STORIA ROMANA


MARCO AURELIO, imperatore filosofo

I - II

A inaugurare la serie degli imperatori filosofi del mondo romano fu Elio Adriano, grande ammiratore della civiltà greca. Dopo di lui fu la volta di Antonino Pio, ma il maggiore, il sovrano più filosofo che l'occidente abbia mai conosciuto, fu Marco Aurelio (in carica dal 161), seguace dello stoicismo. Fu lui che per primo iniziò a favorire l'emancipazione degli schiavi (ammettendoli nell'esercito) e a permettere a talune tribù barbariche d'insediarsi nell'impero.

A dir il vero furono le invasioni di Quadi e Marcomanni, sotto il suo governo, a mostrare che lo sfondamento delle frontiere (nella fattispecie il Danubio) non era cosa impossibile (arriveranno fino all'attuale Veneto, dando ai Romani l'impressione che si fosse tornati alle guerre puniche). Lui, siccome era uno stoico, fece buon viso a cattivo gioco e ne prese atto, non prima però d'aver svuotato le casse dello Stato per pagare le sue legioni (arrivò persino a mettere all'asta i tesori dei palazzi imperiali!). Gli storici però diranno che proprio a partire dal suo impero si cominceranno a intravedere le premesse della futura crisi.

Marco Aurelio fu non soltanto un uomo di grande cultura, ma anche l'ultimo grande rappresentante della scuola stoica, quella appunto "romana". Si è conservata una sua opera scritta in greco e non destinata alla pubblicazione, Colloqui con se stesso, che colpisce per il pessimismo. Il fatto che fosse completamente dedito all'attività militare non va certamente ascritto alla sua particolare indole, ma esclusivamente a esigenze di carattere difensivo dettate dalle circostanze.

Morirà infatti di peste nell'esercizio delle sue funzioni, a Vienna, nel 180, lasciando il principato nelle mani di suo figlio Commodo, allora diciannovenne, ch'era tutto l'opposto di lui: dissoluto, fiacco e frivolo, e che porrà termine a quella linea tendenzialmente pacifista inaugurata appunto dagli imperatori-filosofi. Ancora oggi ci si chiede perché mai fosse ritornato alla dottrina della successione ereditaria dopo 82 anni di adozione basata sul merito.

I cristiani non l'hanno mai amato. Infatti non fece nulla per impedire i pogrom dei pagani contro ebrei e cristiani, come quello di Lione nel 177, ove morirono il vescovo Potino e altri 47 martiri, o quello di Pergamo o di Vienna. A nulla valsero le quattro apologie che i cristiani gli inviarono per sottolineare la loro netta distinzione dai montanisti. Sotto di lui il filosofo e apologeta cristiano Giustino fu condannato a morte da Giunio Rustico, prefetto di Roma e suo amico personale, sulla base di questa semplice motivazione: "Coloro [non vi era solo Giustino] che si sono rifiutati di sacrificare agli dèi e di sottomettersi all'editto dell'imperatore, siano flagellati e condotti al supplizio della pena capitale, secondo le vigenti leggi". Di questo processo esiste ancora il verbale.

Di fatto vedeva i cristiani come martiri autolesionisti, che rifiutavano assurdamente di partecipare alla vita comune dell'impero. Paradossalmente quanto più l'ideologia pagana si umanizzava sul piano teorico, abbracciando idee stoiche, tanto più perseguitava il cristianesimo, visto come temibile concorrente.

Lo stoicismo fu la risposta più significativa all'incalzare del cristianesimo, tant'è che grazie a Marco Aurelio si istituirono ad Atene quattro cattedre pubbliche stipendiate per l'insegnamento delle principali correnti filosofiche: platonismo, aristotelismo, stoicismo ed epicureismo.

Gli stessi teologi cristiani - come noto - assunsero molti princìpi stoici: si pensi a quello dell'atarassia o imperturbabilità alle passioni, o a quello del senso del dovere, come forma di acquiescenza a una volontà superiore, o a quello di logos e di pneuma come espressioni razionali e sensibili della divinità. Lo fecero tuttavia dando a questi princìpi un contenuto più religioso e filosofico, com'era naturale che fosse per un'esperienza della fede che si voleva il più possibile condivisa.

Il cristianesimo superò l'aristocratico stoicismo solo perché offriva l'impressione, essendo perseguitato, di costituire un'alternativa ai poteri dominanti, ma era solo un'apparenza, in quanto entrambe le correnti predicavano l'irrilevanza, ai fini della felicità personale, del desiderio di emanciparsi socialmente da una condizione schiavile. Basti pensare che una delle massime di Marco Aurelio venne fatta propria del cristianesimo in modo pieno e convincente: "è proprio dell'uomo amare anche chi lo percuote".

Staccandosi dal materialismo stoico, Marco Aurelio credeva non solo nella provvidenza divina, ma anche nell'anima. Anzi tutta la concezione della sua filosofia consisteva in una sorta di ritiro dell'anima in se stessa. A leggere le sue Confessioni sembra d'avere a che fare con una sorta di monaco timoroso di dio, assolutamente non violento, paziente e tollerante, dal respiro universale. Si leggano questi suoi pensieri: "Tieni sempre a mente che tutti gli uomini ti sono parenti, che peccano solo per ignoranza e involontariamente, che la morte incombe su tutti, che nessuno può intaccare la tua ragione, che nulla resta immobile, che la vita è guerra e pellegrinaggio e la morte è solo trasformazione, che la fortuna è sempre incerta, che all'uomo resta solo la coscienza di sé e del logos che è in lui e nel cosmo, che ciò che lega gli uomini è l'amore universale". Verrebbe quasi voglia da dire che l'imperatore avesse letto qualche vangelo cristiano...

In realtà lo stoicismo più antico, quello ellenistico, risale al III sec. a.C., allorché gli eredi di Socrate decisero di trasformare il loro maestro in un sapiente che basava sul principio di autosufficienza del singolo il raggiungimento della serenità interiore. Lo stoicismo infatti è indifferenza per la realtà esterna (adiaforia), le cui contraddizioni non devono turbare l'anima, anche perché si è persuasi che l'idea di una perenne trasformazione delle cose sia la panacea di tutti i mali. La realtà va accettata e amata dal singolo, in quanto l'equilibrio interiore è la compostezza. Nel reale occorre trovare la razionalità, dicevano, anticipando Hegel di due millenni.

Al tempo di Marc'Aurelio lo stoicismo era quasi diventato la filosofia ufficiale dell'impero. La percezione della irrisolvibilità dei conflitti sociali induceva le classi dominanti a considerare la rassegnazione come una regola di vita per tutta la collettività: di qui lo sviluppo delle tendenze idealistico-religiose e cosmopolitiche; di qui il tentativo di dimostrare che si poteva essere sereni anche in una situazione di grande difficoltà. Non a caso Seneca, il più grande stoico romano, era già arrivato a riconoscere, pur in modo del tutto teorico, l'uguaglianza degli uomini in generale, inclusi gli schiavi, esaltando la semplicità di vita del povero. La sua era una semplice ammissione di principio, non supportata da alcuna conseguenza pratica. Lo stesso Epitteto, altro grande stoico, diceva d'essere totalmente indifferente al suo personale status sociale di schiavo liberato.


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 17/11/2014