino-orientale non si pose mai in netta contrapposizione col patrimonio mitico e religioso, e in generale con le credenze, del passato.

Nel mondo greco, al contrario, erano assenti tanto delle strutture di potere paragonabili alle corti asiatiche, dotate cioè di un’autorità indiscutibile e capaci di imporre in tutti i campi una volontà insindacabile (e ciò tanto più da che si sviluppò la città-stato come “mondo secolare e razionale che ammette rapporti di parità tra i cittadini e prende come base una legge (nomos) uguale per tutti” (Lévêque)), quanto un complesso di verità rigidamente stabilite e vincolanti sul piano religioso e in genere delle tradizioni. O meglio, tali verità, pur esistendo, non impedivano che ogni singolo centro politico si costituisse in modo fondamentalmente autonomo.

Ricorda a tale proposito Moses Finley che “sebbene tutti i greci conoscessero e onorassero l’intero pantheon, è inconcepibile che un individuo o una città potessero onorare tutti i riti relativi a ciascuno di loro. Ogni città aveva una propria divinità tutelare e dei vincoli particolari con certi altri dèi e dèe, che di conseguenza erano celebrati più che lo stesso Zeus, l’incontrastato capo del pantheon, sebbene nessuno volesse negarne la supremazia.”

In campo religioso come in campo politico insomma, vigeva in Grecia una sostanziale anarchia che finiva per valorizzare l’arbitrio e la creatività individuali a scapito di un già debole spirito di sistema.

Oltre a ciò, bisogna poi ricordare quello spirito pessimistico e problematico che, sin dalle fasi più antiche, aveva caratterizzato le civiltà elleniche, e di cui sono un chiaro esempio figure come Achille e Ulisse (quali, quantomeno, vengono descritte nei due grandi poemi omerici). Si potrebbe anzi ipotizzare che la razionalità costituì, all’interno di un quadro culturale già incline alla riflessione e alla problematizzazione, l’elemento di novità che permise alla civiltà greca di rinnovarsi e di dar vita a nuove e originali creazioni dello spirito, ovvero a una nuova idea di conoscenza.

Per le ragioni appena descritte dunque, il sapere e la speculazione razionale presero ben presto presso i Greci una direzione molto diversa rispetto a quella presa presso i vicini popoli asiatici: quella cioè della filosofia e più in generale di una ricerca in gran parte disinteressata alle proprie possibili implicazioni pratiche. Certo, anche la ricerca applicata, la tecnica (techne), conobbe durante il periodo arcaico un fortissimo sviluppo – e ciò tanto più in quanto in Grecia non aveva ancora preso piede un tipo di produzione sistematicamente basata sull’impiego di forza-lavoro schiavile. Ciò non toglie però, che fu proprio l’impulso teoretico, quello orientato cioè verso la ricerca pura, uno dei fattori che più risolutamente distinsero quella greca dalle altre civiltà circostanti.

Sintetizza bene Pierre Lévêque, laddove parlando dei primi filosofi ionici scrive: “La gloria dei primi pensatori ionici fu di essersi sbarazzati completamente del pragmatismo, ricercando esclusivamente la spiegazione razionale; di aver fondato insomma la scienza sostituendo l’astronomia all’astrologia e lo studioso di geometria all’agrimensore.”

(b.4.3) la speculazione dei primi filosofi

Quel che ovviamente non vogliamo fare qui, e nemmeno più avanti, è trattare la filosofia greca in dettaglio. Ciò che ci interessa è piuttosto mettere in luce la relazione che essa, come fenomeno culturale, intrattenne con la polis.

Abbiamo già visto come una tale disciplina fosse l’espressione più alta e ambiziosa del razionalismo greco di questo periodo. Altre ne erano sorte che, come la medicina, cercavano di porre ordine all’interno di un determinato ambito di fatti attraverso l’elaborazione di ipotesi di ricerca, ovviamente ancora rudimentali e ingenue. E altre che, come la storia (da intendersi ancora come un’indagine molto generale su eventi, personaggi e luoghi), miravano a sostituire le leggende e i miti del passato con fatti accertati direttamente dall’autore o raccolti da testimoni attendibili.

Ma l’audacia della filosofia era molto maggiore: essa difatti mirava a sostituirsi a quel patrimonio di idee (per la verità per nulla univoche) che erano alla base della tradizionale visione greca del Cosmo.

Il primo autore che si possa in qualche modo definire filosofo fu Senofane. Egli, originario dell’Asia Minore ionica, pur non avendo elaborato (come gli altri pensatori qui trattati) teorie di carattere cosmologico, aprì la strada alla vera e propria riflessione filosofica ponendo, attraverso versi dallo stile limpido e luminoso, il discrimine fondamentale tra una conoscenza di tipo razionale e veritiero e le comuni e ingannevoli opinioni del volgo, basate in gran parte sulla mitologia e la religione o comunque su suggestioni irrazionali. Non a caso Senofane fu ritenuto dagli antichi il fondatore della scuola di pensiero eleatica, che della rigida distinzione tra verità (aletheia) e opinione (doxa) fece il proprio concetto fondamentale.

La riflessione di Senofane però non fu solo gnoseologica ma anche etica, e questi due aspetti del suo pensiero furono profondamente connessi tra loro. Senofane criticava difatti non soltanto il bagaglio delle verità tradizionali (arrivando così a prendere le distanze da Omero e da tutta la tradizione poetica antecedente), ma anche e complementariamente i valori che da tali credenze derivavano.

Per farsi un’idea della critica sferzante che egli riservò ai costumi e alle convinzioni dei suoi contemporanei, possiamo rifarci a quello che è forse il frammento più celebre di tutta la sua opera. In esso si legge che “se buoi, cavalli e leoni avessero le mani, / […] certamente si fingerebbero le immagini e le figure / degli dei a guisa del proprio aspetto, / come cavalli i cavalli e come buoi i buoi”.

Ma il suo anticonformismo aveva anche dei risvolti più pratici e immediati. In altri versi, ad esempio, egli negava ogni valore a quelle gare atletiche che tanto piacevano ai suoi contemporanei e i cui premi costituivano ai loro occhi una delle massime aspirazioni. Egli scriveva infatti che “[anche se] colui che vince una gara di corsa o di pentathlon / […] ha diritto al mantenimento a spese dello stato / e riceve in premio un trofeo / […] egli non vale quanto me: la mia sapienza / ha più valore che non la forza di uomini e cavalli”.

Senofane fu insomma il primo esempio nella storia greca e occidentale di intellettuale radicalmente anticonformista, di un pensatore a tal punto compreso della propria libera ricerca da prendere risolutamente le distanze dallo stesso contesto culturale da cui essa era sorta.

E tuttavia una tale posizione – come del resto quelle degli intellettuali e poeti già esaminati – non deve assolutamente essere scambiata per disinteresse verso la vita politica e i problemi anche materiali dello stato, come dimostrano chiaramente questi versi: “Se anche vi sia tra i cittadini un campione nel pugilato, / nel pentathlon e nella lotta, / […] non per questo avrà un buon governo la città: / […] non si ingrassano così le casse dello stato”.

Anche per Senofane dunque, la città-stato costituiva uno dei fini essenziali della propria riflessione, l’orizzonte all’interno del quale essa assumeva un significato concreto uscendo dalla vuota astrattezza. Niente di più lontano, insomma, da uno sterile ripiegamento su se stesso e sulla propria interiorità da parte di un uomo che, pure, aveva fatto della libertà e dello sradicamento il carattere principale della sua esistenza.

Ma la filosofia intesa come indagine sul Cosmo o sulla Natura non sorse con Senofane bensì con Talete, anche lui originario della Grecia ionica e anche lui vissuto tra VII e VI secolo.

La domanda alla base della sua riflessione (e in genere di quella dei filosofi pre-sofistici) era più o meno la seguente: cosa genera la molteplicità degli enti naturali e contingenti? Ovvero, qual è il principio unitario (archè) alla base della natura (fusis) nella sua inesauribile varietà?

A tale domanda egli rispondeva l’acqua. Non si sa bene cosa intendesse con ciò, ma probabilmente egli sosteneva che da tale elemento discendessero per trasformazione tutti gli altri. Era molto probabilmente, la sua, una riproposizione su base razionale e filosofica di antiche teorie mitologiche che facevano di Oceano l’origine del Tutto (o almeno così riferisce Aristotele), ma era anche un primo grandioso tentativo di dare una spiegazione ragionevole ed empiricamente fondata all’antico dilemma sulla genesi del mondo (cosmogonia).

A Talete fecero seguito Anassimene e Anassimandro, i quali a loro volta avanzarono delle ipotesi sul principio alla base del Tutto. Per il primo esso era una sostanza primordiale chiamata apeiron (ovvero l’infinito), in cui erano contenuti in forma indistinta i quattro elementi alla base della realtà fisica (acqua, aria, terra e fuoco); per il secondo invece era l’aria o il soffio vitale (pneuma), il quale condensandosi diveniva un elemento sempre più pesante e rarefacendosi tornava verso lo stato originario.

Anassimene, discepolo diretto di Talete, introdusse inoltre nel suo discorso una forza immateriale (da lui chiamata Contesa) costituente il motore del processo di trasformazione dell’arché nella fusis e del ritorno di quest’ultima allo stato originario. Era tale forza infatti a portare gli elementi prima indistinti tra loro a separarsi e a dare vita a una lotta che generava la sopraffazione reciproca e il Caos, cosa per la quale essi erano puniti con l’annullamento e il ritorno all’Ordine originario (Cosmos). È facile notare come questo discorso possa per molti aspetti essere considerato una riproposizione, seppure in un contesto cosmico e ontologico, di quello – di cui abbiamo parlato in precedenza – che fondava la società sull’equilibrio, la giustizia e l’armonia. In entrambi i casi infatti, l’assenza di queste qualità portava all’annullamento inteso come punizione e morte.

Un altro pensatore importantissimo nel panorama filosofico dell’età arcaica – ma anche, attraverso i suoi continuatori, di quelle successive – fu Pitagora.

Nato verso il 570 a.C. a Samo, isola orientale dell’Egeo, egli si diede presto ai viaggi, entrando in contatto con varie civiltà del Vicino Oriente e in particolare con quella egiziana, e approdando infine in Magna Grecia presso la città di Crotone, dove fondò una setta i cui esponenti più importanti acquisirono presto una grande rilevanza politica. Tale setta svolse infatti una pesante azione di controllo e condizionamento della vita della cittadinanza in favore dell’oligarchia dominante. La vicenda di Pitagora dunque, è interessante anche perché pone in luce le possibili implicazioni politiche e sociali della filosofia e del sapere razionalistico, laddove – come in questo caso – esso era sentito come qualcosa di esoterico, ovvero di impenetrabile e nascosto alla maggioranza delle persone.

Mentre i filosofi ionici avevano individuato l’arché in un principio fisico, Pitagora lo individuò al contrario in un’entità astratta: il numero. Questo era probabilmente da lui inteso come un qualcosa di discreto, dotato cioè di una certa estensione, ed era simboleggiato con un sassolino. Ma era anche prima di tutto qualcosa di spirituale, di immateriale, che rifletteva la struttura e l’ordine dell’universo anziché la sua composizione fisica. Con Pitagora ebbe inzio quella lunga tradizione del pensiero occidentale che va alla ricerca dell’essenza matematica, ideale delle cose piuttosto che della loro origine materiale.

Non a caso lui e i suoi discepoli furono i primi a impostare lo studio della matematica e soprattutto della geometria in termini rigorosi, a basarle cioè su premesse e conseguenze logiche, andando così oltre gli atteggiamenti empirici alla base della geometria egiziana. Non a caso la tradizione attribuisce a Pitagora la scoperta del celebre teorema che ancora porta il suo nome. Così come narra che la crisi definitiva del pitagorismo fu provocata dalla scoperta (che per un certo periodo si riuscì a tenere celata) dell’incommensurabilità del rapporto tra la diagonale e il lato del quadrato: un fatto che mandava in crisi il principio stesso alla base dell’aritmogoemetria pitagorica, ovvero l’idea che la realtà si fondasse su entità discrete, finite.

Ma il pitagorismo non fu un fenomeno puramente razionale, scevro di qualsiasi suggestione magica o religiosa. Esso si basava infatti, nei suoi aspetti morali, sull’idea della trasmigrazione delle anime dopo la morte in entità di maggiore o minore dignità, a seconda di quella che era stata la condotta di vita della persona: una concezione del destino individuale, chiamata metempsicosi, che Pitagora aveva probabilmente ripreso da antichissime dottrine misteriche, quelle orfiche, risalenti ancora ai periodi oscuri della storia greca.

Un fatto questo, che ci ricorda come, soprattutto nei periodi iniziali, quella che qui definiamo “filosofia” non fosse in realtà una disciplina del tutto razionale (quantomeno rispetto al significato noi oggi diamo a tale termine), bensì piuttosto un’intuizione personale in merito alla natura profonda delle cose, nella quale il ragionamento puro poteva mescolarsi ad altre forme di ricerca e di riflessione. Più che da un’astratta razionalità, la filosofia fu dunque caratterizzata dal fatto di essere il prodotto di un’indagine libera, vincolata in ultima analisi – anche quando si rifaceva a tradizioni precedenti – alla facoltà di giudizio del ricercatore.

Un altro aspetto che qui ci preme affrontare – tanto più qualora si consideri che questo scritto si occupa in modo particolare dell’evoluzione politica e civile del mondo greco – è il rapporto che sussisté tra i filosofi e la politica.

Quel che ci pare interessante osservare è come essi (secondo peraltro un indirizzo che rimase prevalente fino alla nascita della sofistica nel IV secolo) non si occuparono mai, se non in modo molto marginale, di problemi politici. La loro speculazione rimase infatti sempre essenzialmente cosmologica, gnoseologica e al limite teologica, senza mai divenire propriamente politica. Ciò fu certamente dovuto al fatto che l’oggetto specifico del loro interesse (almeno in questo primo periodo) rimanesse l’indagine sul Tutto in opposizione alle antiche teorie sulla nascita dell’Universo (delle quali Esiodo, con la sua Teogonia, ci fornisce un esempio) e più in generale alle credenze tradizionali sugli dei e sui fenomeni naturali. I filosofi si occupavano insomma di riformare la conoscenza dalle sue basi, mentre discipline come la storia e la medicina portavano avanti indagini più circoscritte – la seconda spesso proprio su temi politici. E tuttavia si deve anche notare come, in virtù della scarsa distinzione allora esistente tra i diversi rami della conoscenza, l’attitudine verso un determinato ambito di problemi fosse fondamentalmente il prodotto di una libera scelta, non fondata dottrinalmente, e come tale non vincolante.

Se quindi i filosofi in quanto tali, non si occuparono se non marginalmente di questioni politiche, ciò non si dovette assolutamente al disinteresse dei greci per questo tipo di argomenti (ché anzi, come vedremo, essi furono il primo popolo al mondo a renderlo oggetto di una riflessione approfondita e sistematica), bensì più semplicemente al fatto che esso non cadesse, almeno per il momento, nella sfera dei loro interessi primari.

D’altronde, i filosofi erano anche e prima di tutto dei “sapienti”, ovvero dei personaggi di spicco all’interno della comunità, le cui competenze spaziavano in quasi tutti i campi della conoscenza (Talete ad esempio, riuscì a prevedere un’eclissi di sole; Pitagora scoprì, come si è già ricordato, il teorema che porta il suo nome). E tra questi campi poteva ovviamente esservi anche quella che oggi chiamiamo politica, come attestano ad esempio i già citati versi di Senofane, nei quali egli, in virtù della propria sapienza, si contrapponeva ai vincitori delle gare atletiche, incapaci di fare veramente il bene della città!

Si può dunque presumere che la politica, come interesse e tema esplicito, entrasse nella sfera d’azione dei filosofi o in modo solo accidentale (in quanto essi erano sapienti e i loro giudizi quindi socialmente accreditati in ogni campo) o in modo del tutto marginale (per esempio nel senso che, alle volte – si pensi ai Pitagorici – le loro teorie potevano avere implicazioni di natura politica e sociale, senza per questo soffermarsi specificamente su un tale ambito di problemi).

Riguardo poi alle simpatie politiche di questi primi filosofi, è difficile o anche impossibile immaginare con precisione quali potessero essere. Certo, se pensiamo a Senofane e a Pitagora, non possiamo avere molti dubbi sul fatto che la loro concezione elitaria del sapere e della saggezza li indirizzasse le verso la nobiltà: ovvero verso l’eunomia, piuttosto che verso l’isonomia. Ma sarebbe arbitrario, in mancanza di prove, estendere questo discorso anche ai filosofi ionici (Talete, Anassimene e Anassimandro). Niente ci permette di escludere, infatti, che questi ultimi si facessero al contrario interpreti del fermento politico e sociale anti-nobiliare che stava maturando in molte città-stato greche, in particolare in quelle che – come in Ionia – avevano un’economia spiccatamente mercantile.

In ogni caso, bisogna ammettere che è difficile non scorgere una certa affinità di fondo tra la concezione aristocratica della vita, intesa come elevazione al di sopra del senso comune e superiore coscienza delle cose, e quella degli stessi filosofi, custodi un sapere per sua natura non facilmente accessibile ai più.

A conclusione di quanto detto in questo paragrafo, possiamo dunque dire che i Greci dell’età arcaica inventarono una nuova concezione del sapere. A differenza che in passato e nel Vicino Oriente infatti, esso iniziava ora ad assumere per loro un valore intrinseco, che cioè andava oltre la mera utilità che poteva derivarne, e a basarsi inoltre, anziché sulle consuetudini e le tradizioni religiose, sulla forza – del tutto umana – dell’intelletto.

Sarebbe tuttavia un grosso errore considerare il sapere teorico-speculativo dei Greci come un qualcosa di sterile e puramente fine a se stesso. L’assenza di un’utilità immediata era infatti compensata dal suo tradursi in saggezza, sapienza, discernimento: in altre parole, nella capacità da parte di chi lo possedeva di districarsi meglio degli altri nelle difficoltà e nelle insidie della vita – attitudine che poteva tornare molto utile anche alla comunità e che come tale rendeva i sapienti delle figure molto influenti.

Senza contare che le loro personali ricerche sulle natura delle cose e degli eventi contribuirono a cambiare in modo progressivo ma radicale anche la visione comune del mondo, facendolo apparire sempre di più come qualcosa di (almeno in parte) controllabile attraverso le forze umane, e innanzitutto attraverso quelle intellettive. L’eco delle loro speculazioni dunque, contribuì ad aprire nuovi orizzonti di azione e di pensiero anche tra la gente comune.

Inventando questo nuovo tipo di sapere, teorico o teoretico e apparentemente privo di utilità, i Greci avevano dunque scoperto delle nuove e più profonde potenzialità insite nel sapere stesso. In questa nuova accezione infatti, esso non serviva più tanto a fornire nozioni di utilità immediata, quanto piuttosto a formare gli individui in un senso più ampio, aiutandoli a emanciparsi dalle antiche visioni magiche e superstiziose della realtà e a prendere quindi in mano, sia singolarmente sia come civiltà, il proprio destino.

(b.5) Considerazioni conclusive

Prima di passare a parlare dell'età classica, vogliamo riassumere brevemente i concetti principali espressi fin qui. Abbiamo in questo secondo capitolo analizzato la fase arcaica della storia greca, quella cioè che va dall’VIII (inizio della grande colonizzazione) alla prima metà del VI secolo a.C. (ultimi decenni prima della rivoluzione democratica ateniese).

Come si è visto, tale periodo fu caratterizzato dalla nascita e dal consolidamento di stati territoriali costituiti da un centro urbano sede sia delle attività politiche che di alcune specifiche attività economiche (commercio e artigianato), che dominava su un più o meno vasto comprensorio rurale. Alla base di questa trasformazione vi furono alcuni fenomeni concomitanti e in gran parte interconnessi: l'espansione dei traffici e della produzione finalizzata al commercio; la nascita di nuove classi emergenti d'estrazione non nobiliare e di nuove classi di poveri (teti), entrambe in buona misura gravitanti attorno ai centri urbani; e infine – fattore certo non secondario – l'invenzione degli eserciti oplitici.

La città-stato del resto, non fu assolutamente caratterizzata dal dominio univoco di una classe sulle altre, bensì al contrario dal fatto di essere il luogo dello scontro/incontro tra diverse classi, portatrici ciascuna di propri interessi e di propri parametri mentali. In questo essa si differenziò dalle città moderne, sorte essenzialmente per iniziativa delle borghesia e come tali fondamentalmente dominio di quest’ultima (e ciò anche perché l'aristocrazia feudale rimase prevalentemente insediata e radicata nelle campagne e quindi lontana dalle città).

In Grecia, al contrario, ogni ceto sociale finì per dare un proprio apporto essenziale alla vita della città e dello stato. Il popolo in generale (ovvero sia le classi più ricche, che quelle più povere) lottò per la conquista di leggi scritte che mitigassero gli enormi poteri di cui l'aristocrazia aveva goduto nei secoli passati. Le nuove classi emergenti (le cosiddette “classi medie”) si batterono invece, e con parziale successo, per ottenere il diritto a entrare a fare parte della cittadinanza attiva al fianco alla nobiltà. Quest’ultima infine, consapevole – almeno nelle sue sfere più illuminate – dell'inevitabilità delle trasformazioni in atto, si sforzò di mantenere il proprio ruolo d’egemonia rinnovandosi e facendo propri in una certa misura i valori e le esigenze del mondo che si andava delineando. Non a caso (come abbiamo già mostrato e come avremo modo di mostrare ancora nel prossimo capitolo) fu proprio la nobiltà la classe che diede la prima formulazione dei fondamenti etici a base della città-stato.

La polis sorse insomma nel segno della convivenza e della contaminazione tra classi sociali differenti, portatrici di diverse visioni delle cose, ovvero essenzialmente: dell’antica aristocrazia guerriera e possidente, impregnata di valori agonali fortemente individualistici; della sfera più umile dei ceti popolari, la cui esistenza era da sempre improntata a valori solidaristici e comunitari; ed infine delle classi emergenti e benestanti (le quali, in tempo di guerra, andavano a comporre le fila degli eserciti oplitici) portatrici di una visione per molti versi intermedia alle precedenti, in quanto basata sull’idea di un libero apporto del singolo cittadino alla vita della comunità a partire da condizioni di fondamentale eguaglianza giuridica.

E fu proprio quest’ultima visione quella che, laddove almeno riuscì, attraverso la lotta politica, a prevalere sulle altre due (e in particolare sulla prima), determinò la nascita e lo sviluppo di sistemi sempre più paritari: ovvero nei casi più estremi (come quello di Atene) democratici.


a cura di Adriano Torricelli

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Aggiornamento: 01/05/2015