STORIA ROMANA


IL DUELLO SULL’ALTARE DELLA VITTORIA

Giuseppe Bailone

Nel 384, a Milano, ha luogo un duello oratorio assolutamente eccezionale. Si scontrano due campioni fuoriclasse, esponenti dell’alta società romana. In questione c’è la presenza dell’altare della Vittoria in senato, di valore simbolico fondamentale.

Dal 29 a. C., quell’altare sta nell’aula del senato romano, per volontà di Ottaviano Augusto, a celebrazione della vittoria su Antonio e Cleopatra. E’ simbolo della religione dello Stato e della potenza di Roma. Ad esso si accostano i senatori per sacrificare e prestare giuramento.

Nel 357, in occasione della visita a Roma dell’imperatore Costanzo, cristiano ariano, viene rimosso, ma torna al suo posto poco dopo. E’ il segno che la crescente forza politica delle nuova religione sta travolgendo anche il simbolo più importante del culto tradizionale: la convivenza, non sempre pacifica, tra paganesimo e cristianesimo, iniziata nel 313, volge alla fine.

E la fine non si fa attendere molto. Nel 380 l’editto di Tessalonica, di Teodosio e Graziano, imperatori d’Oriente e d’Occidente, promuove il cristianesimo a religione ufficiale dell’impero. Nel 382, Graziano, che già ha rifiutato il titolo pagano di Pontefice Massimo, rimuove l’altare e toglie le sovvenzioni statali al culto tradizionale.

Il paganesimo scade a religione di minoranza e mal tollerata. La delegazione senatoriale che vorrebbe chiedere a Graziano un ripensamento non viene neppure ricevuta.

Graziano, però, nel 384 viene ucciso dall’usurpatore Massimo, che rapidamente si rafforza e minaccia anche l’Italia. In queste condizioni di gravi difficoltà, gli succede il fratello Valentiniano II, di appena dodici anni. Anche lui è cristiano di credo niceno, ma, adesso, ha bisogno della collaborazione del partito pagano, ancora forte a corte e ancor più a Roma, e non può continuare la politica religiosa antipagana; sua madre è ariana e mal sopporta l’influenza a corte del vescovo di Milano, Ambrogio.

I senatori romani, ancora in maggioranza legati alla vecchia religione, pensano di poter riaprire la partita e si affidano all’abilità oratoria di Simmaco, neoprefetto di Roma, per ottenere il ritorno dell’altare in senato e il ripristino dei finanziamenti statali alle vestali e ai sacerdoti.

Non chiedono, invece, che l’imperatore torni ad essere capo supremo della vecchia religione, riprendendosi il titolo di Pontefice Massimo. Anche per loro sembra ormai tramontato il regime duale inaugurato da Costantino, che, restando capo della vecchia religione, si era messo a capo anche della nuova, aveva presieduto il primo concilio cristiano universale, a Nicea nel 325, e si era dato il titolo nuovo di Isapostolo ( cioè uguale agli Apostoli).

Simmaco, conscio del progressivo deperimento della forza politica della propria parte religiosa, scrive una relazione molto misurata, curatissima nella forma, sostanziata di filosofia stoica e neoplatonica, tesa a trasformare la debolezza senile della Roma pagana in motivo di rispetto e di venerazione.

“Restauriamo, quindi, i riti e i culti che protessero a lungo il nostro Stato. Certo, possiamo noverare principi dell’una e dell’altra religione: di essi, i più antichi hanno professato la religione dei padri, i più recenti (cristiani) non l’hanno soppressa. Ora, se non volete prendere ad esempio la religione degli antichi, ispiratevi alla tolleranza (dissimulatio) di quelli a noi più vicini. Chi è così amico dei barbari da non rimpiangere l’altare della Vittoria? (…) Si rendano almeno al nome della dea gli onori che si negano alla sua divinità (…) Grande è l’attaccamento (amor) alla tradizione: non senza ragione la disposizione del divino Costanzo non durò a lungo. E’ quindi bene che non seguiate l’esempio di colui le cui disposizioni avete visto subito revocate (…)

Ognuno ha propri costumi, propri riti. La mente divina ha assegnato alle diverse città come protettori culti diversi. Come gli uomini ricevono un’anima al momento della nascita, così i popoli hanno in sorte un genio che ne accompagna il destino.

Se ogni spiegazione razionale del divino è avvolta nel mistero, su quale elemento si può correttamente fondare la conoscenza della divinità, se non sui ricordi e sulle testimonianze dei benefici da esse elargite? E se è vero che l’antichità conferisce prestigio alle religioni, allora dobbiamo conservare una fede praticata per tanti secoli e non discostarci dall’esempio dei nostri padri, cui giovò aver seguito quelli dei loro”.

Al centro del discorso immagina che Roma stessa intervenga:

“Ottimi principi, padri della patria, rispettate la tarda età alla quale sono pervenuta grazie all’osservanza dei riti! Consentitemi di celebrare le cerimonie ancestrali, perché non ho ragione di pentirmene. Lasciatemi vivere libera nel rispetto della tradizione e dei costumi miei! Questi culti hanno ridotto il mondo sotto il mio dominio, questi riti hanno ricacciato Annibale dalle mura, i Sènoni dal Campidoglio. Per questo dunque sono stata salvata, per subire rimproveri nell’età senile?

Vorrò capire il valore del nuovo culto che si vuole introdurre; ma non è più tempo ora di emendarmi: volermi correggere ora offende la mia vecchiezza. Pertanto, vi supplico di lasciare in pace gli dei patri, gli dei indigeti. E’ giusto ammettere che quel che tutti gli uomini venerano è uno stesso e unico essere. Contempliamo gli stessi astri, ci sovrasta uno stesso cielo, uno solo è l’universo che ci circonda: che importa con quale dottrina ciascuno di noi cerca la verità? Non si può giungere per un’unica via a un segreto così profondo”.

Non è prudente, suggerisce Simmaco al giovanissimo e debole imperatore, provocare l’ira degli dei tradizionali.

“Nessuno creda che io voglia solo difendere le istituzioni religiose: intendo anche ricordarvi tutte le sventure che si sono abbattute sul popolo romano a causa delle azioni compiute a danno dei suoi culti e dei suoi dei”. E ricorda la straordinaria carestia subito seguita alle misure di Graziano.

A chi obiettasse che non è giusto sostenere a pubbliche spese una religione non più di Stato, Simmaco risponde che i benefici sono stati accordati a determinate persone, che col tempo ne hanno acquisito il diritto. “Infatti, poiché lo Stato trae origine dai cittadini, ciò che proviene dallo Stato ridiventa proprietà degli individui … I sussidi che sono stati una volta concessi in onore di Roma cessano di appartenere a coloro che li hanno concessi; e ciò che in origine fu un dono diventa, col tempo e per l’uso, dovuto”.

Simmaco sa di rivolgersi a un imperatore cristiano, ma lo invita a seguire l’esempio dei suoi predecessori, che, pur di religione cristiana, “hanno mantenuto la nostra all’impero”. E’ vero che suo fratello Graziano ha rotto la tradizione avviata da Costantino, ma lo ha fatto su istigazione di Ambrogio e senza sentire le ragioni del senato. Infatti, “la legazione senatoriale da me diretta, scrive Simmaco, non fu fatta pervenire al suo cospetto, per impedire che egli avesse notizia dei sentimenti della pubblica opinione”. Pertanto, conclude: “Per la buona reputazione sua e dei suoi anni di regno è bene revocare quei provvedimenti che, bisogna convenirne, non sono stati propriamente dettati dalla sua volontà”.

Il discorso di Simmaco all’imperatore ha un grande effetto sull’animo di tutti i presenti e sembra vincente. Ma scende in campo Ambrogio.

Ambrogio appartiene alla stessa classe sociale di Simmaco, ha alle spalle gli stessi buoni studi, ma è cristiano, di famiglia cristiana, ed è vescovo di Milano dal 374. Lo è diventato in modo sorprendente.

Alla morte del vescovo ariano Aussenzio, i conflitti tra ariani e cattolici per la successione impongono ad Ambrogio d’intervenire, in qualità di governatore dell’Italia settentrionale, per mettere pace. In quella situazione di grave tensione si rivela guida popolare prudente e capace: parla a lungo del bene della pace e in modo così convincente che il popolo cristiano acclama lui vescovo. Ambrogio, non ancora battezzato, è riluttante, ma, incoraggiato dall’imperatore Valentiniano I, cui non dispiace affatto che un suo alto funzionario abbia la guida della comunità cristiana, accetta e, in una settimana, riceve il battesimo e l’investitura.

Ambrogio, acclamato vescovo per la sua capacità di fermare il degenerare delle divergenze dottrinarie in aperto conflitto sociale e politico, svolge un ruolo decisivo nell’affermazione del cattolicesimo sull’arianesimo e nel completare l’insediamento al potere del cristianesimo.

Uomo di potere, diventato vescovo della sede imperiale, Ambrogio afferma e fa valere il principio che l’imperatore è all’interno della Chiesa, non al di sopra. L’imperatore “Isapostolo” di costantiniana creazione è sepolto.

Ed è nello spirito di questo principio che Ambrogio si rivolge all’imperatore per neutralizzare l’azione di Simmaco.

Scrive una prima lettera perché gli dia copia del discorso di Simmaco.

Non prega un superiore, ma parla da vescovo ad un suo fedele.

“Come tutti gli uomini che vivono sotto la giurisdizione di Roma sono soldati al vostro servizio, al servizio di voi imperatori e principi della terra, così voi siete soldati al servizio di Dio onnipotente e della sacra fede (…)

Pertanto, chi si pone al servizio di questo vero Dio, e lo riceve entro di sé con animo devoto, deve usare non tolleranza (dissimulationem), non indulgenza (conniventiam), ma zelo per la fede e le pratiche religiose (…)

Così essendo tu, cristianissimo Imperatore, tenuto a dar prova al vero Dio e della tua fede e della tua costanza e della tua prudenza e della tua devozione, mi meraviglia come alcuni siano giunti a sperare che tu possa dare l’ordine di restaurare gli altari per i dei pagani e, persino, di stabilire i sussidi per la celebrazione dei sacrifici profani (…)

E adesso vengono a lamentarsi per i danni subiti proprio coloro che non si astennero mai dal versare il nostro sangue, che non esitarono ad abbattere fin le mura delle nostre chiese? (…)

Se, quando c’è da prendere decisioni militari, devi rivolgerti ad esperti di tali cose e seguirne i consigli; quando si tratti di cose religiose, devi rivolgerti a Dio (…) Quale sacerdote di Cristo, ti richiamo all’osservanza della fede (…)

Come già feci (con tuo fratello), richiamo ora te all’osservanza della fede, faccio ora appello alla tua coscienza, perché ti rifiuti di dare il tuo assenso alla petizione presentata dai gentili, perché non compia l’atto sacrilego di concedere loro il richiesto editto e di sottoscriverlo (…)

Come in una causa civile la parte avversa ha diritto di replica, così in questa, ch’è religiosa, il diritto di replica spetta a me vescovo. Mi si dia perciò copia della relazione che ti è stata inviata, perché possa più compiutamente ad essa rispondere (…) In ogni caso, se altrimenti deciderai, noi vescovi non possiamo tollerarlo né dissimulare la nostra opposizione: potrai anche entrare in chiesa, ma non vi troverai il sacerdote o lo troverai tuo fermo oppositore”.

Avuta la relazione di Simmaco, Ambrogio la contesta, in una seconda e più lunga lettera, punto per punto.

Non sono stati i suoi dei a salvare Roma, ma il valore di Camillo, di Regolo e di Scipione. Non è sensato attribuire la carestia all’ira degli dei. La decantata virtù delle vergini vestali non regge il confronto con la virtù delle vergini cristiane. La vecchia religione teme di non potersi conservare senza i finanziamenti statali, perché si sta spegnendo negli animi; la nuova, attraverso persecuzioni e martìri, è cresciuta e si è accesa negli animi, portando l’umanità, dopo molti erramenti, alla maturità e alla vera religione.

Simmaco, campione del vecchio mondo al tramonto, invoca la tradizione e il rispetto della venerabile età di Roma, cui sarebbe oltraggioso imporre il cambiamento. Propone la libertà religiosa e la tolleranza per la conservazione tradizionalista.

Ambrogio, campione del nuovo mondo in ascesa, impone il valore del cambiamento, dell’evoluzione e del progresso: “Infatti, come le cose naturali si son venute via via perfezionando, così anche gli uomini, attraverso tentennamenti e vacillamenti, sono giunti nella tarda vecchiaia alla pura fede”. La veneranda età cui è pervenuta, dovrebbe, quindi, indurre Roma a ravvedersi dei passati errori, a evolversi coi tempi.

Il conflitto è inconciliabile: le ragioni di Simmaco son state vincenti fin quando il cristianesimo, crescendo all’interno del vecchio mondo, non è diventato più forte, dando alle prospettive progressiste di Ambrogio potere travolgente.

E’ uno scontro di potere tra forze non più in equilibrio.

Simmaco, il campione della forza in declino, chiede con buone maniere il ripristino di antichi privilegi, mascherandoli come benefici universali e ragionevoli condizioni di pacifica convivenza. Con buona cultura presenta come innocuo e salutare culto civile una tradizione in cui tutti dovrebbero riconoscersi, anche i cristiani, senza avvertire offesa alla loro coscienza.

Ambrogio, il campione della forza in ascesa, scopre il gioco e mette in luce interessi opposti “come in una causa civile”. Denuncia, non senza ragione, ma con molta enfasi, l’offesa, subita in termini ben più gravi in passato, alle coscienze cristiane che quel ripristino determinerebbe: “Se oggi, che non succeda, un imperatore pagano ordinasse di erigere in curia un altare agli idoli e quindi costringesse i senatori cristiani a riunirsi li, a essere presenti ai sacrifici, a respirare con i fedeli la cenere e le scintille e il fumo che si leva dall’altare, dai sacrileghi riti; se in una quella curia fossero i cristiani chiamati ad ascoltare la parola dell’imperatore e fossero anche costretti, prima di levarsi a parlare, a giurare presso l’altare (perché l’erezione dell’altare avrebbe il significato di considerare ogni riunione come consacrata dalla sua presenza, pur essendo ormai in curia il numero dei cristiani maggioranza), il cristiano che fosse costretto a venire in senato a tali condizioni si riterrebbe perseguitato: il che spesso accade: infatti son costretti a intervenire anche con minacce. Ora è proprio sotto la tua potestà, sotto la potestà di un imperatore cristiano, che i cristiani dovranno essere costretti a prestare giuramento su un altare pagano? Perché che altro è giurare, se non riconoscere la potenza divina di colui nel nome del quale si attesta la propria buona fede? E, così, proprio sotto la tua potestà si domanda, si chiede che sia tu a ordinare di rimettere l’altare e finanziare cerimonie sacrileghe?”

Minaccia di mettere in campo il potere suo di vescovo e degli altri vescovi.

Il governatore prudente, che è diventato vescovo mettendo pace tra le fazioni cristiane in lotta, adesso è pronto ad opporsi all’imperatore con tutto il peso della sua organizzazione religiosa, nel caso che decida di ripristinare la posizione ormai anacronistica di privilegio della vecchia religione.

Ambrogio si sente vincente e in possesso della verità assoluta, da imporre senza dissimulazioni. Fa la vittima, smascherando nel pacato discorso di Simmaco la difesa di un privilegio offensivo. Mostra i muscoli e vince.1

Ambrogio impone il suo potere anche in altri scontri. Quando, nel 386, gli ariani riescono, in un momento di maggiore influenza a corte, ad ottenere dal potere imperiale la restituzione di una basilica, egli si oppone con l’argomento che la giurisdizione dell'autorità secolare vale per i palazzi, ma non per le chiese: le cose divine sono al di sopra del potere imperiale. E’ in quell’occasione che afferma a chiare lettere che Imperator enim intra Ecclesiam, non supra Ecclesiam est.

Convocato dall’imperatore si fa accompagnare dal suo popolo che tumultua davanti al palazzo mentre lui espone le sue ragioni. Al sovrano che manda le truppe a prendere la basilica, risponde occupandola con i fedeli per giorni e tenendo alta la tensione con prediche, canti e preghiere.

Ha partita vinta e si tiene la basilica.

Nel 388 a Callinico, sull’Eufrate, i cristiani, che istigati dal loro vescovo avevano incendiato la sinagoga, vengono condannati dal governatore, con esplicita approvazione imperiale, a ricostruirla. Ambrogio scrive a Teodosio di ritirare il provvedimento assunto per ragioni di ordine pubblico. Gli chiede di ascoltarlo con attenzione, ricordandogli che è l’imperatore ad aver bisogno dell’attenzione del suo vescovo quando si rivolge a Dio: “Se non son degno di essere ascoltato da te (adesso), neppure son degno di offrire per te il sacrificio e non merito che tu mi affidi i tuoi voti e le tue preghiere.

Si assume provocatoriamente la responsabilità di quel crimine: “Dichiaro apertamente di aver dato io alle fiamme la sinagoga, di aver dato io l’incarico a quelli, perché non ci sia più nessun luogo dove Cristo venga negato”.

Fissa le priorità: “Quid igitur est amplius, disciplinae species an causa religionis? Che cosa è più importante, l’apparenza (il pretesto) dell’ordine pubblico o l’interesse della religione?”.2

Nel 390 umilia l’imperatore che ha ordinato l’orribile massacro di Tessalonica, per punire la popolazione che aveva linciato il capo del presidio romano: impedisce a Teodosio l’ingresso in chiesa e gli impone pubblica penitenza.

L’imperatore si piega e solo a quel punto viene riammesso ai sacramenti.

“E’ la prima volta nella storia che un vescovo rivendica a sé il diritto di giudicare e assolvere anche capi di Stato e che un capo di Stato, della maggiore potenza del tempo, riconosce tale diritto e vi si sottopone.

Ed è un diritto per Ambrogio che ha valore di principio: da far valere cioè sempre, anche in circostanze di minor rilievo. Così, a Teodosio, che si era posto un giorno durante la celebrazione eucaristica presso l’altare tra i sacerdoti, egli manda un diacono ad avvertirlo che deve allontanarsi da quel luogo, che il suo posto è tra i fedeli, tra i laici, che la porpora lo fa imperatore non sacerdote”.3

Note

1 L’altare torna per breve tempo in senato con l’usurpatore Eugenio, ma la sua sconfitta nel 394 ad opera di Teodosio chiude per sempre la partita.

2 Tutte le opere, ed. Biblioteca Ambrosiana, Roma 1988, vol. 21 Lettere, 74 (Maur.40), 1-11.

3 Simmaco, Ambrogio, L’altare della Vittoria, Sellerio ed. 1991, pag. 89. Il libro riporta, in testo latino e traduzione, la relazione di Simmaco e le due lettere di Ambrogio. La citazione è tratta dal lungo saggio introduttivo di Fabrizio Canfora, Di un’antica controversia sulla tolleranza e sull’intolleranza.


SOTTO LA MASCHERA DELLA TOLLERANZA

Nel duello oratorio con Ambrogio, Simmaco indossa abilmente la maschera della tolleranza per difendere antichi privilegi messi ormai in discussione. In altri momenti, però, travolto dai suoi sentimenti più profondi, getta la maschera e rivela una durissima e disumana intransigenza.

“Il tollerante mite Simmaco, quale pontifex maior alla cui cura è affidata la vigilanza sulle vestali, allorché una di esse ad Alba ha peccato, è venuta meno al voto di castità, non esita – come ci attesta egli stesso in alcune sue lettere (IX, 147 e 148) – a rivolgersi, a nome del collegio dei pontefici cui presiede, all’allora prefetto di Roma, prima, e, poi, poiché questi per scarsa fede o per diversa fede tergiversa, al prefetto del pretorio, quindi, perché la colpevole sia senza meno punita secondo la maniera tradizionale: sia sepolta viva! Ché ciò che più egli paventa – come sappiamo – è che l’ira degli dei volga ai danni di Roma e dell’impero l’incuria del culto, la neglegentia sacerdotum”.4

In questo caso, la paura dell’ira divina non lascia scampo e travolge tutta la sua humanitas di facciata. In altri momenti è il peso delle tradizioni, anche quelle più disumane, a vincere la sua humanitas. Quando, poi, in lui si scatena l’odio di classe, ogni finzione scompare.

Simmaco ama molto i giochi e gli spettacoli tradizionali, compresi i combattimenti dei gladiatori, svago prediletto del popolo romano. Si attiva con impegno perché si svolgano con regolarità, anche se contro di essi si sono levate da tempo proteste, soprattutto da parte cristiana, che hanno spinto gli imperatori cristiani a progressive restrizioni, fino alla chiusura delle scuole dei gladiatori nel 399 e alla soppressione definitiva dei giochi gladiatori del 404.

Ancora tra la fine del 400 e l’inizio del 401, in occasione della pretura del figlio, Simmaco s’adopera per la realizzazione di giochi particolarmente spettacolari. Resta, però, deluso perché gli orsi, i leoni, i coccodrilli, fatti venire a Roma, non arrivano o arrivano malati e inutilizzabili. Ma la delusione maggiore, quella che più suscita in lui indignazione, gliela procurano gli atletici gladiatori sassoni, su cui conta di più per il successo dello spettacolo. “Ebbene, ventinove d’essi, anziché morire in combattimento sull’arena alla presenza e per il divertimento di spettatori eccitati dal loro sangue, preferiscono darsi prima la morte, strangolandosi l’un l’altro. Di fronte a tale gesto di disperato coraggio l’uomo mite e illuminato, che abbiamo imparato a conoscere, non esprime sentimenti, quali ci attenderemmo, di ammirazione o di pietà, ma di sprezzante riprovazione. «Non voglio più sentir parlare di cotesti miserabili – si limita a dire –, sono più spregevoli dello stesso Spartaco!». Cioè lo stesso gesto di coraggiosa salvaguardia della propria dignità e indipendenza, espressa nel solo modo allora possibile di impotente ribellione, quale può definirsi la determinazione di togliersi la vita in particolari non mutabili circostanze, non ha per l’aristocratico Simmaco lo stesso valore, se compiuto da uomini suoi pari o da servi. Solo pochi anni innanzi Nicomaco Flaviano si è ucciso per non sopravvivere alla sconfitta; e tale gesto ha suscitato nel suo animo sentimenti, oltreché di rimpianto per l’amico perduto, di ammirazione per la prova che ha dato di stoica fermezza. Per i prigionieri sassoni, che han compiuto un gesto sotto certi rispetti analogo, non ha invece comprensione alcuna; non arriva fino ad essi la sua humanitas”.5

L’ombra di Spartaco, il leggendario capo degli schiavi ribelli, avvertita ancora minacciosa dopo tanto tempo, scatena in lui rancore antico e odio di classe accecante, neutralizza e azzera tutto il suo umanesimo filosofico stoico e neoplatonico.

Note

4 Simmaco, Ambrogio, L’altare della Vittoria, Sellerio ed. 1991, pag. 70. Il passo citato è di Fabrizio Canfora.

5 Simmaco, Ambrogio, L’altare della Vittoria, Sellerio ed. 1991, pag. 67-68. Il passo citato è di Fabrizio Canfora.


L’altare della Vittoria e il crocifisso

La recente sentenza della Corte europea dei diritti umani sulla rimozione del crocifisso dalle aule della scuola statale e le polemiche che l’hanno accompagnata possono indurre ad assimilare la rimozione e i contendenti del quarto secolo alla rimozione e ai contendenti di oggi.

Ci sono, però, importanti differenze.

La prima rimozione è un fatto, la seconda ha deboli possibilità di diventarlo.

Infatti, l’eterogeneo fronte politico che si oppone alla sentenza di Strasburgo è così ampio da renderne difficoltosa la applicazione.6

La rimozione del crocifisso, se diventasse un fatto, sarebbe un’operazione simbolica fondamentale di passaggio dal regime di religione di Stato, che tollera più o meno le altre religioni, alla libertà religiosa dello Stato laico, che non ha religione né simboli religiosi.

La rimozione dell’altare della Vittoria è, invece, un momento della transizione da un’antica ad una nuova religione di Stato. La laicità promossa da quell’atto è provvisoria, è la tregua temporanea tra due forze religiose e politiche in conflitto, una in declino e l’altra in ascesa.

Simmaco e Ambrogio difendono due diverse pratiche d’imposizione della religione di Stato: una ormai perdente, nostalgica e permissiva, l’altra vincente, progressista e intransigente.

Oggi, starebbero entrambi dalla stessa parte: contro la sentenza di Strasburgo. Certo, con modi più urbani e politicamente corretti il primo, più ruvidi e apertamente intolleranti il secondo.

Simmaco difende una religione di Stato che, per la sua natura politeista, è costituzionalmente aperta a nuove divinità, purché non esprimano incompatibilità politica; accetta l’esistenza della nuova religione, propone la coesistenza di culti diversi, in base ai suoi principi filosofici di tolleranza e di libertà religiosa; attenua la natura religiosa del simbolo, si accontenta della sua restaurazione come simbolo di una comune tradizione civile; si limita a richiedere un omaggio formale, anche ipocrita, al suo simbolo (“Si rendano almeno al nome della dea gli onori che si negano alla sua divinità”), purché resti al suo posto come simbolo di tutti i romani. Ma il nuovo potere religioso vincente sta imponendo una nuova identità culturale a Roma e nel simbolo che lui dice universale si riconosce ormai solo una minoranza, in progressivo deperimento.

L’uso di principi laici per finalità di dubbia laicità nulla toglie alla loro natura, così come uno strumento di lavoro non perde la sua natura pacifica per l’uso improprio che se faccia per offendere e colpire. E gli argomenti laici di Simmaco, liberati dalla strumentalizzazione che li compromette, sono validi.

Ambrogio, nel condurre la sua battaglia intollerante, difende il diritto dei cristiani a non essere offesi nella loro coscienza: per ragioni di parte difende un diritto universale. A proposito dei suoi argomenti, si potrebbe dire che un pugnale resta un mezzo di guerra, anche quando venga usato impropriamente per tagliare il pane da condividere con amici.

Se nel 384 fu in gioco l’identità religiosa dello Stato, nelle polemiche sulla sentenza di Strasburgo, invece, è in gioco la laicità dello Stato.

Allora, i contendenti praticarono, con modi opposti, la stessa pretesa di imporre allo Stato la propria religione di parte, oggi, i contendenti propongono diverse, quasi opposte, concezioni di laicità: quella coerente ed integrale, rispettosa dei diritti umani di tutti, e quella, più o meno ipocrita, dei nostalgici, più o meno tolleranti, dell’antica religione di Stato, magari depotenziata a cosiddetta religione civile.

A rendere largamente maggioritaria l’opposizione alla sentenza di rimozione, concorrono anche quelli che usano, un po’ pateticamente, argomenti di Simmaco, per coprire l’accettazione rassegnata di un sopruso, non più avvertito per antica abitudine.

Coesistono nella difesa del crocifisso di Stato l’ipocrisia arrogante e prepotente e quella dimessa e rassegnata.

L’unico elemento assimilabile delle due battaglie così distanti nel tempo è la dissimulazione, presente, allora come adesso, negli argomenti di chi si oppone alla rimozione e del tutto assente in quelli del fronte opposto.

Quando un privilegio antico viene messo in discussione, chi lo vuole mantenere, per prepotenza o per rassegnata impotenza, lo maschera, chi lo vuole rimuovere lo mette in evidenza.

Note

6 Due fatti recentissimi segnalano difficoltà crescenti.

Il 21 gennaio, Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, annuncia, nell’ambasciata italiana presso la Santa Sede: «Il governo sta facendo il possibile per contrastare gli effetti della sentenza della Corte Europea sul crocifisso. E ha deciso di chiedere il rinvio della sentenza alla Grande Camera della Corte stessa … Abbiamo fiducia che la Corte di Strasburgo ripari al grave torto”. Il presidente della Cei, cardinal Angelo Bagnasco, ha commentato l'annuncio di Letta: «È da apprezzare decisamente questa iniziativa del governo italiano, rispetto alla sentenza della Corte europea dei Diritti umani di Strasburgo, per quanto riguarda l'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche». «È da apprezzare, lodare, sostenere - ha aggiunto Bagnasco - come risulta anche da parte di altri paesi europei che si stanno aggiungendo a questa iniziativa perché - ha sottolineato - la sentenza veramente va contro non solo all'oggettività della storia europea ma anche al sentire popolare, della gente» (citazione dal Corriere della Sera).

Il 22 gennaio il CSM rimuove dall’ordine giudiziario Luigi Tosti, il giudice che si rifiuta di tenere le udienze in presenza del simbolo religioso. Il vicepresidente del CSM, Nicola Mancino, però, ridimensiona la portata del provvedimento e spiega: "Con l'intenzione di risolvere una questione di principio, il giudice Luigi Tosti s'era rifiutato di tenere udienza anche dopo che il presidente del tribunale gli aveva messo a disposizione un'aula senza il crocifisso, con ciò venendo meno all'obbligo deontologico e ai doveri assunti in qualità di magistrato che gli impongono di prestare servizio. Il CSM non è né la Corte Costituzionale né la Corte Europea; non doveva risolvere, e in effetti non ha risolto la questione della legittimità o meno di tenere il Crocifisso in un'aula giudiziaria. Il dottor Tosti è stato giudicato per essersi rifiutato di tenere comunque udienza fino a quando in tutti i Tribunali d'Italia non fossero stati rimossi i crocifissi” (da Repubblica).


Fonte: ANNO ACCADEMICO 2009-10 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Torino gennaio 2010

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

it.wikipedia.org/wiki/Altare_della_Vittoria


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 11/09/2014